Calogero Taverna
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RACALMUTO PREISTORICO
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(Articoli pubblicati da Malgrado Tutto)
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[PRIMO
ARTICOLETTO]
RACALMUTO
PREISTORICO - ZOLFO, GRANO E SALE
di Calogero Taverna
Racalmuto sorge, si popola e si accresce per due grandi
vocazioni economiche: l'agricoltura e le risorse minerarie.
Già nella preistoria sono presenti due flussi migratori
diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro,
in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che dalla Rocca di Cocalo si espandono
verso Milena, Montedoro,
Bompensiere.
L'immigrazione agricola di popoli che vengono fatti risalire
al XVIII secolo a.C. venne documentata durante i lavori della ferrovia nel
1879. (Cfr. L. Mauceri: Notizie su alcune
tombe .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880). I pochi reperti fittili
finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a
forno dei pressi della stazione ferroviaria di
Castrofilippo sono del tutto sparite per la distruzione
delle successive cave di pietra.
L'altro insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline
illustrate locali definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta di Fra Diego. In
mancanza di ufficiali campagne di scavi - che le competenti Autorità continuano
a denegare, anche se la patria di Sciascia le imporrebbe - dobbiamo accontentarci delle
intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si
rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra
l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma
fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura
di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. (Cfr.
S. Tine': L'origine delle tombe a
forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.).
Quei cosiddetti antichi Sicani,
installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno
trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca
sicuramente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo
strambo passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso fondatamente - al
territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una tradizione millenaria.
Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve
bruciando; con esso si effigiano uomini
e dei (C.I. Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni.
Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già
conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano
statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai
tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli
sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune
terziarie progressivamente evaporate <sarebbe seguito> un processo di
sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della
fisica e della chimica, ma addirittura
uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo» (Pratesi e Tassi, Guida alla natura della Sicilia, Milano 1974, p. 21
ss). Ci diverte alquanto l'idea che le ricchezze della rampante borghesia
ottocentesca di Racalmuto si debbano a quel geologico vibrione.
RACALMUTO
DA TERRA ANELLENICA A DOMINIO GRECO
di Calogero Taverna
Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico
Superiore, fu la grotta di Fra Diego
ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a
luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita.
Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran
lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le
caratteristiche «tombe del tipo a
forno», ove è presente il corredo di vasi e oggetti fittili (Tusa-De Miro, Sicilia Occidentale, Roma 1983, p. 14).
Da quell'era sino al sesto secolo a. C. i nostri progenitori
- siano sicani o altro - riuscirono a
sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'età del Bronzo e di quella del Ferro in condizioni di relativo benessere, piuttosto
pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il
crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma
soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche
sviluppo.
Ma quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono
per il Mediterraneo e le genti rodiese e cretese, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina, per i sicani di Racalmuto fu il prodromo
dello sconquasso.
I moderni storici si
accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non
si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di
un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci
subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando
di mogli, la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì
né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda
generazione. Racalmuto era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose,
preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come
semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città
akragantina. Per qualche secolo ancora Racalmuto poté restare libero territorio
anellenico.
Ma giunti i mitizzati
tempi della famigerata tirannide di Falaride, nel sesto secolo a.C., per le popolazioni di
Racalmuto fu l'inizio di una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni
per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono fortuna e dominio
nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo
nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi
reperti numismatici con la riconoscibile
effigie del granchio akragantino non
attestano solo l'inclusione di quel
territorio nella circolazione monetaria
delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto
l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena
sfuma sino a non lasciare più le testimonianze delle caratteristiche sepolture
in tombe a forno. I nuovi padroni venuti da
Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla , schiava,
nella titanica costruzione del tempio a Zeus che si attribuisce a Falaride. La gran parte,
se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della
gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti
negli inospitali valloni siti a
tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici
e misantropi ma irriducibili ed
incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le
prische connotazioni di uomini fieri e
liberi. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale
racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con
rimarchevole continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i
dominatori che vengono da fuori, arroganti e estranei. Si pensi che un ricambio
in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto
gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di
amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
[TERZO
ARTICOLETTO]
I
GRECI A RACALMUTO
di Calogero Taverna
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto diviene pertinenza
rurale della polis di Akragas, sotto la
tirannide di Falaride: costui, nobile di origine
ma politicante demagogico in esordio, assurge al potere cavalcando la tigre dei
ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei
silicioti greci di quel periodo.
Racalmuto vi fu travolto di riflesso, per via dei greci
nobili che si erano appropriati delle terre del nostro altopiano. Frattanto
nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che
doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza
libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere
venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria
famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si
sono rinvenuti a Racalmuto sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non vi saranno sul nostro
territorio scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre sul circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, a noi non resta
che avventurarci in malcerte congetture. Solo 'MALGRADO TUTTO' nell'ottobre
del 1990 riporta il pensiero di Rosalba Panvini che reputa la scoperta
archeologica degli operai dell'ENEL in contrada Grotticelle 'molto interessante' e pensa che «siamo in
presenza di due strati archeologici che coprono un arco di tempo che va dal III
secolo avanti Cristo al II dopo Cristo». Dopo - a quanto ci consta - un
silenzio arcano da parte delle autorità archeologiche.
Nell'accennata campagna di scavi del 1960, le importanti
scoperte presso Vassallaggi, in S.
Cataldo, portavano a attribuire a
quella località la nota cittadina di Motion della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962
). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel
nome greco all nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Mothio (Mothion) che
diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire
che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del
preesistente 'Mutuum' - sfiorisce in un patetico
dilettantismo di un intellettuale di paese di fine ottocento. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante
'non liquet' (non risulta) di Filippo
Cluverio. Oggi, liquet (risulta)
l'inattribuibilità di Motion a Racalmuto e dintorni e la sua ubicabilità
attorno a S. Cataldo.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motion, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non
riguardò il territorio dell'attuale Racalmuto: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri
antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella
guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il
siculo-ellenizzato di Mineo. Per
Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora
non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo scorso. Nel
settembre del 1874, ai tempi della Giunta d'inchiesta sulle condizioni sociali
ed economiche di Sicilia, l'on. Gerra denuncia involontariamente la precarietà
delle strade di Sicilia quando
riferisce: «Mi recai .. nelle altre provincie, muovendo per mare da Palermo a
Trapani e da Trapani a Girgenti. Di dove
per Racalmuto e Canicattì mi portai a Caltanissetta,
discendendo per Castrogiovanni e Leonforte a Catania. Quindi
fui a Siracusa .....» (Atti Parlamentari. 1874-75, n. 24bis,
All. M.). Come avveniva ai tempi dei viaggiatori del settecento, o in quelli
dei viaggiatori arabi sotto i Normanni, o come - 25 secoli prima - doveva
verificarsi nelle campagne militari contro Ducezio.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva
usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare una aliena
lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla
vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme
naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre
patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni -
pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente
subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per
i posteri.
[QUARTO
ARTICOLETTO]
RACALMUTO NELLA STORIA GRECA DI
SICILIA (V-III secolo a.C.)
[Prima parte]
di Calogero Taverna
Al tempo dei greci, Racalmuto riflette sbiaditamente la
vicenda storica di Agrigento. Resta
pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una
popolazione sfruttata in agricoltura. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori
di Terone, il tiranno agrigentino
legato anche con vincoli di parentela con il tiranno di Siracusa Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più
bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per
consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei
carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi
a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
Sappiamo che quando Terone s'impadronì di Imera, il
granchio di Akragas comparve sulle monete di quella città.
A Racalmuto, sulla cui
economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile
eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per
refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone dalla canicola estiva. Alcuni versi delle
Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche
nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un
giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti
diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran
poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il
suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo
senza fine dell'estate racalmutese.
E a Racalmuto circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci,
esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la società
contadina racalmutese la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento
ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua
cacciata da Akragas, per il passaggio ad un
regime democratico, fu forse neppure avvertita.
Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva
confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione
su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se
Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua
volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas
si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le
parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a
goderne anche Racalmuto. Sono queste, certo, ipotesi, ma attendibili.
Atene - con Alcibiade che, come il moderno Mussolini, credeva
di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di
imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro
Siracusa. Subisce, l'esercito d'
Alcibiade, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del
suo più esperto generale, Demostene, ritenta
l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle
tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano
risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al
solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel
trambusto, Akragas ha modo per
prosperare con i profitti di guerra (quella altrui, s'intende). Racalmuto, come
sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue le sorti, intensificando l'agricoltura e la
pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu
l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo
della vicina polis akragantina.
[QUINTO
ARTICOLETTO]
RACALMUTO NELLA STORIA
GRECA DI SICILIA (V-III secolo a.C.)
[Seconda parte]
di Calogero Taverna
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica.
Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica
cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio
l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti
tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei
greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu la fine: fuggirono i
cittadini a Leontini e la città fu abbandonata.
I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione
delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto
dovette essere per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un
afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine
finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano
sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e
ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia
dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si
impossessava frattanto di Siracusa. Trattava
con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una
parte, Commercio, relativo benessere, vivacità economica, ma sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare, dall'altra. Una
tassazione che incideva la popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a
seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri:
i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e
infide vallate racalmutesi. Per i commerci agrigentini e per la tassazione
decumana, a Racalmuto si apriva un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si ribaltava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più
delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono
chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche nella parte occidentale,
appunto, dell'isola. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili
scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei
reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese
nelle terre racalmutesi di quei secoli della cosiddetta epikrateia (provincia) cartaginese.
Sempre il Tinebra Martorana ci testimonia del rinvenimento di monete «di
argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di
un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le
dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C). In quel periodo, il territorio
racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni
monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e
prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a
quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire
tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra
Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, ....
si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere
antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.
I pegasi, col cavallo alato, destarono un interesse forse un
po' balzano in un avvocato degli anni
cinquanta di questo secolo: nel guidare una vociante jacquerie di stampo paesano e destrorso volle a proprio simbolo il
cavallo alato di quei pegasi che i nostri antenati di due millenni fa inseguivano con ingordigia. Da parte sua,
l'avvocato racalmutese del XX secolo pensò maschilisticamente di dover superdotare
il quadrupede volante del pagaso greco.
