Un
punto dolente - dolentissimo - è la voce 120: Azioni o quote proprie (valore
nominale Lit. 4.193.325) : al 30/6/1999 L. 5.921.061.000. Ci saremmo aspettati
un profluvio di parole (giustificatrici); invece niente. Un incremento di
acquisti azionari propri nel bel mentre si verificava un crollo verticale della
redditività e delle valenze patrimoniali è davvero una rimarchevole
contraddizione. Ci dispiace per quei soci adunatisi il 12 febbraio del 1998:
qui la banca sembra agire in senso diametralmente opposto ai loro flebili
lamenti. (Ricordate quel passaggio sull’ «impressione di considerare tali
azioni come di poco valore”?) Non credo
che lor signori reputino esaustive degli obblighi di legge quello che dicono
nella nota. Là - scolasticamente - si ripete la lezioncina dei testi elementari
di diritto commerciale: «Le azioni proprie sono iscritte in bilancio al costo.
Alle stesse si applica la disciplina prevista dall’art. 2357 e seguenti
C.C.» E vorrei vedere che si dicesse il
contrario? Il ragguaglio è del tutto tautologico. Si dirà che basta ed avanza
la tabella di pag. 46. E no, cari signori. Leggetevi la pag. 60 della
consulenza Sandulli-Scorza che Simonetti ha divulgato. Ad ogni buon conto la
leggiamo noi per voi. «Alla luce delle considerazioni che precedono, vanno
lette, dunque, tutte le indicazioni che gli amministratori hanno ritenuto di
dover fornire nel bilancio relativo ... e vanno anche apprezzate le omissioni
delle relazioni sulla questione in ordine ai motivi degli acquisti di azioni
proprie da ... , informazioni dovute
in base alle nuove norme in materia di bilanci bancari. Ed infatti,
l’art. 3 del decreto legsl. 87 del 27 gennaio 1992 prevede che nella relazione
sulla gestione siano indicate “il numero delle azioni o quote proprie sia delle
azioni o quote dell’impresa controllante detenute in portafoglio, di quelle
acquistate e di quelle alienate nel corso dell’esercizio, le corrispondenti
quote di capitale sottoscritto, i motivi degli acquisti e delle alienazioni ed
i corrispettivi.»
Non
fraintendiamo, dove sono tutti siffatti elementi? Nella tavola di pag. 46
riusciamo a sapere che nello scorcio di esercizio vi sono stati acquisti per
n.° 15.500 azioni proprie, ma rispetto al precedente giugno del 1998 risulta un
incremento per L. 2411653/m). Quello che è grave che ancora una volta gli
amministratori non pare che abbiano voglia di essere trasparenti in sede di
bilancio in ordine a) alle corrispondenti quote di capitale sottoscritto; b) e
soprattutto in tema di “motivi degli acquisti e delle vendite”. Almeno in
questa sede ci si vuol dire quali motivi sussistono in ordine ai seguenti
acquisti:
data operazione data delibera n.° azioni
2/1/97
|
9/12/96
|
4.000
|
3/1/97
|
9/12/96
|
72.000
|
21/2/97
|
9/12/96
|
3.000
|
5/3/97
|
25/2/97
|
14.290
|
27/3/97
|
20/3/97
|
8.000
|
8/4/97
|
20/3/97
|
1.404
|
29/4/97
|
28/4/97
|
43.142
|
20/5/97
|
21/4/97
|
9.000
|
21/5/97
|
21/4/97
|
8.760
|
7/7/97
|
30/6/97
|
1.000
|
15/7/97
|
30/6/97
|
6.000
|
17/7/97
|
30/6/97
|
4.000
|
28/7/97
|
30/6/97
|
10.000
|
28/7/97
|
21/4/97
|
1.000
|
1/8/97
|
30/6/97
|
5.000
|
5/9/97
|
30/6/97
|
19.500
|
9/9/97
|
30/6/97
|
2.000
|
17/10/97
|
21/4/97
|
3.750
|
Totale
|
|
215.846
|
Quali
le ragioni per preferire codesti acquisti (e quelli successivi) a danno di
altri soci esclusi? Si deve escludere la semplice discriminazione? Non si diano
risposte affrettate, perché chi parla è in grado di fare le debite smentite.
Ma
diamo uno sguardo alle attuali giacenze relative a precorsi esercizi. Nel 1995
abbiamo avuto n.° 847.455 azioni acquistate per essere cedute tutte quante,
unitamente ad altre n.° 812.545 in portafoglio, alla Banca padrona di Roma
all’identico prezzo d’acquisto - o forse al ridotto valore bilancio - di L. 8.000, senza alcuna
commissione o provvigione per l’intermediazione prestata dalla nostra banca.
Anche allora non vi era conflitto d’interesse? Si reputa di non dovere dare
neppure ora una qualsiasi spiegazione?
Sarebbe
interessante conoscere i motivi degli acquisti del 23/6/95 (delibera del
9/5/95) per complessivo numero 249.290 per l’ammontare di L. 1.994.320.000.
Perché furono taciuti i motivi? Non furono anche allora praticate
discriminazioni? Del pari ci vogliono almeno ora dire loro signori che cosa li
spinse a fare gli acquisti del 10/7/1995 (delibera del 9/5/95) e quelli del
13/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 18/7/1995 (delibera del 9/5/95) e
quelli del 18/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/7/95 (delibera del
9/5/95) e quelli del 24/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 13/9/95
(delibera del 9/5/95) e quelli per n.° 102.000 azioni del 14/9/1995 (delibera
del 9/5/1995) e quelli del 27/9/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 23/10/95
(delibera del 9/5/95) e quelli del 24/10/95 (delibera del 9/5/95).
