FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA
CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio
del secolo XIII. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto
costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio del Duecento, l’attuale fortezza,
forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era
divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri.
Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo
prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano
a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono ad ogni modo pagine
non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese.
Nel 1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un
cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed
in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca
di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio;
ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio
figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a
morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la
nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato
utile.
Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il
titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi
della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato
dagli storici.
All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona
- a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo - scende in
Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo
di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva
convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria -
un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui
Matteo Doria che morrà senza prole: costui pare che abbia lasciato i suoi beni
(in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del
Carretto.
Antonio frattanto si era trasferito a Genova. Aveva
procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura,
scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e
soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di
Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte
dell’Aragonese. In cambio ne ottiene il
riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto
feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito
Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di
navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum
Racalmuti”.
Martino il vecchio si rende subito conto del senso e della
portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica.
Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al
tempo della secessione contro le nostre benignità” - come scrive Martino da
Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Quel beneficio gli viene tolto per
essere assegnato ad un altro estraneo “al
reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano
della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra
ignominia della storia ecclesiastica racalmutese.
GIBILLINI
Feudo, Racalmuto, lo fu parzialmente. A fine del ‘600 la sua
dimensione era di 705 salme, 15 tumoli, tre mondelli e due quarte, tra area
urbana e quella villica. Ce lo dice l’ultimo conte del Carretto, Girolamo,
quello sopravvissuto al figlio Giuseppe, in un atto giudiziario che tra l’altro
recita:
«Item ponit et probare
intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto
sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme
setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme
seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e
salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni,
trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli
dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra
[134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:
1.
delli
Gibillini e feghi
2.
delli
Cometi;
3.
e fegho
delli Bigini;
4.
del fegho
di Zalora;
5.
del fegho
di Scintilìa;
6.
del stato
e ducato delli Grotti;
7.
del fegho
e principato di Campofranco;
8.
e fegho
della Ciumicìa
e altri confini quale olim tennero e
possiderono la quondam Constanza Claramonte ed Antonio del Carretto e
Chiaramonte e doppo Mattheo del Carretto come veri signori e padroni ed al
presente e de presenti parte di detto fegho come sopra situato e confinato lo
tiene e tossiede l’illustre don geronimo del Carretto e Branciforte come vero
signore e padrone per la forma dell’antichi privileggij et altre scritture
stante che il remanente si ritrova licet nulliter et indebité dismembrato e
diviso da detto fegho di Racalmuto come il tutto fù ed è la verità notorio e
fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt
vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - -
-
Item ponit et probare intendit non
se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna,
Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù,
Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, menziarati e
Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed
intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e
confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus
dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra
capitulum ad intensionem producentis et -
- - ».
Emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla
contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante
tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la
contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di
quella terra feudale.
Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile
1358 ; il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di
pubblicare:
«Il Re concede al
milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu
[feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore,
insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente
perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei
nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il
Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come
sopra.»
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere
possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte.
Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a
cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il
fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in
potestatem et iurisdictionem incidere
catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei
catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio
presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge sull’apporto
dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non contenti né
soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si rivolsero
agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a
Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in
Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della
setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani - [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia
e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.
Prosegue Giunta «queste premesse
spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100
cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò
“con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da
ottenere festose accoglienze da parte
dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare
della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre
terre e castella”». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e
Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un
paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV,
detto il Semplice riuscì a
riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio
tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto
nell’opera del San Martino de Spucches . Secondo l’araldista il feudo di
Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con
l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso”
alla famiglia Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte a costruirvi la fortezza,
quella che ora è denominata Castelluccio.
L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello
che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata
a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo
Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario, iure
francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi,
il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel
libro 1392 a foglio 221) ; col secondo
diploma, dato ad Alcamo, li 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro
1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i
beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea
Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di
Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri
beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di
Francesco Lagorrica, il Moncada fu deferito come reo di alto tradimento,
avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397
fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni.
Morì di dolore nel 1398.
Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa
della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo
di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.
Il feudo pervenne
successivamente a Gaspare de
Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de
Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile 1493 more francorum, per passare
quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la
morte del padre e come suo primogenito. Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di
Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa dalle figlie Giovanna e Maria il
22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando
De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita
e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo
investiture libro 1560 f. 271).
Maria De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26
dicembre 1568, per donazione e refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella
(Ufficio del Protonotaro, XII Indiz. f.479) .
Beatrice De Marino e Sances
de Luna s'investì di due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la
morte di Alonso de Sanchez suo marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta
Giovanna suddetta, M.sa di Favara (Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f.
15); peraltro v’è pure un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a
favore di Carlo di Aragona de Marinis,
P.pe di Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII
Indiz., f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a
favore di Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria,
III Indiz. , f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.
Diego Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615,
per donazione fattagli da Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui le due quote
furono vendute da Beatrice suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da
Palermo il 5 dicembre 1608 (Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu
quindi una reinvestitura in data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo
III e successione al trono di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22,
f. 283 retro).
Subentra - sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con
investitura del 28 febbraio 1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo
padre (Cancelleria , libro del 1624-25,
f. 214); viene quindi reinvestito il 29
agosto 1666 per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II
(Conservatoria, libro Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina morì a Naro il 24 novembre 1667 come risulta da fede rilasciata
dalla Parrocchia di S. Nicolò.
Diego Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di
Luigi suddetto, s'investì dei due terzi il 7 ottobre 1668 (Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f.
89).
Luigi Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9
settembre 1686 dei due terzi, per la
morte e quale figlio primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro
Invest. 1686-89, f. 17).
Diego Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come
primogenito e, per la morte di Luigi Gerardo suddetto, nonché come rinunziatario dell'usufrutto da parte di
Giulia Massa, sua madre, agli atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di
Palermo, del 1° ottobre 1738 (Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).
Giulio Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il
3 dicembre 1787, come primogenito e per la morte di Diego suddetto
(Conservatoria, libro Invest. 1787-89, f. 25).
Diego Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di
Gibellini il 15 luglio 1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio
suddetto (Conservatoria vol. 1188 Invest.,
f. 124 retro); non ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.
Ma a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino
de Spucches non segue bene le vicende feudali di Gibillini. Comunque nel successivo volume IX - quadro
1454, pag. 221 - intesta: “onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI
- Cedolario, vol. 2463, foglio 204” ed indi rettifica:
«Giulio GIARDINA
GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a
3 dicembre 1787 come figlio primogenito ed indubitato successore di Diego
GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).
1. - Quindi vendette agli atti di
Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI,
pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi
sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini;
e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto
Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero
compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re
a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal
feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro
Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).
2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO
s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D.
Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile
1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo
non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di
Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»
•
* *
Le vaghe fonti storiche sembrano dunque assegnare l’erezione
del Castelluccio a Manfredi Chiaramonte: la data sarebbe quella del primo
decennio del XIV secolo, la stessa del Castello eretto entro il paese. Manfredi
era il fratello di Federico II Chiaramonte, ritenuto l’artefice “di lu
Cannuni”. Perché due fratelli abbiano deciso di erigere due castelli diversi in
territori così contigui, resta un mistero. Forse la tradizione - tramandataci
dal Fazello e dall’Inveges - è fallace. Quello che è certo che sia il feudo di
Gibillini (da Sant’Anna al Castelluccio sino alla contrada dell’attuale miniera
di Gibillini), sia il feudo di Racalmuto (da Quattrofinaiti al confine con
Grotte; dalla Montagna al Giudeo sino alla Difisa) erano possedimenti della
potente famiglia chiaramontana, e tali sostanzialmente rimasero sino al loro tracollo,
alla fine del XIV secolo, allorché il duca di Montblanc ebbe modo di tagliar la
testa ad Andrea di Chiaramonte. Il feudo di Gibillini passa alla famiglia
Moncada, ma per breve tempo, e quindi alle scialbe case baronali dei Marino,
prima, e Giardina, poi. Il feudo di Racalmuto viene redento da Matteo del
Carretto con astuzie diplomatiche, quanto attendibili Dio solo sa.
Il feudo
di Racalmuto
Le contrade che, grosso modo
costituivano, il feudo di Racalmuto vero e proprio, sono così riepilogabili:
N.°
|
CONTRADA
|
NOTA
|
TOPONIMO ATTUALE
|
N.° pr.
|
N.°
Mappa
|
|||||
1
|
Cava
|
Racalmuto
|
==
|
|||||||
2
|
Fico (o Fontana della Fico)
|
Racalmuto
|
Fico
|
43
|
31
|
|||||
3
|
Malati
|
Racalmuto
|
Malati
|
70
|
47
|
|||||
4
|
Padre Eterno
|
Racalmuto
|
Padre Eterno
|
85
|
18
|
|||||
5
|
Pernici
|
Racalmuto
|
Pernice
|
90
|
3
|
|||||
6
|
Petra dell'Oglio
|
Racalmuto
|
Pietra dell'Olio
|
94
|
22
|
|||||
7
|
Rina
|
Racalmuto
|
Arena
|
6
|
17
|
|||||
8
|
Rocca
|
Racalmuto
|
||||||||
9
|
San Gregorio
|
Racalmuto
|
San Gregorio
|
121
|
31
|
|||||
10
|
Scacci
|
Racalmuto
|
Scaccia
|
125
|
47, 66
|
|||||
11
|
Zaccanello
|
Racalmuto
|
Zaccanello
|
143
|
63
|
|||||
12
|
Fico Amara
|
Racalmuto (confinante con le terre dello Stato di Racalmuto e
con il fego dello Chiuppo)
|
Fico Amara
|
44
|
75
|
|||||
13
|
Cuti
|
Racalmuto (confinanti con li terri dello stato di Racalmuto)
|
Cute
|
35
|
67
|
|||||
14
|
Bovo
|
Racalmuto (fego)
|
Bove
|
12
|
41,42,43
|
|||||
15
|
Canalotto
|
Racalmuto (fego)
|
Canalotto
|
15
|
45
|
|||||
16
|
Cannatuni
|
Racalmuto (fego)
|
Cannatone
|
16
|
1
|
|||||
17
|
Carcarazzo
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
18
|
Carmine
|
Racalmuto (fego)
|
Carmelo
|
19
|
42,44,45
|
|||||
19
|
Casa Murata
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
20
|
Casali Vecchio
|
Racalmuto (fego)
|
Casalvecchio
|
21
|
47,48
|
|||||
21
|
Colmitella
|
Racalmuto (fego)
|
Culmitella
|
34
|
64
|
|||||
22
|
Cortigliazzo
|
Racalmuto (fego)
|
||||||||
23
|
Difisa
|
Racalmuto (fego)
|
Vallone della Difesa
|
|||||||
24
|
Donnaphali (o Donnagali o
Donnaxhala)
|
Racalmuto (fego)
|
Donna Fara
|
37
|
2,3
|
|||||
25
|
Garamoli
|
Racalmuto (fego)
|
Garamoli
|
52
|
60,61,69
|
|||||
26
|
Gazzella
|
Racalmuto (fego)
|
Gazzella
|
54
|
57,59
|
|||||
27
|
Jacuzzo
|
Racalmuto (fego)
|
Jacuzzo
|
64
|
4
|
|||||
28
|
Judio
|
Racalmuto (fego)
|
Giudeo
|
58
|
46
|
|||||
29
|
Laco
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
30
|
Manchi
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
31
|
Marcatelo
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
32
|
Marcianti
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
33
|
Marzafanara (o Marzo Fanara)
|
Racalmuto (fego)
|
Fanara
|
40
|
57, 58, 60
|
|||||
34
|
Menz'Arata (o Mazzarati)
|
Racalmuto (fego)
|
Mezzarati
|
78
|
65,66,67
|
|||||
35
|
Montagna
|
Racalmuto (fego)
|
Montagna
|
80
|
41,42
|
|||||
36
|
Nina
|
Racalmuto (fego)
|
Vecchia Nina
|
138
|
71, 72
|
|||||
37
|
Nuci
|
Racalmuto (fego)
|
Noce
|
82
|
68,70,71,75
|
|||||
38
|
Petranella
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
39
|
Pidocchio
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
40
|
Pini di Zicari
|
Racalmuto (fego)
|
Piedi di Zichi
|
92
|
44
|
|||||
41
|
Pinnavaria
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
42
|
Rocca Russa
|
Racalmuto (fego)
|
Rocca Rossa
|
108
|
59
|
|||||
43
|
Rovetto
|
Racalmuto (fego)
|
Roveto
|
11
|
46
|
|||||
44
|
San Giuliano
|
Racalmuto (fego)
|
San Giuliano
|
120
|
21
|
|||||
45
|
Santa Domenica
|
Racalmuto (fego)
|
||||||||
46
|
Saracino
|
Racalmuto (fego)
|
Saracino
|
124
|
21
|
|||||
47
|
Savuco
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
48
|
Scala
|
Racalmuto (fego)
|
Scala
|
126
|
62
|
|||||
49
|
Scavo Morto
|
Racalmuto (fego)
|
Arena
|
6
|
17
|
|||||
50
|
Scifitello
|
Racalmuto (fego)
|
Scifi di S. Bernardo (?)
