BREVE SINOSSI ARCHIVISTICA ARCHEOLOGICA E BIBLIOGRAFICA
Il nostro interesse per la storia di
Racalmuto ebbe inizio allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune
ricerche presso l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad Limina”
dei vescovi agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della
tassazione ecclesiastica di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco
Covarruvias nell’agosto del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato
racalmutese con proventi di ben 250 once annue ([1]). Le
ricerche d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e
da qui ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a
quelli della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato
ad abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col
passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta,
riformulata. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una
versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra
narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale
lettore.
La
primordiale presenza umana potrebbe venire
attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi
dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([2]). Ma
sono i Sicani quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe
del nostro altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla
grotta di Fra Diego sono la palpabile testimonianza di quella civiltà
preistorica risalente a quattro mila anni fa.
Nel
1880, nel corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto
Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì,
altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C.,
sufficientemente investigati dagli archeologi dell’Ottocento. Purtroppo,
successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e
peculiare archeologia racalmutese.
Casuali
rinvenimenti di monete greche (con il granchio agrigentino o col cavallo alato
siracusano) comprovano presenze siciliote nella zona di Casalvecchio-Grotticelle.
L’iscrizione
latina in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio
vinario di quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa
spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di
Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi
di Santa Maria durante l’impero di Comodo (180-190 d.C.), come si avventò a dire il Salinas.
Per
Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante
ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella
contrada della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli
albori della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.
Ultimamente
sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca
ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è
rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno
snodarsi “con maggiore continuità”.
La
pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi
una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di
certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani,
quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio
racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più
stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa
schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi,
tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua
greca? Noi pensiamo di no.
Pochi,
di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’
(romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo
senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra
landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella
‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non
poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo
- per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico
su cui, in modo mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così
poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano
testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario.
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul
luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e
vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si
assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed
anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture
d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum
(i cristiani) ignoravano. Dai rum,
l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per
mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse
semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da
noi, introdussero sistemi di
coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi
autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e
zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([3]). I
secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba
sull’intero altipiano di Racalmuto.
Un
documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi al nostro paese,
diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi, riporta un toponimo
che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal Chammoùt. Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile
alla storia (quella veridica) del paese agrigentino.
Per
quanto buia sia la pagina araba
racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto
Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo
definiva - dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non
andava. Tra il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico, nel suo
“Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la
funerea etimologia di paese “diruto,
morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone accenna ad una derivazione da due
termini arabi: Rahal (‘villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut (‘della
morte’ e qua invece arbitrariamente). Il nostro Tinebra Martorana, con fervore
giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline alle
pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene
difficile per chicchessia procedere ora
alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre
Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la certezza - scrive il
dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...]
a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud,
pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si
soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” = Ralmanuto!».
Con la
sua indiscussa autorità, il Garufi debella la fantasiosa etimologia di
Racalmuto quale lugubre “Paese dei Morti”, come si è potuto vedere in
precedenza. Va detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata recepita
dai moderni storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista contemporaneo si
è data la briga di riesaminare il toponimo. Non accetta la versione tradizionale.
E ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto quale ‘paese del moggio’. ([4]) Per
il grande arabista, infatti, il paese: «deriva
dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta,
casale’ del Mudd <latino modium 'Moggio’». "Paisi di lu
Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non
ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino monte
“Formaggio” di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che
suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Comunque sia,
almeno niente più accenni mortuari che ci tornano infausti. E’, dunque, un
passo avanti.
Dipanata
in qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui
si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione
berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi
immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25 luglio
del 1087), oppure si collega alla
signoria di uno degli emiri di Naro, come noi siamo inclini a credere? Mancano
dati ed elementi per aggrapparsi ad una di queste ipotesi.
La
conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera
del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero.
Un
piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del Malaterra. Facendo
anche noi ricorso alle congetture, una volta propendevamo ad identificare
Racalmuto in un toponimo, evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del
testo malaterrano, che si rifà ad un impreciso “Racel....”. Goffredo Malaterra
fu un cronista normanno dell’XI secolo. Il manoscritto malaterrano
che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo Zurrita, fu pubblicato a Saragozza nel 1578. Del
manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne
serve e riduce in Rahl il Racel
che si trova nel punto in cui si parla della conquista dell’agrigentino e che
potrebbe riguardare proprio il nostro paese: Racalmuto.
In
effetti il Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di Agrigento
conquistati dal conte Ruggero «.. Platonum,
Missar, Guastaliella, Sutera, Racel ..,
Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa
“Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce». Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro
e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio
Racalmuto. Ma il limite di mera
congettura, resta.