[SESTO
ARTICOLETTO]
LA
CONQUISTA ROMANA
di Calogero Taverna
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un
tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a
radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale
Licata: in questa località il
tiranno costruì una città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette
essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno
finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda
storica di breve respiro. Sparisce ben
presto Finzia e Akragas, ritornata debole e
faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed
interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le
porte di Siracusa. Akragas ed il suo
territorio - ivi compreso Racalmuto - si
estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti
all'intrusione di Pirro, quel re dei molossi,
passato alla storia per le sue risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano
nella zona di influenza di Cartagine e vi
restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia entra
inspiegabilmente nelle grinfie espansionistiche della repubblica romana. Ancor
oggi gli storici non riescono a spiegarsi perché i romani armarono uomini e
navi contro i cartaginesi di Sicilia.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda
siciliana si avvia melanconicamente a divenire un'oscura appendice della
lontana e suprema Roma. Per la Sicilia si creano
le premesse per l'infame detto
ciceroniano: «prima docuit maiores
nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia
ebbe l'ingrato compito di far gustare per prima ai Romani quanto fosse bello
soggiogare popoli stranieri. A distanza di un secolo e mezzo, Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto): tutto ciò era per i
romani - anche se, come Cicerone, erano
chiamati a difesa dei conculcati diritti da un tremendo Verre - nient'altro che «extera gens» [straniera gentucola] da dominare e da proteggere solo
perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261 e fu una crudelissima vicenda bellica
romana: dopo un assedio di sei mesi, le bestiali furie dei romani si sfogarono
ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure
gli stessi uomini furono risparmiati:
25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della
città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne
le spese è ancora una volta la città di Akragas: i
cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette essere alquanto
decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i
riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti fra i parenti che si
erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo,
vandalismi ed altro infestarono le campagne racalmutesi, con più che probabile
ferocia e con sgomento degli sparuti abitanti locali.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni:
verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono
saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio
movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000
cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è
Akragas: sulle colture racalmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari
a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande
Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande
scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano
su Agrigento, ultimo baluardo delle loro
difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora
una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano
bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo e la triste sorte di
cittadini akragantini, finiti schiavi da alienare, ha il suo ricorso storico, sempre a vantaggio
dei conquistatori di Roma. Levino a Roma
fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro
ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
[SETTIMO
ARTICOLETTO]
I
SECOLI DEL DOMINIO ROMANO
di Calogero Taverna
Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da
parte di Roma.
Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si
estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle neghittose plebi dell'Urbe:
quell'estensione avviene con la lex Rupilia del 132.
E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la
riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, decimati, prendevano la via del mare per Roma. Ancora,
nel primo secolo dopo Cristo, un mosaico in bianco e nero delle Terme di via
dei Vigili di Ostia Antica, mostrava la Sicilia,
assieme a Spagna Egitto e Africa, quale
simbolo dello sfruttamento agrario romano. E siamo al tempo dell'imperatore Claudio.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane e vaghe
testimonianze archeologiche sono diffusamente noti in vari tempi della storia
locale da almeno tre secoli.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono rinvenute anfore
in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per
trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi
dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini del monte
Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte
delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu
trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782:
esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a
Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione
latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di
Torremuzza, nel suo
rinomato "Siciliae et adiacentium
insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora
fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota"
(anfora per vino) nel cui manico [«in
manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei
suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del
riferimento alla diota ed eludendo
ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di
nome FUSCO, del tutto ignoto alla
storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana.
Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi
mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con
Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco
siciliana non sembra plausibile.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o
in ogni caso un cittadino di Roma: un
probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di
Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad
anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano
sino a tarda età, come si evince dalle
Verrine di Cicerone.
[OTTAVO
ARTICOLETTO]
MINIERE
RACALMUTESI AI TEMPI DEI ROMANI
di Calogero Taverna
Immemorabile trascorse per quasi quattro secoli la vita
agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano.
Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha traccia
alcuna per quel periodo. Solo, sul declinare dell'impero romano, sotto Commodo si registra una svolta economica di grande
risalto per Racalmuto: le miniere di zolfo,
impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, presero piede nel nostro
territorio.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla. Nell'Ottocento,
dopo un buio millenario, si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili
alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri ribaltati dell'indicazione dello
stabilimento minerario. A parlarne per primo è il nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati
dalla Famiglia La Mantia all'Avv.
Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di
Agrigento.
KAIBEL e MOMMSEN ne fecero
oggetto di studio nei rispettivi CORPORA, senza
però precisarne l'origine. All'inizio di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto
alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare
«tegulae sulfuris». Al
Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre
con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella
costruzione di un sepolcro, presumibilmente
nei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne
archeologo procedeva ad un'analisi storica di grande acume che pubblicava
sul bollettino dell'Accademia dei Lincei
«NOTIZIE DEGLI SCAVI» (Anno 1900, pagg. 659-60).
Proprio di recente - come mi segnala il valente giornalista di Malgrado Tutto, Gigi
Restivo - la Regione Siciliana ha ripubblicato quell'articolo, data
l'importanza che ancora riveste.
Altri reperti di tali «tegulae» sono
stati rinvenuti in gran numero nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui
non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro
Griffo (KOKALOS 1963, pp. 163-184), si trattava di un
deposito di cocci di una figlina (officina
di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era
altrove ed in particolare, per quel che
ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario
che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si
tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in
rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas,
nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto
identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono
parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte
in quelle caratteristiche forme falcate
di zolfo, le balate, che ognuno che
abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» (B. Pace,
Arte e Civiltà, I pp. 393-4).
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a
Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze
dell'anno 180 d.C. si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie
certe su una presenza mineraria a Racalmuto: risale all'inizio del Settecento
una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data
del 22.10.1706
i preti dell'epoca registrano un infortunio sul lavoro: Giacomo
Giangreco Cifirri, di 34
anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga
di salgemma, mentre scavava dentro una
miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino. Il
Giangreco Cifirri moriva dunque nella caverna di una salina, per il repentino
crollo di massi di sale.
[NONO
ARTICOLETTO]
RACALMUTO
BIZANTINO
di Calogero Taverna
Confesso di avere avuto un sobbalzo quando mi sono imbattuto
in quel passo di Biagio Pace che accenna ad un ipogeo cristiano in
«quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto» (cfr. B. Pace, Arte e Civiltà, vol IV, pag. 174): una
presenza cristiana del quinto o sesto secolo nel nostro paese con tanto di
chiesetta cimiteriale era notizia di acuto interesse storico.
Con una punta di disillusione ho però subito dovuto
convincermi che l'eclatante affermazione poggiava su un malcerto passo del
nostro Tinebra Martorana, il seguente: «..alla
contrada Grutticeddi esiste un
poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in
quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di
ossa». Da qui all'ipogeo cristiano del V secolo ce ne corre. Una ipotesi
dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti
archeologici nei dintorni vanno sempre meglio precisando.
Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei
bizantini. Confinavano con le
contrade di Bigini e Cometi e tutte tre le contrade risultano feudi nei capibrevi minori di Luca
Barberi e tali appaiono nel primo abbozzo di una mappa catastale di Racalmuto
custodita presso l'Archivio di Stato di Agrigento. Per
contro vi sono i feudi maggiori di Gibellini e del castello chiaramontano di
Racalmuto.
Grotticelle e dintorni
poterono dunque essere fattorie o
pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di
Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici (cfr. V. D'Alessandro, per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in
Archiv. Storico Siracusano, n.s. V,
1981) oggi è pur congetturabile una
sorta di continuità tra l'assetto
agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura
saracena a Racalmuto, come altrove, fu
profonda ma non invalicabile.
In tale contesto pensiamo che, se non tutti e due i nostri
castelli medievali, almeno il Castelluccio (nella vecchia contrada di Gibellini) può
sorgere su un antico nucleo bizantino: il «frourion». A
convincerci in tal senso, sono le tesi di Rodolfo Santoro sulle «fortificazioni siciliane dall'ultima
amministrazione imperiale bizantina al consolidamento del Regno di Sicilia»
(Archivio Storico Siciliano, 1976, p. 27 ss.) e più
specificatamente sulla «architettura castellana della feudalità siciliana»
(Arch. Stor. Sic., 1981, p. 59 ss.).
Secondo Santoro, il «Frourion, parola greca che designa la
fortificazione in generale, ... è riferibile al piccolo fortilizio di età
bizantina dotato di una torre e di un breve circuito murario..» (Ibidem pag.
65). Il Castelluccio, ingrandito e meglio fortificato in età post-normanna, ha
invero l'aria di una derivazione bizantina che precede dunque la conquista
araba.
Ma l'ultimo atto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il
momento la presenza di un ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento)
rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle
monete a Racalmuto, ho sentito varie
versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto
di una vigna in contrada "MONTAGNA";
ritrovamento del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non
eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista
denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete
finite al Museo di Agrigento. A quel
ripostiglio si riferisce André Guillou (L'Italia bizantina dall'invasione longobarda
alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316). Nell'illustrare l'industria e il commercio
dei bizantini di Sicilia, quell'autore colloca nei secoli VII-VIII il «numero
notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola» e mette a capofila le
monete di Racalmuto.
Secondo quel che possiamo leggere in un altro studio di quell' Autore
(Arch. Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149) trattasi di un tesoro
di «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».
Quell'importante
testimonianza di Racalmuto bizantino è oggi nascosta in una sala sempre chiusa
del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende
bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di
datazione come mi è capitato di constatare in testi per altri versi pregevoli
(cfr. P. Griffo, Il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, 1987, pag.192).
[Articoletto
n.° 10]
RACALMUTO
SOTTO GLI ARABI
di Calogero
Taverna
La pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del
dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di certo sappiamo che caduta Agrigento attorno all’ 828 in mano dei Musulmani, anche per
il tradimento del greco Eufemio, quella
che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio di
Racalmuto finì sotto il dominio arabo. Di certo, verso l’840 i nuovi e più
stabili padroni furono i Berberi, gente
della famiglia camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini.
Distrussero costoro religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni
dei nostri progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di imposte
a carico dei ‘rum’ (romani o cristiani che
dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso razzisti, non
avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il
loro modo di essere maomettani a quelli che quella ‘grazia’ non era stata
concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i
vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine
sociale, per il supporto schiavistico su cui, mascherato e variegato, si
radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due
popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono
neppure di segno contrario. Forse le tante lucerne funerarie ed i resti
archeologici delle zone del Giudeo risalgono proprio a quei secoli arabi, anche
se sono attestazioni cristiane o ebree oppure appunto per questo..
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della
conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte
del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle
valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone
appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i Rum (i Cristiani) ignoravano. Dai Rum, l'emiro di
Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo
per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi,
insediatisi da noi, introdussero sistemi
di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi
autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche
e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. (Michele
Amari: Biblioteca Arabo-Sicula,
Torino 1880 - pag. 305-306: dal Kitab
'al Falah (Libro dell'Agricoltura) di Ibn 'al Awwam). I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente
secoli arabi per Racalmuto.
