La follia nel paese della Ragione. Reportage d’autore da Racalmuto
Per il gruppetto di anziani riuniti davanti alla Chiesa Matrice di Racalmuto, la frase di Turiddu Matteliano ha un significato inequivocabile: si possono avere uso e culto della ragione ma essere impotenti davanti agli inciampi della realtà, soprattutto quando assume il volto inesplicabile della burocrazia, che della logica se ne infischia e ti impone di pagare le tasse anche per servizi non erogati. Questo il rovello del giorno nel Paese della Ragione, così chiamato in omaggio allo scrittore.
Turiddu è un uomo gioviale, rotondetto, ma cova il risentimento dell’emigrante che, nonostante tutto, è tornato nella sua terra, tra le case dai muri scrostati color del sole.
Nato in un paese di miniere di zolfo e di sale, fu naturale andare a scavare a cinquemila metri sottoterra nelle viscere del Transvaal a Johannesburg, nel Sudafrica. Comunista, la disillusione storica del Candido di Sciascia non l’ha sfiorato. Rimpiange persino Bertinotti, perché ora nessuno più difende gli operai.
Il fratello Angelo racconta della sua malattia, della misera pensione, della necessità e dell’impossibilità di lavorare, delle escursioni in campagna dettate dal bisogno a raccogliere verdura.
“Ci sono figli e figliastri. La politica è come la mafia, se entri nel giro puoi campare.”
Un vecchio saggio osserva col distacco di chi sa come vanno le cose del mondo.
“Non dimentichiamo che sotto il naso sta la bocca”.
Se gli chiedi che fa, risponde: “Campo”.
Turiddu ora propone una sua personale ricostruzione della storia d’Italia nel dopoguerra: Togliatti e De Gasperi diedero il voto alle donne per far vincere la Democrazia cristiana, in quanto gli americani non avrebbero mai permesso che l’Italia passasse nel campo sovietico.
Si è avvicinato intanto l’arciprete Diego Martorana. Sta ad ascoltare con discrezione, ma Turiddu, che ha ancora un conto aperto con la Guerra fredda, lo apostrofa ricordandogli che non lo voleva far sposare in chiesa perché comunista.
“Erano altri tempi, – risponde il sacerdote- c’era il marxismo ateo, temevamo di fare la fine dell’Ungheria e della Polonia.” Tace per un attimo, e addita teatralmente Turiddu: “Questo poveretto non poteva capire.”
“Mi avete fatto penare, ho dovuto firmare quintali di carte; se non mi fossi rivolto ai capi del partito ad Agrigento e a Palermo per sposarmi solo in municipio, non avreste ceduto.”
Siamo appena arrivati a Racalmuto e già abbiamo incontrato alcuni personaggi in cerca d’autore, quelli a cui Sciascia dava vita letteraria. Tra il castello chiaramontano, il monumento ai caduti, i circoli e la statua di Sciascia che sembra passeggiare in via Garibaldi, il tempo pare scorrere lentamente, sebbene alcune insegne evochino la frequentazione di mondi lontani e dinamici: Roxy bar, Crazy, Friseur per Damen und Herren.
Si respira un’aria sonnacchiosa che Turiddu interpreta con ironia: “Non si capisce perché le leggi a Racalmuto arrivano con cinquant’anni di ritardo.”
Ciò contrasta con quanto immagina chi viene da fuori, per un paese così ben frequentato da politici e intellettuali. Dal 1989, anno della morte di Sciascia, Racalmuto o Regalpetra, come lo chiamò lo scrittore in omaggio alla Petra immaginaria del diletto Savarese, presidenti della Repubblica, della Camera e del Senato, della Regione, ministri, assessori regionali, onorevoli, in molti hanno effettuato un pellegrinaggio nel Paese della Ragione. Racalmuto è divenuto una passerella ideale per chi voglia apparire illuminato, “uomo di tenace concetto” come il frate racalmutese Diego La Matina, finito sul rogo dell’Inquisizione nel 1658, e innalzato da Sciascia a simbolo di ribellione contro l’oscurantismo. Qualche illustre visitatore in carcere c’è finito davvero, ma per mafia.