|
127
|
25
|
|||||
51
|
Serrone
|
Rcalmuto (fego)
|
Serone
|
28
|
4,46,62
|
|||||
52
|
Stazzone
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
53
|
Surfara
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
54
|
Troiana
|
Racalmuto (fego)
|
Troiana
|
133
|
18
|
|||||
55
|
Turri di Barba
|
Racalmuto (fego)
|
==
|
|||||||
56
|
Zubio
|
Racalmuto (fego)
|
Zubbio
|
144
|
33
|
|||||
57
|
Granci
|
Racalmuto (fego) confinante con 'finaita della Scintilia)
|
Granci
|
59
|
68,69
|
|||||
58
|
Carcia
|
Racalmuto (fego) confinante con le terre dello stato
|
==
|
|||||||
59
|
Granci
|
Racalmuto (fego) nel fego della Scintilia
|
||||||||
60
|
Baruna
|
Racalmuto (fego) ottobre 1714
|
Barona
|
8
|
21
|
|||||
61
|
Carpitella (anche P.ta Carpitella)
|
Racalmuto (stato)
|
Carpitello
|
20
|
0
|
|||||
62
|
Casalivecchio
|
Racalmuto (stato)
|
||||||||
63
|
Nuci e Menta
|
Racalmuto (stato)
|
Menta
|
77
|
61,63,71,72
|
|||||
64
|
Vallone della Difisa
|
Racalmuto (stato)
|
Vallone della Difesa
|
135
|
20
|
|||||
65
|
Santa Maria di Gesù
|
Racalmuto fego)
|
Santa Maria
|
122
|
19, 20
|
|||||
Contrade
del feudo di Gibillini.
Le contrade del feudo di Gibillini possono, invece, venire
così segnalate:
N.°
|
CONTRADA
|
NOTA
|
TOPONIMO ATTUALE
|
N.° pr.
|
N.°
Mappa
|
1
|
Filippuzzo
|
Gibbillini (fego)
|
==
|
||
2
|
Funtanelli
|
Gibbillini (fego)
|
Fico Fontanella
|
45
|
18, 30
|
3
|
Macalubbi
|
Gibbillini (fego)
|
==
|
||
4
|
Mandra del Piano
|
Gibbillini (fego)
|
Mandra di Piano
|
73
|
39
|
5
|
Muluna
|
Gibbillini (fego)
|
Mulona
|
81
|
35,36,51,52
|
6
|
Puzzo
|
Gibbillini (fego)
|
Puzzo
|
103
|
35,48,49
|
7
|
Sant'Anna
|
Gibbillini (fego)
|
Sant'Anna
|
115
|
33
|
8
|
Serrone
|
Gibbillini (fego)
|
|||
9
|
Castello
|
Gibbillini (fego) [1687]
|
Castelluccio
|
22
|
27
|
10
|
Ferraro
|
Gibillini
|
Ferraro
|
41
|
6,9,23,25
|
Le altre
contrade
Dagli antichi atti emergono anche le seguenti altre
contrade:
N.°
|
CONTRADA
|
NOTA
|
TOPONIMO ATTUALE
|
N.° pr.
|
N.°
Mappa
|
1
|
Carmine
|
Grotti (fego)
|
==
|
||
2
|
Nuci
|
Menta (fego)
|
|||
3
|
Pumi (contrata delli Pumi)
|
Menta (fego)
|
Portella di Puma
|
100
|
63, 64
|
4
|
Funtana Dulci
|
Nadore (fego)
|
|||
5
|
Mindulazza
|
Nuci (fego)
|
Mendolazza
|
76
|
68,69
|
Le terre della Noce e della Menta vengono ambiguamente
designate: talora come feudo a parte, talaltra come pertinenze della contigua
contea dei del conte del Carretto.
Invero, a ben riguardare la questione sotto il profilo giuridico, sembrerebbe
indubitabile che si tratti di terre allodiali dei Del Carretto, finite prima ad
un ramo cadetto e poi, nel Seicento, rientrate nella sfera feudale di quella
famiglia.
La
genesi del feudo di Racalmuto
Ripuliti gli esordi feudali dai vari Malconvenant,
Abrignano, Barresi e Brancaleone Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca
che risulta primo proprietario del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era
costui un immigrato che per abilità propria o per successione poteva disporre
di tre centri nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci
riferiamo all’indiscutibile diploma che custodivasi negli archivi angioini di
Napoli e precisamte a quello che reca il
n.° 209 il cui sunto recita in latino:
Executoria
concessionis facte Petro Nigrello de BELLOMONTE mil., quorundam casalium in
pertinentiis Agrigenti, vid.
Rachalgididi, RACHALCHAMUT et Sabuchetti, que casalia olim fuerunt Frederici
MUSCA proditoris, et casalis Brissane, R. Curie dovoluti per obitum sine
liberis qd. Iordani de Cava, nec non domus ubi dictus Fridericus incolebat.
Era dunque un’esecutoria della concessione che veniva fatta
da Carlo d’Angiò a Pietro Negrello di Belmonte, milite, di tre casali siti
nelle pertinenze di Agrigento, e cioè Rachalgididi, Sabuchetti ed il nostro
Racalmuto, chiamato - non si sa per errore di trascrizione o per più precisa
denominazione - RACHALCHAMUT. Quei tre casali erano appartenuti (olim) a
Federico Musca che Carlo d’Angiò considera un traditore. Quanto al passo
successivo che investe la storia di Brissana, a noi qui nulla importa.
Federico Musca viene privato del feudo nel 1271: ribadiamo,
è questa la data di nascita della storia racalmutese, almeno fino a quando non
si trovano altre fonti scritte o archeologiche. Per quel che abbiamo detto
prima, gli esordi racalmutesi medievali possono retrocedersi di una ventina
d’anni, ma non di più.
Un Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna
Saba Malaspina colui che l’Amari considera “diligentissimo cronista” per non parlare del Montaner, del D’Esclot,
di Nicola Speciale, di Bartolomeo di Neocastro, del Sanudo.
La vicenda viene dal Peri
così sintetizzata ed interpretata:
«Federico
Mosca conte di Modica acquistava benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282
passò in Calabria e conseguì buoni successi con una comitiva di 500 almogaveri
(le truppe a piedi che nel corso della guerra del Vespro prospettarono la
validità dei reimpiego della fanteria, che sarebbe salita a clamore europeo a
non lunga distanza di tempo sui fronti di Fiandra).»
E successivamente (pag. 46):
«Se
la reazione immediata di Carlo d’Angiò fu più minacciosa che vigorosa, se la
cavalcata di re Pietro, nel settembre del 1282, da Trapani a Palermo, a
Messina, a Catania, fu più prudente che difficile, il conflitto poi si spostò
prontamente fuori Sicilia. Nel novembre, il conte di Modica Federico Mosca
portava la guerra in Calabria.»
Annota, peraltro, l’Amari: «Il Neocastro, cap. 56, accenna
anch’egli ad una fazione degli almugaveri, diversa da quella di Catona. Dice
mandatine 500 presso Reggio e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro il dì
11 novembre mandò il conte Federigo Mosca a regger la terra di Scalea, che si
era data a lui. ...»
Se Federico Mosca, conte di Modica, è, dunque, lo stesso di
quello del diploma angioino riguardante Racalmuto, sappiamo ora che costui dopo
l’esonero del 1271 non tornò più in questo casale. Anche per Illuminato Peri,
neppure tornò - almeno stabilmente - a reggere la contea di Modica che (pag.
31). A lui «sembra essere succeduto nel titolo di conte di Modica il genero
Manfredi Chiaromonte marito della figlia Isabella», quello che avrebbe edificato
il nostro Castelluccio.
Ma a quale ribellione di Federico Mosca si riferisce il
citato diploma angioino? Non abbiamo notizie
aliunde. Dobbiamo quindi supporre che trattasi degli eventi del 1269. Li
abbozziamo qui sulla falsariga del racconto dell’Amari. Le truppe angioine
riconquistano il castello di Licata, che era stato assediato dai Ghibellini,
nel dicembre del 1268. Nel 1269 si sparse la falsa notizia che il re di Tunisi
stesse per sbarcare. Frattanto Fulcone di Puy-Richard, sconfitto a Sciacca nei
primi del 1267, comandava a poche città che gli prestavano volontaria
ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly dell’ordine degli Spedalieri, venuto in
Sicilia da tempo a cambattere per Carlo con la scusa che stessero per sbarcare
i Saraceni d’Africa, agiva da capitano di ventura e crudelmente (vedasi
Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai primi d’aprile del sessantanove re
Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli mancava solo di conquistare Lucera
per fame, combattè di persona i Saraceni e si accinse a riportare
all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi cambiò due volte il
vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con Guglielmo de Beaumont, poi
costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito agli ordini del solo
D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato dal Estendart, ed indi
di quest’ultimo soltanto, fu mandato per
sterminare le forze di Corrado Capece. L’Estendart risultò un feroce capitano
che comunque riscuoteva la fiducia del re, che non mancava di colmarlo di ricchezze
e di onori. Saba Malaspina lo chiama uomo più crudele della stessa crudeltà,
assetato di sangue e giammai sazio (Lib. IV, cap. XVIII).
L’Estendart condusse nell’isola millesettecento cavalieri
con grande numero di arcieri e vi furono associati oltre 800 cavalieri che
stanziavano nell’isola, tra siciliani e stranieri. Ricominciò davvero la
guerra.
Quel condottiero andò da Messina per Catania all’assedio di
Sciacca, ma qui gli piombarono addosso oltre 3000 cavalieri provenienti da
Lentini; sopraggiunse Don Federico con cinquecento soldati scelti spagnoli,
chiamati Cavalieri della Morte, e gli angioini furono tricidati. L’Estendart e
Giovanni de Beaumont, con altri baroni, vi trovarono la morte. Ne seguì un tal
terrore che Palermo e Messina trattarono la resa, ma la trattativa non andò in
porto. Il racconto - desunto dagli Annali ghibellini di Piacenza - non convince
del tutto l’Amari che puntualizza: «Manca la data di questa battaglia; falsa la
morte dell’Estendart e fors’anche quella del Beaumont; Sciacca fu assediata di
certo dagli Angioini sotto il comando dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni,
de Beaumont, poiché ricaviamo che gli riscosse le taglie pagate da vari comuni
invece di mandare uomini a quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali genovesi
che Sciacca fu conquistata dagli Angioini.
Anche Agrigento fu assediata dai francesi, dopo la conquista
di Sciacca, che vi avrebbero però subito una sconfitta. I Ghibellini, astretti
da varie parti, riuscivano ancora a mantenere il controllo di Agrigento,
Lentini, Centorbi, Agusta, Caltanissetta.
