lunedì 7 aprile 2014

seconda parte


Un punto dolente - dolentissimo - è la voce 120: Azioni o quote proprie (valore nominale Lit. 4.193.325) : al 30/6/1999 L. 5.921.061.000. Ci saremmo aspettati un profluvio di parole (giustificatrici); invece niente. Un incremento di acquisti azionari propri nel bel mentre si verificava un crollo verticale della redditività e delle valenze patrimoniali è davvero una rimarchevole contraddizione. Ci dispiace per quei soci adunatisi il 12 febbraio del 1998: qui la banca sembra agire in senso diametralmente opposto ai loro flebili lamenti. (Ricordate quel passaggio sull’ «impressione di considerare tali azioni come di poco valore”?)  Non credo che lor signori reputino esaustive degli obblighi di legge quello che dicono nella nota. Là - scolasticamente - si ripete la lezioncina dei testi elementari di diritto commerciale: «Le azioni proprie sono iscritte in bilancio al costo. Alle stesse si applica la disciplina prevista dall’art. 2357 e seguenti C.C.»  E vorrei vedere che si dicesse il contrario? Il ragguaglio è del tutto tautologico. Si dirà che basta ed avanza la tabella di pag. 46. E no, cari signori. Leggetevi la pag. 60 della consulenza Sandulli-Scorza che Simonetti ha divulgato. Ad ogni buon conto la leggiamo noi per voi. «Alla luce delle considerazioni che precedono, vanno lette, dunque, tutte le indicazioni che gli amministratori hanno ritenuto di dover fornire nel bilancio relativo ... e vanno anche apprezzate le omissioni delle relazioni sulla questione in ordine ai motivi degli acquisti di azioni proprie da ... , informazioni dovute  in base alle nuove norme in materia di bilanci bancari. Ed infatti, l’art. 3 del decreto legsl. 87 del 27 gennaio 1992 prevede che nella relazione sulla gestione siano indicate “il numero delle azioni o quote proprie sia delle azioni o quote dell’impresa controllante detenute in portafoglio, di quelle acquistate e di quelle alienate nel corso dell’esercizio, le corrispondenti quote di capitale sottoscritto, i motivi degli acquisti e delle alienazioni ed i corrispettivi.»

Non fraintendiamo, dove sono tutti siffatti elementi? Nella tavola di pag. 46 riusciamo a sapere che nello scorcio di esercizio vi sono stati acquisti per n.° 15.500 azioni proprie, ma rispetto al precedente giugno del 1998 risulta un incremento per L. 2411653/m).  Quello che è grave che ancora una volta gli amministratori non pare che abbiano voglia di essere trasparenti in sede di bilancio in ordine a) alle corrispondenti quote di capitale sottoscritto; b) e soprattutto in tema di “motivi degli acquisti e delle vendite”. Almeno in questa sede ci si vuol dire quali motivi sussistono in ordine ai seguenti acquisti:

      data operazione                 data delibera                    n.° azioni

2/1/97
9/12/96
4.000
3/1/97
9/12/96
72.000
21/2/97
9/12/96
3.000
5/3/97
25/2/97
14.290
27/3/97
20/3/97
8.000
8/4/97
20/3/97
1.404
29/4/97
28/4/97
43.142
20/5/97
21/4/97
9.000
21/5/97
21/4/97
8.760
7/7/97
30/6/97
1.000
15/7/97
30/6/97
6.000
17/7/97
30/6/97
4.000
28/7/97
30/6/97
10.000
28/7/97
21/4/97
1.000
1/8/97
30/6/97
5.000
5/9/97
30/6/97
19.500
9/9/97
30/6/97
2.000
17/10/97
21/4/97
3.750
Totale
 
215.846

 

 

Quali le ragioni per preferire codesti acquisti (e quelli successivi) a danno di altri soci esclusi? Si deve escludere la semplice discriminazione? Non si diano risposte affrettate, perché chi parla è in grado di fare le debite smentite.

Ma diamo uno sguardo alle attuali giacenze relative a precorsi esercizi. Nel 1995 abbiamo avuto n.° 847.455 azioni acquistate per essere cedute tutte quante, unitamente ad altre n.° 812.545 in portafoglio, alla Banca padrona di Roma all’identico prezzo d’acquisto - o forse al ridotto valore  bilancio - di L. 8.000, senza alcuna commissione o provvigione per l’intermediazione prestata dalla nostra banca. Anche allora non vi era conflitto d’interesse? Si reputa di non dovere dare neppure ora una qualsiasi spiegazione?

Sarebbe interessante conoscere i motivi degli acquisti del 23/6/95 (delibera del 9/5/95) per complessivo numero 249.290 per l’ammontare di L. 1.994.320.000. Perché furono taciuti i motivi? Non furono anche allora praticate discriminazioni? Del pari ci vogliono almeno ora dire loro signori che cosa li spinse a fare gli acquisti del 10/7/1995 (delibera del 9/5/95) e quelli del 13/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 18/7/1995 (delibera del 9/5/95) e quelli del 18/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 13/9/95 (delibera del 9/5/95) e quelli per n.° 102.000 azioni del 14/9/1995 (delibera del 9/5/1995) e quelli del 27/9/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 23/10/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/10/95 (delibera del 9/5/95).

Passando al 1996 sarebbe ora di spiegare l’ordine dei motivi che hanno spinto all’acquisto di n.° 207.330 azioni, soffermandosi in particolare su queste operazioni: data 18/7/96 (delibera 13/6/96; data 17/10/96 (delibera 12/9/96) e soprattutto sull’acquisto di n.° 120.000 (per un importo di Lire 960 milioni) del 31/12/1996 (delibera del 9/12/96) mentre ad altro socio si negava la compensazione per cifre di gran lunga inferiori. Si è forse mai detto qualcosa in proposito? L’art. 3 n.2 lettera b) del decreto legsl. 87 del 27 gennaio 1992 forse è stato abrogato ad insaputa dei consulenti del PM? Noi non l’abbiamo letto nell’elenco delle norme abrogate di cui all’art. 161 del D.LV. 1° settembre 1993, n.° 385. O forse si reputa che le leggi valevano per i vecchi signorotti potentini ma non possono avere valore tranchant per gli uomini dei grandi potentati bancari romani?