Passando
al 1996 sarebbe ora di spiegare l’ordine dei motivi che hanno spinto
all’acquisto di n.° 207.330 azioni, soffermandosi in particolare su queste
operazioni: data 18/7/96 (delibera 13/6/96; data 17/10/96 (delibera 12/9/96) e
soprattutto sull’acquisto di n.° 120.000 (per un importo di Lire 960 milioni)
del 31/12/1996 (delibera del 9/12/96) mentre ad altro socio si negava la
compensazione per cifre di gran lunga inferiori. Si è forse mai detto qualcosa
in proposito? L’art. 3 n.2 lettera b) del decreto legsl. 87 del 27 gennaio 1992
forse è stato abrogato ad insaputa dei consulenti del PM? Noi non l’abbiamo
letto nell’elenco delle norme abrogate di cui all’art. 161 del D.LV. 1°
settembre 1993, n.° 385. O forse si reputa che le leggi valevano per i vecchi
signorotti potentini ma non possono avere valore tranchant per gli uomini dei
grandi potentati bancari romani?
* * *
Anche
per stanchezza, tagliamo a questo punto, con riserva comunque per ogni altro
aspetto censurabile che per caso dovesse essere sfuggito. Gli ultimi nostri
rilievi critici riguardano la proposta di ripianamento delle perdite del 1997.
Lor signori hanno voluto svuotare la posta del passivo: fondo sovrapprezzo
azioni pari a lire 101.385.862.156.- Quale disponibilità ne avevano e quale
legittimazione ne ha soprattutto il socio dominante. Rammentiamo a noi stessi che quel fondo è
stato costituito ancor prima dell’avvento della Banca di Roma. Al 31.12.1993 il
fondo era di Lire 106.185.458.756. Con l’avvento dei signori di Roma, il fondo
come si vede si è contratto. Nel 1996 una rastremazione per lire 3.956.269.000
è passata sotto il naso dell’assemblea dei soci. Ma se così è stato una volta
fatto non significa che si possa sempre fare. Ora l’assemblea deve essere
vigile. Il socio dominante non ha contribuito alla costituzione del fondo: sono
risparmi sudati dei vecchi, malconci soci ad averlo costituito. E’ obbligo
morale e giuridico mantenerlo sino all’estremo. Il socio dominante non può
quindi disporne; non può dilapidarlo. Il meno che si deve esigere che
nell’eventuale votazione al riguardo esso doverosamente si astenga e lasci
integra ai soci di minoranza la responsabilità della decisione. I soci di
minoranza dovrebbero essere un tantinello avveduti da capire che non è questione
formale e rigettare la proposta dei signori amministratori. Il bilancio
ritornerebbe indietro per le rettifiche di competenza. Se i soci di minoranza
non sono avveduti, pazienza. Almeno: chi è causa del proprio male pianga se
stesso. Va da sé che qualora il socio dominante faccia qui orecchio da mercante
e con il peso della sua maggioranza assoluta approvi egualmente
l’improponibile, vedremo in competente sede chi ha ragione. Noi almeno abbiamo
posto il problema e l’uomo avvisato dovrebbe essere mezzo salvato.
Altro aspetto inquietante di quel bilancio è stato quello di avere
voluto utilizzare l’avanzo di fusione. Si chiesero lor signori chiesti che cosa
fosse quell’avanzo di fusione? Non sanno forse che è mero residuo contabile del
compattamento delle poste di bilancio di due società fusesi? Non sono tanto
addentro alle segrete cose fiscali per cui la posta contabile è neutra fino a
che non se ne faccia un effettivo utilizzo? Abbiamo proprio voglia di andare a
pagare un mare di imposte solo per disattenzione? Magari, si penserà che nulla
si debba al fisco e si procederà come se niente fosse. Il futuro accertamento -
si sa che il SECIT ha un conto aperto con tali faccende di fusione - ricadrebbe
sulle spalle già martoriate dei poveri soci di minoranza.
PRIME CONSIDERAZIONI CRITICHE
Nell’intelaiatura,
nello spirito e nella lettera, tali contrapposizioni di taluni soci di
minoranza postulavano minuziose e
precise rettifiche degli organi consiliare e di controllo. Emerge che non solo
non è stata data risposta alcuna, ma risulta persino neppure presa in
considerazione e manco verbalizzata l’istanza del socio Taverna sulla questione
dei notori allegati ispettivi sul rischio creditizio al 31.12.1998.
Nulla
si precisa sul divario tra la ricostruzione Scattone e quella di Barbagallo in
tema di “sofferenza” (a quanto pare: L. 508,6 miliardi per il primo; L. 1.384
per il secondo). Trattasi di un vallo di L. 876 miliardi di deterioramento
creditizio che s’impatto con la gestione “Bancoroma”.
E
soprattutto nulla si rivela sulla ricuperabilità dei crediti secondo gli
ispettori: per Scattone erano prevedibili perdite – oltre quelle segnalate alla
Vigilanza - per L. 619 miliardi; per Barbagallo (stando alle notizie trapelate)
la gestione post 1994 aveva pretermesso di considerare decrementi prospettici
nella realizzabilità dei crediti per L. 257.587 milioni.
E’
questa cifra strategica nella valutazione di vari bilanci (specie quello ex
art. 2501 ter 2° c.): se le L. 168 miliardi di “rettifiche in chiave tuzioristica”
dei crediti, si riferiscono al recepimento delle doglianze ispettive (come
sembrerebbe cogliersi dalla relazione di bilancio – pagg. 12-13) e vi si
rifascino integralmente (il che appare dubbio), rimarrebbero scoperte ulteriori
previsioni di perdita per L. 90 miliardi.
Ne
consegue che qualora si aggiungono le certezze che in senso decrementativo
della compagine patrimoniale si colgono nell’erosa assistenza creditizia alle
quattro partecipate della banca (incomprensibilmente considerata “normale”
dall’ispettore B.I.), si perviene ad una perdita integrale del capitale già
nota alla data dell’ultima assemblea straordinaria dei soci. Le inadempienze ex
art. 2447 c. c. appaiono coerentemente inoppugnabili.
Su tali
scottanti aspetti, non pare che il collegio sindacale abbia mai avuto a ridire.
Tali scottanti aspetti – che pure in sede assembleare traspaiono – non pare che
siano stati adeguatamente vagliati dall’Organo di Vigilanza che pure – viene
relazionato (cfr. pag. 4 della relazione Reconta Ernst & Young – abbia
accordato in data 21 marzo 2000 (addirittura tre giorni prima della stesura di
detta relazione) “l’autorizzazione ai sensi dell’art. 57 del D. Lgs. 385/93
all’attuazione dell’operazione di fusione).