Un documento greco del 1178, se per avventura si dovesse
veramente riferire a Racalmuto come autorevolmente sostiene il Garufi,
proverebbe appieno queste nostre ipotesi.
In effetti, in quel documento greco del
1178 abbiamo il primo attestato
storico sul toponimo di Racalmuto, e già siamo ai tempi di Guglielmo II, il Buono. Ebbe a pubblicarlo nel 1868 il grande Salvatore CUSA (cfr. I diplomi greci ed arabi di Sicilia,
Palermo 1868, pag. 657-658 e pag. 729): vi si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di
Gadera, di un fondo sito in RAHALHAMMUT, per il prezzo di 50 tarì. A venderlo, nel settembre
di quell'anno, fu tale Pietro di Nicola GUDELO, insieme
alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola.
Il toponimo Rachal Chammoùt ( αµµu) figura scritto in greco e la vendita del
terreno viene fatta al lontano monastero di S. MARIA di GADERA, sito nei pressi di Polizzi
Generosa. Per alcuni studiosi
locali, affetti di laico attaccamento alle loro pretese origini musulmane, vi
sarebbero le stigmate della sofferenza post-araba di Racalmuto. Terra ormai di
schiavi, il suo circondario sarebbe stato spartito tra chiese e conventi e già
dal 1093 avrebbe, per di più, subito
l'onta dell'assoggettamento alle decime
del vescovo di Agrigento, di cui per volontà
dell'invasore normanno era stato ridotto a territorio diocesano subalterno.
[Articoletto
n.° 11]
IL
NOME DI RACALMUTO
di Calogero
Taverna
Mi si controbatterà che buia per quanto sia la pagina araba
racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo.
Già nel XVI secolo il colto Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto.
«Castello saraceno - lo definiva - dove è una Rocca edificata da Federico
Chiaramonte». Più in là non andava. Tra
il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico nel suo “Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la
funerea etimologia di paese “diruto,
morto” e simili relativamente a Racalmuto. L’avv. Giuseppe Picone,
agrigentino ma del ceppo dei Picone del nostro paese, s’inventava addirittura
la derivazione da due termini arabi: Rahal (‘Villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut
(‘della Morte’ e qua invece cervelloticamente). Il Nostro Tinebra Martorana, con fervore giovanile, vi
correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline
alle pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene difficile per
chicchessia procedere ora alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il
compaesano gesuita padre Antonio Parisi: «... emerge la
probabilità, se non la certezza - scrive il dotto gesuita - che fosse stato un
Hamud [...] a
dare il nome all’abitato. Rahal,
pronunziato Rakal [ ...]; Hamud, pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere
la cacofonia si soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” =
Ralmanuto!». Quando ignoravamo questo scritto, seguendo altre nostre personali
argomentazioni, siamo arrivati a conclusioni analoghe che abbiamo affidate alla
locale biblioteca comunale.
Di certo, con la sua indiscussa autorità, ci aveva pensato il
Garufi a debellare la fantasiosa etimologia di
Racalmuto quella lugubre di “Paese dei Morti”. In un suo studio del 1947
(Carlo
Alberto Garufi, PATTI AGRARI E COMUNI FEUDALI DI NUOVA
FONDAZIONE IN SICILIA, parte II dell'articolo, in ARCHIVIO STORICO SICILIANO, anno
1947, pag. 34) troviamo, infatti, questa illuminante nota: «soggiungo che
l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne
l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale
della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tuttavia nel
Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di
compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in
Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il
casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte
ricorre fra i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale,
greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa
».
Va detto che la lezione del Garufi,
purtroppo, non è stata recepita dai moderni storici alla Henri Bresc. Ispirato forse da
quest’ultimo, un grandissimo arabista contemporaneo si è data la briga di
riesaminare l’etimologia del toponimo “Racalmuto”. Non accetta la versione
tradizionale. Ed ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto come ‘Paese del
moggio’. Ci riferiamo a quanto pubblicato nel 1990 nell’opera rispettabilissima: Giovan
Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - i nomi
geografici italiani - UTET 1990.
Vi leggiamo che “Racalmuto”: «deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e
221) 'sosta, casale' del Mudd <latino modium 'Moggio' ". "Paisi di
lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli
Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino
Monte Formaggio di Sutera. Del
resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo
ed analoghi.
Ma almeno, niente più accenni mortuari che ci tornano
indigesti. E’, dunque, un passo avanti.
Dipanata in qualche modo la questione del significato, nasce
quella del periodo in cui si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il
periodo della dominazione berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va
spostato nei tempi immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25
luglio del 1087), come noi siamo inclini a credere?
Insediatosi Ruggero il Normanno, presso gli abitanti arabi
del territorio di Racalmuto permase l’uso di chiamarsi quelli del Casale di
Hamùd e, tardivamente, i notai e gli uomini colti
dell’agrigentino - preponderantemente, ebrei - finirono col recepire quella dizione, che
solo nel XIII secolo resta raffermata in “Racalmuto” o più precisamente “Rachal-Chamut”, come più
dettagliatamente vedremo in seguito. Questa la nostra ipotesi.
[Articoletto
n.° 12]
I
NORMANNI A RACALMUTO
di Calogero
Taverna
La conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera
del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero. La fole di
una Rahal-Almut con il suo emiro dal
beffardo nome di AABD-ALUHAR con le sue 2095 anime etc.etc. è un infondatissimo
falso del settecentesco abate Vella, cui non
si può attribuire neppure quel barlume
di verità che gli storici moderni rinvengono nei miti, nelle saghe e nelle
inverosimili agiografie. Serafino Messana - un robusto intellettuale dell’Ottocento
della nostra terra, il cui valore oggi appare del tutto ignorato - ebbe a
provarci, per quel che ce ne dice Eugenio Napoleone Messana. Ma non va
oltre un fantasioso romanzare. Narra, dunque, il Messana di due governatori di
Racalmuto chiamati Apollofar ed Apocaps. Muore in battaglia a Catania, Apocaps.
Organizza una stenua difesa ad Al ’Minsar - che Eugenio Napoleone Messana reputa essere
l’attuale Castelluccio - Apollofar. Fiaccato per il bisogno tentò
riparo nella fuga verso Licata, ma invano
giacché fu visto e raggiunto presso Ravanusa, ove,
preso prigioniero, venne decapitato.
Quanto a documenti, però,
non vi è nulla.
Un piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del
Malaterra. Facendo anche noi ricorso
alle congetture, propendiamo ad identificare Racalmuto in un toponimo,
evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del testo malaterrano, che si
rifà ad un impreciso “Racel....”.
Goffredo MALATERRA fu un cronista normanno dell’XI secolo. Monaco
benedettino a Sanie-Evreul-Ouche, passò
nell'Italia meridionale e si stabilì in Sicilia. Qui fu incaricato
dal gran conte RUGGERO di scrivere la cronaca delle gesta del
Normanno. Il racconto si
estende per quattro libri. La sua opera è variamente intitolata. La
riedizione del Pontieri (Bologna 1927), porta: «De rebus gestis
Rogerii ..... et Roberti Guiscardi». Il manoscritto
malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA fu
pubblicato a Saragozza nel 1578. Del manoscritto originale si sono
perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne serve e riduce in RAHL il RACEL che si trova nel punto in cui si parla della
conquista dell’agrigentino e che potrebbe riguardare proprio il nostro paese:
Racalmuto.
In effetti il Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di
Agrigento conquistati dal conte Ruggero «.. Unde
et usque ad undecim - scrive il
monaco - aevo brevi subjugata sibi
alligat, quorum ista sunt nomina» In altri termini, il Conte in breve tempo
riesce a conquistare fino ad undici villaggi, i cui nomi sono: «Platonum,
Missar, Guastaliella, Sutera, Racel .., Bifar,
Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa “Villaggio delle
donne”], Licata, Remunisce».
Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro e Caltanissetta,
quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio
Racalmuto: una delle undici località note al cronista del conte Ruggero. Ma
il limite di mera congettura, resta.
L’evanescenza di un centro abitato a Racalmuto, dopo la
conquista normanna, si protrae nel tempo. Neppure, per i primi decenni del
secolo XII, ai tempi del geografo Edrisi, si ha la
prova certa della sua esistenza. Commettendo, forse, un’altra appropriazione
indebita, potremmo accaparrarci di un passo dell’opera di quel geografo e
collegare una delle località descritte dall’ Edrisi, Gardutah, con
Racalmuto (come se si trattasse di una corrotta trascrizione del fonema
dialettale "Racarmutu"). Era
questo «un grosso casale e luogo popolato, con orti e molti alberi e terreni da
seminare ben coltivati» (v. EDRISI, Nuzhat ’al Mustaq fi ihtiraq ’al
afaq [Sollazzo per chi si diletta di girare il
mondo] - Testo e traduzione a cura di
Amari-Schiapparelli - Accademia dei Lincei, Roma, 1883,
pag. 47). Il contesto ben si addice a Racalmuto. « Da Sciacca a Platano corrono diciassette miglia - il fiume Platano
vi scorre a levante. Da Platano [si va] a Gardutah
[che sta] a levante [....] A tramontana di Gardutah è Sutir (comune di Sutera) [...] Da
Sutera a Gardutah si contano nove
miglia ..» Nelle vicinanze sembra debbasi collocare ’al Minsar che Amari
finisce col situare - dopo tante perplessità - «a Castrofilippo o nei dintorni, piuttosto che a Montedoro, dove
l’[aveva notato] nella Carte comparée ..». Pertanto, aveva forse ragione Eugenio Napoleone
Messana ad individuare nel Castelluccio proprio l’edrisiano ’al Minsar.
[Articoletto
n.° 13]
NE’
CASALVECCHIO NE’ SANTA MARIA
di Calogero
Taverna
Le origini di Racalmuto sono pervicacemente incrostate da due
falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da un lato, si indica Racalmuto
insediato a Casalvecchio con questo improbabile toponimo in lingua
volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro sito nei
pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal 1108.
Per il primo falso, la più antica testimonianza che siamo
riusciti ad individuare risale al 1869, quando un tal prof. Amato Amati raccoglieva l’imbeccata che a tal proposito
gli forniva il sindaco di Racalmuto di quel tempo, che crediamo essere stato il
notaro Michele Angelo Alaimo (cfr. DIZIONARIO COROGRAFICO DELL'ITALIA a cura del prof. Amato AMATI - Milano -Vallardi, 1869). Vi si legge: « Antica è
l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla
peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si
trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio.» La
notizia viene, per esplicita ammissione, riecheggiata dal nostro
Tinebra-Martorana, che invero non ha la
pretesa di dare ragguagli incontrovertibili. P. Girolamo M. Morreale S.J. - ricercatore serio e da noi
particolarmente apprezzato - si lascia purtroppo andare in arbitrarie congetture
nella sua storia di “Maria SS. del Monte
di Racalmuto” [pag. 24]
e tenta di accreditare la tesi secondo la quale «cessata la peste [del 1355] i
Racalmutesi superstiti non tornarono più nelle loro antiche abitazioni, ma
attirati dall’acqua del Raffo costruirono le nuove case nei dintorni; il
paese abbandonato ed il territorio circostante ebbero il nome di Casalvecchio».