I pellegrinaggi estivi, alla villa in contrada Noce, cominciarono quando Sciascia era in vita: si veniva per avere lumi sulla mafia, la politica, il terrorismo. Se si era più fortunati, si godeva anche della cucina della moglie. Furono gli anni degli amici della Noce, Bufalino, Consolo, Scianna…
Dopo la morte di Sciascia fu come se si fosse rotto un argine, come se la corda pazza pirandelliana, fino allora tenuta faticosamente a freno, volesse prendersi la rivincita. La successione degli eventi ha una sua tragicomica fatalità: l’espressione Paese della Ragione fu coniata per una serie di manifestazioni in memoria di Sciascia, a cui parteciparono Borsellino, Falcone come spettatore, i registi Damiani e Tornatore, il ministro socialista Claudio Martelli. Poco tempo dopo la conclusione, nel luglio del 1991, avvenne la prima strage di mafia: tre morti tra la folla nei pochi metri tra Chiesa Matrice e Società di Mutuo Soccorso. Nessuno sapeva, né aveva visto niente, si parlò di omertà ma era paura. Fu un episodio della sanguinosa guerra di mafia tra Cosa nostra e Stidda. Da allora è successo di tutto: una ventina di morti, intrecci mafia politica, appalti truccati, traffico di armi e droga, la carriera criminale di Maurizio Digati da capo a pentito, il sindaco Petrotto sotto inchiesta che confessa in televisione di sniffare cocaina, il comune sciolto per mafia e commissariato dal 2012 al 2014, il dissesto finanziario e un piano di riequilibrio devastante per i cittadini. La follia regna nel Paese della Ragione.
“Racalmuto perse la sua verginità, – dice il sindaco Emilio Messana, avvocato di 46 anni del Pd – cambiò anche lo stile di vita. Prima uomini e donne stavano fuori la sera fino a tardi in piena libertà.”
Da corda pazza è anche il caso del Teatro Regina Margherita, gioiello architettonico, risalente al 1880, restaurato per rispetto al desiderio di Sciascia: qui si era appassionato al teatro e era grato alla memoria del sindaco Gaspare Matrona che l’aveva voluto. Dopo quarant’anni di chiusura è stato riaperto e chiuso due volte, ha accolto due presidenti della Repubblica, Ciampi e Napolitano, e ha avuto la direzione artistica di Andrea Camilleri. Ora è chiuso da cinque anni e forse sono stati risolti i problemi di sicurezza che ne impedivano l’uso. Intanto negli affreschi le quattro stagioni si sono ridotte a tre, e negli eleganti palchetti in stile liberty gli spettatori sono sostituiti da manichini che indossano gli abiti di scena donati dal tenore racalmutese Luigi Infantino.
Poco più di ottomila abitanti, molti emigranti e un basso tasso di natalità, Racalmuto sembra destinato a estinguersi e a riproporsi altrove: ad Hamilton in Canada esiste una comunità di ventimila racalmutesi. La crisi economica l’ha prostrato. Negli anni Settanta il munifico intervento della Regione aveva risolto vantaggiosamente la crisi delle miniere di zolfo, con anticipi sull’età del pensionamento e buoni assegni mensili. Ora questa manna dal cielo per cause naturali si sta estinguendo. Non è più redditizia neanche la coltivazione dell’uva Italia, né si è provveduto alla riconversione nel nero d’Avola a cui le colline offrono un terreno ideale.
A Racalmuto t’invitano a fare visita al Circolo degli zolfatari e salinari per leggere una lapide vicino all’ingresso, in cui Sciascia racconta della visita di un onorevole che, nella foga delle promesse, si agitò tanto da rompere un vaso. Naturalmente non fece nulla e i soci si ebbero il danno e la beffa.
Il Circolo è desolatamente vuoto, i soci sono solo 57. Su una parete un grande ritratto di Cesare Battisti,martire glorioso della redenzione italiana.
Alcune foto mostrano scene di vita quotidiana, minatori seminudi in galleria, altri seduti alla mensa. Dei volti straziati dal dolore, inebetiti, raccontano la morte scampata per miracolo nelle viscere della terra.
Nel circolo c’è solo Angelo Messana, zolfataro dal 1961 al1963.
“Ho lasciato per paura. Nel periodo in cui ho lavorato in miniera sono avvenuti diversi incidenti e in uno sono morti tre zolfatari. Ho preferito emigrare in Germania a lavorare nell’industria metallurgica.”
