Introduzione
Forse
risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure,
ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi sposare - lui vecchio e
prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di
Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIV. Forse davvero Costanza
Chiaramonte, figlia primogenita del rampante cadetto Federico II Chiaramonte,
era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del
pruriginoso Inveges ci ha propinato nel suo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e
mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande
storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi
oscuri esordi della signoria dei del Carretto su Racalmuto, quel che di certo
abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi
risalire al 1400 - che il prof. Giuseppe Nalbone, solo negli anni ’novanta di
questo secolo, ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato
di Palermo.
Scopo, intento, occorrenza ed altro sono
talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare
titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico
travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze
altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto, rapace
esattore delle imposte dei Martino, i noti avventurieri dell’ “avara povertà di
Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIV secolo.
A noi -
racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via
discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella
oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso
Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto
maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Giuseppe
Nalbone ha speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo
la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta
ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - viene qui
riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan
dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo -
disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a
giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi
strumenti di uxoricidi a comando di principesche padrone dalle propensioni
all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi;
addio preti in “alumbramiento; addio
terraggi e terraggioli vessatori;
addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio
storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità
inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un quadro -
ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente
complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a
Racalmuto sotto il dominio consueto per l’epoca dei baroni del Carretto che
verso la fine del Cinquecento dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il
vero spesso illuminata) hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più
prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di
aver riconosciuto titolo di marchesato che infondatamente in esordio avevano
contrabbandato.
Certo se
Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio
per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei
del Carretto, la documentazione che andiamo a pubblicare spazza via ogni
briciola di credibilità di una tale ingenua favoletta.
E quel che si scrive su data e struttura del
Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni
sicumera sulla storia del Castelluccio.
Già, carta
canta e villan dorme!
Parte Prima
UN EXCURSUS DELLA
STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL
CARRETTO
Dai barlumi
dell’archeologia locale affiora, flebile ma con contorni alquanto netti,
l’insediamento sicano di quattromila anni fa lungo l’intero arco collinare sud
est e sud ovest racalmutese.
Verso il
13° secolo a.C., quella civiltà sembra eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a
paura per i naviganti micenei, verso le più protettive montagne di Milena,
Bompensiere e Montedoro. Arrivano quindi i greci, ma Racalmuto è ancora deserta
ed impervia per attirare i coloni agragantini. Solo verso il VII secolo la
moneta con il granchio di Agragas sembra far capolino nelle fertili plaghe del
nostro altipiano. Poi, si diventa meri subalterni della potente polis, così come
per tutta l’epoca romana. Tra il II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le
risorse solfifere vengono apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le
tegulae o tabulae sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di
scoprire per primo verso la fine del secolo XIX.
Allo
spirare dell’Impero romano, la feracità del suolo racalmutese sembra avere
attirato sia pure fugacemente le brame espoliatrici di Genserico e dei suoi
Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti significativi in località
Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di Heracleone saranno poi
rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso ed in luogo che
all’epoca era forse disabitato: un nascondiglio, dunque, sicuro e lontano da
occhi indiscreti.
Giungono gli
Arabi: sono guerrieri, disdegnosi di sede fissa, violenti e ladroni. A
Racalmuto trovano ben poco e subito si dileguano. Subentrano i Berberi,
contadini e pacifici: ebbero forse a convivere con i mansueti bizantini del
luogo.
I Normanni
del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri - pare, depredarono il territorio
dell’altipiano ove sembra sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nel XII secolo, il gaito saraceno
Chamuth, signore della vicino Naro, con molta probabilità aveva il dominio del
nostro Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal: da qui il toponimo Rahal
Chamuth, a seguire l’acuta congettura del Garufi. I Saraceni furono, specie
sotto Federico II, ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo
agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero verso di loro, deportò a Lucera i
caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero
assumendo nomi latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica.
Per uno o due decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia
Musca - forse Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi
fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e
far sorgere un nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare
il vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò di quel casale assegnandolo nel
1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini ne
specificava - prima di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità
e dettagli. Finiva, per altro verso, quella che possiamo considerare la
preistoria racalmutese: un periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per
circa 33 secoli. Quel che per tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche
dalla penna più illustre del luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo
solo credere a quei radi reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel
poco, spesso nulla, che riescono a svelarci di tanto defluire umano degli
antichi racalmutesi.
Con i
Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto acquisisce importanza e ruolo perché
può fornire tasse e balzelli alla famelica pirateria di un Pietro d’Aragona. Il
centro abitato non contava più di 75 fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i
fuochi erano aumentati a 136 (circa 480 abitanti). Frattanto, Racalmuto - a
dire del Fazello - era stato requisito da Federico di Chiaramonte che pare vi
abbia costruito le torri del castello nella prima decade del 1300. Si sa che
Costanza Chiaramonte, unica figlia di Federico, fu l’erede universale. Che
abbia sposato prima il girovago ligure Antonio del Carretto e poi, divenuta
vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria - forse quello dannato all’inferno da
Dante - si dice e qualche documento degli archivi di Stato palermitani sembra
confermarlo. Resta comunque certo che sino al 1396 Racalmuto è dominio dei
Chiaramonte, in particolare del celebre figlio illegittimo Manfredi Chiaramonte
- lo attestano le carte dell’Archivio Segreto Vaticano.
Tocca a
Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo, farne una baronia e farsene
riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente previo esborso di sonanti
once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel 1404,
Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505,
al tempo della “venuta” della Madonna del Monte, la sua popolazione sale a 473
fuochi (1670 abitanti). Ora domina il barone di Racalmuto Ercole del Carretto.
Il figlio Giovanni II esordisce con un delitto: commissiona a tal Giacchetto di
Naro la strage dei Barresi di Castronovo per vendicare l’uccisione del fratello
Paolo, antenato di Vincenzo di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà
una complessa trattazione su Palermo
Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e
crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire chiese e conventi ed
a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una redenzione spirituale
sua e del suo popolo. Certo, mero e misto impero, terraggio e terraggiolo ed
una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio
venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli):
era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni II del Carretto finì
sotto l’Inquisizione.