Ma a intorbidare del tutto le acque è
stato - a nostro avviso - L’Assessorato Turismo Comunicazioni e Trasporti della
Regione Sicilia che nel n.° 39 del 22
dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo” propina infondatezze su Racalmuto come la seguente
«Distrutto Casalvecchio, come riferisce Michele Amari, il nuovo
centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato ed
è quindi impossibile chiarirne la fondatezza. Noi crediamo che ci si riferisca
alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Se è
così, l’arbitrio è totale. Vi si parla, sì, di CASTEL VECCHIO ma è località a
quattro miglia da Agrigento, chiamata Raqqâdah (Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi
sembra proprio che Racalmuto c’entri proprio. Come nulla ha a che fare - almeno
secondo me - con Casalvecchio. Ritrovamenti archeologici provano magari
insediamenti greci e romani in quelle parti. Nulla di arabo finora risulta. Men
che meno reperti attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medioevo. L’arcidiacono Bertrando Du Mazel, che ebbe a fare censimenti
nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella documentazione rimessa ad
Avignone, attesta l’esistenza di un
centro abitato (appena 136 “fuochi” in case
per la gran parte coperte di paglia) che
appaiono sparse nei dintorni della fortezza, quella che noi racalmutesi
chiamiamo “lu Cannuni”.
L’altro plateale falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là
dove oggi stanno i ruderi di Santa Maria di Gesù. E qui la colpa è tutta dei canonici agrigentini,
protesi ad accaparrarsi talune rendite racalmutesi, sotto il nome di Santa
Margherita. Su loro interessate
segnalazioni, il PIRRI, attorno al 1641, ebbe a
scrivere: “antiquissimum est templum olim
majus S. Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia
Episc. Agrig. à Roberto Malconvenant domino illius
agri extructum...” (pag. 758 delle Notizie della Chiesa Agrigentina). A tre lanci di pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un
tempo era quella maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di
Agrigento, da Roberto
Malconvenant, signore di quel territorio, attesta
dunque l’abate netino. Solo che la notizia si basa su documenti dell’ Archivio
Capitolare di Agrigento, che, in
base a studi del 1961, si riferiscono ad altra località, molto probabilmente
sita nei pressi di S. Margherita Belice, come più dettagliatamente
vedremo in seguito.
[Articoletto
n.° 14]
BORGO
ARABO AL TEMPO DEI NORMANNI
di Calogero
Taverna
Del tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi
località chiamata Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di
Agrigento per il periodo che va dal 1092 al 1282. Si suol dire che il silenzio nella
storia equivale al nulla. In questo caso, però, si deve ammettere che per un
paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo esplicito della potente
curia agrigentina, ne ebbe a pagare censi, canoni e livelli agli ingordi
canonici del capitolo della asfissiante cattedrale di San Gerlando. Basta scorrerle, quelle
carte per rendersi conto di quanto fiscali fossero il prelato e la sua corte
agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno istituì - o si pensò che avesse istituito -
quella diocesi affidandola al santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di
bell’aspetto e di copiosa dottrina, secondo quel vogliono le cronache.
Non sono tutti originali i documenti più antichi: alcuni sono
rifacimenti posteriori al Vescovo Urso (1191-1239), un prelato finito prima
prigioniero dei saraceni in una loro storica rivolta, e poi riuscito ad
affrancarsi insieme ad una parte dei privilegi, che ci sono stati nel complesso
fedelmente conservati. Tra questi spiccano i diplomi che nel diligente studio
di Paolo Collura (P. Collura: Le più
antiche carte dell’Archivio Capitolare di Agrigento - Palermo 1961) recano i nn.i 8, 9
e 27 sui quali fu imbastita in tempi imprecisati un’impostura su Racalmuto e
sulla sua chiesa di Santa Maria. Lo studio
del 1961 dimostra intanto che trattavasi di posti collocabili presso Santa
Margherita Belice. Una confusione davvero rimarchevole. E
sebbene ciò, i canonici agrigentini, sin da prima del XV secolo, hanno tratto
da quel falso un titolo giuridico per una loro pingue prebenda d’origine
racalmutese. L’hanno legata alla pretesa fondazione ecclesiale di Santa
Margherita, che fu invero una chiesuola sorta molto più tardi, “contigua e
comunicante” «colleteralis et coniuncta», con la Chiesa di Santa Maria
(stando almeno ai dati della visita di Mons. V. Bonincontro, Vescovo di Agrigento,
effettuata il 20 giugno 1608 [v. Curia
Vescovile Agrigento: REGISTRO VISITE 1608-1609 f. 247 e ss.]).
L’incolpevole Pirri, nel
1641, attribuisce il diploma n. 8 a Racalmuto:
ma si sa che si avvaleva di notizie di seconda mano perché il netino, data la
sua età, non poté che affidarsi a corrispondenti locali e cioè a canonici che
avevano libero accesso a quei documenti capitolari tenuti gelosamente custoditi
(come del resto avviene tuttora). Sulla scia dell’abate di Noto, il nostro
Tinebra Martorana giovanilmente riproduce il falso a pag. 57 del
testo ripubblicato nel 1982 dando suggello
alla secolare impostura secondo la quale «fu Roberto Malconvenant ad erigere sul nostro territorio la prima
chiesa cristiana». Ed aggiunge, falso nel falso: «la chiesa di S. Margherita vergine
corrisponde alla nostra S. Maria di Gesù.»
I racalmutesi a questa
tradizione tengono come si evince dai cartelli pubblicitari che tuttora si
ostendono. Si continui pure nelle credenze, purché in definitiva si sappia che la chiesa di
Santa Maria sorse in un periodo almeno di due secoli
posteriore alla pretesa data della sua
fondazione: forse si può risalire al 1308 se accreditiamo in tal senso un
documento vaticano delle decime avignonesi.
Che il Pirri si riferisse ai documenti contrassegnati dal
Collura con i nn. 8 e 9 è fuor di dubbio e che quindi per il contesto di
entrambi i diplomi siamo in località che nulla hanno a che vedere con il nostro
paese è del tutto incontrovertibile: il falso, però, un elemento di
chiarificazione per la storia di Racalmuto ce lo fornisce. Vi è come il
paradigma di come sorgevano borghi arabi sotto i normanni nel perimetro della
diocesi agrigentina. E Racalmuto - nullo o pressoché inesistente sotto Ruggero il Normanno, tanto che non vi si
appuntarono in un primo momento gli appetiti tassaioli dei canonici
agrigentini, - poté sorgere, attorno alla metà del XII secolo, sotto la spinta
di un signorotto transalpino del tipo dei Malconvenant o per spinta di monaci dell’ordine dei
benedettini, come siamo più propensi a credere. Villani o schiavi risultarono
certi arabi, più o meno importati; padroni erano invece stranieri non residenti
o abbazie distanti.
Il documento del 1108 che si vuole a base di Santa Maria è abbastanza complesso. Vi si ricava che il
Malconvenant ebbe a donare ad un suo consanguineo delle
terre con degli schiavi saraceni. Quel parente, un militare in disarmo, vi costruisce una chiesa. Viene dal vescovo
fatto chierico per amministrarla. Le terre di pertinenza sono vaste. Ad
accudirle penseranno cinque saraceni i cui nomi astrusi sono: Alibithumen,
Hben El Chassar, Sellem Eblis, Mirriarapip Abdelcai, Maimon Bin Cuiduen.
Scomunica per chi vi attenta; benedizioni per chi ne accresce la ricchezza: ' Si quis - aggiunge il vescovo - vero
ecclesiam Sancte Margarite Agrigentine
Ecclesie omnino subiectam circa possessiones eius in aliquo defraudaverit,
anathema sit; qui vero eam aut de rebus mobilibus aut immobilibus
augmentaverit, gaudia eterne vite cum sanctis peremniter percipiat'.
Con siffatta
benedizione un borgo arabo poteva prosperare e così congetturiamo che ebbe a
prosperare Racalmuto, forte di una qualche ecclesiale benedizione, s’intende a
pagamento.
[Articoletto
n.° 15]
RACALMUTO:
UNA PREISTORIA DURATA 3271 ANNI
di Calogero
Taverna
Giunti a questo punto del nostro excursus, uno sguardo retroattivo, una pausa di riflessione si
rende indispensabile per fare il punto su ciò che fu la società, la vita, la
religione, gli usi, i costumi che in questa landa dell’altipiano racalmutese,
nel corso di circa 3271 anni, quanto dura la preistoria di Racalmuto. Il
documento angioino del 1271, sbarra finalmente le porte alla storia, quella
documentata, non inventata, più o meno fantasiosamente.
Prima, affiorano solo cenni o spunti che soltanto in via
congetturale possono portare a questo centro dall’incerto nome arabo che è la
nostra terra di Racalmuto.
Sul nostro altipiano - che, a ben
vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da quasi quattro millenni, tracce
del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito
stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per
oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C.,
mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come
attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi
micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la
civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze
che superassero l’onta del tempo).
Contraddistingue il popolo sicano un sentimento religioso
tanto profondo da spingerlo ad opere che scavalcano l’obliterazione dei
millenni per giungere sino a noi. Sono quelle tombe sicane che si affacciano grandiose e impressionanti
dalla parete della grotta di Fra Diego. Il culto dei morti - una
costante racalmutese che diventa una mania al di là di ogni temperanza, dai
tempi remoti sino ai nostri giorni - affonda le radici in quel sentimento
religioso, nel senso dell’al di là che connota ed ossessiona persino l’uomo
preistorico racalmutese. Certo, a quel tempo è più il terrore superstizioso
della morte, che non una liberatrice fede nell’immortalità dell’anima, ad avere
il sopravvento. Ma è pur aspetto nobile e qualificante di un popolo che se
crede in una vita ultraterrena, crede anche nell’esistenza di Dio. In tal senso
anche il popolo sicano racalmutese è stato il popolo di Dio.