 

 

 

 

*   *   *

Anche per stanchezza, tagliamo a questo punto, con riserva comunque per ogni altro aspetto censurabile che per caso dovesse essere sfuggito. Gli ultimi nostri rilievi critici riguardano la proposta di ripianamento delle perdite del 1997. Lor signori hanno voluto svuotare la posta del passivo: fondo sovrapprezzo azioni pari a lire 101.385.862.156.- Quale disponibilità ne avevano e quale legittimazione ne ha soprattutto il socio dominante.  Rammentiamo a noi stessi che quel fondo è stato costituito ancor prima dell’avvento della Banca di Roma. Al 31.12.1993 il fondo era di Lire 106.185.458.756. Con l’avvento dei signori di Roma, il fondo come si vede si è contratto. Nel 1996 una rastremazione per lire 3.956.269.000 è passata sotto il naso dell’assemblea dei soci. Ma se così è stato una volta fatto non significa che si possa sempre fare. Ora l’assemblea deve essere vigile. Il socio dominante non ha contribuito alla costituzione del fondo: sono risparmi sudati dei vecchi, malconci soci ad averlo costituito. E’ obbligo morale e giuridico mantenerlo sino all’estremo. Il socio dominante non può quindi disporne; non può dilapidarlo. Il meno che si deve esigere che nell’eventuale votazione al riguardo esso doverosamente si astenga e lasci integra ai soci di minoranza la responsabilità della decisione. I soci di minoranza dovrebbero essere un tantinello avveduti da capire che non è questione formale e rigettare la proposta dei signori amministratori. Il bilancio ritornerebbe indietro per le rettifiche di competenza. Se i soci di minoranza non sono avveduti, pazienza. Almeno: chi è causa del proprio male pianga se stesso. Va da sé che qualora il socio dominante faccia qui orecchio da mercante e con il peso della sua maggioranza assoluta approvi egualmente l’improponibile, vedremo in competente sede chi ha ragione. Noi almeno abbiamo posto il problema e l’uomo avvisato dovrebbe essere mezzo salvato.

Altro aspetto inquietante di quel bilancio è stato quello di avere voluto utilizzare l’avanzo di fusione. Si chiesero lor signori chiesti che cosa fosse quell’avanzo di fusione? Non sanno forse che è mero residuo contabile del compattamento delle poste di bilancio di due società fusesi? Non sono tanto addentro alle segrete cose fiscali per cui la posta contabile è neutra fino a che non se ne faccia un effettivo utilizzo? Abbiamo proprio voglia di andare a pagare un mare di imposte solo per disattenzione? Magari, si penserà che nulla si debba al fisco e si procederà come se niente fosse. Il futuro accertamento - si sa che il SECIT ha un conto aperto con tali faccende di fusione - ricadrebbe sulle spalle già martoriate dei poveri soci di minoranza.

 

 

 

PRIME CONSIDERAZIONI CRITICHE


 

        

Nell’intelaiatura, nello spirito e nella lettera, tali contrapposizioni di taluni soci di minoranza  postulavano minuziose e precise rettifiche degli organi consiliare e di controllo. Emerge che non solo non è stata data risposta alcuna, ma risulta persino neppure presa in considerazione e manco verbalizzata l’istanza del socio Taverna sulla questione dei notori allegati ispettivi sul rischio creditizio al 31.12.1998.

Nulla si precisa sul divario tra la ricostruzione Scattone e quella di Barbagallo in tema di “sofferenza” (a quanto pare: L. 508,6 miliardi per il primo; L. 1.384 per il secondo). Trattasi di un vallo di L. 876 miliardi di deterioramento creditizio che s’impatto con la gestione “Bancoroma”.

E soprattutto nulla si rivela sulla ricuperabilità dei crediti secondo gli ispettori: per Scattone erano prevedibili perdite – oltre quelle segnalate alla Vigilanza - per L. 619 miliardi; per Barbagallo (stando alle notizie trapelate) la gestione post 1994 aveva pretermesso di considerare decrementi prospettici nella realizzabilità dei crediti per L. 257.587 milioni.

E’ questa cifra strategica nella valutazione di vari bilanci (specie quello ex art. 2501 ter 2° c.): se le L. 168 miliardi di “rettifiche in chiave tuzioristica” dei crediti, si riferiscono al recepimento delle doglianze ispettive (come sembrerebbe cogliersi dalla relazione di bilancio – pagg. 12-13) e vi si rifascino integralmente (il che appare dubbio), rimarrebbero scoperte ulteriori previsioni di perdita per L. 90 miliardi.

Ne consegue che qualora si aggiungono le certezze che in senso decrementativo della compagine patrimoniale si colgono nell’erosa assistenza creditizia alle quattro partecipate della banca (incomprensibilmente considerata “normale” dall’ispettore B.I.), si perviene ad una perdita integrale del capitale già nota alla data dell’ultima assemblea straordinaria dei soci. Le inadempienze ex art. 2447 c. c. appaiono coerentemente inoppugnabili.

Su tali scottanti aspetti, non pare che il collegio sindacale abbia mai avuto a ridire. Tali scottanti aspetti – che pure in sede assembleare traspaiono – non pare che siano stati adeguatamente vagliati dall’Organo di Vigilanza che pure – viene relazionato (cfr. pag. 4 della relazione Reconta Ernst & Young – abbia accordato in data 21 marzo 2000 (addirittura tre giorni prima della stesura di detta relazione) “l’autorizzazione ai sensi dell’art. 57 del D. Lgs. 385/93 all’attuazione dell’operazione di fusione).