E – per
quello che qui conta – le varie società di revisione non hanno ritenuto di
porvi mente locale, pur potendo (e dovendo accedere) alla complessa
documentazione ispettiva, almeno quella relativa alla cosiddetta “parte aperta”
e pur dovendo recepire la vasta verbalizzazione delle doglianze dei soci di
minoranza, non foss’altro per procedere alla puntualizzazione della irrilevanza
giuridica, di bilancio e contabile di detti rilievi contestativi.
Non va
dimenticato che ai sensi dell’art. 2501 ter, 2° c., «la situazione patrimoniale
è redatta con l’osservanza delle norme sul bilancio di esercizio». Si sostiene
in dottrina che, pertanto, tale bilancio deve rispettare «non solo la struttura
.. ma anche i criteri prudenziali di valutazione per quest’ultimo stabiliti». E
se è vero che viene così «espressamente risolto un problema precedentemente
controverso», non potendosi più «sostenere che dalla situazione patrimoniale
dovesse risultare il valore effettivo della società» (cfr. Campobasso, Diritto delle Società, pag.
555), è ultroneo che dalla situazione de qua occorra partire per tutte le
eventuali rettifiche e per gli occorrenti conguagli nel rapporto di cambio. Una
base non veritiera, infedele, mutila inquina, senza ombra di dubbio, gli
“elementi di valutazione ulteriori rispetto all’effettivo valore dei patrimoni
delle società partecipanti alla fusione” (cfr. ibidem p. 555). Il bilancio semestrale fatto approvare il 9
novembre 1999 – aspramente rampognato dai soci di minoranza – è del tutto
prodromico a quello di fine anno, preso a base per la fusione. Sui c.d. tecnici
– specie quelli nominati dai tribunali – incombeva l’onere di asseverare la
fondatezza o meno dei rilievi critici dei soci, potendoli certo superare ma
motivatamente. Tanto non consta.
IL RAPPORTO DI CAMBIO SECONDO IL BILANCIO D’ESERCIZIO
Va qui peraltro precisato che siamo nel settore del
credito, capillarmente disciplinato dalla normativa di Vigilanza e con un
quadro contabile denominato della “Matrice”, ragion per cui non vi è molto
spazio per i c.d. tecnici di inventarsi valori di concambio esorbitanti dal
patrimonio di base o al limite dal c.d. “patrimonio di vigilanza”. Quello che
debbono appurare i tecnici è solo l’osservanza dei principi di chiarezza e
precisione, il rispetto del quadro fedele, ma soprattutto la rispondenza del
fattuale alle segnalazioni di Matrice.
Il fatto che i
vari tecnici del nostro caso neppure abbiano sfiorato siffatta tutt’altro che
agevole problematica, è oltremodo rivelatore della incongruenza valutativa.
La “semestrale”
della Mediterranea palesava scricchiolii informativi che potevano agevolmente
rilevarsi dallo spettro critico dei soci dissenzienti. Ancor più inaffidabile
si valuta qui il progetto di bilancio finale degli amministratori, traslato
acriticamente nel bilancio di fusione ex. art. 2501 ter e recepito dai tecnici
chiamati a stabilire la congruità del rapporto di cambio come mero e formale
adempimento di una non significativa norma di legge.
Ma un’appena
superficiale analisi dei bilanci di fusione della Banca Mediterranea e della
Banca di Roma porta alle seguenti risultanze:
BANCA DI ROMA –
bilancio a fine 1999
-
Patrimonio netto: L. 10.939.693.000.000;
-
Numero delle azioni: 5.350.016.750;
-
Rapporto PN/azioni: L. 2.044.
BANCA
MEDITERRANEA – BILANCIO A DINE 1999
-
Patrimonio netto: L. 102.567.208497;
-
Numero delle azioni: 73.162.476;
-
Rapporto PN/azioni: 1.401.
RAPPORTO BR/BM =
1,4589
|
RAPPORTO MB/BE =
0,68542.
E’ codesto punto
fermo da cui non si può divagare oltre misure e margini di iniqua ristrettezza.
Non è un caso se in interrogazioni parlamentari (cfr. ad es. la n. 4-16400 del
Sen. Giovanni Russo Spena ed altri) non si reputa prudente avventurarsi in
valutazioni appena appena risarcitorie nei confronti dei soci di minoranza
della Mediterranea.
Resta, poi,
l’aleatorietà della valutazione del patrimonio del mega-gruppo bancario che si
affastella sin troppo attorno al perno Banca di Roma. Le nuove acquisizioni del
tipo Banco di Sicilia, Mediocentrale e similari sono al centro dell’attenzione
delle autorità dell’antitrust e per converso impongono cautele in tema di
integrità patrimoniali che la stampa specializzata prudentemente ma
significativamente fa percepire con
espressioni criptiche del tipo «la qualità del credito dell’istituto romano è
ulteriormente peggiorata. Alla luce di queste considerazioni si preferisce
mantenere un orientamento neutrale/negativo sul titolo.»
In effetti si ha
una griglia impeditiva di apprezzamenti in qualche modo rettificative delle
strozzature di bilancio.
Quando i c.d.
tecnici si sganciano dai valori di bilancio delle due banche e si proietanno in
erratiche stime divaricanti si assumono responsabilità che in questa sede non
vale la pena neppure di additare.
