Sciascia parla di cuocere per Santa Lucia “frumento poi
condito con zucchero o miele”; ecco la
cuccia, due tipi di cuccìa: quella povera e quella ricca. Quella che descrive Sciascia è la cuccìa
povera. Poi il Grande Racalmutese parla di spingi di San Gniseppi, di cannola
di Ernesto Di Naro, di Tarall ialla Piuzzu. Ma stralciamo: “ C’era un pane
straordinario, bianco e leggero, dorato e croccante nella crosta: portava odore
di campagna, di forno di campagna, uno
di quei forni, come in Sicilia, fatti a cupola araba, dentro in mattonelle di argilla cotta, mattonelle rosse che
diventano bianche per il continuo fuoco delle erbe secche (e l’aroma delle erbe
che bruciano);: e quando il forno diventa bianco, incandscente, si dice che è
“a punto”, pronto a ricevere il pane. Ritrovavo, nell’odore e nel sapore del
pane, la campagna del mio paese: la casa di campagna, le estive vacanze degli
anni di scuola.” Io ve ne ho uno di tali forni nella “robba” di
Bovo; ma nessuno sa più “famiarlo”; resta vergineo là, come rustico cimelio di
virginea faccia. Ma oso anche citarmi (dalmio LA DONNA DEL MOSSAD)
Cavatieddi cu sucu di
cuniggliu sirbaggiu, ficatieddi e sanzizza agliannariata ed antri cosi bboni
Scinniennu scinniennu Meluzzo Cavalieri
di Giorgenti passò in rassegna i suoi
prossimi commensali: era il gotha dell’intelligenza paesana. Racalmuto, patria
di Sciascia, era da tempo che mancava di cultura elitaria. I suoi prossimi
commensali, colti di certo non lo erano. Arguti, birbanti, scoppiavano
d’intelligenza, ma sterile, caustica, neghittosa, stracolma d’accidia.
Avrebbe
troneggiato il sindaco Pitruottu, ma l’onorevole Lasagne, ripiccatissimo,
avrebbe tentato di disarcionarlo. Non vi sarebbe riuscito: il Pitruotto,
beccato alle ultime elezioni, era più abile: qualche libro almeno in gioventù
l’aveva letto. L’onorevole Lasagne, no. Aveva inventato i caffè letterari,
finanziati dall’industriale Illy che pur doveva essergli avversario politico.
Poi Popò,
evanescente in tutto, e l’aragonese tutto preso di sé e decisamente diafano.
Anche l’arciprete, materialone e loquace. Immancabile il “riddilio di la
chiazza”, un ex minatore mai stato in miniera ma con pensione di invalidità
cospicua e irridentemente ostensa. Ed anche “lu cammaratisi” sempre pronto a
vantare l’inesauribilità del suo attributo, a suo dire debordante ogni umano
confine. Era il cuciniere e qui davvero ci sapeva fare. Poi i suoi amici
cacciatori: tutti, da Giacumino Bedduocchiu a Gnaziu Aviluortu a Chardonnay , a
Miserere ed altri. Un bel po’ di gente insomma. Lu Parrinieddu, no: era ‘arrusu ed a Meluzzo, bando a tutta la
sua intelletualitudine, gli invertiti
maschi (per le lesbiche faceva eccezione) risultavano indigesti … specie a
tavola.
A tavola,
invero, “li ‘arrusii” si potevano dire, era però preferibile “la futtuta cu li
fimmini”.
I suoi
commensali si professano grandi amatori
Con la sua
vecchia 131 Fiat giunse sulla radura della Vecchia Maniera. L’asinello, di
taglia piccola ma non sardignola, riprese a ragliare. Meluzzo vi voltò a
guardarlo. Sotto sciabolava sull’addome. Era spettacolo sconcio eppure non
seppe girare lo sguardo. Un lungo fiotto bianchiccio fu al culmine della foia
solitaria. «Che anche lui soffra di complesso di castrazione?» si disse con
celia Meluzzo, in fondo per reprimere il senso di vergogna di cui si
vergognava.