E – per quello che qui conta – le varie società di revisione non hanno ritenuto di porvi mente locale, pur potendo (e dovendo accedere) alla complessa documentazione ispettiva, almeno quella relativa alla cosiddetta “parte aperta” e pur dovendo recepire la vasta verbalizzazione delle doglianze dei soci di minoranza, non foss’altro per procedere alla puntualizzazione della irrilevanza giuridica, di bilancio e contabile di detti rilievi contestativi.

Non va dimenticato che ai sensi dell’art. 2501 ter, 2° c., «la situazione patrimoniale è redatta con l’osservanza delle norme sul bilancio di esercizio». Si sostiene in dottrina che, pertanto, tale bilancio deve rispettare «non solo la struttura .. ma anche i criteri prudenziali di valutazione per quest’ultimo stabiliti». E se è vero che viene così «espressamente risolto un problema precedentemente controverso», non potendosi più «sostenere che dalla situazione patrimoniale dovesse risultare il valore effettivo della società»  (cfr. Campobasso, Diritto delle Società, pag. 555), è ultroneo che dalla situazione de qua occorra partire per tutte le eventuali rettifiche e per gli occorrenti conguagli nel rapporto di cambio. Una base non veritiera, infedele, mutila inquina, senza ombra di dubbio, gli “elementi di valutazione ulteriori rispetto all’effettivo valore dei patrimoni delle società partecipanti alla fusione” (cfr. ibidem p. 555).  Il bilancio semestrale fatto approvare il 9 novembre 1999 – aspramente rampognato dai soci di minoranza – è del tutto prodromico a quello di fine anno, preso a base per la fusione. Sui c.d. tecnici – specie quelli nominati dai tribunali – incombeva l’onere di asseverare la fondatezza o meno dei rilievi critici dei soci, potendoli certo superare ma motivatamente. Tanto non consta.

 

IL RAPPORTO DI CAMBIO SECONDO IL BILANCIO D’ESERCIZIO


 

Va qui peraltro precisato che siamo nel settore del credito, capillarmente disciplinato dalla normativa di Vigilanza e con un quadro contabile denominato della “Matrice”, ragion per cui non vi è molto spazio per i c.d. tecnici di inventarsi valori di concambio esorbitanti dal patrimonio di base o al limite dal c.d. “patrimonio di vigilanza”. Quello che debbono appurare i tecnici è solo l’osservanza dei principi di chiarezza e precisione, il rispetto del quadro fedele, ma soprattutto la rispondenza del fattuale alle segnalazioni di Matrice.

Il fatto che i vari tecnici del nostro caso neppure abbiano sfiorato siffatta tutt’altro che agevole problematica, è oltremodo rivelatore della incongruenza valutativa.

La “semestrale” della Mediterranea palesava scricchiolii informativi che potevano agevolmente rilevarsi dallo spettro critico dei soci dissenzienti. Ancor più inaffidabile si valuta qui il progetto di bilancio finale degli amministratori, traslato acriticamente nel bilancio di fusione ex. art. 2501 ter e recepito dai tecnici chiamati a stabilire la congruità del rapporto di cambio come mero e formale adempimento di una non significativa norma di legge.

Ma un’appena superficiale analisi dei bilanci di fusione della Banca Mediterranea e della Banca di Roma porta alle seguenti risultanze:

BANCA DI ROMA – bilancio a fine 1999

 

-        Patrimonio netto: L. 10.939.693.000.000;

-        Numero delle azioni: 5.350.016.750;

-        Rapporto PN/azioni: L. 2.044.

 

BANCA MEDITERRANEA – BILANCIO A DINE 1999

-        Patrimonio netto: L. 102.567.208497;

-        Numero delle azioni: 73.162.476;

-        Rapporto PN/azioni: 1.401.

 

RAPPORTO BR/BM = 1,4589

 

RAPPORTO MB/BE = 0,68542.

 

E’ codesto punto fermo da cui non si può divagare oltre misure e margini di iniqua ristrettezza. Non è un caso se in interrogazioni parlamentari (cfr. ad es. la n. 4-16400 del Sen. Giovanni Russo Spena ed altri) non si reputa prudente avventurarsi in valutazioni appena appena risarcitorie nei confronti dei soci di minoranza della Mediterranea.

Resta, poi, l’aleatorietà della valutazione del patrimonio del mega-gruppo bancario che si affastella sin troppo attorno al perno Banca di Roma. Le nuove acquisizioni del tipo Banco di Sicilia, Mediocentrale e similari sono al centro dell’attenzione delle autorità dell’antitrust e per converso impongono cautele in tema di integrità patrimoniali che la stampa specializzata prudentemente ma significativamente  fa percepire con espressioni criptiche del tipo «la qualità del credito dell’istituto romano è ulteriormente peggiorata. Alla luce di queste considerazioni si preferisce mantenere un orientamento neutrale/negativo sul titolo.»

In effetti si ha una griglia impeditiva di apprezzamenti in qualche modo rettificative delle strozzature di bilancio.

Quando i c.d. tecnici si sganciano dai valori di bilancio delle due banche e si proietanno in erratiche stime divaricanti si assumono responsabilità che in questa sede non vale la pena neppure di additare.