Incrostano
le origini di Racalmuto due falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da
un lato, si indica Racalmuto insediato a Casalvecchio con questo improbabile
nome in lingua volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro
sito nei pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal
1108.
L’Assessorato
Turismo Comunicazioni e Trasporti della Regione Sicilia nel n.° 39 del 22 dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo”
si reputa in grado di affermare: «Distrutto Casalvecchio, come riferisce
Michele Amari, il nuovo centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e
dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato
ed è quindi impossibile accertarne la correttezza del richiamo letterario. Noi
crediamo che ci si riferisca alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Là si
parla, invero, di Castel Vecchio ma è località a quattro miglia da Agrigento,
in arabo chiamata Raqqâdah
(Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri
proprio. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani
in quelle parti. Nulla di arabo finora è emerso. Men che meno reperti
attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medio-Evo.
L’arcidiacono Bertrando Du Mazel, che
ebbe a fare censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella
documentazione rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato
(appena 136 “fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia) che appaiono sparse nei dintorni della fortezza,
denominata “lu Cannuni”.
L’altro
falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove oggi stanno i ruderi di Santa
Maria di Gesù, su cui già abbiamo fornito accenni.
Del
tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata
Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il
periodo che va dal 1092 al 1282. Si suol
dire che il silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si
deve ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo
esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare censi, canoni e
livelli agli ingordi canonici del capitolo della cattedrale di San Gerlando.
Basta scorrerle, quelle carte, per rendersi conto di quanto fiscali fossero il
prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno
istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi affidandola al
santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di bell’aspetto
e di copiosa dottrina, secondo quel che vogliono le cronache. Se nessuna terra
delle pertinenze agrigentine, che si richiami ad un toponimo che magari
vagamente rassomigli a Racalmuto, figura trubutaria in quel periodo, ciò lascia
intendere che non esisteva, almeno come centro organizzato suscettibile di imposizione.
Entriamo,
ora, nella storia documentata di Racalmuto.
Nei
primi decenni del XIII secolo, riusciva ad impossessarsi di Racalmuto tal
Federico Musca. Questi tradisce al tempo
di Carlo d’Angiò e costui lo priva del dominio di Racalmuto nel 1271 per
conferirlo a Pietro Nigrello di Bellomonte (vedi quanto segnalato prima.)
La
signoria di tal uomo della corte napoletana durò però poco e, nel corso del
Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo, retto da sindaci e chiamato ad un
contributo di uomini in armi.
I
primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime
avignonesi del 1308 e 1310. Nell'abitato vi erano almeno due chiese: quella
parrocchiale retta dal p. Angelo di
Montecaveoso, e quella forse conventuale
dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal
Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra
pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi
avignonesi dell'Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto
dell'arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la
capacità contributiva e raccoglierne l'imposta per togliere l'interdetto che si
originava dalla rivolta del Vespro. Era l'anno 1375.
Allora Racalmuto doveva essere un piccolo
centro agricolo con non più di 800 abitanti. Nell'archivio vaticano è
reperibile il resoconto delle collette redatto dall'arcidiacono du Mazel.
Trattavasi di un sussidio che andava ripartito in ciascun abitato per case, in
rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per
le 'mediocri', 3 per le agiate e cioè
'qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà' ([5]). Il
29 marzo del 1375, il pio collettore (o
suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il
'sussidio' e scioglieva l'interdetto ([6]).
Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone,
ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se
pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili. In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548,
la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra
Martorana vengono accettati - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e
mezzo. Nel successivo eguale lasso di
tempo, la crescita si è invece limitata solo al
48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.
Che
cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del
potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto
nell'intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di
forestieri.
Abbiamo
motivo di ritenere che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per
la paura dei pirati. L'improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato
il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I
molti cognomi di paesi e terre del
circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei
feudi racalmutesi.
Tanti
immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche,
acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta.
I non pochi Xortino denunciano l'antica carica di maestri di xurta. I maestri
xurteri erano al tempo di Carlo d'Angiò i sopraintendenti alla sicurezza
notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel
1282-1283 sotto Pietro d'Aragona.
Non è racalmutese il 'segreto' addetto alle gabelle, il
magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l'incarico - lo denunciano straniero.
Il 'segreto' era l'esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che
risaliva al 1296.
Per
avere un nome saraceno, Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con
nome di derivazione araba. Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo e simili,
possiamo calcolare in meno di 150 gli
abitanti di origine forse musulmana (su 2215 desunti dai registri della seconda
metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per
convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo
latineggianti. Lo stesso dovette
verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata da parte della
regina Isabella nel 1492 ([7]) o
sparirono del tutto a Racalmuto o
seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell'8
gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da
Grotte.