Gli eventi evolvono con l’assedio di Agusta. Carlo d’Angiò
ordina all’Estendart di portarsi a ridosso della città siciliana per il colpo
di grazia. Vi si erano insediati 1000 armati e 200 cavalieri toscani che la
difendevano valorosamente. Il re fece costruire apposite galee per
quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29 settembre 1269. L’ordine era di
passare a fil di ferro quanti si trovassero nella città. Essa fu presa per il
tradimento di sei prezzolati che di notte aprirono una porta. Guglielmo
d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore, né innocenza, né ragione
d’uomini alcuna.»
Cessata la guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise
nell’ufficio di Vicario, il 18 agosto 1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico
di perseguitare i traditori e confiscare loro i beni», annota l’Amari.
In tale frangente, ebbe dunque a verificarsi lo
spossessamento del feudo di Racalmuto che dal “traditore” Federico Musca passò al fedele - estraneo e
francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se parente dei tanti Beaumont
che abbiamo avuto modo di citare.
Sempre l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri
fragelli s’aggiunse la fame. In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano
salì a cento tarì d’oro la salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a
quaranta tarì, che vuol dire nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al
doppio o al triplo del valore ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato
coinvolto in quella sciagura: le sue ubertose terre avranno fornito pane
sufficiente. Ma il nuovo signore de Beaumont avrà potuto razziare a man bassa
per le solite speculazioni granarie. Si pensi che anche la vicina Milena -
all’epoca chiamata Milocca - finisce in mani di un omonimo: quel Guglielmo di
Bellomonte di cui abbiamo parlato sopra.
Sfogliando i registri angioini, apprendiamo che il padrone
di Racalmuto dal 1271 al 1282, Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di
Montescaglioso e il Camerario del Regno del 1271. Non pensiamo che il conte di Montescaglioso
sia mai venuto a visitare queste sue lontane terre, site in una terra dal nome
strano, Racalmuto. Avrà mandato qualche suo amministratore. Solerte, comunque,
nello sfruttare quei contadini di origine araba, usciti da non molto tempo
dalla condizione di “villani”, una sorta di schiavitù a mezzo tra la servitù
della gleba e la remissiva subordinazione della fede cattolica, vigile
nell’inculcare il sacro rispetto del padrone per il noto aforisma “omnis
auctoritas a Deo”. Ogni autorità vien da Dio. Ed il lontano Negrello era pur
sempre un padrone caro al Signore Iddio. Bisognava ubbidirgli e basta, come al
ribelle conte di Modica.
Racalmuto
durante i Vespri Siciliani
Dalle brume delle vaghe testimonianze scritte affiora solo
qualche brandello delle locali vicende in quel gran trambusto che furono i
Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle
sue passioni irredentiste, a fare del “ribellamento” del 1282, una
fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi contro ogni
dominazione straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor più i
racalmutesi) sono per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti, propensi
a sopportare ogni autorità, la quale - straniera, o indigena, o paesana che sia
- sempre sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore aggravio
possibile, con il solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo, o in
chiesa, o presso il farmacista o nel greve chiuso della bettola).
Ancor oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni
del francese Léon Cadier sull’amministrazione della Sicilia angioina. Il Cadier prende le distanze dall’Amari e
secondo Francesco Giunta esagera, specie là dove rintuzza quelli che considera
attacchi e calunnie del grande storico siciliano dell’Ottocento: «la ragione di
questi attacchi - scrive infatti il francese - e di queste calunnie è facile da
capire. Il più bel fatto d’arme della storia di Sicilia è un orribile massacro;
per farlo accettare dai posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro
Siciliano’ come un avvenimento glorioso dagli annali siciliani, si è fatto
ricadere tutto ciò che questo atto aveva di orribile su coloro che ne erano
stati le vittime. Per scusare i carnefici, i Francesi sono stati accusati di
ogni sorta di crimini; l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta
con le tinte più fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei
tiranni.»
Ed a noi Racalmutesi del Novecento, il culto dei Vespri ci è
stato inculcato sin da bambini, specie con quel reliquario che è il brutto
quadro raffigurato nel sipario del teatro comunale. Leonardo Sciascia - che grande storico non lo
fu mai - si produsse nel 1973 in una sua cerebrale superfetazione sul mito del
Vespro. Di rilievo l’inciso: «questo
mito [quello del Vespro], che per lui non era un mito ma la storia stessa nella
sua specifica oggettività, Amari difese sempre: ma certo rendendosi conto che
più si confaceva al carattere della riscossa nazionale che si andava preparando
ed al sentimento e al gusto del tempo, quell’altro della congiura dei pochi che
accende il furore di molti.» Da parte sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti
della storia servono più della storia stessa - ammesso possa darsi una storia
pura, oggettiva, scientifica.» Ad ogni buon conto, «dirò - è sempre Sciascia
che parla - che tra tutte le ragioni che
adduce [l’Amari] per negare la congiura - di documenti, di circostanze
concordanti e discordanti - la più persuasiva resta per me quella che dà come
siciliano che conosce i siciliani: e cioè che nessuna cosa che è preparata, può
avere successo in Sicilia. In quanto non preparato, ma improvviso e rapido e
violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»
Se il Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non
si avvertirono neppure le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di
ribellarsi. Al padrone Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico,
predatore - era subentrato Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano,
fiducioso nei suoi messi partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi
fu: in termini di libertà, di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato,
dopo il Vespro, il grande disordine della generale ribellione, ai racalmutesi
tornarono comodi il caos amministrativo e la rapida fuga dei loro sovrastanti: dal marzo al 10 settembre
del 1282, poterono lavorare i campi seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire
alcunché con il padrone, immagazzinare, alienare, incassare e per intero. Il 10
settembre 1282, arriva da Palermo una missiva
indirizzata “Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un
perentorio ordine dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e
mandare 15 arcieri: una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno
capito neppure che cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma
era una richiesta che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era
finita; i padroni ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami,
imposte, angarie e sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.
Racalmuto - si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di
Federico II di Svevia. Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro
Altipiano un certo numero di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità
trattasi di marrani sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappreseglie della
persecuzione religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali
per necessità mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che
quella specie di schiavitù è tramontanta, ma la loro condizione sociale ed
economica è molto simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso
coincidono con la disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel
territorio a strapiombo sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva
fisionomia di abitato trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il
pagliaio a sopperire alle necessità abitative; sorsero le case “copertae palearum” che qualche decina di
anni dopo impressionarono l’arcidiacono du Mazel, mandato da Avignone a
rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un incolpevole interdetto,
comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliao - scrive il Peri non ad hoc ma pertinentemente - non richiedeva scavo in profondità per le
fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in grossi pezzi sovrapposti
“a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La costruzione si alzava, quindi,
con paglia e fogliame impastato con fanghiglia. Costituito abitualmente da un
vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le bestie collaboratrici e
compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle intemperie e dava una pur
limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole. Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad lapides et calces), anche nelle città erano e sarebbero
rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata secolare.
E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano nozione diversa
dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la fatica prolungata e
l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente
offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche
dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e
al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con
rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle
generazioni.»
Il prisco insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti
che i successivi riveli sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo
ebbe a chiamarsi di Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di
Pannella incluso, dalla Madonna della Rocca sino alle Bottighelle dell’attuale
corso Garibaldi, tra S. Pasquale e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero
negli altri tre quartieri: San Giuliano, Fontana e Monte.
I racalmutesi tengono molto alla tradizione che vuole la
chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente addirittura al 1108: una
chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si indicano come i primi baroni
del casale. Non è facile farli ricredere. La ‘notizia’ ha per di più una fonte
scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici locali la danno per certa, ed
anche i restauratori della chiesa, negli anni ottanta di questo secolo, parlano
di facciata “normanna”.
Il Pirri, palesemente, collega la notizia ad un paio di
diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi capitolari della Cattedrale
di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a cavallo tra il secolo scorso e
quello corrente per la nota questione delle decime della mensa vesvovile
agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi incaricati di difendere le
ragioni dei grossi agrari della provincia, riluttanti a riconoscere le antiche
tassazioni ecclesiastiche, e giuristi, canonici e storici di parte cattolica,
tutti alle prese con la dimostrazione che trattavasi di tasse dominicali e
quindi di gravami ancora validi.
Nel 1960, il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta
dal concordato del 1929 e nella sudditanza alle autorità ecclesiastiche
propinata dal consolidato regime democristiano - incaricava il grande paleologo
Mons. Paolo Collura di uno studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi.
La pubblicazione che ne è seguita è pietra miliare per ricerche del genere. Noi
siamo andati a cercare quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria di
Racalmuto ed abbiamo scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese. Vi
sono, sì, due diplomi del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della
fondazione di una chiesa dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la
località nulla ha a che fare con la nostra Racalmuto .
Si riferisce evidentemente ad alcuni ben specifici di
codesti diplomi, il Pirri per fornire notizie su Santa Margherita di Racalmuto,
come d'altronde nota lo stesso Collura (). Ma come si può ben vedere, sia per
le precisazioni del Collura sia per l'ubicazione dei fondi sia per i toponimi,
qui ci troviamo a Santa Margherita Belice (o presso i suoi dintorni) e
Racalmuto va senz'altro escluso. () E’, poi,
certo che Racalmuto non appare mai in modo incontrovertibile nel carte
capitolari di Agrigento che vanno dalla conquista normanna al 1282. Non è
chiaro se ciò sia dovuto ad un tardo affermarsi del toponimo arabo del nostro
paese o ad una sua indipendenza fiscale nei confronti della curia agrigentina.
Noi, come detto dianzi, propendiamo per la tesi della tarda fondazione del
paese di Racalmuto, qualche decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo
soffermati sopra.
Caducata l'attendibilità della fonte documentale del Pirri,
si sbriciola la narrazione del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il
Capitolo II ed il III che contengono
notizie sulla "signoria dei Malconvenant" e su "Santa Margherita
Vergine" che corrisponderebbe "alla nostra Santa Maria di Gesù" sono destituiti di fondamento storico. Il
Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta conoscenza dell'abate netino. Egli
si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte a Racalmuto» e del
«Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°, pag.393-4». L'Amico è esplicito
nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui Malconvenant e su Santa
Margherita Vergine: è il Pirri della Not.
Agrig. Il Pirri fu sicuramente
indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo agrigentino e nasce così
la favola di Santa Maria chiesa del XII secolo.
L'avallo di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra
Martorana ha ormai canonizzato tutte
quelle 'pretese' notizie della storia di Racalmuto e non sarà facile a
chicchessia rettificarle o raddrizzarle. Malconvenant e chiesetta vetusta di
Santa Margherita-Santa Maria saranno usurpazioni storiche cui i racalmutesi non
vorrano rinunciare, tant’è che, ancora nel 1986, il padre gesuita Girolamo M.
Morreale ribadiva quel falso scrivendo
che, indubitabilmente, «frutto
della rinascita normanna fu per Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte
Ruggero conferì l'investitura di signore delle terre di Racalmuto a Roberto
Malcovenant che dopo venti anni dalla liberazione vi fece sorgere la prima
chiesa sotto il titolo di S. Margherita vergine e martire, vicino l'attuale
cimitero, dotandola di fondi agricoli che convertì in prebenda canonicale.
Rocco Pirro colloca l'erezione della chiesa nell'anno 1108 e precisa che
avvenne con licenza del Vescovo di Agrigento, Guarino (+1108)» () Il
mendacio storico è proprio duro a morire, se anche un colto ed avveduto gesuita
vi incappa or non sono più di dieci anni fa.