La statua di Sciascia, opera di Giuseppe Agnello, è collocata davanti all’elegante Circolo unione, fondato nel 1836; anche qui i soci si sono ridotti a 58. Nelle poltrone addossate alle pareti si esercitava l’arte della conversazione e del pettegolezzo. Qui il maestro Sciascia soffriva il drammatico contrasto tra l’egoismo di chi viveva di rendita e i suoi bambini senza speranza della Scuola elementare. Alle pareti molte foto dello scrittore e tra i cimeli preziosi, il presidente, Francesco Marchese, mostra un volume, L’affaire Moro, con dedica: Per il Circolo Unione dal socio (“precario” ma fedele) Leonardo Sciascia.
“I racalmutesi – dice il direttore Egidio Terrana – non si riconoscono in Sciascia. Non ne sentono neanche la presenza ideale, così come nessuno avverte la presenza della Fondazione che deve essere rivitalizzata, se mai ha avuto vita. Certo oggi è difficile, ma quando si poteva non è stato fatto nulla.”
La Fondazione, che custodisce le carte dello scrittore ed espone alle pareti una rassegna di ritratti di scrittori, conduce vita stentata con una bibliotecaria a mezzo servizio e un unico impiegato.
In tanta precarietà non è stata neanche presentata la domanda per il contributo regionale, visto che il bando è stato pubblicato a sorpresa in un mese inconsueto.
L’assessore alla Cultura Salvatore Picone, autore di un libro su Sciascia maestro, ci tiene a mostrarci i tre quadri del valente pittore del Seicento Pietro D’Asaro custoditi nella Chiesa Matrice, le sale restaurate del Castello destinato a museo, e l’aula, che ha ricostruita, con i banchi, la cattedra, le carte geografiche e i pannelli didattici del tempo in cui lo scrittore insegnava alla Scuola elementare.
Sono passati sessant’anni dalla pubblicazione del libro, Le parrocchie di Regalpetra, che rivelò lo scrittore. Per l’anniversario si farà una mostra sulle lettere che Sciascia scambiò con l’editore Vito Laterza. Il titolo fortunato fu scelto dalla casa editrice. Scrive, tra l’altro, Laterza: “R. è un paese che non esiste, ma proprio per questo rappresenta un aspetto saliente della società meridionale: la mancanza di contatto tra i gruppi chiusi in loro stessi; la mancanza di interessamento per la comunità, la formazione cioè di tante parrocchie che si dialettizzano, che non cercano neanche di incontrarsi…”
Dice che stimava lo scrittore perché ha dato lustro al paese, e che gli piace leggere.
– Cosa ha letto di Sciascia?
“Il Suo, a ognuno…”
– A ciascuno il suo. E poi?
“Il Mastro don Gesualdo.”
– Di Verga…
Altri articoli della stessa Rubrica: Prima Pagina
di Salvatore Scalia | 8 marzo 2016
IMMAGINARIO SICILIANO. Viaggio a Racalmuto di Salvatore Scalia. Un lungo reportage per il quotidiano”La Sicilia”. Un campionario di personaggi in cerca di autore. Fra nostalgie e aria sonnacchiosa. Le vite che non si incontrano e le occasioni perdute. Ecco il servizio, per gentile concessione dell’autore, con le foto di Davide Anastasi
“Siamo il paese di Sciascia ma non riusciamo a risolvere un problema da niente”.Per il gruppetto di anziani riuniti davanti alla Chiesa Matrice di Racalmuto, la frase di Turiddu Matteliano ha un significato inequivocabile: si possono avere uso e culto della ragione ma essere impotenti davanti agli inciampi della realtà, soprattutto quando assume il volto inesplicabile della burocrazia, che della logica se ne infischia e ti impone di pagare le tasse anche per servizi non erogati. Questo il rovello del giorno nel Paese della Ragione, così chiamato in omaggio allo scrittore.
Turiddu è un uomo gioviale, rotondetto, ma cova il risentimento dell’emigrante che, nonostante tutto, è tornato nella sua terra, tra le case dai muri scrostati color del sole.
Nato in un paese di miniere di zolfo e di sale, fu naturale andare a scavare a cinquemila metri sottoterra nelle viscere del Transvaal a Johannesburg, nel Sudafrica. Comunista, la disillusione storica del Candido di Sciascia non l’ha sfiorato. Rimpiange persino Bertinotti, perché ora nessuno più difende gli operai.