Non si ignora che una parte della dottrina giuridica è disposta a legittimare «un valore effettivo del patrimonio» (cfr. op. cit. p. 555) divaricati rispetto a quello emergente dal «bilancio di fuzione». Si afferma – con dubbio fondatamente, secondo noi – che «la legge si astiene … dal fissare criteri direttivi per la determinazione del rapporto di cambio; criteri che restano quindi affidati alla discrezionalità tecnica (ma non all’arbitrio) degli amministratori.» (ibidem). Eppure non si può non annotare che il rapporto di cambio è caducabile quando sono emergenti – o peggio evidenti - «dati incompleti o non veritieri» (ibidem nota sub 3) .. e nel nostro caso non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Per contro imbarazza il fatto che gli organi di controllo (interni ed esterni) sembra non si siano accorti neppure di dissennatezze come le seguenti. Per arrivare un rapporto di 5 a 2 - alquanto ipocritamente “per non danneggiare i soci di minoranza, in effetti per legittimare la riemersione di un ammortamento in sede di “semestrale” Banca di Roma dell’enfiata partecipazione nella Mediterranea – i c.d. tecnici si sono letteralmente inventati queste divaricate parabole:


 

In altri termini, mentre per la Banca Mediterranea v’è questo trend ascensionale del patrimonio di fusione:

-        da 102 miliardi a 176 miliardi e da qui  a 258 miliardi e da qui a 270 miliardi:

 

per la Banca di Roma, nel cui ambito quel trend doveva crescere a dismisura, si ha questa inspiegabile caduta:

-        da 10.940 miliardi si porta a 14.802 miliardi; ha quindi un contenuto assestamento raggiungendo quota 15.967 miliardi per ripiegarsi nella fase finale in un inverosimile risucchio verso il basso e cioè a quota 12.945 miliardi.

 

Il fatto che i tecnici si guardano bene dal fornire esplicitamente le masse patrimoniali terminali, a base del con cambio, non è certo segno di inidoneità professionale, ma indice di evidente imbarazzo espositivo. C’è da chiedersi se davvero la Banca d’Italia nel fornire – se l’ha fornito – il benestare di legge non si sia accorta della zoppa ed inaccettabile procedura estimativa.

 

Stante l’assoluta inattendibilità del bilancio Mediterranea – sia per gli argomenti sopra cennati sia per quelli che si diranno e sia ancora per quelli che si potranno addurre nelle competenti sedi, ova occorra – ogni ricostruzione estimativa è destinata a cadere.

 

L’UNICO CONCAMBIO ACCETTABILE


 

Disincagliandosi dalle secche del netto patrimoniale  apparente, è possibile rinvenire, ma a ritroso, un aggancio giuridicamente ammissibile per la costruzione del valore delle azioni della fondenda Mediterranea.

 

Solo riportandosi ad un istante prima della gestione Banca di Roma si coglie il valore di tale azioni. In tempo ancor utile per rinvenire l’ultimo istante dell’autonomia gestionale della Banca Mediterranea, questa azienda palesava un patrimonio oltremodo robusto. Ancor oggi è possibile appurare che ogni sua azione valeva L. 14.377,90.

 

Era evidente l’integrità patrimoniale – frutto magari di agevolazioni ministeriali connessi ai benefici che si intesero accordare a ristoro dei danni provocati dal noto terremoto dell’Irpinia – e coesa risultava la totalità degli azionisti (qualche dissenso non si originava certo da contrasti gestionali ma da moventi personalistici).

 

Si era nell’ultimo scorcio dell’esercizio 1993 ed ascendeva il patrimonio a L. 545.706.222.421 che ripartito tra le n° 37.954.498 azioni comportava un valore unitario appunto di L. 14.378.

 

C’era un frazionamento tale per cui nessuno poteva vantare un ruolo egemone; men che meno poteva atteggiarsi a socio di maggioranza e soprattutto non v’era nessuna maggioranza assoluta precostituita. In altri termini era la banca a base diffusa e la struttura della base poteva qualificarsi democratica.

  Tanto finché – per pressioni della Vigilanza – non intervenne la Banca di Roma che surrettiziamente ed attraverso manovre ancora non investigate poté acquisire posizioni di risalto prima (30%) e quindi di maggioranza assoluta (53% viene oggi dichiarato) senza esborsi di sorta a compenso di una tale scomposizione dell’assetto sociale e cioè senza liquidare e ristorare chi da posizione egualitaria finiva per passare a quella subalterna ed attualmente a quella di insignificante minoranza.

 

Tale valore unitario – L. 14.378 – può senza dubbio considerarsi ancora del tutto reale ed integro. Le varie tosature – che a cadenza annuale si sono lamentate e registrate dal 1993 al 1999 – non possono ascriversi ai soci di minoranza su cui il socio di maggioranza, divenuto egemone in termini assoluti, ha fatto ricadere il peso di onerose scelte gestionali per recupero di propri investimenti o per occorrenze della capogruppo.

 

Non è questa la sede per comprovare quanto qui affermato. All’occorrenza si produrranno prove ed argomenti che sarebbe tedioso e defatigatorio farne qui anche sintetico accenno.

 

La chiave di lettura è stata comunque fornita sin dal novembre 1999, in occasione dell’assemblea straordinaria. Qualche ulteriore spunto, a briglia sciolta ed a valore antologico, lo si vuole esemplarmente fornire pure in questa sede impropria.

 

IL PRESTITO subordinato di L. 100 milioni


 

Il 9 novembre 1999, nell’assemblea straordinaria ex art. 2446 c.c., il C.di A. della Mediterranea relazionava di avere «deliberato l’emissione di un prestito subordinato sotto forma di strumento ibrido di patrimonializzazione di L. 100 mld.»

Nella relazione al bilancio di fine esercizio 1999 lo stesso C. di A. fa sapere che «la banca di Roma, per riequilibrare l’assetto patrimoniale della Mediterranea ha emesso uno strumento ibrido di patrimonializzazione di lit. 100/miliardi» e, contraddittoriamente, soggiunge che «per il superamento della crisi vissuta dall’Azienda, la Capogruppo, di comune accordo con gli Organi Amministrativi della Mediterranea, ha individuato nella fusione per incorporazione della Mediterranea  nella Banca di Roma e nel successivo scorporo del ramo di azienda bancaria di Banca Mediterranea la soluzione più idonea.»  (Cfr. p. 1).