Non si ignora
che una parte della dottrina giuridica è disposta a legittimare «un valore
effettivo del patrimonio» (cfr. op. cit. p. 555) divaricati rispetto a quello
emergente dal «bilancio di fuzione». Si afferma – con dubbio fondatamente,
secondo noi – che «la legge si astiene … dal fissare criteri direttivi per la
determinazione del rapporto di cambio; criteri che restano quindi affidati alla
discrezionalità tecnica (ma non
all’arbitrio) degli amministratori.» (ibidem). Eppure non si può non
annotare che il rapporto di cambio è caducabile quando sono emergenti – o
peggio evidenti - «dati incompleti o non veritieri» (ibidem nota sub 3) .. e
nel nostro caso non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Per contro
imbarazza il fatto che gli organi di controllo (interni ed esterni) sembra non
si siano accorti neppure di dissennatezze come le seguenti. Per arrivare un
rapporto di 5 a 2 - alquanto ipocritamente “per non danneggiare i soci di
minoranza, in effetti per legittimare la riemersione di un ammortamento in sede
di “semestrale” Banca di Roma dell’enfiata partecipazione nella Mediterranea –
i c.d. tecnici si sono letteralmente inventati queste divaricate parabole:
In altri
termini, mentre per la Banca Mediterranea v’è questo trend ascensionale del
patrimonio di fusione:
-
da 102 miliardi a 176 miliardi e da qui a 258 miliardi e da qui a 270 miliardi:
per la Banca di
Roma, nel cui ambito quel trend doveva crescere a dismisura, si ha questa
inspiegabile caduta:
-
da 10.940 miliardi si porta a 14.802 miliardi; ha
quindi un contenuto assestamento raggiungendo quota 15.967 miliardi per
ripiegarsi nella fase finale in un inverosimile risucchio verso il basso e cioè
a quota 12.945 miliardi.
Il fatto che i
tecnici si guardano bene dal fornire esplicitamente le masse patrimoniali
terminali, a base del con cambio, non è certo segno di inidoneità
professionale, ma indice di evidente imbarazzo espositivo. C’è da chiedersi se
davvero la Banca d’Italia nel fornire – se l’ha fornito – il benestare di legge
non si sia accorta della zoppa ed inaccettabile procedura estimativa.
Stante
l’assoluta inattendibilità del bilancio Mediterranea – sia per gli argomenti
sopra cennati sia per quelli che si diranno e sia ancora per quelli che si
potranno addurre nelle competenti sedi, ova occorra – ogni ricostruzione
estimativa è destinata a cadere.
L’UNICO CONCAMBIO ACCETTABILE
Disincagliandosi
dalle secche del netto patrimoniale
apparente, è possibile rinvenire, ma a ritroso, un aggancio
giuridicamente ammissibile per la costruzione del valore delle azioni della
fondenda Mediterranea.
Solo
riportandosi ad un istante prima della gestione Banca di Roma si coglie il
valore di tale azioni. In tempo ancor utile per rinvenire l’ultimo istante
dell’autonomia gestionale della Banca Mediterranea, questa azienda palesava un
patrimonio oltremodo robusto. Ancor oggi è possibile appurare che ogni sua
azione valeva L. 14.377,90.
Era evidente l’integrità patrimoniale – frutto magari di
agevolazioni ministeriali connessi ai benefici che si intesero accordare a
ristoro dei danni provocati dal noto terremoto dell’Irpinia – e coesa risultava
la totalità degli azionisti (qualche dissenso non si originava certo da
contrasti gestionali ma da moventi personalistici).
Si era
nell’ultimo scorcio dell’esercizio 1993 ed ascendeva il patrimonio a L. 545.706.222.421 che ripartito tra le
n° 37.954.498 azioni comportava un valore
unitario appunto di L. 14.378.
C’era un
frazionamento tale per cui nessuno poteva vantare un ruolo egemone; men che
meno poteva atteggiarsi a socio di maggioranza e soprattutto non v’era nessuna
maggioranza assoluta precostituita. In altri termini era la banca a base
diffusa e la struttura della base poteva qualificarsi democratica.
Tanto finché – per
pressioni della Vigilanza – non intervenne la Banca di Roma che
surrettiziamente ed attraverso manovre ancora non investigate poté acquisire
posizioni di risalto prima (30%) e quindi di maggioranza assoluta (53% viene
oggi dichiarato) senza esborsi di sorta a compenso di una tale scomposizione
dell’assetto sociale e cioè senza liquidare e ristorare chi da posizione
egualitaria finiva per passare a quella subalterna ed attualmente a quella di
insignificante minoranza.
Tale valore
unitario – L. 14.378 – può senza dubbio considerarsi ancora del tutto reale ed
integro. Le varie tosature – che a cadenza annuale si sono lamentate e
registrate dal 1993 al 1999 – non possono ascriversi ai soci di minoranza su
cui il socio di maggioranza, divenuto egemone in termini assoluti, ha fatto
ricadere il peso di onerose scelte gestionali per recupero di propri
investimenti o per occorrenze della capogruppo.
Non è questa la
sede per comprovare quanto qui affermato. All’occorrenza si produrranno prove
ed argomenti che sarebbe tedioso e defatigatorio farne qui anche sintetico
accenno.
La chiave di
lettura è stata comunque fornita sin dal novembre 1999, in occasione dell’assemblea
straordinaria. Qualche ulteriore spunto, a briglia sciolta ed a valore
antologico, lo si vuole esemplarmente fornire pure in questa sede impropria.
IL PRESTITO subordinato di L. 100 milioni
Il 9 novembre 1999, nell’assemblea straordinaria ex art.
2446 c.c., il C.di A. della Mediterranea relazionava di avere «deliberato
l’emissione di un prestito subordinato sotto forma di strumento ibrido di
patrimonializzazione di L. 100 mld.»
Nella relazione
al bilancio di fine esercizio 1999 lo stesso C. di A. fa sapere che «la banca
di Roma, per riequilibrare l’assetto patrimoniale della Mediterranea ha emesso
uno strumento ibrido di patrimonializzazione di lit. 100/miliardi» e,
contraddittoriamente, soggiunge che «per il superamento della crisi vissuta
dall’Azienda, la Capogruppo, di comune accordo con gli Organi Amministrativi
della Mediterranea, ha individuato nella fusione per incorporazione della
Mediterranea nella Banca di Roma e nel
successivo scorporo del ramo di azienda bancaria di Banca Mediterranea la
soluzione più idonea.» (Cfr. p. 1).