Sparita quella civiltà attorno al XIII secolo a.C., saranno i
sicilioti greci di Akragas a rifrequentare quelle plaghe. Continua il
culto dei morti, sorge una religione politeista, vi ispira sentimenti nuovi di
pietà e di fede operosa. Dio continua ad essere presente a Racalmuto. Così come avviene quando
il territorio viene annesso dalla predace Roma ed assoggettato a decime in natura ed in
denaro. Una epigrafe sul timbro apposto nell’interno del manico di una diota testimonia la tassazione romana delle terre di
Racalmuto al tempo di Cicerone. Reperti archeologici di
tombe attestano riti e culti religiosi.
Con Sparita quella civiltà attorno al XIII secolo a.C.,
saranno i sicilioti greci di Akragas a rifrequentare quelle plaghe. Continua il culto
dei morti, sorge una religione politeista, vi ispira sentimenti nuovi di pietà
e di fede operosa. Dio continua ad essere presente a Racalmuto.
In Sicilia quindi subentrò il periodo delle immigrazioni greche.
Racalmuto appare completamente estraneo al processo iniziale della
colonizzazione: solo, quando si consolida l’egemonia greca di Agrigento, qualche
colono ebbe l’ardire di addentrarsi nelle parti più interne dell’altipiano
racalmutese. Di documentato, però, non abbia nulla e dobbiamo accontentarci
delle acritiche descrizioni di ritrovamenti archeologici che ci fornisce Nicolò
Tinebra Martorana nella sua «Racalmuto, memorie e tradizioni».
Non solo le contrade di Cometi e Culmitella
ma anche quelle del Ferraro sarebbero
state frequentate da Sicilioti.
[articoletto n.° 16]
ESATTORI
ROMANI, ZOLFO, DECIME E MANCIPES A
RACALMUTO
di Calogero TAVERNA
Nel terzo secolo a.C., con la conquista
romana, non cambia molto ed è solo sporadico l’interesse di coloni, che solitari ebbero voglia di
coltivare qua e là alcune delle plaghe più fertili di Racalmuto; si può forse
congetturare che più frequente fosse, specie nell’interno, la pastorizia.
Contadini grecofoni non mancarono
comunque ai tempi della repubblica romana ed essi furono tassati specie per le
loro produzioni vinarie, come attesta un’epigrafe rinvenuta nel territorio di
Racalmuto nel XVIII secolo, di cui ebbe a fornire preziosi ragguagli il
Torremuzza. Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese, anche se non
può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località siciliana
“diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena epoca
repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.
Ma quel che di rimarchevole ci
forniscono i reperti archeologici del luogo sono certe “ tabulae” o
“tegulae” ‘sulfuris’ risalenti con
certezza al tempo di Commodo e che per secoli dal II al IV comprovano una
intensa attività mineraria solfifera nelle medesime zone del nord ove sino a
qualche decennio fa prosperava tale industria.
Con Commodo, nel 180 d. C., le viscere
della terra, che erano state invase da vibrioni trasformatisi in vene di zolfo, vengono violate per l’estrazione del biondo
minerale con metodi e strumenti che dopo essersi eclissati per secoli riemergono
nell’ottocento e durano, tutto sommato, sino a metà di questo secolo. Reperti
archeologici, compresi per primo dal nostro quasi compaesano avv. Giuseppe
Picone, disvelano l’esistenza a
quei tempi di “gàvite” con impressi timbri di singolare importanza epigrafica.
In esse talora viene incisa una piccola croce. Ecco la più antica testimonianza
dell’avvento del cristianesimo a Racalmuto.
L’industria mineraria solfifera dura dal II al IV secolo d.C.
in quel di Racalmuto: dopo decade e scompare
(salvo a risorgere nel XVIII secolo) per l’opera nefasta dei Vandali di Genserico. L’abitato
si trasferisce allora a Casalvecchio. Un monticello calcareo -
le Grotticelle - ben si presta alla tumulazione dei morti.
Per Biagio Pace quello è un ipogeo cristiano. Il culto dei
morti si ammanta ora di pietà cristiana. Solo la rapace ed incolta pirateria di
improvvisati tombaroli racalmutesi degli anni ’quaranta ha impedito uno studio
archeologico serio di quell’ipogeo. Nessun reperto si è comunque salvato. Di
nessun dato disponiamo per una vulnerazione del buio fitto che è calato sulla
vicenda religiosa locale del periodo post-romano.
Nell’atrio dell’ex convento della Clarisse - rapinato dal buon Garibaldi - si custodisce il noto sarcofago con il
bassorilievo del ratto di Proserpina. Giaceva
prima nel castello chiaramontano, assurto nel XVI secolo a dimora dei Del
Carretto. Chi, quando e come ve lo
avesse qui portato, resta un mistero. Se dovesse essere il superstite segno di
una necropoli giacente sotto (o nei dintorni) del castello (per i racalmutesi: lu Cannuni), se ne
dovrebbe trarre l’inferenza che ancora nel VI secolo d. C., la religione
cristiana non era universalmente abbracciata in questa antica terra, e qualcuno
amava farsi seppellire in sarcofagi pagani.
[articoletto n.° 17]
VISIGOTI E GOTI, BIZANTINI E
LATINI A RACALMUTO
di Calogero TAVERNA
Dopo, con la caduta dell’impero
romano e l’avvento dei barbari, il silenzio archeologico - oltreché documentale
- è totale sino al tempo dei bizantini. Di certo,
incursioni di barbari dovettero esservi specie per razziare i pregiati raccolti
cerealicoli. Forse Genserico, se non
nel 441 almeno nel 445, portò i suoi Vandali a devastare anche il territorio racalmutese.
Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte dei coloni dell’epoca
all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel 456 riuscì a
sconfiggere i Vandali ad Agrigento. Del pari non sono da escludere presenze
vandale a Racalmuto nel periodo del loro ritorno in Sicilia che si protrae sino
alla cessione dell’isola ad Odoacre. Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il possesso della Sicilia
ci è del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del ‘buon governo’ di Teodorico.
Probabilmente risale a questo periodo se tanti coloni poterono concentrarsi
nelle contrade di Grotticelli e di Casalvecchio e costituirvi un consistente agglomerato che
poté prosperare specie sotto i Bizantini.
Casalvecchio, il
toponimo che ancor oggi persiste, è zona piuttosto ricca di testimonianze
archeologiche: purtroppo riluttanze delle autorità agrigentine impediscono a
tuttora di studiarne in loco la
portata, le valenze e la significatività. Sappiamo solo che fu fiorente la
civiltà bizantina, che durò sino all’incasione araba, allorchè appassì e si
disperse. Alcune monete - rinvenute, però, nella disabitata contrada della Montagna portano in effigie gli imperatori bizantini Héracleonas e Tiberio II.
Il
primo risale al 641; il secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono
nel 698 e venne ucciso nel 705. Le tante e ricorrenti testimonianze
archeologiche (lucerne, condutture d’acqua, resti di fondamenta, ingrottamenti
artificiali ad arcosolio, strutture murarie abitative affioranti, etc.) che si rinvengono nella zona che va
dallo Judì al Caliato; dalle
Grotticelle a
Casalvecchio e dintorni attengono alla cultura bizantina, prosperata dal
sesto secolo sino all’avvento degli Arabi.
Dal VI al IX secolo Racalmuto - ci è ignoto il nome greco del periodo -
divenne palesemente bizantino. Secoli fervidi di opere e di umane presenze che
le future campagne di scavi redimeranno dall’oblio dei tempi. La locale
comunità fu di certo grecofona e quanto al rito religioso ebbe ad optare per
quello ortodosso. Infuriava ad Agrigento la lotta tra vescovo greco e quello latino. Le
vicende di tal Gregorio ci sono state tramandate ma con tali obnubilamenti che neppure il grandissimo mons. De Gregorio è riuscito sinora a dipanare. Misterioso
dunque l’atteggiamento della periferica chiesa racalmutese in tal frangente.
[articoletto n.° 18]
ARRIVA
LA CIVITA’ ARABA
di Calogero
TAVERNA
Con gli
Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non
può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura
saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né vestigia
archeologiche, né testimonianze scritte, né tradizioni appena attendibili, né
indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto
che è, appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico
pensare che di arabo Racalmuto non ha nulla: già, perché i tanto conclamati
toponimi - a partire dal nome del paese - o l’etimologie arabe dei vari lemmi
della parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione
saracena o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria
normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni
arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi
locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita
di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici, religiosi.
Vai a dir loro che trattasi di meri vaneggiamenti, di fole senza fondamento, di
ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente intensità
demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’ (frutto
questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà terriera, né
‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi racalmutesi ci
trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal nome non
esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge attorno alla
metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista normanna
dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia trasparire
l’assesto voluto da Federico II, dopo la
repressione dei moti ribellistici degli sudditi arabi dell’intero territorio
agrigentino. Non possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò
l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a
rendere più tranquilla l’industria agraria e più sicura la proprietà, creò
ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento così per opera di Moezz
l’abuso delle esazioni, la libera operosità dell’agricoltore dovette svolgersi
notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca è uno dei popolosi casali.»
Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva 1101 adulti e 994 di un’età
inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore di Rahal-Almut,
AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine
ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([1]) Ma
l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate
Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di cicchettare lo storico locale per
avere contrabbandato come storia quella che era stata una mera invenzione del
“famoso Giuseppe Vella” e ciò per la
«tentazione dell’accensione visionaria,
fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso
pur sapendo che è falso». E del resto lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non
mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la
falsità, e precisamente nelle Parrocchie
di Regalpetra.» E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i
racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo
(v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di
quella falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale
resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, si lascia
andare a questa arditezza storica: «... siamo nella microstoria di Racalmuto:
antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi
arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut,
paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso
l’altipiano che dal paese prende oggi il nome....». Non sembra che la fonte di
cui si serve Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto va
asserendo il solito Tinebra Martorana (v. pagg. 33 e segg.).
[articoletto n.° 19]
NORMANNI
E SARACENI
di Calogero
TAVERNA
E di
fantasia in fantasia, trova ancora credibilità la favoletta che a metà
dell’Ottocento confezionò il peraltro meritevole Serafino Messana quando racconta di due baldi eroi saraceni
racalmutesi, Apollofar e Apocaps,
distintisi nella lotta contro i Normanni.
Ruggero il Normanno conquistò Agrigento il 25 luglio del 1087 (se seguiamo l’Amari, o
l’anno prima secondo il Maurolico ed altri). Racconta il Malaterra, nelle sue
cronache coeve, che Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e
munitala di un castello e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i
castelli dei dintorni che furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe, Naro,
Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il testo
del Malaterra è inquinato e non si è certi della correttezza di tutti i
toponimi. Sia come sia, Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su
quell’impreciso ed incompleto Rahal... Un tempo abbiamo aderito a tale tesi,
dando credito al Fazello che a dire il vero include nell’elenco il
nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a quell’epoca nessun
centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di tutte le fonti
scritte è significativo. Neppure nella celeberrima geografia dell’Edrisi della
prima metà del XII secolo è rintracciabile un qualche toponimo che assomigli a
Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche modo possono essere collocati
nei pressi dell’attuale centro racalmutese.