Il fratello Angelo racconta della sua malattia, della misera pensione, della necessità e dell’impossibilità di lavorare, delle escursioni in campagna dettate dal bisogno a raccogliere verdura.
Il bersaglio dei Matteliano sono i fannulloni che i politici hanno sistemato al comune, che mantiene 83 impiegati e ben 136 precari. Una volta che un sindaco li volle mettere in riga fu sommerso dai certificati di malattia.Figli e figliastri
“Ci sono figli e figliastri. La politica è come la mafia, se entri nel giro puoi campare.”
Un vecchio saggio osserva col distacco di chi sa come vanno le cose del mondo.
“Non dimentichiamo che sotto il naso sta la bocca”.
Se gli chiedi che fa, risponde: “Campo”.
Turiddu ora propone una sua personale ricostruzione della storia d’Italia nel dopoguerra: Togliatti e De Gasperi diedero il voto alle donne per far vincere la Democrazia cristiana, in quanto gli americani non avrebbero mai permesso che l’Italia passasse nel campo sovietico.
Si è avvicinato intanto l’arciprete Diego Martorana. Sta ad ascoltare con discrezione, ma Turiddu, che ha ancora un conto aperto con la Guerra fredda, lo apostrofa ricordandogli che non lo voleva far sposare in chiesa perché comunista.
“Erano altri tempi, – risponde il sacerdote- c’era il marxismo ateo, temevamo di fare la fine dell’Ungheria e della Polonia.” Tace per un attimo, e addita teatralmente Turiddu: “Questo poveretto non poteva capire.”
“Mi avete fatto penare, ho dovuto firmare quintali di carte; se non mi fossi rivolto ai capi del partito ad Agrigento e a Palermo per sposarmi solo in municipio, non avreste ceduto.”
Siamo appena arrivati a Racalmuto e già abbiamo incontrato alcuni personaggi in cerca d’autore, quelli a cui Sciascia dava vita letteraria. Tra il castello chiaramontano, il monumento ai caduti, i circoli e la statua di Sciascia che sembra passeggiare in via Garibaldi, il tempo pare scorrere lentamente, sebbene alcune insegne evochino la frequentazione di mondi lontani e dinamici: Roxy bar, Crazy, Friseur per Damen und Herren.
Si respira un’aria sonnacchiosa che Turiddu interpreta con ironia: “Non si capisce perché le leggi a Racalmuto arrivano con cinquant’anni di ritardo.”
Ciò contrasta con quanto immagina chi viene da fuori, per un paese così ben frequentato da politici e intellettuali. Dal 1989, anno della morte di Sciascia, Racalmuto o Regalpetra, come lo chiamò lo scrittore in omaggio alla Petra immaginaria del diletto Savarese, presidenti della Repubblica, della Camera e del Senato, della Regione, ministri, assessori regionali, onorevoli, in molti hanno effettuato un pellegrinaggio nel Paese della Ragione. Racalmuto è divenuto una passerella ideale per chi voglia apparire illuminato, “uomo di tenace concetto” come il frate racalmutese Diego La Matina, finito sul rogo dell’Inquisizione nel 1658, e innalzato da Sciascia a simbolo di ribellione contro l’oscurantismo. Qualche illustre visitatore in carcere c’è finito davvero, ma per mafia.
La generale convenzione è che il pensiero di Sciascia riverberi sul paese, illumini gli anfratti più nascosti e il lato oscuro delle menti, tanto da trasformare gli abitanti in Ragionieri del Paese della Ragione. Un miracolo che non riesce neanche alla venerata Madonna del Monte.Il miracolo di Sciascia
I pellegrinaggi estivi, alla villa in contrada Noce, cominciarono quando Sciascia era in vita: si veniva per avere lumi sulla mafia, la politica, il terrorismo. Se si era più fortunati, si godeva anche della cucina della moglie. Furono gli anni degli amici della Noce, Bufalino, Consolo, Scianna…
Dopo la morte di Sciascia fu come se si fosse rotto un argine, come se la corda pazza pirandelliana, fino allora tenuta faticosamente a freno, volesse prendersi la rivincita. La successione degli eventi ha una sua tragicomica fatalità: l’espressione Paese della Ragione fu coniata per una serie di manifestazioni in memoria di Sciascia, a cui parteciparono Borsellino, Falcone come spettatore, i registi Damiani e Tornatore, il ministro socialista Claudio Martelli. Poco tempo dopo la conclusione, nel luglio del 1991, avvenne la prima strage di mafia: tre morti tra la folla nei pochi metri tra Chiesa Matrice e Società di Mutuo Soccorso. Nessuno sapeva, né aveva visto niente, si parlò di omertà ma era paura. Fu un episodio della sanguinosa guerra di mafia tra Cosa nostra e Stidda. Da allora è successo di tutto: una ventina di morti, intrecci mafia politica, appalti truccati, traffico di armi e droga, la carriera criminale di Maurizio Digati da capo a pentito, il sindaco Petrotto sotto inchiesta che confessa in televisione di sniffare cocaina, il comune sciolto per mafia e commissariato dal 2012 al 2014, il dissesto finanziario e un piano di riequilibrio devastante per i cittadini. La follia regna nel Paese della Ragione.