A metà del
secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno
che la politica del barone non era poi così devastante come sembra voler far
credere Leonardo Sciascia.
Quello che
non fa il barone, lo fa invece la peste del 1576: la popolazione racalmutese
viene decimata. Se crediamo ad un documento del fondo Palagonia, dai 5279
abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò
non è credibile e si deve alla voglia tutta fiscale di impietosire il viceré
per una contrazione delle “tande” in mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va
detto che la tentata evasione fiscale del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si
basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione della popolazione
non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la soffocante tassazione del
governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi con gli stessi esattori, al
contempo strozzini.
Sia come
sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli abitanti ora sono in numero di
4448: ovviamente molti fuggiaschi erano rientrati e, soprattutto, si doveva
trovare conveniente emigrare dai centri viciniori per sistemarsi nella
neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni sociali, economiche e giuridiche in
definitiva tornavano appetibili.
La questione feudale racalmutese
Si attaglia
perfettamente a Racalmuto quanto ebbe a teorizzare Francesco De Stefano nel
1948, [1] specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu
in origine, un baronaggio esigente ed esorbitante, perché né Ruggero I, né
Ruggero II lasciarono impiantare la grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia
vi fu un processo inverso rispetto all’organizzazione feudale anglosassone, e
se questo processo inizia con un baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo
il 1154 poté sfrenarsi, altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed
a ben vedere, bisogna aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto
quale centro totalmente feudale, con un barone prima, e un conte dopo, veri domini, forti ormai del mero e misto
impero (invero ambiguamente comprato a suon di once attorno al 1550).
Quando nel
1282, Racalmuto è una “universitas”, è proprio come asserisce il De Stefano[2]:
faceva parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi riconosciuti come
tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era ordinato che “magistri
iurati” e “judices in singulas partes regni creari debeant” e che le universitates delle terre demaniali judices, e le feudali ed ecclesiastiche iuratos “in magistros juratos de
communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale insegnamento, dai diplomi dei
Vespri possiamo desumere questa veste giuridica del casale di Racalmuto: esso
era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i suoi giudici (judices) con voto unanime dei suoi
abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del 26 gennaio 1283 ind. XI,
sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis
armigeris peditibus quatuor». Se il paese ha giudici e non giurati, vuol dire
dunque che non è ancora feudale, oppure, per la latitanza di quel Negrello di
Belmonte napoletano, il casale da baronia è stato derubricato in terra
demaniale.
La dizione
del documento è anche tale da suggerirci l’ipotesi che il “castrum” (il
castello) non fosse ancora sorto. E ciò porta acqua alla tesi del Fazello che
vuole le due torri feudali edificate da Federico Chiaramonte poco prima del
1311.
Come e
perché Federico Chiaramonte si fosse impossessato di Racalmuto e che cosa
l’abbia spinto a costruire quelle due inutili torre cilindriche è sinora un
mistero. L’Inveges, lo storico secentesco che ci tramanda testamenti e cenni al
riguardo, è relativamente attendibile, avendo più interesse ad accattivarsi il
favore dei potenti del tempo che voglia di rispettare la verità storica. Ebbe o
non ebbe gli originali di quegli atti notarili che dichiara di possedere? O non
si trattò di una falsificazione, visto che nessuno è riuscito dopo a
rintracciare quelle fonti?
Federico
Chiaramonte va comunque considerato il primo feudatario di Racalmuto, almeno
dopo il trambusto avvenuto a cavallo dei Vespri. Da espungere dalla verità
storica le varie apocrife baronie dei Malconvenant, degli Abrignano, dei
Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria che lo pseudo Muscia fa nostro
barone addirittura prima di essere nato e cioè nel 1296.
Il primo
riconoscimento ufficiale della baronia di Racalmuto è del 1396 e riguarda un
diploma dei Martino a favore di Matteo del Carretto. Al di là delle incertezze
delle fonti diplomatiche del XIV secolo - che si avranno modo di scandagliare -
il nostro paese è incontrovertibilmente terra feudale baronale solo a partire
da tale data: prima sono solo fantasie e sprovvedutezze di autori e scrittori
locali, ivi compresi il sommo narratore di Regalpetra e gli avveduti ecclesiastici
dediti alla storia paesana.
GENESI ED AFFERMAZIONE DELLA BARONIA DEI DEL CARRETTO A
RACALMUTO
Dalle brume
degli esordi racalmutesi della schiatta dei Del Carretto affiora qualche
piccola scisti veritiera: chi fosse davvero quell’Antonio I Del Carretto che da
Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto
Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia
sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del
Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo
Doria, il titolo sia pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci
nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza
storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana,
questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature
araldiche può farvi ricorso.
E’ fragile
l’ipotesi secondo la quale esistette un Antonio I Del Carretto - andato sposo a
Costanza Chiaramonte – e neppure è indubitabile che la coppia abbia avuto un
figlio, Antonio II Del Carretto. Vi è una sola fonte e sono le carte
dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o
parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo
secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.
Su quelle
carte torneremo in seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta
richiamare l’attenzione sulla circostanza di un
Antonio II Del Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì vi ha
fatto fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di
rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio
- neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia
che continua nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un
coinvolgimento formale di codesto figlio di un sedicente legittimo titolare.
Quasi certo
che i Del Carretto provengano dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli
Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi quel marchesato in tre
parti; a Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò
secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre
“terzieri” succedevano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di
Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale
C... contessa di Savona, morì nel 1263. [3]
Su Antonio
del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e signore
di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in
Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose convenzioni con
Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di Clavesana;
Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore,
Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese
di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di
Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi
nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali costei appare
tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del
nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire
questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del Carretto si succedono dal
1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del Carretto I -
quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di
tal nome; poi Antonio II, cui si
accredita la prima baronia di Racalmuto.
Ma tornando
al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il 1307, se
crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco tempo prima
del 1320?). Erediterebbe dalla madre Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30
d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie dell’Inveges.
L’atto di
permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto vuole codesto Antonio del
Carretto emigrato ad un certo punto a Genova, come detto. Là si sarebbe
arricchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto
(forse attorno al 1370).