 

Qualche annotazione su tale strumento ibribo di patrimonializzazione:  esso a nulla poteva giovare, atteso il disastroso ordito valutativo cui gli uomini del socio egemone si sono indotti a chiusura d’esercizio. Si consideri che “le passività subordinate non possono eccedere il 50 per cento del ‘patrimonio di base’ (cfr. Appendice B.I. 1998, pag. 283); si consideri anche che per un processo di ardite svalutazioni dei crediti che gli stessi uomini del Banco di Roma dichiarano avvenute in “chiave tuzioristica” – il che significa attraverso gonfiature di “riserve” – non si era potuto raggiungere quel “minimum” di patrimonio di vigilanza; si sappia che  senza quel “minimum” nessuna banca può continuare ad operare per norme giuspubblicistiche di settore. Tutto ciò considerato, siffatto “strumento ibrido” è finito per palesarsi inutile e dannoso per la BM ed  indebitamente locupletativo per il socio a maggioranza assoluta [alias BR].

Quest’ultimo imponeva ai propri uomini – che recepivano – di contrarre un debito con la casa madre di cui la BM obiettivamente non necessitava: si frapponeva infatti il sovrabbondante  cash flow  alla cui lievitazione non mancava di contribuire la notoria riluttanza degli uomini del banco a finanziare l’industria locale (vedi la stasi degli impieghi, in decremento se si depurano delle pesanti capitalizzazioni degli interessi di fine esercizio). Aggiungasi il basso rapporto impieghi/depositi che ha determinato un ulteriore aggravio dei già critici saggi di rendimento gestionale.

 Ovvio che, presumendosi l’assolta inidoneità dei soci di minoranza – e di quelli più deboli in particolare, più numerosi e quindi più facilmente obnubinabili – il C. di A. della Mediterranea ha creduto sufficiente licenziare la precisazione che abbiamo appena sopra citata, nella relazione di legge a corredo della loro proposta di bilancio.

 

Quanto di contraddittorio e di capzioso si sottende nel passo citato è di tutta evidenza. Ma non può il socio di minoranza avere capacità tecniche sufficienti a contrastare la Banca di Roma  socia al 53% ad onta di tutte le norme anti-trust

 

Alla voce 110 di fine esercizio abbiamo – si pensi - una  “passività subordinata” di L. 100 miliardi  che stando a ciò che si annota – a caratteri piccolissimi a pag. 43 - è “passività subordinata” «… riferita ad un prestito di L. 100 miliardi ricevuto dalla Capogruppo Banca di Roma. Esso è regolato al tasso Eurobar a 6 mesi diminuito dello 0,10%, prevede una durata di almeno 10 anni e il rimborso in unica soluzione alla scadenza, previa autorizzazione della Banca d’Italia. Le clausole di subordinazione che disciplinano il contratto consentono, in caso di perdite di bilancio che determinino una situazione del capitale versato e delle riserve al di sotto del livello minimo di capitale previsto per l’autorizzazione all’attività finanziaria, che le somme rivenienti dal finanziamento e dagli interessi maturati possano essere utilizzate per far fronte alle perdite al fine di consentire alla Banca di continuare

 

Ammesso e non concesso che questa sia un’informativa accessibile ai soci sprovveduti, emerge ictu oculi che si è deciso aliunde di non far più “continuare” la Banca: è dunque venuto meno ogni motivo per un siffatto iugulatorio prestito. Ed era prestito che non poteva essere deciso dagli amministratori della BM, per evidente conflitto di interessi; che non poteva essere deciso dalla “maggioranza” dei soci, per lo stesso conflitto di interesse del socio tiranno; che semmai andava fatto decidere ai soli soci di minoranza, il che notoriamente non è avvenuto.

 

 

E così, con qualche disinvoltura e forse con reticenza, si adempie formalisticamente ai dettati della vigilanza sugli schemi di conto economico delle banche per affastellare incomprensibili cifre sul “conto economico riclassificato” (cfr. pag. 17). Il linguaggio algoritmico diviene ulteriore velame alla comprensibilità degli inspiegabili (e non svelati) crolli gestionali in tema di

-        “margine gestione denaro” (erraticamente contrattosi nel 1999 del 22,77%),

-        “utili netti operazioni finanziarie” (astuzia lessica per non dire “crollo reddituale”) contrattisi e ribaltatisi del 170,22%;

-        “risultato lordo di gestione” passato dagli 80,8 miliardi di resa del 1998 ad un valore pesantemente negativo di meno 93,7 miliardi;

-         “risultato ante imposte” di meno 272,887 miliardi, con un peggioramento di gestione al saggio decrementativo del 653,50%.

 

Tanto avrebbe dovuto mettere sull’avviso il perito di nomina pubblica – la RECONTA ERNST & YUNG di Roma – che si era in presenza di un bilancio dubbio e forse falso, apparentemente non veritiero; un bilancio concepito in sospetto conflitto d’interessi e quindi passibile di segnalazione alle autorità competenti, non mancandosi comunque di ragguagliare il Presidente del Tribunale di Melfi che mancava il requisito primo di una “situazione patrimoniale .. redatta con l’osservanza delle norme sul bilancio di esercizio” di cui al secondo comma dell’art. 2501 ter del codice civile; emergeva pertanto che – fino ad un nuovo progetto di bilancio vero e reale – non era praticabile alcuna seria e fondata quantificazione dei rapporti di cambio per la fusione. Ciò pare sia stato del tutto ignorato.

 

Ciò avrebbe dovuto spingere la Banca d’Italia ad essere forse alquanto più cauta nel concedere l’autorizzazione di cui all’art. 57 del TULB.

Del pari, qualche ripensamento avrebbe dovuto esserci presso la Consob: Banca di  Roma prima svaluta e poi ripristina al costo la partecipazione maggioritaria presso la Mediterranea. E ciò non tanto per supino rispetto verso i propri tecnici, ma, stando a quel che appare predisporre un’agile traslazione, senza inceppi rivalutativi del proprio specifico attivo nella divisata «società bancaria di nuova costituzione, controllata totalitariamente dalla Banca di Roma.»