Qualche
annotazione su tale strumento ibribo di
patrimonializzazione: esso a nulla poteva giovare, atteso il
disastroso ordito valutativo cui gli uomini del socio egemone si sono indotti a
chiusura d’esercizio. Si consideri che “le passività subordinate non possono
eccedere il 50 per cento del ‘patrimonio di base’ (cfr. Appendice B.I. 1998,
pag. 283); si consideri anche che per un processo di ardite svalutazioni dei
crediti che gli stessi uomini del Banco di Roma dichiarano avvenute in “chiave
tuzioristica” – il che significa attraverso gonfiature di “riserve” – non si
era potuto raggiungere quel “minimum” di patrimonio di vigilanza; si sappia
che senza quel “minimum” nessuna banca
può continuare ad operare per norme giuspubblicistiche di settore. Tutto ciò
considerato, siffatto “strumento ibrido” è finito per palesarsi inutile e
dannoso per la BM ed indebitamente
locupletativo per il socio a maggioranza assoluta [alias BR].
Quest’ultimo
imponeva ai propri uomini – che recepivano – di contrarre un debito con la casa
madre di cui la BM obiettivamente non necessitava: si frapponeva infatti il
sovrabbondante cash flow alla cui lievitazione non mancava di
contribuire la notoria riluttanza degli uomini del banco a finanziare
l’industria locale (vedi la stasi degli impieghi, in decremento se si depurano
delle pesanti capitalizzazioni degli interessi di fine esercizio). Aggiungasi
il basso rapporto impieghi/depositi che ha determinato un ulteriore aggravio
dei già critici saggi di rendimento gestionale.
Ovvio che, presumendosi l’assolta inidoneità
dei soci di minoranza – e di quelli più deboli in particolare, più numerosi e
quindi più facilmente obnubinabili – il C. di A. della Mediterranea ha creduto
sufficiente licenziare la precisazione che abbiamo appena sopra citata, nella
relazione di legge a corredo della loro proposta di bilancio.
Quanto di
contraddittorio e di capzioso si sottende nel passo citato è di tutta evidenza.
Ma non può il socio di minoranza avere capacità tecniche sufficienti a
contrastare la Banca di Roma socia al
53% ad onta di tutte le norme anti-trust
Alla voce 110 di
fine esercizio abbiamo – si pensi - una
“passività subordinata” di L. 100 miliardi che stando a ciò che si annota – a caratteri
piccolissimi a pag. 43 - è “passività subordinata” «… riferita ad un prestito di L. 100 miliardi ricevuto dalla Capogruppo
Banca di Roma. Esso è regolato al tasso Eurobar a 6 mesi diminuito dello 0,10%,
prevede una durata di almeno 10 anni e il rimborso in unica soluzione alla
scadenza, previa autorizzazione della Banca d’Italia. Le clausole di
subordinazione che disciplinano il contratto consentono, in caso di perdite di
bilancio che determinino una situazione del capitale versato e delle riserve al
di sotto del livello minimo di capitale previsto per l’autorizzazione
all’attività finanziaria, che le somme rivenienti dal finanziamento e dagli
interessi maturati possano essere utilizzate per far fronte alle perdite al
fine di consentire alla Banca di
continuare.»
Ammesso e non
concesso che questa sia un’informativa accessibile ai soci sprovveduti, emerge ictu oculi che si è deciso aliunde di non far più “continuare” la
Banca: è dunque venuto meno ogni motivo per un siffatto iugulatorio prestito.
Ed era prestito che non poteva essere deciso dagli amministratori della BM, per
evidente conflitto di interessi; che non poteva essere deciso dalla
“maggioranza” dei soci, per lo stesso conflitto di interesse del socio tiranno;
che semmai andava fatto decidere ai soli
soci di minoranza, il che notoriamente non è avvenuto.
E così, con
qualche disinvoltura e forse con reticenza, si adempie formalisticamente ai
dettati della vigilanza sugli schemi di conto economico delle banche per
affastellare incomprensibili cifre sul “conto economico riclassificato” (cfr.
pag. 17). Il linguaggio algoritmico diviene ulteriore velame alla
comprensibilità degli inspiegabili (e non svelati) crolli gestionali in tema di
-
“margine gestione denaro” (erraticamente contrattosi
nel 1999 del 22,77%),
-
“utili netti operazioni finanziarie” (astuzia lessica
per non dire “crollo reddituale”) contrattisi e ribaltatisi del 170,22%;
-
“risultato lordo di gestione” passato dagli 80,8
miliardi di resa del 1998 ad un valore pesantemente negativo di meno 93,7 miliardi;
-
“risultato ante
imposte” di meno 272,887 miliardi,
con un peggioramento di gestione al saggio decrementativo del 653,50%.
Tanto avrebbe
dovuto mettere sull’avviso il perito di nomina pubblica – la RECONTA ERNST
& YUNG di Roma – che si era in presenza di un bilancio dubbio e forse
falso, apparentemente non veritiero; un bilancio concepito in sospetto
conflitto d’interessi e quindi passibile di segnalazione alle autorità
competenti, non mancandosi comunque di ragguagliare il Presidente del Tribunale
di Melfi che mancava il requisito primo di una “situazione patrimoniale ..
redatta con l’osservanza delle norme sul bilancio di esercizio” di cui al
secondo comma dell’art. 2501 ter del
codice civile; emergeva pertanto che – fino ad un nuovo progetto di bilancio
vero e reale – non era praticabile alcuna seria e fondata quantificazione dei
rapporti di cambio per la fusione. Ciò pare sia stato del tutto ignorato.
Ciò avrebbe
dovuto spingere la Banca d’Italia ad essere forse alquanto più cauta nel
concedere l’autorizzazione di cui all’art. 57 del TULB.
Del pari,
qualche ripensamento avrebbe dovuto esserci presso la Consob: Banca di Roma prima svaluta e poi ripristina al costo
la partecipazione maggioritaria presso la Mediterranea. E ciò non tanto per supino
rispetto verso i propri tecnici, ma, stando a quel che appare predisporre
un’agile traslazione, senza inceppi rivalutativi del proprio specifico attivo
nella divisata «società bancaria di nuova costituzione, controllata
totalitariamente dalla Banca di Roma.»