La svolta del 1374
Si
accredita autorevolmente la tesi di un Manfredi Chiaramonte, bastardo, nelle
cui mani «per via di fortunate combinazioni, si [venne] a riunire .. l’ingente
patrimonio della casa.» [4] Non sembra
potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte]
ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino
Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro,
Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella,
Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo, Girgenti,
Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in documenti
coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro paese
appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355
dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con certezza peste bubbonica o
pneumonica, fu pestilentia nel senso
allora corrente di gravissima epidemia». [5] Già vi era
stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne
fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni si ebbero per
un ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo. Operava frattanto la
scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il
panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo erano
emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile additare
una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era propenso a
credervi.
I nostri
storici locali raccolgono gli echi di quei tragici eventi ed imbastiscono
trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto questo è però provabile. Un
fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un massiccio trasferimento da
Casalvecchio all’attuale sito della residua, falcidiata popolazione.
I traumi
che la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a
coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è possibile documentare su basi
certe. Gli scontri tra le parzialità - solo vagamente definibili latine e
catalane - continuano a scoppiare nel 1360. L’anno successivo giunge in Sicilia
Costanza d’Aragona per sposare Federico I, il quale, sfuggendo a Francesco
Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può solo nell’aprile convolare a
nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con 9 galee attacca nel maggio
la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva scortato Costanza e ne cattura
una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV si dà da fare per rappacificare
e rappacificarsi con i potentati del momento: nell’ottobre ratifica la pace di
Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci da una parte e Francesco
Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di nutrite fazioni)
dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una recrudescenza della peste.
Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si riesce a recuperare il piano di
Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si può parlare di pace con gli
Angioini di Napoli.
Quando agli
inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe le condizioni di pace, divenne
più agevole definire il concordato con il papato che manteneva sulla Sicilia il
suo irriducibile interdetto.
E qui la
minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia
medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa
Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII era in effetti
Pietro Roger de Beaufort nato a Limoges
nel 1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto
papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla
cosiddetta "cattività avignonese".
E così da
Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento culminante di
una gravissima crisi. Ed in questa congiuntura, cade appunto la remissività
papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplementare si può procedere
alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed al contempo di
remissività verso la Francia.
La
meridiana della storia passa allora anche per il modesto, gramo paesotto di
Racalmuto. Altro che isola nell’isola, nell’isola - scrivemmo una volta in
pieno disaccordo con Sciascia.
Le decime del 1375
Nel
contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un personaggio acquisisce
contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito nostro, cioè della
microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel. Il suo destino si lega a quello della Sicilia
ed investe Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del 1375. La sua carriera
in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i
suoi compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri
contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi.
Vi troviamo Racalmuto.
La visita
in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca nel quadro di grandi eventi
storici. In particolare occorre tener
presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV
di Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida
del papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV
accettava la signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli si impegnava
a pagare un censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmettere alla Santa
Sede questo canone. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare giuramento
di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi che godeva
prima dei Vespri del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto che
gravava sull’isola da lunghi anni.
In Sicilia
la riscossione di tale sussidio fu decisa prima della ratifica della pace, nel
dicembre del 1372; la promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di
pressione fiscale. Vengono chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono
modalità di esazione contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per
i riottosi. Le bolle del dicembre del 1372,
chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della Chiesa in Italia,
imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione dell’interdetto”.
Evidente l’intento dissuasivo. In virtù di una clausola apparentemente anodina,
i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto,
non solamente il giuramento di rispettare la pace e d’essere fedele al re,
secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il
sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in imposta pura e semplice.
Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa riscossa “ratione amotionis
interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero si parla ancora più
esplicitamente di “subsidio auctoritate apostolica imposito” . E ci siamo dilungati proprio
perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.
«Il
sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alla condizioni
economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate
(“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna
località metà delle famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra
le benestanti: se le condizioni economiche fossero state omogenee, sarebbe
stata distribuzione equa. Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che
sono nell’isola infiniti” e le “miserabili persone” che non era prefigurato
quali fossero.» [6]
Intensa è
la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a destra e a manca per
spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove istanze impositive della
Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed università a recarsi
presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo convincano a fare
pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli inviti sono
mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Il 9
febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella sua qualità anche di
ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di percepire nelle sue terre il
denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di consegnare il frutto della loro
raccolta al collettore apostolico che subito toglierà l’interdetto. Il
precedente 18 novembre 1374, Manfredi è a Mussomeli nel suo castello che ora si
denomina dal suo nome “Manfreda”: là si redige un processo verbale che attesta
che egli, ammiraglio del regno di Trinacria, presentandosi davanti al re
Federico III gli ha prestato fedeltà e devoto omaggio. Il ribellismo del conte,
di illegittimi natali, si era dunque quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio
apostolico, che accompagnava il re, Manfredi ha solennemente promesso sul
Vangelo di osservare il trattato di pace, come è stato steso nelle lettere
reali sigillate con una bolla d’oro.
Egli ha promesso di fare versare il sussidio
dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle sue terre di Spaccaforno, Scicli,
Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro, Favara,
Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronovo, Mussomeli,
Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo
Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco, Pietra Rossa
e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle proprietà dei
Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le proprietà di
Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione. Esse sono
distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona parte
dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno,
Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di
Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra,
Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano,
Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le proprietà della regione di
Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [7]
Dalla
lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375
riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa
ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il casale è evidentemente
assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e
ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas
ha un suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei
giudici, a degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituisce un
soggetto giuridico (universi homines).
Rientra tra le terrae nostrae, cioè
di Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali),
Racalmuto sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto, ma così non
è.
Le singole
università devono nominare tre probiviri (tri
boni homini) i quali devono assolvere il poco gradito compito di spillare
denari a tutti gli abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non
sappiamo chi siano stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e
svolsero a puntino la ficcante tassazione.
L’elenco
delle università ha una sua logica: Racalmuto si trova in mezzo ad un
itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su Naro, da qui a Delia e da
lì si torna a Favara (ammesso che si tratti dell’attuale Favara e non di un
centro nel nisseno); da Favara a Palma di Montechiaro, quindi a Licata per
convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella (una rocca sul monte
omonimo a poco più di 2 km. a Nord di Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro.
Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini)
che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto
livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo
chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese si arricchisce di un altro
importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa
a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano,
Prizzi, Palazzo Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a
questo punto il nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi
scema del tutto.
Fin qui si
è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo delle tasse vere.
L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire dai primi di
marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo); il 18 dello stesso mese può togliere
l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a
S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo stesso
giorno è la volta di Racalmuto. Dal
nostro paese si passa a Castronovo (8 aprile 1375). La raccolta del sussidio
s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione dell’interdetto che
incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione, lontana da Agrigento. Per
noi ha particolare rilievo ovviamente Racalmuto.
Disponiamo
di un paio di annotazioni che riguardano il nostro paese e che naturalmente
svelano tratti storici diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio
Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit amotum interdictum in
casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI
que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del pari
lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di
Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte
di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e
27 tarì.» Ad essere precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze 7 e tarì 27
(anziché 27) dato che così andava ripartita:
|
|
quota
individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
numero
fuochi
|
136
|
|
238
|
onze 7
|
tarì 28
|
ceto
medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
|
|
benestanti
(1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
|
|
poveri
(1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
|
|
Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque
una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni nucleo
familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i preti
(tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che dispersi per
le campagne non era possibile includere nel censimento, un venti per cento. Nel
1375 Racalmuto contava dunque circa 650 abitanti.
Come si è
visto le case erano di paglia: segno di grande indigenza. Eppure i racalmutesi
o per solerzia degli scherani pontifici o per vero timore di Dio (e della
peste) furono solerti e puntuali nel dare il sussidio caritativo al papa. Non
così in altre zone della Sicilia, come ebbe a lamentarsi quello straniero di
Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte
del du Mazel non vanno minimamente confuse con i rilievi censuari. Abbiamo solo
numeri simboli da cui possiamo dedurre qualche ipotesi di lavoro di carattere
demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a Racalmuto vi erano davvero 136
case con tetto a paglia; che 34 di queste (1/4) erano abitate da benestanti in
grado di corrispondere la tassa pontificia in misura massima (3 tarì a fuoco);
che altre 34 appartenevano a ceti medi (tassati per 2 tarì a famiglia); la metà
(n.° 68) ospitava famiglie di dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di
corrispondere il minimo (1 tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della
tassazione induttiva, per stima aprioristica. Certamente in misura più limitata
dovette essere la densità delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella
del ceto medio; ancor più vasta quella della classe che oggi chiameremmo
operaia. E poi i tanti religiosi (tassati a parte, come rivelano le stesse
carte del du Mazel), i “miserabili” (nullatenenti e non imponibili per legge o
per dato di fatto), gli irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone
inaccessibili o nei contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli
armenti vivevano in stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni
reperibilità impositiva. Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano
davvero a Racalmuto nel 1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi
avvallamenti sotto le grotte dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non
meno di 600 abitanti, che tutto considerato non si può andare oltre il numero
di mille abitanti (ricchi e poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari,
preti e “miserabili”). Una popolazione già falcidiata dalle tante ondate della
ricorrente peste trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con
l’avvento spagnolo del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
La fine del Trecento
L’ultimo
quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che
spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico
siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana
racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità
da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero
ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si
rende indispensabile.
Il 27
luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica
avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella
morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile.
Il regno
passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina
sul serio - ma solo pro forma visto
che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario.
Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro
e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri
maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo
Peralta.
La vita
riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In
effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i
cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per
Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi
Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché
storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia
intendere che costoro se ne stessero ancora a Genova a curare i nuovi loro
affari in seno a compagnie marittime.
Racalmuto
scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la
legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [8] Solo che
il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua
cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo
III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal
castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi
III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le
trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non
lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla
alla monarchia iberica.
Rientrava
in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi
di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in
contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva
l’intrigo della corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito
Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di
Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo
alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante
Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione
della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie.
In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della
corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare.
Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao
di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le
nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389
moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per
l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra
l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli
e consociativi.
Morto anche
Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un
periodo di scabrosi sommovimenti in seno al regno: tra l’altro veniva
riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la
scomunica e l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI.
L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel 1389,
allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di
Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in
Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il
duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava
di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento
del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non
sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano
celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale
della storia di Sicilia.
Si giunge
così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte,
personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo
successore e su altri nobili di Sicilia, punta il nuovo pontefice romano
Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a
contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si
riflettono dunque anche sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si
dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie
dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un
fronte d’opposizione ai Martini.» [9]
Nel
frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia
a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con
generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna
a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano
approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno
personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto
“Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato
medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano
proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico
racalmutese.
Nel 1392
gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale
Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei
conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico
di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto
diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a
credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai Martino. Asserragliatosi a
Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne
coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa,
ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con
l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono
arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto
che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso
Martino, si riappropria di Racalmuto e dà
inizio al lungo periodo della sua baronia vera e storicamente
documentata.
Si
dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio
1391 quando si era celebrato il convegno di Castronovo in cui si era giurata
fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto
né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiaramonte,
erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni
convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale,
evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima
isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era
del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio
Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» [10] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era
lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici degli invasori, per “necessità”
finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
* * *
Ancora
nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di
mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente
ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la
spedizione militare aragonese.
Gli eventi
precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana
presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi
entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio
Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare
l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea
II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a
Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo
ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il
giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3
aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il
Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed
ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a
Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte
si asserragliava a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai
sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di
Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per
volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per
trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva
prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando
venne decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il
celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed
avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle
passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava
definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e
la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma
c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le
prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati
smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino,
con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca
dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro
feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del
Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità del
feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di
più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato,
ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di
legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di
sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re
convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la
peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le
assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità
centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno
catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle
aliene di Catalogna.
Martino I
rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo
divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare
l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti aspetti. Questa sudditanza
attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di
sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un
infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo
che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una
insurrezione in Sardegna.» [11] Martino il
giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finì in successione
insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di
Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente
riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare
che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di
minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o
di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese.
Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata
direttamente dalla Spagna.» [12]
I DEL
CARRETTO BARONI DI RACALMUTO
Quando il
22 marzo 1392 la spedizione spagnola approdò a Favignana, dalla lontana Genova
i Del Carretto si decisero a veleggiare verso la Sicilia per riprendersi le
terre racalmutesi cui pensavano di avere diritto per successione diretta e per
lascito di Matteo Doria. Racalmuto si presentava tripartita: a sud-est il
Castelluccio, munito già della sua fortezza, e dintorni era feudo denominato
Gibillini e di pertinenza dei signori di Favara; a nord il castello
chiaramontano era coronato da case coperte di paglia e con il suo toponimo
arabo costituiva la terra abitata di un feudo ampio che meglio definiremo dopo; ed a sud-ovest le ampie pianure della Menta della Noce del Rovetto erano
considerate terre burgensatiche, di personale proprietà del feudatario.
Le
terre dello stato di Racalmuto, soggette a vincolo feudale, non si estendevano
dunque per tutto il territorio extraurbano: un qualche rilievo di autonomia
mostrava la contrada della Menta (sempre dei del Carretto) che talora è stata
denominata ‘feudo’. Sono dei del Carretto i fertili fondi di Garamoli, ma
appaiono come terre allodiali.
Lo
stato di Racalmuto parte dalla contrada di Cannatuni
(come ai giorni nostri) e da quel
versante nord va verso ponente: coinvolge Santa
Margaritella e Santa Maria di Gesù,
arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo Morto); si diffonde nella fertile
piana di Fico Amara o Fontanella della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e per Bovo;
include una parte del Serrone (un
altro versante è detto appartenere al feudo di Gibbillini); scende per Judio,
Malati, Casalvecchio e Saracino, annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[13] e Difisa; e chiude quindi l’irregolare
circonferenza inerpicandosi per le contrade della Pernice fino a Quattro
Finaiti.
Menta,
Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono pertinenze del feudo dei Del Carretto,
ma hanno una loro distinta configurazione.
Negli
atti notarili non sempre è chiara la peculiarità feudale di queste terre dei
del Carretto che talora vengono segnate come un distinto ‘feudo’ (fego della
Menta o della Nuci), talaltra no, e comunque restano talora attratte
nell’intreccio delle doti di ‘paragio’ dei cadetti e delle figlie di quella
famiglia.
L’importanza
dei possedimenti di Garamoli si coglie da una pagina della ‘Fabrica’ [14] della
Matrice del 1658. La fiumara di Garamoli
doveva essere contornata da un bosco
fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per
costruzione, fonte di grossi affari. La famiglia Napoli, quella degli Alcello e
l’altra dei Gueli fornivano maestranze specializzate, ben pagate per l’epoca.
Per
coprire il tetto della Matrice occorrevano “burduna”
di enormi proporzioni. Si trovavano nel mezzo della fiumara di Garamoli. Per
trarli fuori provvide la maestranza ma
soprattutto un nugolo di nerboruti facchini che furono pagati in modo
inconsueto: con salsicce e vino. La pagina della “fabrica” del dicembre 1658
appare degna di essere riportata qui diffusamente:
«.. al d. di Napoli con
dui figli et m.° Alcello tarì 11; ...
· alli d. di Napoli, Alcello et dui altri mastri tt. 12.10;
· alli d. di Gueli et Napoli et un giovane
per pulire travetta et intravettare tt. 12;
· alli d. di Gueli et Napoli et suo figlio
per havere andato in Garamoli per sbarrare li travetti et li burduna n.° tre
che mancano al complimento della nave tt. 11.10;
· per havere fatto portare dui carichi di
travetti di Garamoli tt. 5;
· alli d. di Gueli et Napoli con dui figli
tt. 14. per havere comprato deci lignami da Vincenzo Pitrozzella per mancanza
di forbici onze 3.10;
· più per havere fatto venire dui burduna da
Garamoli tt. 20;
· e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna
dentro la fiumana e ni portaro uno tt.
15.8.»
Piena
autonomia ha sempre invece il feudo di Gibbillini. Feudi dei dintorni di
Racalmuto sono - stando a certi atti notarili - quelli Di Grotte, del Chiuppo,
di Scintilia e del Nadore.
* * *
Il
grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene
proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. [15]
Per
il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al
servizio del re di Sicilia, Martino, nella nota guerra che durò alcuni anni. Lo
spagnolo desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, di certo, ma abbiamo
il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie
quelle del Fazello. Se attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto
che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare per marchese di
Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più
che il fratello Matteo del Carretto, sarebbe stato Gerardo a darsi da fare in
un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. Sarebbe sempre Gerardo
a mettersi a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la
parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione
ardua, non risolvibile allo stato delle attuali conoscenze.
Una
documentazione probante della titolarità su Racalmuto i del Carretto sono
costretti, comunque, a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei
Martino diviene intransigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle
prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu
vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello
che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di
Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo
formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e
l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il
castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogativi cui non
siamo in grado di dare risposte certe.
I DEL CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO
Il
quattordicesimo secolo vede i del Carretto impossessarsi, prima, e
padroneggiare, dopo, sulla Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o
di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo
con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del
figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva
di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte
capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con
Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella
famiglia proveniente da Genova. In un
atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i
titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo agli araldici ed
agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle
sue più antiche fonti, difficilmente
potrà essere del tutto chiarita. Quel che ci preme è qui sottolineare come
proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina
di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la
traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone
ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti
scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei
Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del
Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte.
Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma
ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto
tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione
dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di
Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa in
Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare
canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche
Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo
aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda un documento:
esso fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava acconcio per
ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici
ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il
beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. Nel diploma
si accenna solo al ‘canonicatus Sancte
Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi,
quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad
alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è
dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata
l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di dedicata a S.
Margherita. E prima?
Tanti
collegano quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una
interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere
sorto a metà del XIV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i
Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi
Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed
a suggello del concordato col Papa.
LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
Il secolo
XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del Carretto, figlio di Matteo,
di quell’avventuriero, cioè che si era arrabattato alla fine del secolo precedente. Henri Bresc
vorrebbe questo Giovanni del Carretto come un disastrato, finito in mano degli
Isfar di Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore
di grano locale. Appare come creditore dei Martino, acquirente di quote di
feudi in quel di Mussomeli, ma lo storico francese è perentorio: «La baisse du prix de la terre - que l’on
suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse oblige à un endettement toujours plus grave et à une
gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers
l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration
des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi
dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son
gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Di questa
espoliazione della baronia di Racalmuto a favore di Gispert d’Isfar, non
trovasi riscontro alcuno nell’altra pubblicistica di nostra conoscenza. Il
Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ([16]) sembra
escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non spregevole latinista,
addentro di sicuro alle segrete cose dei del Carretto, è smaccatamente
elogiativo per dargli eccessivo credito. Comunque, l’interruzione della baronia
dal 1422 al 1453 non viene neppure sospettata. Così è anche in una lunga
comparsa giudiziale della fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo
del Carretto.
Gibert
Isfar avrebbe sposato una figlia di Giovanni I del Carretto nel 1418 ([17]); il
personaggio è arrogante, intraprendente, si dà all’usura, sa farsi nominare
mastro portolano. Il Bresc è prodigo di notizie sul suo conto. Tra l’altro,
compra per 10.000 fiorini la castellanìa e la “secrezia” di Sciacca (Bresc, op.
cit. pag. 857); opera a tassi usurari del 7% (ibidem pag. 859); è bene
insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto riesce a farsi nominare feudatario
di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per ripopolarlo (ibidem pag. 895; ASO
Canc. 65, f. 42).
Attorno
alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del
Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti
del protonotaro del Regno in Palermo. Un
grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però
preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate
adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474.
Il
Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte.
Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo
bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto proprio a
Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della potente famiglia
baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul concepimento nel legittimo
letto di alcuni antenati del povero barone Ercole Del Carretto. Gli contesta
molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è costretto a ricorrere
ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la corte vicereale di
Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe: traslazione d’imposta -
sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa. In compenso - direbbe
Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di religione. Non proprio
una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della Madonna fu certamente
fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla scuola del Gagini - e
posta in bella mostra su un altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad
ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire
predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può
venire sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere,
intenda.
PERCHE' UNA
STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in
un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo
Sciascia ([18]) su tutta
la storia racalmutese. Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica
'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto
«piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di
Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una
vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea
presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro,
di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito,
invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari
che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla
non meno predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e
delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria
apportava.»
Sull'altipiano
solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era
una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla
fame come erba alle rocce'.
Promana
quasi un monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di
Racalmuto. Eppure noi ci accingiamo ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed
altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale
matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi
fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti,
codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei
racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi
dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con topiche ed
errori, spesso con “visionarietà romantica”: correggerli alla luce dei
documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo
sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il
gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca
ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei
sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
* * *
Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile
una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo
Sciascia (vedansi Le parrocchie di
Regalpetra e Morte dell'inquisitore),
scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella
signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino
alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana.
Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o
pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
1. Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che
«moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva
all'indipendenza del regno di Sicilia» ([19]) è
inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo
era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello
che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui
il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V,
la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo III. Costui, finché
subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte
di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu
prossimo ai cinquant'anni, forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro
il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo
barone Giovanni III Del Carretto ed
intentando contro di lui, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che
poteva costargli una scottante scomunica.
Alla fine
dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto si spoglia della
contea, sicuramente per sfuggire ai creditori, facendone donazione al figlio
Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto il feudo ritorna sotto la
titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con la quale si estingue la
signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo
IV ([20]), dunque,
non è mai esistito.
2. Giovanni
V Del Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia
di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del
Villabianca ([21]) - il
Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era
la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio
del 1622 sarebbe stato perpetrato
insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([22]).
3. Che
Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria
pressione fiscale» del terraggio e
del terraggiolo, «canoni e tasse
enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo
particolarmente crudele e brigantesco» ([23]) dal conte
in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo
fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin
dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo
I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti -
quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati
compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo
II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto
una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il
terraggiolo con una donazione una
tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli
effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I
fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo
del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non
dovessero il terraggiolo (e cioè due
salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello
di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo
maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime
sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento
degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive
il Pirro. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa
gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi con la stravagante tradizione
riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla
primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta
probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente
puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o
Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque
la pena di tentare una veridica storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In
definitiva, anche se di vita 'appena
descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.
* * *
Sul ramo di
Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a
tutto il secolo XV. Agli albori del XVI,
il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura
della legittimità del titolo baronale di Racalmuto in capo alla rampante
famiglia d'origine ligure.
Solo in una
circostanza ha ragione da vendere il Barberi
e cioè quando contesta l'ammissibilità della prima investitura baronale
in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del fratello
maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo,
infine, non vi era nei primi anni del '500 - né vi è tuttora - alcun documento
dell'investitura di Giovanni II del Carretto né del figlio Ercole, proprio
quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso
inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi
non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il 1519, quel diligente
burocrate sull'origine e sui primi sviluppi dell'impossessamento feudale di
Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo
sull'attendibilità delle antiche notizie di una terra feudale racalmutese in
mano a Federico II Chiaramonte, cui
succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza
Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia
passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al
primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de
communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore
Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo
per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che
l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse
nella sua notoria Cartagine siciliana
(Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la
ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di
striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([24]) aveva
così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo,
l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra
con il suo castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val
Mazara ed era un tempo posseduta dal condam Antonio del Carretto.
Morto
costui, doveva succedere nella stessa terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però vendette
definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti
gli altri beni del cennato suo padre e
soprattutto quei diritti che aveva e poteva avere per ragione di successione e di eredità
da parte di Costanza di Chiaramonte
sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio
del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo suo fratello, e particolarmente i diritti
sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese di
Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di
Savona, acquista i predetti beni e diritti dal
fratello Gerardo, per il prezzo
di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per
il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il
contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello
stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come
risulta nel privilegio di tale conferma dato in Catania il 13 aprile del detto
anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo
Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re
Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della
presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che
possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel
libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del
Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio
fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal
detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della
detta terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti,
sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio
della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle
carte 33.