Nel ricco archivio capitolare della Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai
menzionato per tutto il periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino
ai tempi del Vespro. Il primo documento storico che parla di questo casale
nelle pertinenze di Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi
angioini di Napoli (come diffusamente si vedrà in seguito). Mi si obietterà che l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto
il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che si afferma nel silenzio
delle fonti è mera congetturazione, che nel caso di Racalmuto trascende
pressoché costantemente persino l’area della verosimiglianza. Il territorio
racalmutese non ha sinora restituito neppure una testimonianza archeologica di
una qualche presenza umana per tutto il tempo degli arabi, dei normanni e degli
eventi che seguono sino alle repressioni saracene di Federico II. Pensare
ad un prospero centro abitato, dalla conquista araba (immediatamente dopo
l’anno 827) sino al 1240-1250, è francamente avventatezza storica.
Il Garufi considerò «.. cervellotiche [le] etimologie [che vogliono] R a h a l m u
t, casale della morte....». Per lui: il casale di « Rachal Chammout .... sin dalle sue origini fu denominato da
Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale,
greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa
». Ma la tesi del Garufi appare poco
credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca tale
località un quel di Polizzi. Il Rachal
Chammoùt ( ammu ) del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a
che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno
Racalmuto. E ciò destituisce di ogni
fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una
chiesa fondata nel 1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici
sono stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di
rendite racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo.
[articoletto 19bis]
AGRICOLTURA
RELIGIONE E COSTUMI NELLA RACALMUTO ARABA-NORMANNA
di Calogero
TAVERNA
Due furono le fasi della conquista araba di Racalmuto: in un primo
tempo gli arabi - la componente guerriera - razziarono il territorio bizantino
racalmutese. Se ne stancarono molto presto, per la povertà di quei coloni
nostri antenati. Passarono altrove. Subentrarono allora i Berberi, popolo contadino,
che si insediarono presso le sorgenti (Saracino, Raffo e forse Fontana). Un
toponimo - anche se troppo poco - testimonia infatti che si siano raggrumati
attorno alla località del Saracino: le
vicinanze abbondanti sorgenti d’acqua, propiziatrici delle colture di ortaggi
con il sistema delle porche e zanelle, in cui erano maestri, potrebbe
avvalorare la congettura. Sia quel che sia, l’Islam divenne imperante e non
sono da escludere conversioni in massa dei pavidi cattolici del tempo, non
foss’altro per sottrarsi alle sgradite tassazioni che la tolleranza araba aveva
inventato per permettere che i non credenti conservassero vita e beni.
La sopraffazione si inverte con la conquista normanna dell’XI
secolo. Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per
Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino
sociale di Federico II. Che cosa è stato il
“villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che
vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di
uno schiavo. (Vedansi, per chi ne voglia sapere di più gli studi di I.Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una
parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra.
L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime
del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non
si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione, sotto i Normanni, di nuove
terre. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì
poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti
del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca - come si è detto - farvi fiorire un nuovo
casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro
urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la
terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai
locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante
litteram. La cattolicissima Spagna esordiva
con spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni
maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a
pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva.
Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di una Racalmuto, che nel 1375
abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico
interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice
di uomini e cose.
[articoletto n.° 19ter]
FEDERICO
II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
di Calogero
TAVERNA
I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII. Federico
Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto
costruire, secondo il Fazello, nel primo
decennio, l’attuale fortezza, forse una,
forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et
castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310
costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle
pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni
infeudati dai Chiaramonte. Sono certo pagine non gloriose della storia
ecclesiastica racalmutese. Ma basta ciò per essere obbligati al silenzio
omertoso, sia pure in tema di verità storica?
Nel 1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma astuto e determinato
personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche.
Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici
siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive
Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di
Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario
ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere
la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse
tornato utile.
Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di
Racalmuto, naturalmente a pagamento.
L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.
All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di quel marchesato
solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di
averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva
convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca
nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole e pare che abbia
lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo
fratellastro Antonio del Carretto. Questi frattanto si era
trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo.
Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di
Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i
Chiaramonte ora per Martino, duca di
Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare
integralmente dalla parte dell’Aragonese.
In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà
vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico
transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha
cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà
della “terra et castrum Racalmuti”.
Martino il vecchio si rende subito conto del senso e
della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese
di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le
nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno
del Signore VII^ Ind. 1398. Gli viene tolto per assegnarlo ad un altro estraneo
“al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di
Paternò, cappellano della nostra
regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra
ignominia della storia ecclesiastica racalmutese, che ci guardiamo bene
dall’oscurare.
[articoletto n.° 19quater]
LA
CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
di Calogero
TAVERNA
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del Carretto, figlio di Matteo, di
quell’avventuriero, cioè che si era arrabattato
alla fine del secolo precedente. Henri Bresc vorrebbe questo Giovanni del Carretto come un
disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi risulta il
contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale dal caricatoio del suo
feudo minore di Siculiana. Appare come creditore dei Martino, socio degli Agliata. Lo
storico francese è perentorio: «La baisse
du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief
vendus par la noblesse - oblige - ritorna sull’argomento in pubblicazioni a
spese della Regione Siciliana e nella sua madre lingua, visto che mostra
gallica diffidenza verso un traduttore siciliano di una precedente sua opera
storica di analogo argomento - à un
endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine
résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la
classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries:
Giovanni Del Carretto est ainsi
dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son
gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di
Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene
ratificata l’investitura stando agli atti del
protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza
religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune
criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno
1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un documento del 7
luglio 1474, Ind. VII vengono narrate le
circostanze raccapriccianti del crimine. Leggiamo: Il Vicere' Lop Ximen Durrea da' commissione
ad Oliverio RAFFA di
recarsi a Racalmuto per punire coloro che uccisero
il giudeo Sadia di
Palermo, e di pubblicare un bando a
Girgenti per la protezione di quei giudei
Il
Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte. Dominava il barone (non
certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo bel da
fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto
proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della
potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul
concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole
Del Carretto. Gli
contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è
costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la
corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe:
traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa.
In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di
religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della
Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla
scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare,
maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai
parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne
scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire
sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere,
intenda.
[articoletto n.° 19quinquies]
LIUNI
DI RACARMUTO GIUSTIZIA L’EBREO SADIA DI
PALERMO
di Calogero
TAVERNA
Gli atti dell’archivio di Stato, citati la volta scorsa, ci
riportano un efferato fatto di cronaca avvenuto in Racalmuto nel XV secolo. Lasciamo
la parola ai funzionari di polizia dell’epoca, che così rapportano, in
vernacolo siciliano, sui criminosi eventi, di sapore antigiudaico:
diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati Sadia di Palermo iudeu lu quali
habitava in lu casali di Raxalmuto
actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto
da uno Liuni figlastro di
mastro Raneri; et dapoy alcuni altri di lu dictu casali quasi
a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu
non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo, diabolico
spiritu ducti, tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro
li denti usando in la persuna di
lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu
gettaru in una fossa et copersilu
di pagla et gictaru foco petri
et terra. La qual cosa essendo di malo
exemplo merita grande punicioni et nui tali commoturi di popolo
et delinquenti volimo siano ben puniti
et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et
exemplo. E pertanto confidando di la
vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo provisto per
sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi et culpabili. et per la presenti vi dichimo
commictimo et comandamo che vi digiati personaliter conferiri in lu dictu
casali et cum quilla discrepcioni
lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et
li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu
populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti et partechipi a la dicta morti et delicto. Et
de tucti li sopradicti cosi fariti
prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui.
Comandanduvi chi cum diligencia et cum quilla discrecioni da vui confidamo
digiati prindiri de personis tucti quilli foru culpabili et si
trovaro alo dicto acto et quilli digiati
minari in la chitati di Girgenti et
carcerarili in lu castellu di la dicta chitati in modo chi
non si pocza di loro fuga dubitari. E perche siamo
informati che a lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra
li altri uno gippuni in lu quali si
dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di lo
dicto gippuni e di tucta laltra roba libri et
scripturi diligenti
investigacioni et perquisicioni
cui li prisi et in
putiri di chi persuna sono.
Quel tesoro
non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad indurre
alla restituzione dei 150 pezzi d’oro
trafugati dallo “jppuni” del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese di vecchia
data. Lo spaccato della società racalmutese non appare molto esaltante. Non
possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero
solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla
condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile.
Alcuni tratti, un marchio, un DNA,
riconducibili alle famiglie citate nel quattrocentesco dispaccio, qualcuno
potrebbe ravvisarli ancora in taluni personaggi locali.
[articoletto n.° 20]
LA
(PRETESA) BARONIA DI RACALMUTO
di Calogero
TAVERNA
Caduta la
favoletta di una chiesetta eretta nel 1108 a Racalmuto, anche narrata dal
grande Pirri, svanisce anche la credenza
di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni
possesso baronale del Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe
attribuire agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie
parla, si appoggiò agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile; sennonché il
settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente una notizia
del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità
- sia pure con espressa riserva - al Minutolo.
Un diploma
angioino - autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni
baronali e, sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della
signoria dei Del Carretto, ci informa che il primo
signore di Racalmuto ( o per lo meno il primo di cui si abbia notizia storica)
fu tal Federico Musca, forse appartenente alla
grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca
tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo
priva, nel 1271, del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per
conferirlo a Pietro Nigrello di Belmonte. I Vespri Siciliani ci
mostrano un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è costretto a nominare
dei Sindaci fra le persone più cospicue,
chiamati il 22 settembre 1282 a prestare il debito giuramento al nuovo re in
Randazzo. Il che equivale a
sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i
suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di persona le tasse
gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once. Il Bresc ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti. Il 26 gennaio 1283
ind. XI «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro
archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor», cioè Racalmuto viene tassato
per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale con un baiulo e due giudici.
Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si trattasse di latini. I
saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti probabilmente a pochi
coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino,
a coltivare verdure con perizia di antica tradizione. Non erano più villani dato che il villanaggio - come
dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni
dell’agrigentino furono tumultuosi sotto Federici II. Nel 1235 essi furono in
grado di prendere prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello di Guastanella fino a quando non ebbe pagato un riscatto di
5000 tarì d’oro. Federico II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il risultato fu una
desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto di manodopera
contadina. Nel 1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa agrigentina che era stata
spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa
agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami imposti da
Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il vescovo e la
sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di sostentamento. Per
risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.