Tra la
borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che
hanno dominato nell'ottocento. Né baroni come i Tulumello, né gentiluomini come
i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora
quali i D'Amella, i La Lomia, gli Ugo, i Piamontisi ed altri si sono dopo
volatizzati: alcuni loro eredi
prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì.
Verso
la fine del 500, giungono a Racalmuto 'mastri' che vi attecchiranno ed oggi i
loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione.
Savatteri, Buscemi, Schillaci, Rizzo, Bongiorno, Chiazza, sono fra questi, per
fare solo alcuni esempi.
Il
quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare,
dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure)
si sia impadronita di tale casale con castello, facendone un personale feudo
con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del
figlio di Matteo del Carretto - all'inizio del secolo XV - una necessità
difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in
parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza
Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in
capo a quella famiglia proveniente da
Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le
ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale. Lasciamo qui agli araldici
ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com'è
nelle sue più antiche fonti,
difficilmente potrà essere ora del tutto chiarita.
Quel
che ci preme è sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e
tramandata un'importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto
si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S.
Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa
degli aragonesi. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei
Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del
Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte.
Il re aragonese, tra l'altro, cominciò a metter mano alla riforma
ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto
tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione
dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di
Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il
delegato del Pontefice anche in materia
religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e
donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche
Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo
aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che
qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino: «Martino etc. Al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra
di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare
nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù
ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. ... e pertanto per
l'autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, [vi conferiamo] il
canonicato di Santa Margherita di
Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti
e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando
tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della
secessione contro le nostre benignità [
... ]
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo
mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali
nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti
quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente
e pienamente la prebenda, i redditi con
i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se
desiderano e vogliono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l'anno del Signore,
VII^ Ind. 1398..... Re Martino - »
Tanti collegano - come già detto - quella
chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della
curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo
per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola
concessione di quest'ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col
Papa.
La
presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità
sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il
singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i
due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento),
nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da
parte di Isabella nel 1492.
Raccapricciante
lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme,
viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era
l'anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco
ebreo, dedito certamente all'usura.
«Il Vicere' Lop Ximen Durrea dà commissione
ad Oliverio Raffa di recarsi a
Racalmuto per punire coloro che
uccisero il giudeo Sadia
di Palermo, e di pubblicare un
bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.»
Quanto
alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano assetti
significativamente organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero sinagoghe o
scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e
legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si
dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da
Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono
mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e
rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non
abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l'Inquisizione. Quel non
glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là
nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un
notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si
abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque
non collimanti con quelle della blasfema canonizzazione celebrata da Leonardo
Sciascia.
La
tradizione colloca nell'anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte.
La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni
ricerca storica che suonerebbe falsa ed irriguardosa. Noi quindi ce ne
asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell'Officio sulla nostra
miracolosa Madonna: «a Racalmuto, in
Sicilia, - vi si recita in latino -
da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio
dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione,
la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una
sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino
per essere condotta nella antica città di Castronuovo. E questo fu un mero
portento.»
Francesco
Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura
Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone
Messana nel 1968, Leonardo Sciascia in
una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull'evento, quasi
sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di
Racalmuto. Una mia personale ricerca tra vecchie carte che si custodivano in
una stanza della casa che fu del canonico Mantione mi ha fatto imbattere in una
pubblicazione del ‘700 cui assegnare la palma della più antica narrazione in
versi della Vinuta di la Bedda Matri di lu Munti.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia
notizia documentata - la gloriosa statua viene repertoriata con stile invero
molto burocratico. Nell'Archivio vescovile di Agrigento si rinviene la
relazione sulla visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del
Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge
però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso. In seconda
battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l'irriguardoso
ecclesiastico si limita ad inventariare il venerabile simulacro come «una figura di nostra donna di marmaro».
Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode solo
a partire dai primi decenni del '700, dopo l'opera del p. Signorino.
Poco
più che trisecolare risulta la vera signoria feudale che i Del Carretto
ebbero a dispiegare su Racalmuto: dalla
prima investitura baronale di Matteo del Carretto da parte di Martino d’Aragona,
il giovane - che il Villabianca colloca
nel 1392, il giorno 4 di giugno - sino alla malinconica scomparsa della grande
famiglia dei conti di Racalmuto, databile 10 Luglio 1716, corrono infatti 324 anni.