E morto
Matteo, gli successe nella detta terra Giovanni
del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la
conferma della detta terra in un diploma
ove risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al
predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio
del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria
nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto
Giovanni, successe Federico del Carretto,
suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal
condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed
i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei
diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli
altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro
grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il
cennato Federico, gli successe Giovanni
del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio della
regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.
Morto il
detto Giovanni, gli successe Ercole del
Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del
quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella
terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once
700.
E morto il
detto Ercole successe nella detta terra Giovanni
del Carretto [III], suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che
prese l'investitura della detta terra tanto per la morte del detto suo padre
quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind.
1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un
reddito di 420 once; e ciò sebbene il
padre non avesse preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della
morte del proprio genitore. ([25])
Quanto alla
ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi si astiene
dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del
padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli Gerardo e
Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa per
ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene
rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di
constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel
dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto,
titolo che la cancelleria di Martino riserba a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo
che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia,
che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono preziosi per la
ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro
consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un
punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa
abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra
Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che
meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo
per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di
padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino
de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925,
aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre
quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di
Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo
fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).»
([26])
Il Di
Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627. Era un discendente dei
Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni II e fratello di
Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente rappresentato il
succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può
vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole,
e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D.
Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D. Geronimo, al presente
conte di Ragalmuto.» ([27]) Il Di
Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione
di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il
nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino
De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque,
anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur
eccelsi araldisti.
In effetti,
le fonti documentali sono carenti in ordine a questa prima serie di
successioni. Presso il Protonotaro del Regno è consultabile il processo di
investitura di Federico del 1453 che ci permette di seguire la successione
baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso Federico. Si passa poi
al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro,
come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da questi allo
stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto. Senza i Capibrevia
del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche ipercritico potrà obiettare
che il Barberi al riguardo parla solo per sentito dire e Dio sa quanto
menzogneri fossero quei nobili, specie
se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei
Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul
punto al Barberi vada prestata totale fede.
Il Fazello,
restando nell'ambito della storiografia feudale del Cinquecento, non mostra
interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti
nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è involontario
protagonista (in negativo) nella ricostruzione della storia di Racalmuto per avere ispirato due
tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II
Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire
l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse
accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il
Fazello, però, è del tutto incolpevole.
Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito Amico([28]) ed il
Villabianca, quello della Sicilia Nobile([29]) - su
un'evidente distorsione di un passo dell'opera dello storico di Sciacca. ([30]) Questi,
parlando dei Barresi, aveva scritto ([31]): Matteo
Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di
Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula"
(piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula
doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del
Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici
locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende di
quella famiglia. Ma di ciò a suo tempo e luogo.
Allo
spirare di quel secolo, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y
Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei Del Carretto. La reputa
alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una conventicola di nobili,
fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio -
per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive,
persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce
il prelato - l'Episcopo di Girgente del
Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone
maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha
fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto,
il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana,
il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari,
il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo
Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti
[.....]
Il detto Conte
di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete
morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi
et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual
causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse
partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come
se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di
detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece
destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far
privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto
ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione
ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che la
medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse
restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare
quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti
a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati
per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che
fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della
giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver
giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et
vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli
carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto
con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra
mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha
voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perché il vicario generale d'esso exponente
impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua
terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et
essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il
detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece
congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et
al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in
detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia
di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili
per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il
suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale
di Girgente, et perché ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([32])
Il secolo
XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti contro i Del Carretto. Poi
non succederà più: avremo solo libelli encomiastici o ricognizioni genealogiche
o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti, processi di investitura,
inventari, note di cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a
parte, naturalmente).
La vera
pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge -
a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene, nel 1617, cavaliere
gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del
Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il secondogenito
dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le
sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra Don
Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è diligente. Ne
vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel fictum, vel
excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata, senza falsità o
invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia stata la base di un libro scritto poi, nel 1630,
proprio dal Baronio. ([33])
Nel
frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni che rimasero a lungo
manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo. Abbiamo già accennato al
suo Palermo Restaurato. Come leggesi
nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11),
il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica
della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo
uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia
di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di
consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla
(sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai
Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra
del Pirro: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno
riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di
Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S.
Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il
rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto
- tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel
1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse
la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in
località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza
successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato
Antonio Del Carretto figlio del
marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del
tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle
cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di
Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos
nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 ([34]) alla
famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella
inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra
Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza
di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del
Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione
genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe
spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di
effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo
riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto:
sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto
siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo
sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote,
confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano
dei Del Carretto anche per quelle
omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave
topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e
non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I -
sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta
successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è
Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo
del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e
la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei
feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della
trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente
don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data
della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di
lesa maestà.
Intervallati
da più di un decennio escono a Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il
sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei
Del Carretto; il secondo, La Cartagine
Siciliana, è datato 1661 ([35]) e può
dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata
l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova
molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i
feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami
trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non
sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio,
mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal
sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di
piaggeria araldica. ([36]) Si dà il
caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la
indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai
Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli
nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se
le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine
Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia
racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il
testamento di Federico II Chiaramonte ([37]) è il
fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere davvero la nonna di
Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il
lavoro dell'Inveges ([38]), ma sono
elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma noi
non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del
Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro,
di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie,
quando sarebbe tornato molto utile.
Efferati
delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra il Cinquecento ed
il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è molta materia per accedere alla
cronaca nera o in quella particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel
riserbo delle proprie case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad
esempio, si occupano della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del
Cinquecento. ([39]) Valerio
Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a
Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. ([40])
Eclatante
il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni IV del Carretto la sera del
lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo diarista palermitano. ([41]) Quando,
ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu
arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo
dovette essere enorme. Il conte fu imputato del delitto di lesa maestà, come
uno dei capi principali di una congiura andata del tutto fallita. Nel suo
diario ne fece diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria ([42]) che poi
seguì passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per
"affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag.