[….] Bah! Meglio
le prossime sortite oscene con i suoi simpatici commensali …- senza problemi
erotici … almeno a tavola, alla “vecchia maniera”.
[…]
Sesso e
consorzio umano, economia e società quali interconnessioni? C’era circolazione
sanguigna, magari extra-corporea? Marx e Freud andavano rifusi, interconnessi,
sussunti in amalgama. Dov’era però il genio? Dove il partito? La novella chiesa
del 2000? Non c’era, non c’erano, diamine!
* * *
Al simposio
andava come convitato d’eccellenza e, soprattutto, quale sommo sacerdote di un
rito pagano; andava a dare sacralità laica ad una crapula di cibi fatti risorgere
dagli smarriti usi del vivere contadino di Racalmuto.
Idea maiuscola,
partorita dal genio liso ma non consunto dei racalmutesi, quelli che si stavano
ora adunando per l’intellettualissima abbuffata alla “Vecchia maniera”. Il
primo germe l’aveva avuto Aurelio, purtroppo assente per misteriosa ammazzatina. Ricercatore di antiche cose locali, s’imbatté
in un rollo della Matrice. L’arciprete dell’epoca era con lui benevolo e
compiacente: quello attuale faceva il mistico in chiesa, il materialone con qualche
beghina ancora elastica in basso, ed il ciarlatano sui pulpiti e nei banchetti,
specie se prodighi di libagioni. Quanto a cultura e quanto a sensibilità per la
storia religiosa degli antichi padri, il nulla. “Rolli”, registri, pergamene,
sediole, “altaretti”, baldacchini, “sedie gestatorie”, ed anche piviali e
cingoli, amitti e patene, calici ed ostensori, mozzette e balaustre lignee,
come gli smantellati stalli del coro settecentesco per i mansionari voluti
dall’arciprete Lo Brutto, resero molto in euro e figurano mal registrate nelle
denunce di furto presso la caserma dei carabinieri a S. Grigoli.
Aurelio era
riuscito a decifrare il primo volume della «FRABRICA DELLA MATRICE CHIESA DI
RACALMUTO», ovverosia: «LIBRO
D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della frabrica della Matrice Chiesa di
Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra» per mano di
D. Lucio Sferrazza» e nel dettaglio Introito di denari per conto della frabrica
della Matrice Chiesa di Racalmuto pervenuti in potere del dr. D. Salvatore
Petrozzella Depositario di detta frabrica conforme alle constituzioni di Mons.
Ill.mo R.mo frà Ferdinando Sancèz de Cuellar vescovo di Giorgenti - Date in
Racalmuto in discorso di visita a 28 novembre 8a Ind. 1654».
Il bel volume,
rogato con grafia davvero bella, finì nel sottoscala della Galleria Colonna,
fra i libri vecchi poco richiesti.
Un’inchiesta vi fu; per pronta giustificazione si concluse che il
manoscritto si era smarrito quando l’intera raccolta della matrice era stata traslata
ad Agrigento per il restauro dei BB.CC.AA.
L’Aurelio aveva
però trascritto con il vecchio excel l’intero volume (altri). Il passo che qui ci
incuriosisce recita: «per havere fatto venire dui burduna da Garamoli
tt. 20. e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna
dentro la fiumana» Era il mese
di dicembre 1658.
Com’era la salsiccia racalmutese del 1658? Ancora
migliore di quella che si gustava dopo la guerra del 1940. Poi erano venuti i
porci del nord, e poi quelli esteri dalla Jugoslavia e poi quelli con il
venefico mangime e poi quelli clonati … il gusto disperso, smarrito. Ne parlò
Aurelio con Giovanni Salvo: dentista per vivere, animalista e botanico sommo
(come dilettante, s’intende). Bisognava riprodurre gli antichi maiali nel
sottobosco degli Agliannari al
Castelluccio. Ignari gli Avareddi
vendettero a giusto prezzo. Anni per il ripopolamento dei lecci e dei verri. Il
tentativo riuscì. Aurelio non gustò quella salsiccia: il veleno fu più
sollecito. La degustazione sarebbe avvenuta adesso, al simposio.