Bisogna,
invero, aggiungere un preludio quasi secolare di presenza dei Del Carretto
(dal 1307, data del matrimonio tra
Costanza Chiaramonte ed il marchese di Savona e Finale, Antonio del Carretto,
sino all’investitura baronale di Matteo del Carretto), ma trattasi di ambigua
signoria, malcerta e di sicuro intermittente, emergendo una egemonia
sovraordinata della potente famiglia agrigentina dei Chiaramonte.
Il
primo e vero storico della famiglia dei Del Carretto, baroni prima e conti dopo
di Racalmuto, riteniamo essere l’arcigno Marchese di Villabianca con la sua
diligente opera del 1759: prima di lui il Fazello, il Pirri, l’Inveges, il
Mugnos, il Di Giovanni, il c.d. Muscia, il Barberi, il Ciacconio, il Crescenzi, il
Barone, il Savasta ed il Sansovini, tutti costoro avevano mostrato interesse alle vicende dei
Del Carretto, ma erano stati accenni qualche volta infelici, non sempre
attendibili, in ogni caso incompleti. Quel signore settecentesco, reazionario e
fieramente aristocratico e feudale, ci fornisce un quadro lucido, documentato
ed appassionante - anche se lo stile è ovviamente arcaico - di quella che è
stata la vicenda feudale della baronia e contea del nostro paese. Dopo il
Villabianca, tanti si sono cimentati nella ricostruzione storica della pagina
araldica dei Del Carretto, ma ci appaiono tutti tributari del nostro marchese
e, sostanzialmente nulla aggiungono a quanto saputo, ove si eccettui una
qualche nota critica. Così è sicuramente per la ponderosa opera del San
Martino-Spucches.
Ebbe
di certo tra le mani l’opera del Villabianca il racalmutese Tinebra-Martorana e
vi razziò ingordamente: era, però, appena ventenne e non aveva né voglia né
tendenza ad analisi critiche: qualche documento locale, come quello del
sarcofago di Girolamo del Carretto o come quelli fornitigli maliziosamente dai
Tulumello sul terraggio e terraggiolo da corrispondere a quei
conti di Racalmuto, gli fu sufficiente per imbastire una storia non sempre
precisa sulla signoria dei Del Carretto, la quale storia ebbe, a distanza di
quasi un secolo, il non corrodibile avallo del grande Leonardo Sciascia.
Chi,
da ultimo, si è industriato per recuperare alla memoria eventi certi del casato
dei Del Carretto è stato il prof. Giuseppe Nalbone. Dall’8 aprile 1993 egli ha scandagliato gli archivi di stato di
Palermo e la sua fatica è stata premiata con il rinvenimento di molteplici
diplomi, privilegi e documenti che irradiano una vivida luce sulla storia dei Del Carretto e
finalmente ce la restituiscono nel suo intenso ed obiettivo defluire. Poco o
punto è il risultato rettificativo dell’opera del marchese di Villabianca, ma
tanta è la portata esplicativa di istituti, interventi, ruoli, imposizioni,
condizionamenti ed altro di una vicenda feudale trisecolare che investe
l’essere ed il forgiarsi della vita civile e sociale dei nostri antenati
racalmutesi. Riaffiorano nomi e cognomi di
segreti, castellani, giurati, maestri notari, fiscali, capitani etc. Tanti
di loro non hanno più eredi a Racalmuto, ma taluni sono invece ricollegabili a figure tipiche del
grande teatro che tuttora persiste tra la gente del nostro altipiano.
Il
diciottesimo secolo vede Racalmuto alla prese con gli eredi dei Del Carretto.
Si ebbero varie controversie. Quella più celebre fu mossa prima dal Sac. Nicolò
Figliola (luglio 1787) e successivamente dall’arciprete d. Stefano Campanella
contro il “terraggio” ed il “terraggiolo”. La vertenza si chiuse il 28
settembre 1787 con sentenza liberatoria per i racalmutesi. Cadeva al contempo
il “diritto del mero e misto impero” che l’erede dei del Carretto, il Requisenz,
pretendeva ancora a danno degli abitanti della decaduta contea di Racalmuto.
Nell’Ottocento,
ebbe l’abbrivo lo sfruttamento delle miniere di zolfo e del salgemma ed esplose
un risvolto borghese che ancor oggi suscita consensi entusiastici o stroncature
impietose.
Il
Novecento - prima giolittiano, poi fascista e quindi, nel dopoguerra,
contraddistinto dal vorticoso gioco delle alternanze democratiche -
contrassegna eventi troppo prossimi per trattarli con il dovuto distacco
storico.
GLI EVENTI RACALMUTESI PRIMA DEL 1271
Miocene [8]
(c.a. 25 milioni di
anni fa)
|
Una
sconfinata invasione di un particolare vibrione (il desulfovibrio desulsuricans)
si spande sull’intero altipiano di Racalmuto;
per un singolare processo chimico (nutrendosi il vibrione di petrolio grezzo
e rubando ossigeno al solfato di calcio dà luogo ad idrogeno solforato ed
attraverso una normale ossidazione si trasforma in zolfo) si hanno le sedimentazioni
solfifere racalmutesi.