367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI PRIMI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è
dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a
Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri
domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di
Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto
liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il
feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non
dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo
avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia
l’esistenza di un tal marchese, evidentemente spurio, e l’autorità storica di
un Pirri o di un Inveges o di un Barone è tale che gli odierni araldisti liguri
di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole
cronologiche dei loro marchesi, sia pure in corsivo, mostrando di non esserne
certi.
Diciamolo subito: un marchese Antonio I del
Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad
Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte,
semplicemente non esiste.
ANTONIO I DEL CARRETTO
[1]
) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, Bari 1977,
pag. 10 e segg.
[2]
) ibidem, pag. 18.
[3]
) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola
- Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[4]
) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti -
Palermo 1891, pag. 14.
[5]
) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[6]
) I. Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
[7]
) J. Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di
Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[8])
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[9]
) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[10]
) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121.
[11]
) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol.
I pag. 115.
[12]
) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol.
I pag. 116.
[13])
Il toponimo è presente negli atti notarili per lo meno dal 1714: non può quindi
riferirsi a nessuna Baronessa Tulumello.
[14])
Archivio Parrocchiale della Matrice di Racalmuto - LIBRO D'INTROITO
ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto,
incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra -D. Lucio Sferrazza -
Vol. I “Esito n.° 7 dell’11/12/1658”.
[15]
) ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
[16])
D. Francisci Baronii ac Manfredi - De Maiestate Panormitana libi IV - Panormi
apud Alphonsum de Isola - MDCXXX.
[17]
) Henri Bresc, Un monde, op. cit.
pag. 869.
[18])
Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado
Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[19])
Leonardo Sciascia, Morte dell'inquisitore - Bari 1982, pag. 182.
[20])
Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[21])
F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - PARTE II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA]
[22])
Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[23])
Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 181.
[24])
Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - op. cit. -
pag. 526 e segg.
[25])
G.L. Barberi aveva conseguito la nomina a Maestro Notaro della Cancelleria nel
1491.
[26])
Francesco San Martino de Spucches, La
storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri
giorni (1925). Lavoro compilato su documenti ed atti ufficiali e legali. -
Volume sesto, Palermo 1929 - quadro 783 - Conte di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[27])
Vincenzo di Giovanni, Palermo restaurato. Citiamo dalla edizione di Sellerio
editore Palermo - 1989 - pag. 191. Evidentemente questa parte del manoscritto
che viene datato 1627 era stata scritta prima del maggio 1622, epoca della
morte (o omicidio) di Girolamo II Del Carretto.
[28]) Vito Maria Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi
secundi pars altera, Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma
pos. 1.24.C. 19/24]
[29])
F. M. Emanueli e Gaetani - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore
[copia anastatica dell'edizione Palermo 1759 - Parte II, libro IV, pag. 199 e
segg.]
[30])
Anche se non l'artefice primo della fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese,
il Villabianca è responsabile degli abbagli storici degli ereduti di Racalmuto
- a cominciare dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio
indigeno, dunque, ma pur sempre autore principe del racconto della 'venuta'
della Madonna del Monte.
[31])
F. TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC
PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS -
Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes
Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad
Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca
Nazionale - manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia)
pag. 592 - De rebus .. posterioris decadis liber nonus - cap. Nonum.
[32]) Archivio Segreto Vaticano - SACRA
CONGREGAZIONE VESCOVI E REGOLARI - Anno
1599 - pos. C-L
[33])
D. Francisci Baronii ac Manfredis - De Majestate Panormitana libri IV - Panormi
apud Alphonsum de Isola - MDCXXX - [Biblioteca Nazionale V.E. - Roma -
7.4.L.31.]
[34])
Filadelfio Mugnos, Teatro genealogico
delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed antiche del fedelissimo regno di
Sicilia, viventi ed estinte, 3 volumi, Palermo 1647, 1655; Messina 1670.
[Dalla ristampa anastatica di Arnoldo Forni editore, pagg. 237-240 del Libro
I].
[35])
D. Agostino Inveges - Palermo antico
- Palermo 1649 e D. Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da Sciacca - Anno
1660. - La Cartagine Siciliana, historia
in due libri, pubblicata in Palermo, nella typograph. di Giuseppi Bisagni.
1661.
[36])
Illuminato Peri, Per la storia della vita
cittadina e del commercio nel medio evo - Girgenti porto del sale e del grano
- in Antichità ed alto Medioevo,
Studi in onore di A. Fanfani, I - Giuffrè Editore Milano 1962, pag. 607.
[37])
L'Inveges ci informa a pag. 159 che Marchisia Prefolio «si morì carica d'anni
... nella stessa Città di Giorgenti circa l'anno 1300, si sepellì nella Maggior
Chiesa della medesima città con pompa di marmorea urna; ove in terra piana
anche fù sepellito Federico Chiaramonte suo figlio loco depositi con ordine; che ivi si fabricasse una Cappella; &
ogni dì si celebrasse una Messa; come appare per lo [pag. 160] testamento 1
[nota 1: In Tab. Conventus S. Dominici
Agrig.] celebrato in Girgenti anno Dominicae
Incarnationis 1311, Mense Decembris 27. Indict. 10. regnante Serenissimo Domino
N. Domino Friderico III. Rege anno sui regiminis 16.
[38])
Citiamo sempre da La Cartagine Siciliana (pag.
228 e ss.): Venne Costanza per la morte
di Federico padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e
dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò
libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag.
229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344.
quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto possede.
[39])
Diario della città di Palermo dai
mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di
Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869
pag. 136.
[40])
Varie cose notabili occorse in Palermo ed
in Sicilia, copiate da un libro scritto da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI
al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag.
283.
[41])
Aggiunte al diario di Filippo Paruta e di
Nicolò Palmerino, da un manoscritto miscellanio segn. Qq C 28 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI
al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e
ss.
[42])
Diario delle cose occorse nella città di
Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto
dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della Biblioteca
Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq A 6,
7 e 8, in
Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di
Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
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