Vini antichi – si sperava simili a quelli che
nelle olle venivano da Racalmuto inviate a Roma per le decumane delle verrine
memorie – si produssero con vitigni che l’accorto padre di Cicciu Marchisi
seppe ricordare: biancugiovanni, ‘nzolia, lacrima di madonna, ed anche zibbibbo
e malvasia. Nucciu Principi - occhialuto latinista e giudice in pensione –
citava Marziale:
-
mescesi … il Massico vino al miele ibleo.
Il miele decantato era invero attico. Ma Nucciu
Principi seguiva la versione di Alberto Gabrieli. Altrove del resto non si
parlava di favi siciliani? «Quando regalerai miel di Sicilia/ stillato sugli
Iblèi, di’ pur che viene/ dalla cecropia Atene». Ne era nata vasta ed
inestinguibile disputa. Tre mirabili parti: un vino che Chandonnay seppe vacare
(ed un po’ manipolare) dalle prime acerbe uve dei vitigni messi su da Cicciu
Marchisi sul pendio dei Romano a Piedi di Zichi dopo l’esproprio per il
pericolo di valanghe da nubifragi.
Non si volle mischiare il vino col miele: era
come profanarlo, violentarlo. Stavolta il mondo romano era da considerare
balzano, non raffinato nel trattare il liquore di Bacco. Miele speciale però si
ottenne con arnie a “li balati” stracolmi di “satareddi” (“thimus capitatus”, non
senza sussiego precisava il dentista-botanico). E con mandorle “muddisi” –
qualità locale – si era fatta una “cubaita” (come quella insegnata a Federico
II dagli arabi) che bene si coniugava con un vinello che Chandonnay aveva
ricavato dal biancogiovanni, ‘nzolia, zibibbo e taluni altri vitigni che si
teneva per sé, «pi nun farisi arrubbari la rizetta».
Tardi si accodò Benny Alaimo Alosa: appena
laureato alla facoltà di agraria di Palermo, ove era pupillo dell’entomologo di
fama mondiale, il racalmutese Giuggiu Liotta. Venne con una sua idea: coniugare
“saperi e sapori” del paese. Peccato che s’intignò nel dare fattualità al
titolo di un epigramma di Marziale sugli “oli odorosi”. Fingendo di confondere
i profumi oleosi dell’epoca con oli odorosi di rosmarino, menta e citrosella,
cercò di sperimentarli ed anche produrli: fu disastro economico: l’olio sapeva
di afrore erbaceo, il selvatico delle piante si caramellava e dava
appiccicaticcio sapore. Ancora un’insistenza e l’avrebbero espulso dalla
combriccola. Si preferiva ed si usava l’olio tratto con macine antiche dalle
olive portate da Di Marco, eccellente produttore e convinto assertore che i
suoi uliveti sulle pendici settentrionali di Villa Petrone andavano
salvaguardati solo con la carta moschicida, appesa agli alberi a tempo debito.
Solo lui conosceva modalità e sistemi: un altro fanatico con la mania
dell’omertà bucolica.
Pitruottu, ricco di esperienze ereditarie, seppe
risuscitare tipi di verdure introdotte dagli arabi. Pregevolissima, la
“bastunaca” di cui si era perso persino il ricordo. Giacuminu Beddocchiu e
compagni venatori rintracciarono – almeno così dicevano – il coniglio autoctono
a li “Pantaneddi”: nella voragine
prodotta dall’insipiente sfruttamento del salgemma poté annidarsi una coppia di
leporidi nostrani, farla franca dagli accoppiamenti dei blenorrogici animaletti
che incauti cacciatori avevano senza difese sanitarie introdotto dalla
Jugoslavia ed avevano figliato a iosa, sani e gustosissimi. Questo dicevano
Giacuminu e compagni e stavolta non erano contraddetti dal solito Miserere. Il
cronista riferisce e non commenta.