 

E qui davvero c’è da pensare in ordine al fatto che possa darsi per scontato un nugolo di autorizzazioni della Banca d’Italia “ante litteram”, a futura memoria, in palese disapplicazione  delle norme avverso il “socio unico” e con elusione di quanto comunitariamente stabilito in tema di concentrazioni bancarie.

 

Né Banca d’Italia né Consob pare abbiano sinora ritenuto opportuno esigere rettifiche su questo passaggio della relazione al bilancio della società incorporante:

«Per quanto riguarda la Banca Mediterranea, il valore di carico è stato mantenuto a 226 miliardi [ma nella semestrale non era stata svalutata? n.d.r.] Esso si raffronta con un patrimonio netto totale di 102,6 miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca di Roma (53 per cento circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il controllo di Banca Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli investimenti effettuati che produrranno effetti a partire dal 2000, costituisca un valore che giustifica il mantenimento del valore di carico.  Del resto, le perizie effettuate da advisor indipendenti per determinare il valore di concambio ai fini della prevista fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca di Roma un valore che eccede il valore di carico.»

 

Orbene, il c.d. “valore di carico” non può che essere questo:

-        Costo residuo della partecipazione: L. 226.000.000.000.=

-        N.ro azioni possedute: n.  38.840.319.=

-        Valore unitario: L. 5.818,696.=

 

Da qui forse il non pregevole itinerario estimativo di quei “advisor” che hanno portato prima il valore di bilancio della BM di L. 1401,91 a L. 2.435 (quasi un raddoppio) e poi a L. 3.570. Successivamente, essendo la stima ancora insufficiente, si salta ad un concambio di 5 a 2, senza precisare la  parametrazione patrimoniale, in base ad un presunto valore di mercato di banche consimili per la Mediterranea ed omettendo analogo calcolo per la Banca di Roma.

 

Sennonché quel  5 a 2 postula che le azioni della Mediterranea al massimo varrebbe L. 5.112. Quindi la Banca di Roma nel suo bilancio non appare encomiabile quanto a precisione. Si è lontani dalle proclamate L. 5818,696 così come inaccettabile è l’affermazione che vorrebbe «il valore di concambio ai fini della prevista fusione per incorporazione attribuito alla quota di pertinenza della Banca di Roma [avere] un valore che eccede il valore di carico.» 

Non può stupire se i soci di minoranza della BM tendono a considerare quell’affermazione alquanto lesiva dei loro diritti societari. La sincerità nelle rappresentazioni delle valutazioni; la veridicità delle appostazioni di bilancio; la correttezza nelle relazioni d’affari non paiono in questa occasione esemplari.

 Quando, poi, si afferma (cfr. pag. 2 della Relazione BM al progetto di fusione) che si è inteso adoperarsi per «la salvaguardia dei diritti patrimoniali degli azionisti di minoranza» si è in contraddizione con i citati assunti del socio egemone. Siamo in presenza di espressioni elusive che possono apparire accorgimenti eziologicamente rivolti ad espellere da una banca che solo nel 2000 prospererà (questo è stato detto nelle relazioni di bilancio) i soci indesiderati per conseguire un vantaggio per il socio egemone (dato che potrà traslare un attivo, in atto dubbio, in una costituenda nuova banca, tutta di sua proprietà, locupletando in proprio in correlazione al danno subito da altri). Per converso i soci minoritari finiscono per soggiacere ad una sorta di estromissione coatta, nulla potendo contro lo strapotere assembleare del socio di maggioranza assoluta.

 

LA PERDITA DEL CONTROLLO SOCIETARIO


 

Non appare questa la sede per rievocare la vicenda dell’ingresso della Banca di Roma nella compagine societaria della Banca di Roma. Qualche dato è stato già fornito. Non sembra del tutto corretto asserire che l’istituto romano sia divenuto socio quasi unico in un sol colpo, nel 1995. Le tante assemblee straordinarie del 1994 prima e del 1995, dopo, stanno lì a testimoniare il fatto che da una partecipazione minoritaria e pressoché irrilevante si è passati ad una partecipazione cospicua del 30% per finire in quella massiccia attuale che pare trascenda di fatto il 53% dichiarato.

 

E’ inoppugnabile che la Banca di Roma non ha mai pagato azioni Mediterranea sopra le L. 8.000; o meglio: il patto iniziale di acquistare a L. 15.000 si è modificato a seguito di valutazioni fatte con criteri non del tutto in linea con quelli che ora vengono proposti dagli advisor.

Fuor di dubbio che nessun premio di maggioranza è gravato sull’acquirente del tempo. Tanto ora non può che essere corrisposto ai soci del tempo – se sopravvissuti – a titolo risarcitorio. In altri termini è questione di equità, di giustizia applicata al caso concreto, recuperare in sede di estinzione della tradizionale Banca Mediterranea ciò che venne meno nei processi di aggiustamento della compagine societaria, in definitiva voluti dall’estranea Banca d’Italia.

 

Allora non si corrispose quella giusta integrazione di prezzo sia perché scriveva come scriveva il direttore della locale Filiale B.I. (vedi sopra) sia perché si diceva e si ammoniva l’assemblea dei soci che con la presenza della Banca di Roma cosiddette “sinergie” entravano nell’asfittica potenzialità di crescita della Banca Mediterranea.