[articoletto n.° 21]
FONDAZIONE
DI RACALMUTO NEL BASSO MEDIOEVO
di Calogero TAVERNA
Fu a
seguito dell’assestamento di Federico II che Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare
Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel
1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello, avendo tradito
l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. Nel 1282 il Mosca figura,
infatti, come conte di Modica, ma non
rientra in possesso di Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso di questo casale e vi
costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello con due torri
cilindriche che ancor oggi si erge
maestoso ed imponente entro la cinta del paese. E’ falso quel che appare
nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello pseudo Musca (pubblicato dal Gregorio:
Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove
si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco recita testualmente a
pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca: «Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano e
Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per
dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno
al 1344, e solo dopo tale data poté avere qualche pretesa su Racalmuto.
Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi i figli del fratellastro
Antonio, Gerardo e Matteo del Carretto..
L’excursus sinora soltanto abbozzato
tende ad additare un punto per noi
basilare della storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento
angioino, segna il salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo
dell’Agrigentino, sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di Modica), lascia
dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a divenire quella che
Amerigo Castro chiamerebbe un’umana, fervida, sofferente,
tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella” «dimora vitale».
Francamente
non riusciamo a concordare con Leonardo Sciascia secondo il quale Racalmuto «ebbe per secoli
... vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni
altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace
‘avara povertà di Catalogna’; col
carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie
che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e
rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame
produsse storia narrabile e non solo descrivibile , ben al di là delle figure
care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il medico ‘specialista’ Marco
Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace
concetto” - martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per
Denis Mack Smith - Diego La Matina, il monaco agostiniano di
“Morte dell’inquisitore”; il
pittore, forse confidente dell’Inquisizione, Pietro
d’Asaro. Sono i protagonisti
celebrati dallo scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o
spudoratamente aureolati nelle sue icastiche pagine.
Da oltre
sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei
diari, nelle opere storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso,
dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi
rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non
privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione
all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio
di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale.
Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe
(religiose o civili, a seconda dei tempi).
GLI ESORDI STORICI
DI RACALMUTO
di Calogero
Taverna
Su interessate segnalazioni dei canonici agrigentini, il
Pirri non aveva, attorno al 1630, dubbi che la più
antica chiesa di Racalmuto fosse S. Margherita Vergine - che secondo postumi documenti appare
contigua e collegata con la chiesa di S. Maria di Gesù - e che essa fosse stata fondata nel 1108 da
Roberto Malconvenant. Purtroppo, la notizia si
base su un documento dell’Archivio Capitolare agrigentino, che, come ebbe a
dimostrare Mons. Paolo Collura, si riferisce a ben altra
località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice. Sappiamo di certo che S.
Maria di Gesù non è chiesa del XII secolo: dobbiamo risalire
alla prima metà del XVI secolo per averne indubbi dati documentali.
I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e
1310. Nell’abitato racalmutese vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale
retta da tale presbiter Angelo di
Montecaveoso, e quella forse conventuale dedicata alla
Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un certo Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella
rinvenibile negli archivi avignonesi dell’ Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell’Arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi,
stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l’imposta per togliere
l’interdetto che si originava dalla rivolta dei Vespri Siciliani. Era l’anno
1375.
Nel 1375 Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con
non più di 900 abitanti. Nell’ archivio segreto Vaticano è reperibile il
resoconto delle collette redatto in quell’anno dall’arcidiacono du Mazel (cfr. Reg. Av. 192). Questi era stato mandato
in Sicilia per raccogliere il sussidio che
doveva servire alla rimozione dell’interdetto. Il sussidio andava
ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche:
1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le ‘mediocri’, 3 per le agiate e cioè ‘qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti
in facoltà’ (cfr. Peri I.: la Sicilia dopo il vespro -
Laterza, 1982, pag. 235). Il 29 marzo del 1375, il pio collettore (o suoi emissari) giungeva a
Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il ‘sussidio’ e scioglieva
l’interdetto (cfr. AVS - Reg. Av. 162 f.419v). Dato che per ogni fuoco è calcolabile
un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa
610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti
resisi irreperibili. In un secolo e tre
quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture
e i dati del Tinebra Martorana hanno una qualche attendibilità - si sarebbe
accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale lasso di tempo, la crescita si è invece
limitata solo al 48,32%, che in ogni
caso è tasso di sviluppo normale.
Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi
Chiaramonte, e la metà del XVI secolo
non è chiaro. Il salto nell’intensità abitativa testimonia comunque un
massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo motivo di congetturare che tanti sono giunti dalle
terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L’improvviso sviluppo
della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I
tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I
molti cognomi di paesi e terre del
circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei
feudi racalmutesi che talora sostituiscono e talora si aggiungono ai
patronimici.
Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in
quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la
peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l’antica carica di maestri di
xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d’Angiò i soprintendenti alla sicurezza notturna. Se
ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283
sotto Pietro d’Aragona.
[articoletto n.° 23]
APPROCCIO CRITICO ALLA STORIA DI
RACALMUTO
di Calogero TAVERNA
Le vicende di Racalmuto possono
venire ricostruite con amore, con passione, con interesse ma criticamente,
spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della ingenua tradizione
locale o della mistificante letteratura degli autori paesani.
E’ una Racalmuto che va vista con
occhi critici e razionali. Non può certo avvalorarsi la saga della venuta della
Madonna del Monte del 1503,
così come, in buona fede, non può affermarsi che vi siano state
tasse per uzzolo dei Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo”
secondo la deformazione del pur sommo Leonardo Sciascia. Noi
valutiamo piuttosto positivamente la presenza del Del Carretto a Racalmuto.
Reputiamo fucina di cultura clero locale, organizzazione parrocchiale,
atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di chiese, negli
insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.
A tanti non interesserà - ma ad
alcuni racalmutesi sì - sapere chi erano a quel tempo i “mastri” ed i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se
vi erano “facchini” (e ce n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere
di mangiare “salsizzi” e chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le
donnette (come ai miei tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e
“gaddruzzi” ed apprendere che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in
natura” su quest’uso (l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a
prezzo calmierato), e via di seguito.
L’ Archivio di Stato di custodisce
ben n° 69 Rolli di atti notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana
di Racalmuto dal 1561 al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il
tempo 1700-1816; n.° 56 per il tratto 1801-1860.
Quel materiale archivistico è
praticamente ignoto. Tolta qualche curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un
paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di
Racalmuto vi si sta polverizzando.
La vendita di un mulo, la cessione
di una “jnizza”, la suggiogazione di una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”,
vita, morte, sposalizio, tasse, risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti
monaci e chierici, rettori e governatori di confraternite, il pulsare della
vita economica, sociale e religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo,
il suo espandersi demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere
di pesti, tutto ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non
rivelano per la neghittosità degli storici racalmutesi. Ed i politici
potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di giovani, a sovvenzioni pubbliche
comunali volte a finanziare ricerche d’archivio, a scuole di paleografia -
giacché leggere quei documenti non è da tutti
- , ad incentivi economici; a borse di studio etc.
Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse in una smaccata falsità a
proposito della Racalmuto araba; egli spreca una delle sue splendide metafore
elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione dell’accensione visionaria,
fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di
una sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento
degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura
romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo,
e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo
piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo
in cui sono nati, nel riverbero del
passato sulle cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è
così disavvertito da aver bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed
amare il riverbero del suo passato storico, il richiamo ancestrale della sua
memoria più vera e più pulsante?