E qui davvero
c’è da pensare in ordine al fatto che possa darsi per scontato un nugolo di
autorizzazioni della Banca d’Italia “ante litteram”, a futura memoria, in
palese disapplicazione delle norme
avverso il “socio unico” e con elusione di quanto comunitariamente stabilito in
tema di concentrazioni bancarie.
Né Banca
d’Italia né Consob pare abbiano sinora ritenuto opportuno esigere rettifiche su
questo passaggio della relazione al bilancio della società incorporante:
«Per quanto
riguarda la Banca Mediterranea, il valore di carico è stato mantenuto a 226
miliardi [ma nella semestrale non era stata svalutata? n.d.r.] Esso si raffronta con un patrimonio netto totale di 102,6
miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca di Roma (53 per cento
circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il controllo di Banca
Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli investimenti effettuati
che produrranno effetti a partire dal 2000, costituisca un valore che
giustifica il mantenimento del valore di carico. Del resto, le perizie effettuate da advisor
indipendenti per determinare il valore di concambio ai fini della prevista
fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca
di Roma un valore che eccede il valore di carico.»
Orbene, il c.d.
“valore di carico” non può che essere questo:
-
Costo residuo della partecipazione: L.
226.000.000.000.=
-
N.ro azioni possedute: n. 38.840.319.=
-
Valore unitario: L. 5.818,696.=
Da qui forse il non pregevole
itinerario estimativo di quei “advisor” che hanno portato prima il valore di
bilancio della BM di L. 1401,91 a L. 2.435 (quasi un raddoppio) e poi a L.
3.570. Successivamente, essendo la stima ancora insufficiente, si salta ad un
concambio di 5 a 2, senza precisare la
parametrazione patrimoniale, in base ad un presunto valore di mercato di
banche consimili per la Mediterranea ed omettendo analogo calcolo per la Banca
di Roma.
Sennonché
quel 5 a 2 postula che le azioni della
Mediterranea al massimo varrebbe L. 5.112. Quindi la Banca di Roma nel suo bilancio non appare encomiabile
quanto a precisione. Si è lontani dalle proclamate L. 5818,696 così come inaccettabile è
l’affermazione che vorrebbe «il valore di concambio ai fini della
prevista fusione per incorporazione attribuito alla quota di pertinenza della
Banca di Roma [avere] un valore che eccede il valore di carico.»
Non può stupire
se i soci di minoranza della BM tendono a considerare quell’affermazione
alquanto lesiva dei loro diritti societari. La sincerità nelle rappresentazioni
delle valutazioni; la veridicità delle appostazioni di bilancio; la correttezza
nelle relazioni d’affari non paiono in questa occasione esemplari.
Quando, poi, si afferma (cfr. pag. 2 della
Relazione BM al progetto di fusione) che si è inteso adoperarsi per «la
salvaguardia dei diritti patrimoniali degli azionisti di minoranza» si è in
contraddizione con i citati assunti del socio egemone. Siamo in presenza di
espressioni elusive che possono apparire accorgimenti eziologicamente rivolti ad
espellere da una banca che solo nel 2000 prospererà (questo è stato detto nelle
relazioni di bilancio) i soci indesiderati per conseguire un vantaggio per il
socio egemone (dato che potrà traslare un attivo, in atto dubbio, in una
costituenda nuova banca, tutta di sua proprietà, locupletando in proprio in
correlazione al danno subito da altri). Per converso i soci minoritari
finiscono per soggiacere ad una sorta di estromissione coatta, nulla potendo
contro lo strapotere assembleare del socio di maggioranza assoluta.
LA PERDITA DEL CONTROLLO SOCIETARIO
Non appare
questa la sede per rievocare la vicenda dell’ingresso della Banca di Roma nella
compagine societaria della Banca di Roma. Qualche dato è stato già fornito. Non
sembra del tutto corretto asserire che l’istituto romano sia divenuto socio
quasi unico in un sol colpo, nel 1995. Le tante assemblee straordinarie del
1994 prima e del 1995, dopo, stanno lì a testimoniare il fatto che da una
partecipazione minoritaria e pressoché irrilevante si è passati ad una
partecipazione cospicua del 30% per finire in quella massiccia attuale che pare
trascenda di fatto il 53% dichiarato.
E’ inoppugnabile
che la Banca di Roma non ha mai pagato azioni Mediterranea sopra le L. 8.000; o
meglio: il patto iniziale di acquistare a L. 15.000 si è modificato a seguito
di valutazioni fatte con criteri non del tutto in linea con quelli che ora
vengono proposti dagli advisor.
Fuor di dubbio
che nessun premio di maggioranza è gravato sull’acquirente del tempo. Tanto ora
non può che essere corrisposto ai soci del tempo – se sopravvissuti – a titolo
risarcitorio. In altri termini è questione di equità, di giustizia applicata al
caso concreto, recuperare in sede di estinzione della tradizionale Banca
Mediterranea ciò che venne meno nei processi di aggiustamento della compagine
societaria, in definitiva voluti dall’estranea Banca d’Italia.
Allora non si
corrispose quella giusta integrazione di prezzo sia perché scriveva come
scriveva il direttore della locale Filiale B.I. (vedi sopra) sia perché si
diceva e si ammoniva l’assemblea dei soci che con la presenza della Banca di
Roma cosiddette “sinergie” entravano nell’asfittica potenzialità di crescita
della Banca Mediterranea.