 

Facile oggi richiamare i rilievi dell’ultima ispezione B.I. per sottolineare carenze addebitabili al nuovo assetto amministrativo come:

-        la circostanza che “ancorché note da almeno un quinquennio, solo da pochi mesi sono state avviate a soluzione le mancate problematiche del sistema informatico, obsoleto, scarsamente integrato ed assoggettato ad una disordinata e poco documentata opera di intervento manuale e di personalizzazione delle procedure”. E guarda caso, s’inizia il risanamento e si estingue la banca con l’istituto dell’incorporazione da parte del socio egemone;

-        rimarchevole «l’inadeguatezza dell’apparato contabile e di quello segnalatecico, nonché dei sistemi di controllo interno e direzionale.» Aspetto tanto più grave se si tien conto dello smantellamento delle connaturali strutture della Mediterranea e dei gravi costi per l’introduzione degli alieni ed abnormi sistemi consoni all’istituto romano;

-        «scrutinio e monitoraggio del credito – interessati da manchevolezze ed incoerenti con l’ipotizzata espansione del comparto.» E siffatto nevralgico comparto è quello che si contraddistingue con la pesante involuzione delle sofferenze prima additata e soprattutto con il deterioramento del grado di ricuperabilità dei dubbi realizzi;

-        «contenzioso lento ed incompleto» ad onta dei gravami del conto economico che hanno impedito all’azienda di prosperare;

-        «ritardi nell’appostazione di sofferenze»: i misteri di posizioni contrassegnati con i codice CR 4433672; 6439964 e 5114286 forse stanno avendo acconcio disvelamento, ma in sedi alquanto scabrose;

-        “numerosi rapporti … risultano di fatto abbandonati” forse sol perché ritenuti “di ammontare non elevato”, e tanti piccoli rivi fanno un fiume;

-        «le previsioni di perdita non sempre sono guidati da criteri univoci, volti ad assicurare una tendenziale oggettività e omogeneità valutativa.»

 

E si potrebbe continuare. Resta però inspiegabile perché i c.d. tecnici della fusione non sfiorino neppure siffatti scottanti aspetti. Avrebbero dovuto chiedere ad esempio la seguente documentazione e farne dei circospetti ma esaustivi ragguagli. Senza contemplare tali risvolti gestionali ogni giudizio sulla congruità del con cambio è a dir poco malcerto.

 

Non ci risulta che siano stati vagliati i risultati di esercizio tenendo presenti:

-        le decisioni degli amministratori delagati dell’ultimo triennio;

-        le pratiche di fido (centrali nella gestione di una banca);

-        la corrispondenza con la banca socia;

-        i rapporti ispettivi interni (vedi rilievo n. 8);

-        atti, lettere e corrispondenza idonei a controdedurre al rilievo sub 11);

-        la parte aperta delle due ultime due ispezioni della Banca d’Italia.

 

Sono pretermissioni che da un lato avvalorano la nostra stima sul giusto peso delle azioni Mediterranee, desumibile solo dalla pregestione Banca di Roma, pari cioè a L. 14.378 e dall’altro impongono la refusione del premio di maggioranza a suo tempo non corrisposto dal neo-socio Banca di Roma.

 

Non si nega che tale valore non è facilmente quantificabile, ma il giusto mezzo tra un minimo del 15% del valore dell’azione al tempo dell’ ingresso maggioritario della Banca di Roma ed un massimo del 20% porta ad un’integrazione pari a L. 2.500 per azione dei soci di minoranza. Siffatta integrazione esula dai vincoli dell’art. 2501 bis terzo comma, trattandosi di atto risarcitorio e può quindi essere corrisposta in contanti.

 

LA NUOVA BANCA MEDITERRANEA


 

 La Banca d’Italia si era premurata di far sapere in Parlamento che «Mediterranea e Banca di Roma, in qualità di capogruppo, [dovevano] redigere, in tempi brevi, un dettagliato piano di risanamento, nel quale fossero previsti adeguati interventi di ricapitalizzazione e fossero formulate coerenti previsioni di crescita degli aggregati patrimoniali, economici e finanziari.» Non pare che si privilegiasse l’ipotesi dello scioglimento della banca Mediterranea, sia pure sotto forma di fusione mediante incorporazione. Se qualche avvocato romano sostiene che tale ultima via fosse la sola percorribile per volere della B.I. si assume non poche responsabilità.

 

Purtroppo, dopo ondivaghi atteggiamenti, torna comodo alla B.R. tale forma di estinzione della sua partecipata. In effetti, basta l’emissione di n° 83.708.730 nuove azioni (al massimo) per un importo complessivo di L. 41.854.365.000 per tacitare tutte le ragioni dei vecchi soci della Mediterranea. Con una semplice scrittura contabile del tipo:

-        dare conto “fusione” avere capitale sociale: L. 41.854.365.000:=

per chiudere la partita.

Nasce un certo annacquamento del capitale che a nostro sommesso avviso rastremerà il valore contabile della singola azione BR forse attorno a L. 1.972 (con ulteriore lesione del concambio delle azioni della Mediterranea), ma tanto non risulta interessare alcuna autorità di controllo.

Al conto fusione accederà anche l’attuale partecipazione, riportata non al costo storico come si dice da parte degli amministratori della BR ma a quello del precedente esercizio al momento pari a L. 226.000.000.000 (salvo rettifiche per sopraggiunti acquisti o per emersione di sistemazioni varie).

Il complessivo importo di siffatta voce dell’attivo (L. 268 miliardi al massimo) ha già una sua destinazione: pare che verrà qualificato come effettivo e veridico apporto di capitali alla divisata nuova banca «al fine di preservare una serie di vantaggi competitivi connessi al mantenimento del marchio ed al radicamento territoriale» (Cfr. Relazione C.di A. Mediterranea, pag.1)

Si reputa di far sapere ai vecchi soci della Mediterranea che:

-        «vi è stata una sostanziale tenuta della Banca Mediterranea nelle posizioni sul mercato di riferimento» (cfr. ibidem p. 10»

-        «frutto di una costante ed attiva presenza sul mercato» (cfr. ibidem p. 11);

-        «grazie anche alla sviluppo di sinergie commerciali con le società del Gruppo Bancoroma» (ibidem p. 11);

-        In definitiva, «da tali linee di azione, unitamente alle scelte di riorganizzazione tecnologica ed amministrativa, alla valorizzazione delle risorse umane, alle sinergie derivanti dall’appartenenza ad un gruppo ampio, integrato ed in evoluzione, si attendono il continuo miglioramento della qualità degli impieghi ed il rafforzamento del ruolo della Banca quale interlocutore privilegiato del mondo produttivo e soggetto attivo di propulsione e di sviluppo, pronto a cogliere in via anticipata i segnali che vengono dai territori e dalle istituzioni» (ibidem, p. 12).