Francamente credo di
no e queste note - bando alle ipocrisie - hanno un suo codice genetico, una sua
cifra culturale ed una sua vocazione storica di segno opposto non solo rispetto
a Sciascia ma anche a Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad
Eugenio Napoleone Messana, al poeta
Padalino, ai tanti esimi sacerdoti
che semper sacerdos secundum ordinem
Melchisedech hanno
scritto di storia racalmutese volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento
dell’onnipotente presenza nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE PIU’
NOTEVOLI
—A—
Adamesteanu 7
Africa 14; 15
Agliata 46
Agrigento 6; 7; 8; 9; 11; 14; 17; 18; 19; 20; 21; 22; 26;
28; 29; 33; 36; 37; 40; 45; 50; 51
Agrò
Santo (d') sacerdote 53
Akragas 7; 8; 9; 10; 11; 12; 13; 14; 33
Al ’Minsar 25
Alaimo 27; 53
Marco Antonio 53
Michele Angelo notaro 27
Alcibiade 10
Alessi 56
padre Alessi 56
Allah 21
al-Minsar 40
Amari 22; 25; 26; 27
Michele 22
Amati
Amato prof. 27
Amico 23
Vitoa Maria 23
Angelo di Montecaveoso 54
Ann. Inst. Corr. Arch., 1880 3
Antonio del Carretto 44; 52
Apollofar 25; 40
Arabi 27; 36; 38
archivi parrocchiali 18
Archivio Capitolare di Agrigento 28
Archivio di Stato 19; 56
Archivio Segreto Vaticano 54
Archivio Storico Siciliano 20; 23
arciprete 45
Asaro
Pietro (d') 53
Atene 10
Augusto 17
Aurea 52
Brancaleone 52
Avignone 28
AVS - Reg. Av. 162 54
—B—
Barberi 47
Giovan Luca 47
Basso Medioevo 28
Berardo 22
priore di S. Maria di Gadera 22
Berberi 21; 22; 42
Bertrando du Mazel 54
Bibliotheca 52
Bifara 26
Bisanzio 19
bizantini 19; 20; 21; 36
Bompensiere 3
Bonincontro 29
V. Mons. vescovo di Agrigento 29
Bresc 24; 46; 50
Henri 24
Bretagna 29
Bronzo 5
Brydone 4
—C—
C.I.L. 16
Caliato 36
Caltanissetta 8; 26; 40
Camerina 10
Cannuni 28; 35
canonici 42
Carlo d’Angiò 50; 55
Carretto 35; 44; 46
Cartagine 10; 11; 13; 14
Casale di Hamùd 24
Casalmotyo 7
Casalvecchio 6; 7; 27; 35; 36
Castello, principe di Torremuzza 16
Gabriele Lancellotto 16
Castelluccio 15; 19; 25; 26
Castro 52
Amerigo 52
Castrofilippo 3; 26
Catalogna 53
Catania 8; 10; 25
Cattedrale di Agrigento 40
Chammout 24; 41
Chiaramonte 23; 43; 44; 52; 55
Costanza 52
Federico 23
Chiesa Agrigentina 28
chiesa di S. Maria 54
Ciaceri 7
Cicerone 13; 16; 33
Clarisse 35
Claudio 15
Cluverio 8
Filippo 8
Collura
Paolo 54
Cometi 12; 19; 33
Commodo 17; 34
contea di Modica 50
contrada di S. Anna 15
CORPORA 17
Corrente 44
Santi 44
Costanza 44
Curto 53
Pietro sac. Teologo 53
CUSA 22
Salvatore 22
—D—
d’Asaro 39; 53; 56
Pietro 56
D'Alessandro 19
V. 19
DE FINO 45
Gerardo 45
De Gregorio 37
Mons. Domenico 37
Del Carretto 35; 44; 46; 47; 50; 52; 56
Gerardo 52
Giovanni 35; 46
Matteo 52
Demostene 10
Diodoro Siculo 7; 10
Dione 12
Dionisio I 10
diota 16; 33
DNA 49
Doria 44; 52
Brancaleone 44; 52
Matteo 44; 52
duca di Montblanc 44; 45
Ducezio 8
—E—
ebrei 24; 46; 51
ebreo 49
Edrisi 26
Elihir 39
ellegrini
Giovan Battista 24
Emiro
di Girgenti 24
ENEL 7
Eraclea Minoa 14
Ercole Del Carretto 46
Ermocrate 11
Erodoto 7
Eufemio 21
—F—
Falaride 6; 7; 11
Fazello 23; 40; 44; 50; 52
Federico Chiaramonte 23; 44; 52
Federico II 38; 41; 42; 43; 51; 52
Ferro 5
Finale 44
Finzia 13
Fontana 21; 22; 42
Fra Diego 32
Fra Diego 3
frourion 20
fuochi 28; 50; 54
FUSCI 16
Fusco 16; 34
Domizio Destro 16
Fuscus Salinator
Cn. Pedanius 16
—G—
g a i t i 24; 41
Gagini 47
Garamoli 21
Gardutah 26; 40
Garibaldi 35
Garufi 22; 23; 24; 41
Carlo Alberto 23
Gela 5; 7; 10; 13
Gelone 9
Genserico 35; 36
Gerlando 29
Gezia 21
Giangreco Cifirri 18
Giacomo 18
Nicola (signora, moglie di Giacomo Giangreco) 18
Giovanni Del Carretto
46
Giovenale 16
Girgenti 8; 21; 24; 46; 48
Giudeo 21
Goti 36
granchio agrigentino 9
Gregorio 19; 29; 37; 52
papa 19
Griffo 18; 20
P. 20
Grotticelle 6; 7; 19; 35; 36
Grotticelli 36
Guastanella 40; 51
GUDELO 22
guerre puniche 15
Guglielmo II 22
il Buono 22
Guillou 20
André 20
—H—
Hamud 23
Héracleonas 20
—I—
Ibn 'al Awwam 22
Imera 9; 10
Inquisizione 53
iudeu 48
—J—
Judì 36
—K—
KAIBEL e MOMMSEN 17
Kale Akte 10
Kamud 23
Kitab 'al Falah 22
Kokalos 3; 7
kyllyrioi 7
—L—
L’Amico del Popolo 27
La Licata 55
La Matina 53
Diego (fra) 53
Legazia Apostolica 45
Lentini 10; 11
Levino 14; 15
lex Rupilia 15
Licata 3; 13; 25; 26; 40; 55
Liuni 48
Lop Ximen Durrea
46
Lucera 51
—M—
Madonna del Monte 46; 56
Malaterra 25; 26; 40; 42
Goffredo 25
Malconvenant 27;
28; 30; 41; 50; 54
Roberto 28
Malgrado Tutto 17
—'—
'MALGRADO TUTTO' 7
—M—
Manfredi Chiaramonte 43; 55
Manglono 45
Tommaso 45
marchese di Finale 44
Maria SS. del Monte di
Racalmuto 27
Martino 44; 45; 46
Martorana 3; 8; 12; 17; 19; 23; 27; 30; 33; 38; 39; 50; 55;
57
Marziale 16
Matrice 18
Matteo 44; 46
Del Carretto 46
Mauceri 3
L. 3
Mazel 28; 54
Bertrando (du) arcidiacono 28
Melchisedech 57
Menta 21
Messana 7; 25; 26; 40; 57
Eugenio Napoleone 25; 26; 57
Serafino 7; 25
metatesi 7
Milena 3; 32
Milocca 26
Mineo 8
Miocene 4
Modica 50; 52
Mommsen 16; 17
monastero di S. MARIA di GADERA 22
Montagna 20; 36
contrada 20
Monte 46
Monte Formaggio 24
Montedoro 3; 26
Morreale 27
Girolamo M. S.J. 27
Morte dell’inquisitore 53
Mosca 52
Mothio 7
Mothion 7
Motion 7; 8
Motya 12
Musca 43; 50; 52
Bartolomeo 52
Federico 43; 50
Museo di Palermo 17
Mussolini 10
Musulmani 21; 27
Mutuum 7
—N—
Naro 26; 40
Nasso 10
Nigrello di Belmonte 50
Pietro 50
Normanni 42
Normanno 24; 25; 29; 30; 40
NOTIZIE DEGLI SCAVI 17
Noto 30
Nuzhat ’al Mustaq fi
ihtiraq ’al afaq 26
—O—
Orlandini 7
Ostia Antica 15
—P—
Pace 18; 19; 35
Biagio 18; 35
Padalino 57
Paleolitico Superiore 5
Parisi 23; 24
Antonio S.J. 23
Paternò 45
Peri 42; 51; 54
Illuminato 42
PERI I 54
Picone 17; 23; 34
Giuseppe avv. di Agrigento 17
Pietro 43; 44
re 43
Pietro d’Aragona 52; 55
Pietro re di Sicilia 50
Pindaro 9
PIRRI 28; 30; 41; 43; 50; 54
Pirro 13
Platano 26
polis 7; 10; 14
Polizzi Generosa 22
Pontieri 25
Pratesi e Tassi 4
Puglia 43; 51
—R—
Racalmuddo 24
Racalmuto 32; 33; 35; 37; 42; 43; 44; 46; 47; 54; 55
raxal xammot 22; 41
Racel 25; 26; 42
Rachal Chammout 24; 41
Rachal Chammoùt
22; 41
Rachal-Chamut 24
RAFFA 46
Oliverio 46
Raffo 21; 27; 42
Rahal 23; 25; 27; 38; 40
Rahal Maut 38
RAHALHAMMUT 22
RAHL 25
Rakal 23
Rakal-mut 23
Randazzo 50
Raneri 48
Raqqâdah 28
ratto di Proserpina 35
Ravanusa 25; 40
Ravenna 19; 20
Re Ruggiero 24; 41
Regione Siciliana 17; 46
Rocca di Cocalo 3
Roma 5; 13; 14; 15; 16; 26; 33; 34; 43
Ruggero 24; 25; 26; 29; 30; 40
Ruggero il Normanno 24; 25; 29; 30; 40
rum 21
—S—
S. Anna 15
S. Cataldo 7; 8
S. Margherita Belice 28; 54
S. Margherita Vergine 54
S. Maria di Gesù 30; 41; 54
Sadia di Palermo 46; 48; 49
salgemma 3; 18
SALINAS 17
San Gerlando 29
Sanie-Evreul-Ouche 25
Santa Margherita 28; 29; 41; 43; 45
Santa Maria 17; 27; 28; 29; 30; 43
Santa Maria di Gesù 28; 43
chiesa 43
Santoro 20
Rodolfo 20
Saracino 42
Saragozza 25
Savona 44
Schiapparelli 26
Sciacca 26
Sciascia 3; 23; 39; 47; 52; 56; 57
Leonardo 3; 23
Leonardo Sciascia 47
Selinunte 10
Serrone 3; 9
Sicani 3
Siculiana 45; 46
Sifolone 54
Martuzio 54
Siracusa 8; 9; 10; 11; 12; 13; 14; 15; 45
Smith 53
Denis. M. 53
Solino 3
Solinus 3
Sutera 24; 26; 40
—T—
tabulae 34
Tegole 18
tegulae 17; 18; 34
Teodorico 36
Terone 9; 10
Tiberio II 20; 36
Timoleonte 12
Tine' 3
S. 3
Tinebra Martorana 3; 8; 12; 17; 19; 23; 30; 33; 38; 39; 50;
55; 57
tombe a forno 3; 6
tombe sicane 32
—'—
'tombe sicane' 3
—T—
Torremuzza 16; 34
Tucidide 10
Tusa-De Miro 5
—U—
Universitas 43
Urso 29
vescovo di Agrigento 29
Ursone 51
vescovo di Agrigento 51
—V—
Vandali 35; 36
Vassallaggi 7
Vella 25; 38
abate 38
Giuseppe abate 39
Verre 13
vescovo di Agrigento 22; 28
Villabianca 50
villanaggio 42
—X—
Xortino 55
—Z—
Zeus 6
zolfo 3; 4; 17; 18; 34
ZURRITA 25
SOMMARIO
RACALMUTO PREISTORICO - ZOLFO, GRANO E SALE
RACALMUTO DA TERRA ANELLENICA A DOMINIO GRECO
I GRECI A RACALMUTO
RACALMUTO NELLA STORIA GRECA DI SICILIA (V-III secolo a.C.) -
i^ PARTE
RACALMUTO NELLA STORIA GRECA DI SICILIA (V-III secolo a.C.) -
II^ PARTE
LA CONQUISTA ROMANA
I SECOLI DEL DOMINIO ROMANO
MINIERE RACALMUTESI AI TEMPI DEI ROMANI
RACALMUTO BIZANTINO
RACALMUTO SOTTO GLI ARABI
IL NOME DI RACALMUTO
I NORMANNI A RACALMUTO
NE’ CASALVECCHIO NE’
SANTA MARIA
BORGO ARABO AL TEMPO DEI NORMANNI
RACALMUTO: UNA PREISTORIA DURATA 3271 ANNI
ESATTORI ROMANI, ZOLFO, DECIME E MANCIPES A RACALMUTO
VISIGOTI E GOTI, BIZANTINI E LATINI A RACALMUTO
ARRIVA LA CIVITA’ ARABA
NORMANNI E SARACENI
AGRICOLTURA RELIGIONE E COSTUMI NELLA RACALMUTO ARABA-NORMANNA
FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO -
L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
LIUNI DI RACARMUTO GIUSTIZIA L’EBREO SADIA DI PALERMO
LA (PRETESA) BARONIA DI RACALMUTO
FONDAZIONE DI RACALMUTO NEL BASSO MEDIOEVO
GLI ESORDI STORICI DI RACALMUTO
APPROCCIO CRITICO ALLA STORIA DI RACALMUTO
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE PIU’ NOTEVOLI
SOMMARIO
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