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(c.a. 7 milioni di anno
fa)
|
Si
concludono le regressioni di acqua marina e si definisce l’attuale facies del territorio di Racalmuto.
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XXX millenio a. C.
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Se
qualche homo sapiens sapiens (del
tipo di Cro-Magnon) ebbe a stanziarsi a Racalmuto, non poté trovare migliore
dimora della grotta di Fra Diego.
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II millenio a. C.
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I
sicani si stabiliscono e prosperano in varie plaghe dell’Altipiano. come
attestano le tombe a forno attorno alla cennata grotta o quelle disseminate
dal Castelluccio sin ad Est, nei pressi della Stazione ferroviaria di
Castrofilippo.
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XIII a. C.
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Decade
la civiltà sicana nelle nostre terre, mentre prospera quella d’influsso
miceneo di Milena e S. Angelo Muxaro e zone limitrofe.
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581 a. C.
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I
Geloi vanno a fondare Agrigento, ma percorrendo un itinerario del lungo costa
con centro Licata ed evitando le impervie zone dell’interno. L’Altipiano
racalmutese, desertico ed impraticabile, non viene per vario tempo acquisito
alla colonizzazione ellena.
|
Secc. V, IV e III a. C.
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La
presenza greca è variamente avvertita, ma non è tale da far pensare a qualche
rilevante centro. Abbiamo solo sporadiche testimonianze numismatiche.
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210 a.c.
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Sotto
il console Levino, Agrigento cade definitivamente sotto il dominio di Roma: Racalmuto
ne segue le sorti.
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70 a.c.
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Cicerone
fa un viaggio in Sicilia per preparare la sua celeberrima accusa contro
Verre: il territorio di Racalmuto non figura visitato. Qui, però, è da tempo
che vengono riscosse le decime sul
grano, sul vino e su quant’altro. Una diota , rinvenuta nel XVIII secolo, dimostra
come un tal Fusco praticasse l’incetta del vino destinato a Roma.
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180 d.C.
|
Un
contadino rinviene a S. Maria una “gavita” che secondo il Salinas si riferisce
al 180 d.C., al tempo di Commodo: è un’importante testimonianza dello
sfruttamento delle miniere solfifere di Racalmuto da parte di Roma imperiale.
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Sino al IV sec. d.C
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Ferve
un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con
centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso
Casalvecchio.
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Dopo il IV sec. d.C.
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Uno
spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
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V e VI sec. d. C.
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Scarse
sono le conoscenze che si hanno per questo periodo in tema della più generale
storia della Sicilia. Se l’Isola fu
occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Di
certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di
quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. I
Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della
Sicilia e la soggiogano sino all’anno
in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad
Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e
modalità sinora del tutto ignote.
La
Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da
parte di Teodorico. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare
tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di
fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il
rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario
riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà
bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe,
non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo
dell’insediamento berbero).
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Fine del VI sec.
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A
Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è
probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou.
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829
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Caduta
Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino
di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se
ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
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1087
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Chamuth fu
l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna.
Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si
può anche ipotizzare che a Racalmuto
vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire
in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette - era sotto il dominio di Chamuth.
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Secolo XI
|
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero
d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna.
Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per
divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio
dell’islamica sudditanza, durata quasi
due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica
religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al
cristanesimo.
|
Sino al 1271
|
I
saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200.
Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le
testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad
avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando
ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli
era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la
‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà
questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375
abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi
dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi
Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
|
[1] )
Archivio Segreto Vaticano. Relationes ad limina - Agrigentum - 18/A f.18
[2])
Cro-Magnon (Francia), località del
Périgord, nel dipartimento della Dordogne. Uomo di Cro-Magnon. Razza di Homo
sapiens sapiens, cui appartengono i resti scheletrici rinvenuti nella località
omonima e risalenti al Paleolitico superiore.
[3]) Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag. 305-306, dal Kitab 'al Falah, Libro dell'Agricoltura
di Ibn 'al Awwam
[4]) Giovan Battista
Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - i nomi geografici italiani
- UTET 1990.
[5]) Peri I., La Sicilia dopo il Vespro, Laterza 1982, pag. 235
[6]) AVS - Reg. Av. 162 f.419v.
[7]) cfr.
G. Picone - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.
[8]) John A. Garraty e Peter Gay - Storia del Mondo - Mondadori 1973 - Vol.
I - pag. 15
[9]) Ibidem. pag. 15.
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