Quanto a falsità storiche, ancor più salienti sono quelle
che confezionate dal Tinebra Martorana, furono ribollite da Eugenio Napoleone
Messana: sono le incredibili avventure della Racalmuto nel crogiuolo della
rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana
che nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai
baroni filofrancesi «Giovanni Barresi,
signore di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti
vassallaggi di Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse
le armi contro il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del
1282, «Giovanni Barresi, che palesemente
aveva seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in
auge, ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato,
fu spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la
baronia di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu
concessa alla famiglia Chiaramonte.»
* * *
Il Fazello non mostra interesse alcuno verso quelli che
dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto,
appunto. Il colto storico è basilare nella storia di Racalmuto per avere
ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita
Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto
costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse
accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il
Fazello è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia -
responsabili Vito Amico ed il
Villabianca, quello della Sicilia Nobile
- su un'evidente distorsione di
un passo dell'opera storica del Fazello.
Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto : Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva
ricevuto da Re Ruggero l'investitura di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando,
Castania e molti altri "oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra
quegli oppidula doveva includersi
proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non
sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno
in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende avventurose di
quella famiglia.
Non è questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci
pare di avere fornito elementi sufficienti per comprovare la validità dei
nostri convincimenti in ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei
Malconvenant e dei Barresi con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere
se possa parlarsi della signoria degli Abrignano.
Il solito Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina
questa successione:
«Alla morte del conte
Ruggiero Normanno, sia perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse
estinta, sia perché fosse caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi
perdere domini ed uffici. Ciò che è indubitato è che il figlio del conte
conquistatore, il gran re Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla
nobilissima famiglia degli Abrignano[Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa
passò ai Barresi. Degli Abrignano però non è sicura notizia e di certo, se essi
governarono Racalmuto, fu per breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno
alcun cenno.» E tanto è davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene
asserito come “indubitato”, diviene subitaneamente - con contraddizione che non
dovrebbe essere consentita - “non sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò
a definire quella del Martorana “una buona storia del paese”. Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49)
non ha dubbi che «nella cronaca dei re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero
II concesse la baronia di Racalmuto ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad
Abbo Barresi dopo. Della concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il
Minutolo, altri la omettono e riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.»
Evidentemente, né Tinebra Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto
il Minutolo, diversamente non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano
letto soltanto Vito Amico che nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo
Memor. Prior. Messan. Lib. 8 attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla
famiglia di Abrignano, dato poscia a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel
Villabianca: « e la tenne [Racalmuto] pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam
fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente ci dispiace che
nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro stimato amico. Egli sintetizza: «La famiglia Albrignano - Decaduta
la famiglia Malconvenant, Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto agli
Albrignano o Alvignano nel 1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle storia
o, se vi fu, ebbe a durare pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia di
Racalmuto era già nelle mani dei Barresi.» Un’evidente sunto, con quella
aggiunta della data che vorrebbe essere una precisazione e diviene invece una
colpevole topica.
Il Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran
priorato” : raccolse le dichiarazioni
dei vari suoi confratelli sulle loro ascendenze nobili. Essere nobili era
indispensabile se si voleva essere ammessi fra quei frati cavalieri. Fra D.
Alberto Fardella di Trapani nell’anno 1633 asserisce - in buona fede o
fraudolentemente, non sappiamo - che un suo antenato era: «Hernrico Abrignano
dei Signori di Recalmuto, nobile di Trapani, e Regio Giustiziero, e Capitano»
nell’anno 1395. La falsità era talmente evidente da non doversi dare alcun
credito al mendace frate, ma il Minutolo non se ne accorgeed incappa in una
smentita a se stesso, quando trascrive l’albero genealogico dell’altro
confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo del Carretto, di Giorgenti, 1617”, il
quale, in coincidenza della pretesa signoria di Racalmuto da parte di Enrico
Abrignano nell’anno 1395, colloca , correttamente, al posto dell’Abrignano, il
proprio antenato, il celebre barone Matteo del Carretto. Ma già un altro due
monaci della famiglia Fardella (fra D. Martino Fardella di Trapani 1629) si era
limitato a dichiarare quell’identico antenato come semplice nobile di
Trapani («Enrico Abrignano Nobile di Trapani»). In Appendice sub 3) forniamo
la trascizione di quegli intriganti alberi genealogici, per i curiosi o per i
diffidenti. Gli Abrignano con Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse una
qualche parente di Matteo Del Carretto andò sposa al “mercante” Enrico
Abrignano, attorno al 1391.
Quanto ai Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero
abbiano avuto il dominio di Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se
il padre Aprile, scrivendo in epoca moderna, era propenso alla tesi
affermativa. Si disse che Abbo Barresi I o Senior ebbe concesse dopo il 1130
dal re Ruggero il Normanno vari feudi, Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a
Matteo; da Matteo a Giovanni, la successione in quei domini feudali. Il San
Martino Spucches resta sconcertato dalla contraddittorietà delle notizie
fornite dal Villabianca. Si limita allora a questa secca elencazione: «Il Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che
Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200). Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore
Federico II concesse, dopo il 1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato
figlio di Giovanni (di Matteo di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il
figlio Matteo: al quale successe Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni.
Questi visse sotto Re Giacomo di Aragona e seguì il suo partito. Re Federico,
fratello di Giacomo divenuto Re di Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e
gli confiscò i beni. Da questo momento comincia una storia certa e noi
cominciamo da questo momento ad elencare i Baroni di Racalmuto con numero
progessivo.» Ma, così facendo,
l’esimio araldista, allunga la teoria delle successioni, ricominciando il
ciclo, per cui da Giovanni si passerebbe ad Abbo II iunior che avrebbe avuto dall’imperatore Federico II Racalmuto nel
1222 (per noi, a quell’epoca, ancora da fondare); da Abbo II a Matteo II e da
questi ad Abbo III, cui sarebbe subentrato Giovanni Barresi che è personaggio
storico distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro signore di Pietraperzia,
Naso e Capo d’Orlando.
Scettici sulle signorie pre-Vespro dei Barresi, non possiamo
escludere che, con la restaurazione feudale di re Pietro, Giovanni Barresi
possa essersi impossessato di Racalmuto, stante la latitanza di Federico Musca,
cui invero sarebbe spettata la titolarità della baronia racalmutese. Con il
passaggio tra le fila di re Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra
al proprio fratello, Federico III, che era stato proclamato re di Sicilia nella
ben nota crisi di fine secolo XIII - potè essersi pur verificata la perdita da
parte di Giovanni Barresi del recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli
altri suoi possedimenti siciliani, finiti sotto confisca.
L’Amari, nella sua guerra del Vespro siciliano, accenna ad
un diploma del 28 dicembre 1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo
II d’Angiò, ove Racalmuto e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte
Aguto. Ovviamente si trattò di promesse
dell’angioino che non ebbero seguito alcuno. Ma quella promessa sa di sonora
smentita della tesi che vorrebbe feudatario di Racalmuto Giovanni Barresi:
questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure sotto la bandiera di Giacomo
d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò arrivasse al punto di
confiscare a sua volta il feudo già confiscato dal nemico Federico III.
Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse ancora la
concessione a Pietro Negrello di Belmonte
e che si pensasse di girare ora il feudo al milite alleato Pietro di
Monte Aguto.
* * *
Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con
quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto -
come detto - giunge la prima martellatta fiscale datata “Palermo 10 settembre”;
il nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire
la pillola inviando al nostro periferico casele un resoconto delle sue recenti
imprese. Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene
importava nulla di sapere:
«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. Re Pietro dopo aver eenumerate al Baiulo, ai
Giudici ed agli uoimini tutti di Adrano le ragioni, per le quali ha creduto
intraprendere la spedizione di Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani,
nonché del suo arrivo, per terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina
che, adunati in assemblea, eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i
quali, come loro sindaci, vengano a prestargli il debito giuramento di
omaggio e fedeltà; più, che tutti i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri,
lanceri, scudati si rechino, con armi
e cavalli, in Randazzo, pel 22 Settembre al più tardi.
«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di
là del fiume Salso.»
«[......] Item et infra fuit
scriptum eodem modo videlicet.
« [...] Burgio,
Sacca, Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera,
Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo
[Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»
Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene
chiamato - unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva:
dovrebbe approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva
parte da Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al
baiulo, ai giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti.
Perché mai questa resipiscenza? Evidentemente, la base impobibile che era stata
calcolata a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i
racalmutesi tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata
ad una tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno
altri 20 fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla
guerra che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente -
contro l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti
racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380
(calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile
consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta,
bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e
quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri:
una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una
maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione
stimata di circa 456. (Nell’allegato n.°
5, forniamo ampi ragguagli su tali nostre ipotesi d’indole statistica.)
Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre
1282 si rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il
tanto aspettatato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in
corso; che quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa
giocondità”. Fidelitati vestre feliciter
nunciamus. «Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli
adempimenti burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici
giuramenti “corporalia iuramenta” della debita fedeltà e dell’omaggio al re.
Nomini i suoi “sindici” si inviino davanti al cospetto della “celsitudine”
regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché
annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri, arcieri, uomini armati di tutto punto, di
scudi o di altri tipi d’armatura e s vengano presso di noi Re Pietro in quel di
Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo
mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disobbidisce, incapperà nella
nostra reale indignazione.
Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia
accorato quei siciliani del 1282 dinnanzi a quelle pretese del nuovo padrone.
Neppure i letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello
sgomento. Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure
quando sembra farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa
sulla locale storia, appena “descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari
che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla
non meno predace “avara povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse
e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria
apportava.» E questo sarà un bel dire,
ma di scarso senso per quello che davvero avvenne, per quella vita racalmutese
che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto “narrabile”, tanto angosciante,
tanto rimarchevole “storia”.
Chi spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come?
Quali decisioni furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era
ma perico per la vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi
calamitosi e per strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e
“prosecuti”?
C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono
adunati in chiesa al suo della campana, come sarà costume alla fine del ‘500.
Un prete avrà tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si
era autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il
farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano
di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella
lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del 7
agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto:
1282-1300 ca.
Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni
feudali per quasi un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come
non è da parlarsi di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a
Piero di Monte Aguto, la cosa si risolse in una vacua promessa, non potuta in
alcun modo realizzarsi. Si è pure detto come la notizia secentesca di una
assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale
falso, ostando irrefutabili ragioni
cronologiche.
Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che
costui ebbe, sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la
vedova, Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno
agli anni trenta del XIV secolo.
Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di
Federico Musca, che - dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di
Calabria, sempreché si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto
ed il milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo,
un Federico Musca , comes Mohac, si
rinviene tra i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc.
IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico
Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:
«....[PAG. 4] entrati che
furono gli Aragonesi nel governo di
questo Regno, appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato
[Modica] Federigo MOSCA, quello
stesso che fu Governatore della Valle di
Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e
fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .
«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta
Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per
fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos
- egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad
monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte
bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum
reciperet.» Ma se sia stato costui
discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo
comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però,
ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo
dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi
successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè
Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non
meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di
Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato
ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli
seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»
Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque,
libero, ma subito soggetto, agli
appetiti tassaioli del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del
10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi del’epoca dovettero adunarsi
per stabilire il da farsi. A presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco
i giudici. Chi furono i due sindici eletti per andare il giuramento e l’omaggio
al nuovo re in quel di Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici dovevano avere dei patronimici
non molto differenti da quelli che incontriamo nelle prime fonti storiche
racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri, Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de
Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta
dedicata alla Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone.
Sappiamo di certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria
- quella che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal
Malconvenant né da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del
Cristo: in quel tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Intercolutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul
riparto dei balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva
dove reperirli fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il
suolo di tagliole per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di
Ferro di Marsala, viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in
singulis terris et locis vallis Agrigenti» recita un documento in quel
torno di tempo. Il 17 settembre, il
Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luogi di sua
giurisdizione ad un celere invio del “fodro”
(vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed
i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite
giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua
fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non
volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese,
dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p.