Facile oggi
richiamare i rilievi dell’ultima ispezione B.I. per sottolineare carenze
addebitabili al nuovo assetto amministrativo come:
-
la circostanza che “ancorché note da almeno un
quinquennio, solo da pochi mesi sono state avviate a soluzione le mancate
problematiche del sistema informatico, obsoleto, scarsamente integrato ed
assoggettato ad una disordinata e poco documentata opera di intervento manuale
e di personalizzazione delle procedure”. E guarda caso, s’inizia il risanamento
e si estingue la banca con l’istituto dell’incorporazione da parte del socio egemone;
-
rimarchevole «l’inadeguatezza dell’apparato contabile e
di quello segnalatecico, nonché dei sistemi di controllo interno e
direzionale.» Aspetto tanto più grave se si tien conto dello smantellamento
delle connaturali strutture della Mediterranea e dei gravi costi per
l’introduzione degli alieni ed abnormi sistemi consoni all’istituto romano;
-
«scrutinio e monitoraggio del credito – interessati da
manchevolezze ed incoerenti con l’ipotizzata espansione del comparto.» E
siffatto nevralgico comparto è quello che si contraddistingue con la pesante
involuzione delle sofferenze prima additata e soprattutto con il deterioramento
del grado di ricuperabilità dei dubbi realizzi;
-
«contenzioso lento ed incompleto» ad onta dei gravami
del conto economico che hanno impedito all’azienda di prosperare;
-
«ritardi nell’appostazione di sofferenze»: i misteri di
posizioni contrassegnati con i codice CR 4433672; 6439964 e 5114286 forse
stanno avendo acconcio disvelamento, ma in sedi alquanto scabrose;
-
“numerosi rapporti … risultano di fatto abbandonati”
forse sol perché ritenuti “di ammontare non elevato”, e tanti piccoli rivi
fanno un fiume;
-
«le previsioni di perdita non sempre sono guidati da
criteri univoci, volti ad assicurare una tendenziale oggettività e omogeneità
valutativa.»
E si potrebbe
continuare. Resta però inspiegabile perché i c.d. tecnici della fusione non
sfiorino neppure siffatti scottanti aspetti. Avrebbero dovuto chiedere ad
esempio la seguente documentazione e farne dei circospetti ma esaustivi
ragguagli. Senza contemplare tali risvolti gestionali ogni giudizio sulla
congruità del con cambio è a dir poco malcerto.
Non ci risulta
che siano stati vagliati i risultati di esercizio tenendo presenti:
-
le decisioni degli amministratori delagati dell’ultimo
triennio;
-
le pratiche di fido (centrali nella gestione di una
banca);
-
la corrispondenza con la banca socia;
-
i rapporti ispettivi interni (vedi rilievo n. 8);
-
atti, lettere e corrispondenza idonei a controdedurre
al rilievo sub 11);
-
la parte aperta delle due ultime due ispezioni della
Banca d’Italia.
Sono
pretermissioni che da un lato avvalorano la nostra stima sul giusto peso delle
azioni Mediterranee, desumibile solo dalla pregestione Banca di Roma, pari cioè
a L. 14.378 e dall’altro impongono la refusione del premio di maggioranza a suo
tempo non corrisposto dal neo-socio Banca di Roma.
Non si nega che
tale valore non è facilmente quantificabile, ma il giusto mezzo tra un minimo
del 15% del valore dell’azione al tempo dell’ ingresso maggioritario della
Banca di Roma ed un massimo del 20% porta ad un’integrazione pari a L. 2.500
per azione dei soci di minoranza. Siffatta integrazione esula dai vincoli
dell’art. 2501 bis terzo comma, trattandosi di atto risarcitorio e può quindi
essere corrisposta in contanti.
LA NUOVA BANCA MEDITERRANEA
La
Banca d’Italia si era premurata di far sapere in Parlamento che «Mediterranea e
Banca di Roma, in qualità di capogruppo, [dovevano] redigere, in tempi brevi,
un dettagliato piano di risanamento, nel quale fossero previsti adeguati
interventi di ricapitalizzazione e fossero formulate coerenti previsioni di
crescita degli aggregati patrimoniali, economici e finanziari.» Non pare che si
privilegiasse l’ipotesi dello scioglimento della banca Mediterranea, sia pure
sotto forma di fusione mediante incorporazione. Se qualche avvocato romano
sostiene che tale ultima via fosse la sola percorribile per volere della B.I.
si assume non poche responsabilità.
Purtroppo, dopo
ondivaghi atteggiamenti, torna comodo alla B.R. tale forma di estinzione della
sua partecipata. In effetti, basta l’emissione di n° 83.708.730 nuove azioni
(al massimo) per un importo complessivo di L. 41.854.365.000 per tacitare tutte
le ragioni dei vecchi soci della Mediterranea. Con una semplice scrittura
contabile del tipo:
-
dare conto
“fusione” avere capitale sociale: L.
41.854.365.000:=
per chiudere la partita.
Nasce un certo
annacquamento del capitale che a nostro sommesso avviso rastremerà il valore
contabile della singola azione BR forse attorno a L. 1.972 (con ulteriore
lesione del concambio delle azioni della Mediterranea), ma tanto non risulta
interessare alcuna autorità di controllo.
Al conto fusione
accederà anche l’attuale partecipazione, riportata non al costo storico come si
dice da parte degli amministratori della BR ma a quello del precedente
esercizio al momento pari a L. 226.000.000.000 (salvo rettifiche per
sopraggiunti acquisti o per emersione di sistemazioni varie).
Il complessivo
importo di siffatta voce dell’attivo (L. 268 miliardi al massimo) ha già una
sua destinazione: pare che verrà qualificato come effettivo e veridico apporto
di capitali alla divisata nuova banca «al fine di preservare una serie di
vantaggi competitivi connessi al mantenimento del marchio ed al radicamento
territoriale» (Cfr. Relazione C.di A. Mediterranea, pag.1)
Si reputa di far
sapere ai vecchi soci della Mediterranea che:
-
«vi è stata una sostanziale tenuta della Banca
Mediterranea nelle posizioni sul mercato di riferimento» (cfr. ibidem p. 10»
-
«frutto di una costante ed attiva presenza sul mercato»
(cfr. ibidem p. 11);
-
«grazie anche alla sviluppo di sinergie commerciali con
le società del Gruppo Bancoroma» (ibidem p. 11);
-
In definitiva, «da tali linee di azione, unitamente
alle scelte di riorganizzazione tecnologica ed amministrativa, alla
valorizzazione delle risorse umane, alle sinergie derivanti dall’appartenenza
ad un gruppo ampio, integrato ed in evoluzione, si attendono il continuo
miglioramento della qualità degli impieghi ed il rafforzamento del ruolo della
Banca quale interlocutore privilegiato del mondo produttivo e soggetto attivo
di propulsione e di sviluppo, pronto a cogliere in via anticipata i segnali che
vengono dai territori e dalle istituzioni» (ibidem, p. 12).