“Racalmuto perse la sua verginità, – dice il sindaco Emilio Messana, avvocato di 46 anni del Pd – cambiò anche lo stile di vita. Prima uomini e donne stavano fuori la sera fino a tardi in piena libertà.”
Da corda pazza è anche il caso del Teatro Regina Margherita, gioiello architettonico, risalente al 1880, restaurato per rispetto al desiderio di Sciascia: qui si era appassionato al teatro e era grato alla memoria del sindaco Gaspare Matrona che l’aveva voluto. Dopo quarant’anni di chiusura è stato riaperto e chiuso due volte, ha accolto due presidenti della Repubblica, Ciampi e Napolitano, e ha avuto la direzione artistica di Andrea Camilleri. Ora è chiuso da cinque anni e forse sono stati risolti i problemi di sicurezza che ne impedivano l’uso. Intanto negli affreschi le quattro stagioni si sono ridotte a tre, e negli eleganti palchetti in stile liberty gli spettatori sono sostituiti da manichini che indossano gli abiti di scena donati dal tenore racalmutese Luigi Infantino.
Poco più di ottomila abitanti, molti emigranti e un basso tasso di natalità, Racalmuto sembra destinato a estinguersi e a riproporsi altrove: ad Hamilton in Canada esiste una comunità di ventimila racalmutesi. La crisi economica l’ha prostrato. Negli anni Settanta il munifico intervento della Regione aveva risolto vantaggiosamente la crisi delle miniere di zolfo, con anticipi sull’età del pensionamento e buoni assegni mensili. Ora questa manna dal cielo per cause naturali si sta estinguendo. Non è più redditizia neanche la coltivazione dell’uva Italia, né si è provveduto alla riconversione nel nero d’Avola a cui le colline offrono un terreno ideale.
Di miniere resiste quella di sale dell’Italkali, che ha 54 lavoratori e un fatturato annuo di cento milioni di euro. L’aspra e grama vita dei salinari di un tempo è un lontano ricordo. Il direttore Luigi Scibetta racconta che si cominciò a estrarre nella prima metà dell’Ottocento; nel 1972 un’alluvione cancellò tutte le piccole concessioni ottenute dai contadini proprietari degli appezzamenti di terreno. Le misure di sicurezza sono rigorose, i solai tra un piano e l’altro hanno dieci metri di spessore, i pilastri sono larghi quaranta metri per quaranta. Il sale risale a cinque milioni di anni fa, al Miocene.Storie di salinari
A Racalmuto t’invitano a fare visita al Circolo degli zolfatari e salinari per leggere una lapide vicino all’ingresso, in cui Sciascia racconta della visita di un onorevole che, nella foga delle promesse, si agitò tanto da rompere un vaso. Naturalmente non fece nulla e i soci si ebbero il danno e la beffa.
Il Circolo è desolatamente vuoto, i soci sono solo 57. Su una parete un grande ritratto di Cesare Battisti,martire glorioso della redenzione italiana.
Alcune foto mostrano scene di vita quotidiana, minatori seminudi in galleria, altri seduti alla mensa. Dei volti straziati dal dolore, inebetiti, raccontano la morte scampata per miracolo nelle viscere della terra.
Nel circolo c’è solo Angelo Messana, zolfataro dal 1961 al1963.
“Ho lasciato per paura. Nel periodo in cui ho lavorato in miniera sono avvenuti diversi incidenti e in uno sono morti tre zolfatari. Ho preferito emigrare in Germania a lavorare nell’industria metallurgica.”