66 doc. n.° LXVIII). Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire
contro lo stesso Berardo di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i
marsalesi dei loro beni: manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da
Messina per reintegrare quegli abitanti nel possesso dei loro beni. (ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI).
Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione
straordinaria di ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a
Catania, «Re Pietro ... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai
sindici delle terre al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem, doc. n.° CCXXIX). Povero
Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con provvedimento del 17 novembre
1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non risulta, però, cointeressato in
qualche modo a Racalmuto (v. ibidem
pag. 203).
Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a
pagare le tasse: da Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro,
Giustiziere del Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere
dalle Terre di sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel
termine di 8 giorni per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e
al di là del Saldo, la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due
grandi circoscrizioni, circa alla promessa del sussidio.» (Ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo
20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro
«incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento
dalle Università al di là del Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV).
Racalmuto risulta tassato per 15 once (ibidem pag. 295), preceduto da:
•
Licata: unc. 238;
•
Delia unc. 3;
•
Naro unc. 166;
•
Calatarapetta (sic)
Mons maior unc. 6;
•
Tusa unc. 2;
•
Misiliusiphus unc. 4;
•
Sciacca unc. 250;
•
Calatabellottum unc. 122;
•
Agrigentum unc. 380.
Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose:
Racalmuto è chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una
cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella
sua storia del Vespro, ne fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva
la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi
nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un
indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una
nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di
essere originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e
scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una
vorace conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna».
Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si
ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne
fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese
da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne
siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del
1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per
ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia,
nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per
una faccenda di tasse su un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di
cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.
Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della
ribellione del Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona;
non si rese conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola;
subì passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi
quei nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona
cessò di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende
dinastiche del successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio
del 1296; ebbe forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o
III) ma non riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i du potenti
fratelli (Federico E Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi
delle scomuniche papali, in loco non sene
intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla
(non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti
e francescani si sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per
fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai
posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche
vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a
conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi
immigrati e con con fertili nozze.
Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a
due religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà
rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri
per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le
registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato
sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro
«Rationes Collectoriae Regni Neapolitani
- 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:
«Martutius de Sifolono
pro ecclesia S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la
chiesa di S. Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del
1310. E nel retro del foglio n.° 97 ( 97v):
«presbiter Angelus de
Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti,
solvit pro utraque tt. ix.»
Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso
corrispose per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di
Racalmuto, nove tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al
Fazello. Del resto, la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare
l’approssimatività dello scriba pontificio.
Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due
sacerdoti officianti a Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e
non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della
chiesa di S. Maria, ed è chiamato a
corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il
“prete” Angelo di Montecaveoso, ed è
tassato per nove tarì in relazione
all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non
sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la
chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati
alla Madonna è mero arbitrio. Il “presbiter”
Angelo de Montecaveoso ha tutta
l’aria di essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra
indigeno; ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispettp
alle ricche prebende di chi è titolare della chiesa di Santa Maria (dopo,
l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di
Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).
La chiesa di Santa Maria rendeva dunque per tre volte
rispetto alle primizie spettanti all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo
per essere soltano un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata
di feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico
agrigentino, e da qui potè nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta
documentato solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche
di un convento, forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo
agricolo e per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto
richiesta dal mercato a causa dell’endemico stato di guerra. Da qui, quel convento benedettino cui accenna
Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi dei
BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber
Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211».
II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che
trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna
concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo
Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag.
50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il
Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a
Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane
traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I
sospetti si basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo
nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico
Macaluso al comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per
adibirla a stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri,
(Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto
il foglio 211 che recita «MONASTERIUM
SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter
inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in:
Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il
padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco
tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S. Benedetto in
termini del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato
l’argomento. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre
Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo
di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti
dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro
tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di
abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non
poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da
Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci
dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là
dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo
noi, in piazza Castello, in quarterio
Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani
spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che
gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo
in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a
Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da
studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale . A Casalvecchio, già alla fine del XIII
secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in
pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
«Antica è l'origine di
Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300,
indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla
distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori
eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei
sepolcreti e ruderi di edifici. »
I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle collette
pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo
demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le
altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta,
Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo
Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa
rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte
papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur
sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva
dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si
sconoscevano persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino
per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di
Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a
quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella
sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
Denominazione
|
Unciae
|
Tarini
|
Granae
|
Summa
|
|||
Somme percette nell’intera
provincia agrigentina per le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
|
261
|
4
|
8
|
261,4,8
|
|||
Somme percette nell’intera
provincia agrigentina per le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
|
87
|
22
|
10
|
87,22,10
|
|||
Differenze
|
173
|
11
|
18
|
173,11,18
|
|||
Differenza
in percentuale
|
197,58%
|
||||||
Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il
doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per
un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310;
indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico
agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese,
il francescano Marco d’Assisi, ebbe dal
collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non
sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato
dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci
direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo.
In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto
l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia
subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei
vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28
gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu
una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il
Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al
partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla
cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276.
Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23
agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto
1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre
1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti
rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio
in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da
Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato
dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a
lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile
e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei
primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria,
oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule agrigentino;
ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco (presbiter
Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un balzello di nove
tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o
primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori
d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo.
L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo
gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio
dell’avara povertà di Catalogna.
Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III d’Aragona -
veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello Giacomo,
succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva
ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potetanti dell’Isola fino
alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.
Federico III potè detenere il regno di Sicilio per un
quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a
concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un
lungp periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale
baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso
Denis Mack Smith ha voglia di demitizzare: «in realtà, - scrive lo storico
inglese - interessi egoistici prevalsero
in questa guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica,
inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattutali e puntuali. Non
crediamo, ad esempio, ne ebbe solo distruzioni: anzi, sviluppo demografico,
lavori pubblici per fortificazioni, profitti da commercializzazioni del grano,
necessario al vettovagliamento delle parti in guerra, sembrano i connotati
affioranti da questo travaglio della storia locale.
Federico III conclude nel 1302 una “pace di compromesso”:
gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di Sicilia: un
cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò. La guerra
ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.
Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo intervallo
di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di innalzare nell’attuale
piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di torri difensive,
apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non convince molto:
le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di là a venire.
Il povero Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo; si
limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto, centro
fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico Chiaramonte, a
cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a otto miglia il
villaggio di Canicattini.»
Dal passo si evince che il Fazello comunque non aveva dubbi
sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico Claramontano”. Ma chi fosse codesto Federico non
è poi del tutto chiaro, potendo anche essere Federico Chiaramonte I, il
capostipite della famiglia, nel qual caso la datazione della fondazione del
Castello retrocederebbe e di molto.
Da dove abbia tratto
la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio per
abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini
circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di
investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di
Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si
sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili indeudamenti da parte dei
Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso
(capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a
farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di
irrefrenabile visionarietà.
Se poi diamo credito al San Martino de Spucches, proprio in
coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe fatto
erigere il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un abbaglio:
c’è confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. Per il San Martino, dunque, «IL
FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara, territorio di Naro, da non confondersi
con l'altro sito in territorio di Girgenti, sul quale sorse poi la terra di
Gibellina, eretta a Marchesato. Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo vi
costruì la fortezza; in ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte; questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a
giugno 1392 sotto il suo palazzo, detto lo STERI,
ebbe tagliata la testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione in cui
si dibatte il peraltro avveduto arabista. Con franchezza, dobbiamo ammettere
che nulla di certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a partire
dalla fine del secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.
Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono
facondi nell’enfiare le rare e malcerte notizie degli storici secentisti che
hanno scritto delle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua
erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in
encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli, quello
che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del Monte.
«Decaduta la famiglia
Barrese - scrive il frate di Lucca - e devoluto Racalmuto al Regio Fisco fu
concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso. Federico secondo di questo nome
terzogenito di Federico primo Chiaramonte fabricò il magnifico Castello
tutt'ora in gran parte esistente. Onde si riuta l'opinione d'alcuni che
pretendono il Castello costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri
confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino
all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone
Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia.»
Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è ben
poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della
emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei
secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto
arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla
crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del
‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero.
Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente all’inesistente
dominio dei Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto
Giovanni Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del
lucchese sono accettabili, purché meglio chiariti.
Quando, come, in che misura i Chiaramonte si impossessano di
Racalmuto?
Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona, si è
detto che Racalmuto venne a Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto e siamo nel
1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva poche probabilità
di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a giungere in loco. La famiglia agrigentina dei
Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre alquanto periferiche:
Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio e potè benissimo muninerlo
di una fortezza; il fratello cadetto Federico II si dichiarò padrone del casale
e dell’agro circostante, non mancando di ergervi l’attuale Castello, sia pure
nella sua embrionalità costituita dalle due torri cilindriche. Costruire torri cilindriche
in quel tempo era divenuta ardua impresa per il diradamento delle maestranze
fredericiane. Ed allora? Un interrogativo che può dissolvere la fondatezza
della congettura che siamo stati per raffigurare. Solo i futuri scavi
archeologici potranno chiarire il mistero: un mistero che si aggrava se i
nostri privati ritrovamenti di ossame e di ceramiche sotto gli interstizi tra
le due torri dovessero segnificare presenze abitative o necropoli medievolati
antecedenti il XIV secolo. Le ossa non sembrano invero umane; i cocci sono
angusti per configurazioni significative.
La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da
Illuminato Peri e noi ci accodiamo in
tutta umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi,
mancò un controllo inibente da parte della monarchia, e le concessioni si
moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si allargarono; e fu
proprio allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei Chiaramonte. Prima,
per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento, e particolarmente
nelle vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la grossa proprietà.»
Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni di
valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi.
Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta
può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del
nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da
Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali
che la avrebbero contraddistinta; sul suo valoreatto a 174infrenare l’orgoglio dei re e costringerli
ad umiliazioni.»
Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che nei
primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza
Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges che testualmente così la raffigura:
« Da questo nobile
matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque Costanza
unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del Carretto;
Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il contratto
matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à
11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno. come riferisce
Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel
suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre
10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro
di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam
universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem
Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae Constantiae
haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate substituo, ita tamen,
quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque liberis statim anno
impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem Mohac, et Ioannem
de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et integre revertatur.
2. Venne
Costanza per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona
dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del
Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di
Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in
Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del
Carretto possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte
d'Antonino suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore
della sua gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente
detto, Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che
nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo
di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3.
Isabella; moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero
Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di
Raimondo Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel
quinto luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la
7. & ultima si fù Genebra.
1.
Costanza,
restando la seconda volta Vedova, finalmente si morì in Giorgenti, havendo
prima fatto il suo testamento, e publicatoil 28 marzo 1350 nominando suoi
esecutori testamentari il suo primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano
Delabro ed il priore del convento di S. Domenico.»
Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte ebbe la
disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per la
testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro si
specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro il
riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza
Chiaramonte. Si tratta dell’atto
transattivo in cui Gerardo cede al fretllo Matteo del Carretto, atitolo
oneroso:
«omnia
iura omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas
perentorias, tacita, civiles et expressas,
que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et
habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice
domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam
domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris,
quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et
eciam quocumque alio iIure competente
domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia
Racalmuti ut primogenito magnificorum
quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et
casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et
Ruviceto Siguliana terminis, cum onere
iuris canonicorum civitatis
Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate
Agrigenti iuxta hospitium magnifici
Aloysii de Monteaperto ex parte meridi, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu
Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris
vacuis vineis, et toto districtu in p..io iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris
quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus
sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus (?) in
omnibus et singulis bonis stabilibus,
castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus.»
Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado vende e avendone il potere di vendita concede e per
tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al magnifico ed egregio
don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello, presente e compratore,
che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori, in perpetuo, tutti i
diritti e tutte le azioni reali e personali, universali, dirette, miste,
perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto don Gerardo,
come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di successione o
ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché per diritto
ereditario riveniente dal quondam
magnifico signore don Giacomino [Jacobinus] del Carretto, suo fratello,
così pure per diritto di successione ed eredità riveniente da quondam magnifico Matteo Doria ed anche
per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo per qualsiasi
ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come primogenito dei defunti suoi
magnifici genitori ed erede di suo fratello Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale,
nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli,
Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con
i gravami verso i canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un
tale palazzo esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico
Luigi di Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S.
Matteo ed ai casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte
orientale, e prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini.
Del pari, viene venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto
nella contrada di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero
distretto ove scorre il fiume della detta città nella parte orientale e
confinante con la via pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso
gravano gli oneri che ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il
predetto atto si estende a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi
esistenti nella città di Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su
tutti e singoli beni stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e
burgensatici ovunque esistenti nell’intero Regno di Sicilia.»
E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di
Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio
del Carretto - che Costanza ebbe dal
primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del
Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì
che a Matteo del Carretto giugno anche i beni dello zio paterno Matteo Doria,
figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.
Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda feudale
di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano estranei
alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve perido in cui
la baronia sembra im mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così? Purtroppo, un
documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di meglio esplicare -
revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre racalmutesi furono
di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici, mentre l’egemonia
feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del XIV secolo.
Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina procurò con la sua
strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura? anche qui un
mistero.
E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di
Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che
all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattuto la figura femminile di
Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli - Manfredi,
Giovanni il Vecchio, Federico II -
ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di
Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il barone di Racalmuto al
tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re
Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella
contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di
Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto
della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la
concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra
sua dimora che si chiamò Steri
(l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di
Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo.
Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.
Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca Palizzi.
Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che assediava
Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella difesa di
Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di Calabria.
Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di Palermo. Il Picone
ci assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio
case palagi castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il
suo casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi,
colla chiesa nostra, e ne riceveva in corrispettivo il casale Mussaro, col suo fortilizio coi
casamenti, e i terreni che locingevano, perché la chiesa non bastava a
mantenerlo e custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni nelle vicinanze
della città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca (Ruolo n.° 23) che
i nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una serie di falsi,
propinati ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni Chiaramonte su
Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.
Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca direttamente:
signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311, lasciando erede la
figlia Costanza.
Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita la
contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321; sposa
Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene
ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui
ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta:
aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la
moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare
in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il
Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al
nemico, partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane.
Muore frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337
dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara.
Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo.
Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in
loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero
degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro
razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza
eredi maschi.
L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte travolge
l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro politico
di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico
III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone -
hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o
al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.
Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino
Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento
di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi
receve l’investetura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo
(1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi dosrta per articolare
una qualsiasi risposta. Nle 1351 Manfredi II diviene vicario generale del
Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353, lasciando eredet il
figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di Aragona).
Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la contea di
Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339 partecipa con il
fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re Pietro II.
Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e diviene
governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla conquista
di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere
Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa
con il nipote Simone alla sollevazione di messina contro Matteo Polizzi. Concorre
alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni a danno
dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei Chiaramonte, conti
di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV. Possiamo solo
congetturare che Racalmuto - stante
anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta titolari della baronia
- sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei Chiaramonte. Federico
III sale ancora nella scala degli onori pubblici divenendo nel 1361 Pretore di
Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano Giustiziere di Palermo. Muore
nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.
Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia Aragona,
costitusce cuna parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di potere
di quella schiatta trecentesca siciliana.
Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la sollevazione di messina del
1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e della sua famiglia, voluta da
Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati. Nel 1353 eredita i titoli
ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa. Trovatosi a capo della
fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento sulla fazione dei
Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il re di Napoli, in
nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa Palermo. Chiede a Luigi
d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re Federico IV che lo stesso
Luigi teneva prigioneriero a Reggio. Non venendo accolta la sua richiesta, pare
che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato propinato il veleno. Muore
senza lasciare successori legittimi nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte
pare non avere neppure lambito Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta di
questo turbolento personaggio.
Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani.
Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello
di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo.
Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S: Giovanni e Misilmeri.
Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.
E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di Federico
III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di Modica,
la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro Giustiziere del
regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città ed il castello
di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli succede nel contado
di Modica Manfredi III.
E’ costui un personaggio centrale, di grande spicco a mezzo
del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che compravano che il vero padrone di
Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte appunto, avendo in subordine i
Del Carretto o avendoli estromessi, non sappiamo. Figlio naturale di Giovanni
II /secondo La Lumia, Villabianca e Pipitone Federico), sposa in prime nozze
Margherita Passaneto e poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e
Siracura. Partecipa alla congiura contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358
chiede aiuti al re di Napoli contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente,
nel 1364 si riconcilia con il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli
Angioini , all’obbidienza di Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene
onorora della carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di
Mistretta, la signoria di Malta, della città di terranova, di Cefalà. Fu
padrone delle terre di Vicari, Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella,
Carini e Comiso, Naro e Delia, oltre altri feudi intorno a messima. Manfredi
III si trasferisce nel 1365 da Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino
Giovanni III il contado di Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e
Misilmeri. Ma in quell’anno è divenuto tanto potente da impedire al re Federico
IV di sbarcare in Palermo per l’incoranazione ufficiale. Nel 1375 può
conciliarsi con il Re e gli viene concessa la signoria di Castronovo con
Mussomeli, che da lui prende il nome di Manfreda. Nel 1377, alla morte di
Matteo, viene investito dal Sovrano della contea di Modica, comprendente vari
feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari che governarono la Sicilia durante la
minore età della regina Maria. Conquista nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene
investito dal papa Urbano VI del titolo di Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la
figlia Costanza in sposa al re Ladislao di Napoli, il quale ripudia la moglie
dopo la rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391 lasciando eredi delle sue
sostanze le figlie. Per un bastardo, il destino ebbe in serbo una sequela di
ascese da capogiro. Con chi non fu
concepito in legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca l’acme: ma
subito dopo fu il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle cose di
Sicile di case regnanti aragonesi, per il gioco della politica a dimensioni
divenute sovranazionali. E Racalmuto tornerà nell’alveo di una dimessa baronia
delcarrettiana.
Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte di
dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni e ititoli dei Chiaramonte
comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale
Tetrarca del Regno; riufiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza
la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronovo nel
1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno dopo
(1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato
dinanzo allo Steri il 1° giugno dello
stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima
parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più
conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare
sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino e dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e
amici nel castello di caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai
più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento
ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i Del
Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente
incidenza la ebbero i Doria (in Particolare, Matteo Doria); per il resto il
potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello
sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che
investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime
e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza
Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi
dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse
trattato di benefattori.
Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura dei
Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di
grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti
notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica
di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una
dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una
provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha
l’attenzione del Chronicon Siculum
(CVIII) e del Villani (XI, 108). Nel
novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana
che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débcle. Il cronista coevo ci racconta
che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno di essi sfuggi, se
non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta vollere rilasciare
e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni Chiaramonte (di cui
abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando d’Aragona fratello
naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del dento re Pietro
d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo, Vincenzo Manueòe da
Trapani. E, per quello che anoi più preme, Matteo Doria. Questi per adempiere
all’impegno contratto per il riacquisto della libertà dovette vendere la tenuta
di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500 onze. Matteo Doria era figlio di Brancaleno Doria e
di Costanza Chiaramone, proprio quella che aveva avuto per marito di primo
letto Antonio del Carretto con cui aveva generato il nostro Antonio II del
Carretto. Questi e Matteo Doria erano dunque fratelli sia pure soltanto
uterini. Matteo Doria aveva per fratello germano Manfredo (ribelle a Federico
III, ma reintegrato nei beni; esule e poi stabilitosi ad Agrigento) e le tante sorelle:
Isabella, Marchisia, Leonora, Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte fu
dunque donna molto feconda: tre figli maschi da due diversi mariti e ben cinque
figlie femmine (per quello che se ne sa). Nelle tante doti che dovette fare
rientrò mai Racalmuto? Davvero venne assegnato in esclusiva ad Antonio II del
Carretto? Ed il riafflusso dei beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti di
cogmone Del Carretto annetteva anche la
nostra baronia? Misteri del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado di
dipanare. L’Inveges va invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo,
faccia pure.
Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare che
Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il De
Gregorio ci pare in definitiva piuttosto
perplesso. Ai fini della nostra storia, i Doria non ci paiono, comunque, di
particolare rilievo, ragion per cui non abbiamo dedicato molte ricerche su tale
ceppo di mercanti e navigatori genovesi, approdati ad Agrigento che fu provvida
pedana per una fortuna feudale che li fa assurgere a cospicui rappresentanti
della nobiltà sicula trecentesca.
Dalle brume degli esordi racalmutesi della sciatta dei Del
Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del
Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica
figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere,
sulla base che gli agiografici alla Inveges o alla Giordano, ogni effettiva
egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II
del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di
Matteo Doria, il titolo pervenne ai carretteschi. E ad investigare sugli
intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna
fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone
Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose
enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto -
andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio Antonio II
Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte dell’investitura di
Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate
che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni
dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito
per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla
circostanza di un Antonio II Del Carretto
trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di
navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del
marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza
fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luogi liguri senza neppure un convolgimento formale di
codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti; A Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedvano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263.
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli:
«marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso
nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora
le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina
dei M.si di Clavesana; antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene
intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche
Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel
1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di defeltà.
Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da venezia del Carretto ebbe quattro
figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’
quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da
atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del
carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come
Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe
in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il primo cui si accredita la
baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce
qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre
molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dall madre Racalmuto
nel 1344 per atto del Notar Rogieri
d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie
dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto ad un certo punto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato a
Genova, come detto. Là si sarebbe arriccchito con partecipazioni in compagnie
navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del
citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del
Carretto. «Infine il predetto don Gerardo
promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia tutti i privilegi, le scritture e i rogiti
relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto,
che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam
don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il
detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto
ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli,
mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente
quelle tenute date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione
della detta vendita.»
La
svolta del 1374
Si accredita autorevolmente la tesi di un Mafredi
Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate combinazioni, si
venisse a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» Non sembra potersi revocare in dubbio che «al
1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il
contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino Matteo, al ’77, il contado di
Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda,
Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini,
palazzi, tenute in Palermo, Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene
nominato, ma si dà il caso che in documenti coevi che si custodiscono
nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro paese appare sotto la totale
giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con
certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia
nel senso allora corrente di gravissima epidemia». Già vi era stata un’invasione di lacuste che
provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne fu certamente colpita, ma pare non
in domodo grave. Maggiori danni si ebbero per un ritorno dei focolai epidemici
di una ventina d’anni dopo. Operava frattanto la scomunica per i riverberi del
Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il panico facendo collegamenti tra
le ire dei papi che in quel tempo erano emigrati ad Avignone e la vindice
crudeltà della natura: era facile additare una vendetta divina, ed anche il
potente Manfredi Chiaramonte era propenso a credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di quei tragici
eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto
questo è però provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un
massiccio trasferimento da Casalvecchio all’attuale sito della residua,
falcidiata popolazione. Già, subito dopo la conquista di Garibaldi, il locale
sindaco - pensiamo a Michelangelo Alaimo - faceva scrivere ad un dotto
professore del Continente che: «Antica è
l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla
peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si
trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio.
Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile,
si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. Questo borgo fu sotto il
dominio della famiglia Chiaramonte, passò quindi in feudo della famiglia
Requisenz, principi di Pantelleria. (Alcune delle surriferite notizie debbonsi
alla cortesia dell'on. Sindaco di questo Comune).»