Invero non pare
che l’Organo di Vigilanza sia d’accordo se in una «recente visita», sia pure
«di norma», ha riconsiderato «in chiave più critica le componenti aziendali
strutturali, patrimoniali ed economiche.» Ma, non pare equo che i soci di
minoranza vengano radiati e non possano in alcun modo godere dei frutti dei
loro ormai ultraquinquennali sacrifici.
Ai soci della
Mediterranea viene infatti precluso ogni accesso nell’ente che risorgerà dalle
ceneri della banca che loro hanno fondato, sviluppato, radicato nel territorio,
consegnato al nuovo socio egemone con una dote cospicua patrimoniale e che
altri ha affossato e dissolto in una “incorporazione” letale. Bancaroma scrive:
«è stato peraltro predisposto un progetto di fusione per incorporazione nella
Banca di Roma. E’ inoltre prevista, a seguire, un’operazione di scorporo di
parte della Banca Mediterranea in una società di nuova costituzione,
controllata totalitariamente dalla Banca di Roma. Questa soluzione offre al
nostro Gruppo la possibilità di salvaguardare le importanti potenzialità
competitive presenti nella rete della Banca Mediterranea, in funzione
soprattutto delle sue caratteristiche di localismo e di radicamento
territoriale, attraverso un nuovo organismo atto ad assicurare migliori
prospettive di profittabilità.» (Relazione Bilancio BR, p. 61) Ma tali
«potenzialità competitive» in parte sono di pertinenza degli estromettendi
soci. Giustizia impone che vengano risarciti.
L’attribuzione ad ogni vecchia azione
Mediterranea dell’opzione a sottoscrivere alla pari le azioni della costituenda società bancaria
– totalmente riveniente dalla Mediterranea – si rende quindi ineludibile: pena
prevedibilissime azioni giudiziarie.
Del resto è la stessa Banca di Roma che implicitamente
riconosce l’inadeguatezza del concambio di 5 a 2. A pag. 96 della cennata
relazione si afferma: «Per quanto riguarda la Banca Mediterranea, il valore di
carico è stato mantenuto a 226 miliardi. Esso si raffronta con un patrimonio
netto totale di 102,6 miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca
di Roma (53 per cento circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il
controllo di Banca Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli
investimenti effettuati che produrranno effetti già a partire dal 2000,
costituisca un valore che giustifica il mantenimento del valore di carico. Del
resto, le perizie effettuate da advisor indipendenti per determinare il valore
di concambio ai fini della prevista
fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della
Banca di Roma un valore che eccede il valore di carico. E’ da aggiungere infine
che la valutazione è confermata anche da offerte di acquisto pervenute da
potenziali acquirenti.».
Duole dover
controbattere:
-
se positivi effetti sono previsti «a partire dal 2000»,
del tutto ingiustificata è la sostanziale soppressione di una banca vitale;
-
il valore di carico risulta forse pari a L. 5.094,
mentre quello che percepirà il socio minoritario BM, dopo le dilatazioni del
capitale della BR per estromissione dei soci di minoranza BM, difficilmente supererà
le L. 4.930 (rapporti precisi non sono possibili per difetto di informazione
societaria);
-
prudenza imporrebbe di non accreditare tesi azzardate
in materia di azioni quotate in borsa e di evitare frasi come questa: «advisor
indipendenti … attribuiscono … un valore che eccede il valore di carico»;
-
se «potenziali acquirenti» erano disposti a subentrare
nella partecipazione, era quella la via non solo auspicabile ma da percorrere
doverosamente per evitare i danni inflitti ai soci di minoranza. Se non si era
stati in grado di amministrare, si poteva almeno essere avveduti nel vendere.
CONCLUSIONI
Gli advisor “indipendenti” hanno redatto perizie i cui
limiti crediamo di affare dimostrato abbondantemente. Non sono pochi i soci
di minoranza che non si reputano soddisfatti dal concambio che viene proposto
(5 a 2).
Per tutta una
serie di considerazioni, pare essere equo un concambio radicato nel valore
storico delle azioni della Mediterranea, o meglio che tenga conto
dell’effettivo netto patrimoniale, prima delle tosature per gestioni
imputabili a centri estranei dagli interessi dei soci minoritari.
Di tal che,
un’azione della Mediterranea si aggira sulle L. 14.378 che in relazione al
valore corrente delle azioni Bancoroma comporta un concambio di 7 azioni BR
per ogni azione BM.
Va inoltre
rifuso il premio di maggioranza, a suo tempo non corrisposto, e commisurabile
in L. 2.500, da corrispondere in contanti, data la sua natura risarcitoria.
I soci di
minoranza della Mediterranea non possono venire esclusi dalla divisata nuova
banca che altro non è che la stessa Mediterranea, neppure troppo modificata.
Il rapporto societario trascende il valore economico e specie nell’ambito
bancario – ove ha peso l’art. 19 del TULB – esso è insopprimibile per sola
volontà del socio maggioritario. Conseguentemente, va accordata per ogni
vecchia azione un’opzione azionaria alla pari nella divisata nuova società
bancaria.
La presente
relazione è del tutto finalizzata alla tutela delle ragioni patrimoniali e
morali di taluni soci di minoranza della Banca Mediterranea che ne hanno
fatto esplicita richiesta. Non può pertanto avere valore diverso di
un’opinione che comunque viene espressa secondo scienza e coscienza e che
scaturisce da esperienze quarantennali nel settore delle verifiche bancarie.
Racalmuto, 25
aprile 2000.
Dott. Calogero Taverna,
ex ispettore di vigilanza bancaria della
Banca d’Italia ed ex ispettore del SECIT, Ministero delle Finanze. – Socio di
minoranza della Banca Mediterranea.
…………………………………….
Dott. Giuseppe Taverna,
dottore in giurisprudenza.
…………………………………..
St. Un. Cinzia Leone,
laureanda in
giurisprudenza.
|
………………………………….
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