La statua di Sciascia, opera di Giuseppe Agnello, è collocata davanti all’elegante Circolo unione, fondato nel 1836; anche qui i soci si sono ridotti a 58. Nelle poltrone addossate alle pareti si esercitava l’arte della conversazione e del pettegolezzo. Qui il maestro Sciascia soffriva il drammatico contrasto tra l’egoismo di chi viveva di rendita e i suoi bambini senza speranza della Scuola elementare. Alle pareti molte foto dello scrittore e tra i cimeli preziosi, il presidente, Francesco Marchese, mostra un volume, L’affaire Moro, con dedica: Per il Circolo Unione dal socio (“precario” ma fedele) Leonardo Sciascia.
I più genuini difensori del Paese della Ragione si sentono i redattori di Malgrado tutto, giornaletto nato in ciclostile nel 1980, fregiandosi di un articolo di Sciascia sulla passività dell’uomo del Sud. Il periodico evolutosi visse alcuni anni di gloria perché ospitò anche le firme di Bufalino, Consolo, Luisa Adorno e Bonaviri. Arrivò a 1500 abbonati. Ora è diffuso in Rete.Malgrado tutto
“I racalmutesi – dice il direttore Egidio Terrana – non si riconoscono in Sciascia. Non ne sentono neanche la presenza ideale, così come nessuno avverte la presenza della Fondazione che deve essere rivitalizzata, se mai ha avuto vita. Certo oggi è difficile, ma quando si poteva non è stato fatto nulla.”
La Fondazione, che custodisce le carte dello scrittore ed espone alle pareti una rassegna di ritratti di scrittori, conduce vita stentata con una bibliotecaria a mezzo servizio e un unico impiegato.
In tanta precarietà non è stata neanche presentata la domanda per il contributo regionale, visto che il bando è stato pubblicato a sorpresa in un mese inconsueto.
L’assessore alla Cultura Salvatore Picone, autore di un libro su Sciascia maestro, ci tiene a mostrarci i tre quadri del valente pittore del Seicento Pietro D’Asaro custoditi nella Chiesa Matrice, le sale restaurate del Castello destinato a museo, e l’aula, che ha ricostruita, con i banchi, la cattedra, le carte geografiche e i pannelli didattici del tempo in cui lo scrittore insegnava alla Scuola elementare.
Sono passati sessant’anni dalla pubblicazione del libro, Le parrocchie di Regalpetra, che rivelò lo scrittore. Per l’anniversario si farà una mostra sulle lettere che Sciascia scambiò con l’editore Vito Laterza. Il titolo fortunato fu scelto dalla casa editrice. Scrive, tra l’altro, Laterza: “R. è un paese che non esiste, ma proprio per questo rappresenta un aspetto saliente della società meridionale: la mancanza di contatto tra i gruppi chiusi in loro stessi; la mancanza di interessamento per la comunità, la formazione cioè di tante parrocchie che si dialettizzano, che non cercano neanche di incontrarsi…”
Vite di paese che non s’incontrano, come quelle dello scrittore e di Giovanni Di Marco. Presidente della Società di muto soccorso, fondata nel 1873, vivace, brillante e cordiale porta bene i suoi 83 anni. Ha studiato fino alla quinta elementare. Nel romanzo della sua vita il ballo ha avuto un ruolo fondamentale. La sua fama di ballerino in gioventù aveva superato i confini del paese, lo invitavano persino a Canicattì. Gli capitava però di essere il solo maschio tra tante donne. Fece anche lui una rivoluzione: organizzò nei locali della Società di mutuo soccorso il primo veglione di Carnevale della storia con grande scandalo dei vecchi di allora. Anche la sua biografia ha il 1956 come data importante: aprì la prima officina meccanica di settanta metri quadri. Poi nel 1960 passò in un’altra di quattrocento metri quadri. Si lavorava da lunedì mattina alla domenica: poco prima che cominciasse la partita nello stadio antistante all’officina, ci si lavava le mani unte di grasso e si correva a tifare per la squadra di Racalmuto.Vite di paese
Dice che stimava lo scrittore perché ha dato lustro al paese, e che gli piace leggere.
– Cosa ha letto di Sciascia?
“Il Suo, a ognuno…”
– A ciascuno il suo. E poi?
“Il Mastro don Gesualdo.”
– Di Verga…
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