L’apice della visionarietà si ha naturalmente nel
Messana, secondo il quale: «A
Racalmuto le cose andavano bene, la popolazione cresceva, sempre attorno
al castello. Vista insufficiente la cappella del Palazzo che nei primi tempi
dopo il 1355 fu aperta al culto dei pochi superstiti alla calamità, si costruì
la chiesa dedicata a S. Antonio Abate, eletto patrono del paese, alla periferia
del nuovo centro abitato, verso l'odierno cortile Manzoni. Intanto gli anni
passavano, e al barone Antonio Del Carretto erano succeduti i figli Gerardo e
Matteo. La baronia di Racalmuto con altri possedimenti era toccata a Matteo, a
Gerardo invece Siculiana col resto dei
feudi. I due germani non rimasero estranei agli avvenimenti politico militari
del regno. Essi seguirono, come aveva fatto il padre, i loro parenti, i
Chiaramonti, anche perché questi avanzavano rivendicazioni sulla baronia, tutte
le volte che non vedevano i Del Carretto al loro fianco con entusiasmo e
dedizione. Negli anni di grazia tra il 1374 ed il 1377 in più luoghi storici
infatti Racalmuto è annoverata fra i beni chiaramontani. E' chiaro che i Del
Carretto erano i signori di Racalmuto negli affari interni, ma tanto legati e
dipendenti dai Chiaramonti che all'esterno apparivano come valvassori dei
potentissimi parenti. Gerardo e Matteo, alla caduta di andrea Chiaramonti, che
avevano seguito nell'assedio di Palermo, riuscirono a sfuggire all'ira di
Martino e ricoverarono all'interno. »
In questa pagina del Messana c’è del vero, ma tanto da rettificare, almeno se
si dà in qualche modo credito alla lezione da noi sopra esposta.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed il
1375 ebbero indubbiamente a coilvolgere Racalmuto, ma in che modo non è
possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo
vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360.
L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I,
il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può
solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con
9 galeee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galeee) che aveva
scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV
si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento:
nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci
da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di
nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una
recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si
riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si
può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Ma quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per
certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il concordato con il
papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile interdetto. La corte pontificia, ancora ad Avignone,
versava in ristrettezze economiche: se la Sicilia si mostrava disponibile ad
una tassazione straordinaria aveva possibilità di una rimozione del gravame
papale. Fu così che si fece strada la soluzione della controversia con il papa:
bastava assicurare il pagamento di un sussidio il cui peso sarebbe finito
direttamente sulle vessate popolazioni dell’Isola, compreso Racalmuto
naturalmente.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi
eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un
nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII
era inffetti Pietro Roger de Beaufort nato a
Limoges nel 1329; morirà a Roma
nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia
ponendo fine alla cosiddetta "cattività avignonese". La fine del suo
pontificato fu contraddistinta dalla rivolta generale delle province italiane.
Nel 1375 e nel 1376, nel momento in cui Firenze ingaggiava contro la Santa Sede
la guerra degli «8 santi», novanta citta e castelli dello Stato pontificio si
sollevavano contro gli ufficiali apostolici e demolivano le fortezze edificate
antecedentemente dal cardinale Albornoz. La rivolta può venire considerata
causa del definitivo tracollo del papato francese in Italia, che non riesce più
a percepire i sussidi straordinari imposti dal 1370 al 1375 nei domini della
Santa Sede.
Negli ultimi anni della loro dominazione in Italia, i papi
avignonesi ricorsero molto spesso alla generosità dei loro sudditi con
richiesta di sussidi straordinari, tanto da trasformarsi in imposte ordinarie.
Quanto al consenso dei parlamenti, divenuto alla lunga puramente formale, a
partiva dal 1374 esso tendeva a sparire del tutto. Dal 1369 al 1371 si trascina
la guerra di Perugia e diviene controversa l’esazione dei sussidi della Tuscia
in favore del patrimonio della Santa Sede.
Scoppia quindi la guerra milanese ed insorgono difficoltà per
l’acquisizione dei sussidi relativi agli anni 1372-1373. L’Italia conosce, nel
1374 e nel 1375, la devastazione della peste e della fame. L’epidemia di peste
bubbonica affiorata a Genova nel 1372 si diffonde a poco a poco per il resto
d’Italia, e nel 1374 raggiunge la Francia meridionale. Una grande siccità
imperversò alla fine del 1373. Dopo, nel seuccessivo aprile, cominciarono
piogge torrenziali e protratte che rovinarono la mietitura e provocarono la
carestia. Un coacervo dunque di circostanze per le quali Gregorio XI si vide
costretto a sollecitare un nuovo aiuto economico da parte dei sudditi italiani
per sostenere la guerra che continuava più furibonda e più rovinosa che mai,
contro il signore di Milano.
All’inizio del 1375, la Camera apostolica non incontra
difficoltà soltanto in alcune province dell’Italia centrale. La carenza
contributiva si estende alla Cristianità intera. Salvo forse la Francia, la
percezione dell’obolo è un totale falimento nel reame di Napoli e,
specialmente, in Sicilia. L’Inghilterra si era sollevata contro le pretese di
Gregorio XI. Il clero di Castiglia e di Lione e quello del Portogallo rifiutava
ogni aiuto. Il papa fu allora costretto a revocare le vecchie tasse e
dichiarare che si accontentava di somme relativamente modeste (qui 20.000 e là
25.000 fiorini). Nella stessa Italia, gli ecclesiastici fanno orecchi da
mercante e rifiutano di consegnare al collettore Luca, vescovo di Narni, i
contributi che pure avevano promesso. I mercenari non sono pagati e, per
calmarli, Gregorio XI deve conferire terre della Chiesa ai loro capi.
La guerra milanese è frattanto prossima a concludersi. Il 4
giugno 1375, la tregua con i Visconti è conclusa. Lungi dal riassettare una
situazione fortemente compromessa, la fine delle ostilità aggrava le tensioni.
I mercenari, privi del loro soldo, sono lì lì per costituirsi in compagnia e
rifarsi con i saccheggi. Non basta, certo, un’ipotetica retribuzione a
frenarli. Solo degli espedienti possono salvare provvisoriamente la Camera
apostolica. Gregorio XI si fa prestare
somme enormi.
L’incapacità del papato di procurarsi il denaro necessario
al finanziamento della guerra contro Bernabò Visconti è il segno del fallimento
finale della fiiscalità avignonese. Questo fallimento deborda dai limiti dello
Stato pontificio e si estende atutta la Cristianità, come mostra il rifiuto
pressoché generale di pagare i “sussidi della carità” sollecitati da Gregorio
XI nel 1373.
Per un sussidio di carità può però la Sicilia torgliersi da
dosso l’interdetto, conseguenza del Vespro: lo può l’intera Sicilia ed è
perdonata; lo può Manfredi Chiaramonte e tutte le sue terre sono
perdonate; lo può Racalmuto ed il 29
marzo 1375 viene solennemente assolto con un cospicuo “sussidio della carità”
di una colpa mai commessa.
Storici di acuto intelletto scrivono che «c’è un elemento
comune del mondo moderno che è stato considerato come il fondamento del suo
processo evolutivo, nelle forme di stato e Chiesa, costumi, vita e letteratura.
Per produrlo le nazioni occidentali dovettero formare quasi un unico stato
spirituale e temporale insieme.» Ma ciò
per un breve momento. Sorgono quindi le lingue nazionali; si sfalda il
precedente mondo monolitico e «un passo dopo l’altro, l’idioma della Chiesa si
ritirò dinanzi all’impellanze delle varie lingue delle varie nazioni.» L’universalità perse terreno; l’elemento
ecclesiastico che aveva sopraffatto le nazionalità entra in crisi; i popoli si
mettono in cammino lungo percorsi nuovi,
in incessante trasformazione, e sempre più accentuatamente distinti e separati.
La potenza dei papi era assurta ad altissimi livelli in un mondo coeso. Ma ecco
che nuovi momenti cominciano ad eroderla. Furono i francesi che opposero la
prima decisa resistenza alle pretese dei papi. Si opposero, in concordia
nazionale, alla bolla di condanna di Bonifacio VIII; tutti i corpi di quel
popolo espressero il loro consesso agli atti del re Filippo il Bello.
Seguirono i tedeschi. L’Inghilterra non rimase estranea per
lungo tempo a questo movimento; quando Edoardo III non volle più pagare il
tributo al quale i re suoi predecessori si erano impegnati, ebbe l’assenso dei
suo parlamento. Il re prese allora misure per prevenire altri attacchi della
potenza papale.
Una nazione dopo l’altra si rende autonoma; le pubbliche autorità rigettano le idee di
sudditanza ad una autorità superiore, sia pure a quella del papa. Anche la
borghesia si discosta dall’umile sottomissione ai papi. E gli interventi di
costoro vengono respinti dai principi e dai corpi statali.
Il papato cade allora in una situazione di debolezza e di
imbarazzo che rese possibile ai laici, che sinora avevano cercato di
difendersi, di passare al contrattacco. Si ebbe addirittura lo scirma. I papi
poterono essere deposti per volontà delle nazioni. Il nuovo eletto doveva
adattarsi a stabilire concordati con i singoli stati.
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’
questo un momento ulminante della crisi che abbiamo fugacemente additata. Ed in
questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In
cambio di un obolo supplemante si può procedere alla revoca di un interdetto,
frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche per il modesto,
gramo paesetto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola, nell’isola - scrivemmo
una volta in pieno disaccordo con Sciascia.
Le
decime del 1375
Nel contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un
personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito
nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel.
Originario della diocesi di Mende, in Francia, fu uno dei valenti agenti
dell’amministrazione finanziaria della Santa Sede sotto i pontificati di Urbano
V e di Gregorio XI. Si distinse come collettore in Germania (1366-1367) e quindi
nella Penisola Iberica (1368-1371). A questo punto il suo destino si lega a
quello della Sicilia ed investe a Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del
1375. La sua carriera in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375.
Svolge diligentemente i suoi compiti e fra l’altro redige come collettore
apostolico carte e registri contabili che, conservati negli Archivi del
Vaticano, sono giunti sino a noi. Vi troviamo Racalmuto.
Bertrand du Mazel era “archidiaconus
Tarantone in ecclesia Ilerdensi, cappellanus pontificis” (Reg. Vat. 268, f.
67) cioè a dire un diacono maggiore che aveva l’amministrazione dei beni di
taluni settori della chiesa (canonica, etc.). Oggi il titolo è meramente
onorifico e viene attribuito ad un componente capitolare delle cattedrali. Du
Mazel , come tutti i collettori, dovette tenere un registro delle sue
operazioni per sottometterle al controllo dei chierici della Camera apostolica.
Pare che si stato un uomo preciso e motodico: conservo una copia della sua
corrispondenza. Una parte di tale corrispondenza riguardava, pernostra fortuna,
la Sicilia e risulta custodita in Vaticano. Ciò si deve al fatto che per il
diritto di spoglio tutte le carte di Bertrand du Mazel dovettero essere versate
in blocco alla Camera apostolica alla morte del proprietario.
Du Mazel curò un carteggio con le autorità siciliane
dell’epoca nella sua qualità di collettore del sussidio riscosso dal popolo
siciliano. Inoltre conservò i documenti contabili tra cui quietanze, conti dei
sotto-collettori, minute e bella copia dei conti. Nel Reg. Av. 192, fol.
414-419v, abbiamo la minuta autografa, cancellata e corretta, del conto del
sussidio raccolto dal popolo siciliano.
La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca
nel quadro degli eventi sopra abbozzato.
In particolare occorre tener presente che all’inizio del 1373, dopo
laboriosi negoziati, il re Federico IV di Sicilia e la Regina Giovanna di
Napoli concludevano la pace sotto l’egida del papato. Riconosciuto come sovrano
legittimo della Trinacria, Federico IV accettava la signoria di Giovanna I, e
quella di Gregorio XI. Egli si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla
regina che doveva trasmette alla Santa Sede questo canone. I siciliani dovevano
giurare la pace e prestare giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava
tutti i diritti e privilegi che godeva prima del Vespro del 1282. Il papa
prometteva di levare l’interdetto che gravava nell’isola da lunghi anni.