 

Invero non pare che l’Organo di Vigilanza sia d’accordo se in una «recente visita», sia pure «di norma», ha riconsiderato «in chiave più critica le componenti aziendali strutturali, patrimoniali ed economiche.» Ma, non pare equo che i soci di minoranza vengano radiati e non possano in alcun modo godere dei frutti dei loro ormai ultraquinquennali sacrifici.

Ai soci della Mediterranea viene infatti precluso ogni accesso nell’ente che risorgerà dalle ceneri della banca che loro hanno fondato, sviluppato, radicato nel territorio, consegnato al nuovo socio egemone con una dote cospicua patrimoniale e che altri ha affossato e dissolto in una “incorporazione” letale. Bancaroma scrive: «è stato peraltro predisposto un progetto di fusione per incorporazione nella Banca di Roma. E’ inoltre prevista, a seguire, un’operazione di scorporo di parte della Banca Mediterranea in una società di nuova costituzione, controllata totalitariamente dalla Banca di Roma. Questa soluzione offre al nostro Gruppo la possibilità di salvaguardare le importanti potenzialità competitive presenti nella rete della Banca Mediterranea, in funzione soprattutto delle sue caratteristiche di localismo e di radicamento territoriale, attraverso un nuovo organismo atto ad assicurare migliori prospettive di profittabilità.» (Relazione Bilancio BR, p. 61) Ma tali «potenzialità competitive» in parte sono di pertinenza degli estromettendi soci. Giustizia impone che vengano risarciti.

L’attribuzione ad ogni vecchia azione Mediterranea dell’opzione a sottoscrivere alla pari  le azioni della costituenda società bancaria – totalmente riveniente dalla Mediterranea – si rende quindi ineludibile: pena prevedibilissime azioni giudiziarie.

 

Del resto è la stessa Banca di Roma che implicitamente riconosce l’inadeguatezza del concambio di 5 a 2. A pag. 96 della cennata relazione si afferma: «Per quanto riguarda la Banca Mediterranea, il valore di carico è stato mantenuto a 226 miliardi. Esso si raffronta con un patrimonio netto totale di 102,6 miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca di Roma (53 per cento circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il controllo di Banca Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli investimenti effettuati che produrranno effetti già a partire dal 2000, costituisca un valore che giustifica il mantenimento del valore di carico. Del resto, le perizie effettuate da advisor indipendenti per determinare il valore di concambio ai fini della prevista  fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca di Roma un valore che eccede il valore di carico. E’ da aggiungere infine che la valutazione è confermata anche da offerte di acquisto pervenute da potenziali acquirenti.».

 Duole dover controbattere:

-       se positivi effetti sono previsti «a partire dal 2000», del tutto ingiustificata è la sostanziale soppressione di una banca vitale;

-       il valore di carico risulta forse pari a L. 5.094, mentre quello che percepirà il socio minoritario BM, dopo le dilatazioni del capitale della BR per estromissione dei soci di minoranza BM, difficilmente supererà le L. 4.930 (rapporti precisi non sono possibili per difetto di informazione societaria);

-       prudenza imporrebbe di non accreditare tesi azzardate in materia di azioni quotate in borsa e di evitare frasi come questa: «advisor indipendenti … attribuiscono … un valore che eccede il valore di carico»;

-       se «potenziali acquirenti» erano disposti a subentrare nella partecipazione, era quella la via non solo auspicabile ma da percorrere doverosamente per evitare i danni inflitti ai soci di minoranza. Se non si era stati in grado di amministrare, si poteva almeno essere avveduti nel vendere.

 

 

CONCLUSIONI
 
 
 
Gli advisor “indipendenti” hanno redatto perizie i cui limiti crediamo di affare dimostrato abbondantemente. Non sono pochi i soci di minoranza che non si reputano soddisfatti dal concambio che viene proposto (5 a 2).
 
Per tutta una serie di considerazioni, pare essere equo un concambio radicato nel valore storico delle azioni della Mediterranea, o meglio che tenga conto dell’effettivo netto patrimoniale, prima delle tosature per gestioni imputabili a centri estranei dagli interessi dei soci minoritari.
 
Di tal che, un’azione della Mediterranea si aggira sulle L. 14.378 che in relazione al valore corrente delle azioni Bancoroma comporta un concambio di 7 azioni BR per ogni azione BM.
 
Va inoltre rifuso il premio di maggioranza, a suo tempo non corrisposto, e commisurabile in L. 2.500, da corrispondere in contanti, data la sua natura risarcitoria.
 
I soci di minoranza della Mediterranea non possono venire esclusi dalla divisata nuova banca che altro non è che la stessa Mediterranea, neppure troppo modificata. Il rapporto societario trascende il valore economico e specie nell’ambito bancario – ove ha peso l’art. 19 del TULB – esso è insopprimibile per sola volontà del socio maggioritario. Conseguentemente, va accordata per ogni vecchia azione un’opzione azionaria alla pari nella divisata nuova società bancaria.
 
La presente relazione è del tutto finalizzata alla tutela delle ragioni patrimoniali e morali di taluni soci di minoranza della Banca Mediterranea che ne hanno fatto esplicita richiesta. Non può pertanto avere valore diverso di un’opinione che comunque viene espressa secondo scienza e coscienza e che scaturisce da esperienze quarantennali nel settore delle verifiche bancarie.
Racalmuto, 25 aprile 2000.
 
 
Dott. Calogero Taverna,
ex ispettore di vigilanza bancaria della Banca d’Italia ed ex ispettore del SECIT, Ministero delle Finanze. – Socio di minoranza della Banca Mediterranea.
 
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Dott. Giuseppe Taverna,
dottore in giurisprudenza.
 
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St. Un. Cinzia Leone,
laureanda in giurisprudenza.
 

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