L’accordo si rendeva necessario per le ristrettezze
finanzierie pontificie a seguito della lotta contro i Visconti di cui abbiamo
detto. Si è anche visto come i “sussidi caritativi” chiesti al clero di molti
paesi fossero risultati fallimentari.. In Sicilia la percezione di tale
sussidio fu decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la
promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono
chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono madalità di esazione
contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle del
dicembre del 1372, chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della Chiesa
in Italia, imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione
dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo.In virtù di una clausola
apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva
liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento di rispettare la pace e
d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto
pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in
imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa
riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero
si parla ancora più esplicitamente di “subsidio auctoritate apostolica imposito” . E ci siamo dilungati proprio perché
in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.
Illuminato Peri
chiarisce gli aspetti storici di siffatta atipica tassazione pontificia.
«La esazione fu affidata a collettori pontifici, e fu convenuto che 1/3 sarebbe
andato alle finanze regie. Nella forma Federico IV si presentò mediatore fra
popolazione e autorità ecclesiale. Tanto che l’atto del maggio del 1374, con il
quale egli fissò la misura della sovvenzione, fu dichiarato “moderatio regia”.
Con tale atto si cercò di sedare le reazioni piuttosto violente suscitate dalla
prima richiesta (“rumori, rivolte, novità, assembramenti e molte indicibili e
turpi parole contro la chiesa romana e noi”, sintetizzava il collettore
Bertrand du Mazel). Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in
rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le
“mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in
facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle famiglie nella
categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le condizioni
economiche fossero omogenee, sarebbe stata distribuzione equa. Furono esentati
i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e le “miserabili
persone” che non era prefigurato fossero.»
Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive
a destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove
istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed
università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo
convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli
inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Sempre da Avignone, il 1° ottobre del 1372, si officia
Guglielmo affinché interponga “partes suas consolidationi Agrigentinae
civitatis efficaciter et, cum consummata fuerit, Francisco de Aragonia impendat
obedientiam et reverentiam, sicut decet.” (Reg. Vat. 268, f. 298 v.° 299 v.°).
Si ripristini ad Agrigento la fedeltà a Francesco d’Aragona, che risultava
infranta.
Vediamo questo diploma: «Al nostro diletto figlio, nobiluomo
Guglielmo di Peralta, conte di Caltabellotta della diocesi di Agrigento, salute.
Ed al magnifico diletto figlio,
nobiluomo Giovanni Chiaramonte, signorotto (domicellus)
della diocesi di Agrigento, nonché ad Emmanuele Doria, signorotto (domicellus) della diocesi di Mazara, a
Manfredi Chiaramonte, (domicellus)
della diocesi di Siracusa, a Benvenutode Graffeo, signore di Partanna della
diocesi di Mazara.» Il pontefice mostra di conoscere molto bene la mappa del
potere feudale in quel frangente storico, come dimostra il dosaggio dei titoli
nobiliari nella missiva di cui abbiamo citato l’indirizzario.
Ma particolare attenzione viene rivolta a Giovanni
Chiaramonte che ancora nel 1372 è vivente e domina sull’intera provincia
agrigentina, Racalmuto compreso (il papa ignora i Del Carretto, argomento ex silentio, quanto si vuole, ma pur
sempre circostanza rivelatrice). Sottolineamo questa lettera del 20 gennaio
1372: «a Giovanni Chiaramonte per i suoi
buoni offici tra la Regina di Sicilia e Federico d'Aragona - secondo il tenore
delle lettere per Nicolò de Messana,
Pietro d'Agrigento custodi delle custodie di Messina e di Agrigento dell' O.F.M.»
(Reg. Vat. 268, f. 247). In ben sei lettere papali a Giovanni Chiaramonte,
questi viene chiamato “domicellus
panormitanus”. Nello stesso periodo sono sette le missive papali a Manfredi
Chiaramonte. I due sono dunque personaggi di rilievo sino alle soglie del 1374.
Il 6 febbraio 1372, per il papa avignonese Giovanni Chiaramonte è cresciuto
d’importanza: viene chiamato “domicello dell’isola di Sicilia”. In appendice citami altri diplomi vaticani ad
ulteriore esemplificazione dell’importanza rivestita dai due Chiaramonte,
succedutisi nella signoria di Racalmuto in quel torno di tempo tra il 1371 ed
il 1375.
Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella
sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di
percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di
consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico che subito
toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Menfredi è a Mussomeli
nel suo castello che ora si denomena dal suo nome “Manfreda”: là si redige un
processo verbale che attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria,
presentandosi davanti al re Federico III gli ha prestato fedeltà e devoto
omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, si era dunque
quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re,
Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace,
come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro e finché
il re l’osserva lui stesso. Egli ha promesso di fare versare il sussidio dovuto
alla Chiesa dagli abitanti delle su terre di Spaccaforno, Scicli, Modica,
Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro, Favara,
Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronovo, Mussomeli,
Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo
Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco, Pietra Rossa
e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle proprietà dei
Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le proprietà di
Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione. Esse sono
distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona parte
dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno,
Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di
Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra,
Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano,
Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le proprietà della regione
di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» Il
processo verbale è stato redatto su domanda del re e del nunzio apostolico
nella casa dove risiede il re da Francesco da Treviso, notaio apostolico e
imperiale «presentibus reverendo padre Rostagno abbate monasterii Sancti
Severini Majoris de Neapoli et nobilibus et circumspectis viris Jacobo
Pictingna de Messana milite, Georgio Graffeo de Mazaria, Bonaccursio Maynerii
de Florencia, Manfredo de la Habita de Panormo, Raynerio de Senis, Reynerio
Pictngna de Messana et aliis.» [Copia di Bertrand du Mazel: Reg. Av. 192. Fol.
4.]
Dalla lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da
Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica
storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il
casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di
Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas ha un suo governo locale che
fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a degli ufficiali
subalterni ed ha una popolazione che costituiisce un soggetto giuridico (universi homines). Rientra tra le terrae nostrae, cioè di Manfredi. Se
dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto sarebbe
dovuta essere terra di Antonio II del Carretto: il diploma in esame smentisce
in pieno.
«Cum zo sia cosa ki
- soggiunge il conte di Chiaramonte con un siciliano cancelleresco che ha il
suo fascino - a nuy sia debitu procurari
vostru beneficiu et universali saluti, cossì di l’anima comu di lu corpu,
idcirco vi significamu ki pir tali ki vuy putissivu aviri lu divinu officiu et
la celebracioni di li missi, sì comu ànnu la plu parti di li altri terri di
quistu Regnu, et maxime per consideracioni di la malvasa epithimia ki vay
discurrendu per diversi terri et loki, in presencia di lu R[e]... prestamu et
fichimu juramentu di observari la pachi facta per lu signur Re comu [illu] ...
observirà et hannu juratu li altri baruni, et lu simili avimu factu fari a la
universitati di Palermu et di Girgenti; per la quali concordia esti commisu a
lu venerabili misser Bertrandu, capellanu et nunciu apostolicu et collecturi
deputatu per nostru signuri lu papa di lu subsidiu impostu per la relaxioni di
lu interdictu, ki pagandu vuy chauna universitati oy locu la taxa imposita et
consueta, comu ànnu pagatu li altri terri di lu predictu Regnu, ipsu per la
auctoritati a ssì commissa relassi lu dictu interdictu et restituiscavi lu
divinu officio et la celebracioni di li missi, ut predicitur; et impirò vulimu
et comandamu ki vuy, officiali predicti, ordinati tri boni homini un chascuna
terra et locu predicti ki aianu a recogliri la dicta munita, et ki incontinenti
si pagi a lu dictu collecturi perkì puzati consiquiri tanta gratia et beneficiu
supradictu. Et pirkì siati plu certi di la supradicta nostra voluntati, fachimu
fari quista nostra patenti lictera, sigillata di lu nostru sigillu consuetu,
cum li nomi di li terri et loki infrascripti. Datum in castro nostro Cacabi, VIIII° Februarii XII
indictionis [rectius: XIII indictionis = 1375].
«Nomina
terrarum et locorum sunt hec, videlicet:
Spackafurnu
- Naru - lu Mucharu - Sanctu Stephanu - la Petra d’Amicu
Sicli
- la Delia - li Glubellini - Perizi - Calatrasi
Modica
- la Favara - Sutera - lu Palazu Adrianu - lu Misilendinu
Ragusa
- Monticlaru - Manfreda - Cacabu - Camarana
Claromonti
- la Licata - Camastra - Chifalà - Petra Russu
Odorillu
- Rachalmutu -
Castrunovu - Misilmeri - ________
Terranova
- Guastanella - Bibona - la turri di Capublancu - Et cetera
Copia di B. du Mazel: Reg. Av. Fol. 431-431v.»
Ancora una volta le singole università dievono dunque
nominare tre probiviri (tri boni homini)
i quali devono assolvere il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli
abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano
stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino
la ficcante tassazione.
L’elenco delle università ha una sua logica: Racalmuto si
trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su
Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti
dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di
Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a
Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. A Nord di
Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina:
Gibillini (Glubellini) che non può
essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto livello) ma che
potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se
è così, la storia del paese di arricchisce di unaltro importante tassello. Da
Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito
dopo tocca a Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo
Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il
nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi diviene nullo.
Fin qui si è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo
delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire
dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo); il 18 dello stesso mese può togliere
l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a
S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto. Dal nostro paese si passa a Castronovo (8
aprile 1375). La raccolta del sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno
con la rimozione dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo: altra
regione, lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamento
Racalmuto.
Disponiamo di un paio di annotazioni che riguardano il
nostro paese e che naturalmente svelano tratti storici diversamente ignoti. Il
Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione
al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit
amotum interdictum in casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus
coperte palearum CXXXVI que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.»
Traducendo: «Del pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto
nel casale di Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136
case coperte di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende
ad onze 7 e 27 tarì.» Ad essere precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze
7 e tarì 27 (anziché 27) dato che così andava ripartita:
quota individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
||
numero fuochi
|
136
|
238
|
onze 7
|
tarì 28
|
|
ceto medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
||
benestanti (1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
||
poveri (1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
Con i suoi 136 fuochi
Racalmuto aveva dunque una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4
componenti per ogni nucleo familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i
miserabili), i preti (tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e
quelli che dipersi per le campagne non era possibile includerli nel censimento;
un venti per cento, come abbiamo calcolato per l’analoga tassazione del Vespro.
Nel 1375 Racalmuto contava dunque circa 650 abitanti.
Come si è visto le case erano di paglia: segno di grande
indigenza. Eppure i racalmutesi o per solerzia degli scherani pontifici o per
vero timore di Dio (e della peste) furono solerti e puntuali nel dare il
sussidio caritativo al papa. Non così in altre zone della Sicilia, come ebbe a
lamentarsi quello straniero di Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte del du Mazel non vanno minimamente confuse con
rilievi censuari. Abbiamo solo muneri simboli da cui possiamo dedurre solo
qualche ipotesi di lavoro di carattere demografico. Non è dato asserire che nel
1375 a Racalmuto vi erano davvero 136 case con tetto a paglia; che 34 di queste
(1/4) erano abitate da benestanti in grado di corrispondere la tassa pontificia
in misura massima (3 tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a ceti medi
(tassati per 2 tarì a famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie di
dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1
tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per
stima aprioristica. Certamente in misura più limitata dovette essere la densità
delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più
vasta quella della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi
(tassati a parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili”
(nullatenenti e non imponibili per le legge o per dato di fatto), gli
irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessabili o nei
contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in
stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva.
Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel
1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi avvallamenti sotto le grotte
dell’ordierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti, che tutto
considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e
poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”). Una
popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste trecentesca
ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento dalla Catalogna del
duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
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