E qui mi fermo, altrimenti continuerei per tomi
interi.
Giunsi con qualche ritardo, per quel dannato caso
della morte del dottore Aurelio La Matina Calello: non ne feci cenno,
altrimenti il pranzo andava a male, ché il morbo della curiosità, intrisa di
malignità e sospetto e dispetto, chissà dove ci avrebbe portato. Trovai
l’arciprete sorridente, ma nell’intimo contrariato. Non pensava più alla gola
come uno dei peccati capitali: i ghiotti spettacoli erano tentazione
irresistibile. Non tanto però da non costringere la frotta dei commensali,
farli tutti segnare, recitare il pater,
invocare la benedizione celeste sul cibo che poco parco certo non era, e quindi
«gloria patri et filio et spiritu sancto»
(il latino approssimativo era il massimo che l’arciprete potesse concedersi
dopo l’imbarbarimento della riforma ecclesiastica di Paolo VI». «Et in secula
seculorum» non potei fare a meno di celiare.
Esordimmo con antipasti ‘poveri’. Tutte le
verdurelle commestibili delle contrade racalmutesi trovarono sapiente
miscuglio, saltate in padella con aglio di Castrofilippo ed olio di Alaimo
Alosa (abbiamo dovuto fare qui uno strappo ed accettare gli intrugli di Benny …
e per quell’uso condimentale il rosmarino frammisto a succo di olive smunte
dalle presse in basalto di Cefalù non era poi spregevole). Le focaccette
(memoria di li cudduruna di gnura Annidda) erano fatte con la “tumminia”. Cipolle
e lattughe degli orti di Pitruotto e spizzichi di tumazzu che Sintini ci aveva dispensato, una volta tanto
senz’astio. Sintini, a vederlo, metteva paura: barba incolta da sempre,
incedere caprigno, capelli irsuti, tarchiato ma non corto, bacino ardimentoso …
ed occhi spaventosamente belli e neri… lupigni. Giacuminu Beddocchio lo
chiamava «l’uomo selvatico», ed era l’unica volta che si concedeva letterari
toscanismi. Aurelio aveva scritto che quelli (i Sintini e gli altri crapara del paese) erano i racalmutesi
prischi, d’intatto DNA. Erano i residui dei sicani, spintisi fra le montagne
con gli armenti, per non subire sudditanze e sfruttamento che il nuovo barbaro
popolo dei geloi stava imponendo
nelle lande sotto il Castelluccio già verso la fine del VI secolo a. C.
Il primo piatto impregnò la tavola dell’odore del
sugo del coniglio selvatico. Spettò a Nucciu Principi preparare “li cavatieddi”
come usava una volta, per devozione all’antico mestiere di pastaro della sua
famiglia. E dopo, lo stesso coniglio a sugo e – prelibatezza delle prelibatezze
– i fegatelli di porco indigeno e le salsicce del maiale allevato tra gli agliannari del Castelluccio ed altre
specialità del luogo (non essendo però questo l’Artusi, le ometto tutte quante.
Il mio apporto è consistito nel dosare sapori, odori, tempi di cottura, scelta
della legna per ogni tipo di pietanza; insomma il tocco dell’intellettuale con
vocazioni culinarie).
Sublime la granita di Parisi a mezzo del pranzo,
per spezzare l’aggravio intestinale. L’abbuffata finale di dolci, amaretti,
alle mandorle, alla ricotta, con liquori, con miele di sataredda, eccellenti i
taralli che non erano di Piuzzu ma ormai la Taibbi li sapeva fare meglio, e
deliziosi gli amaretti di Capitano. Compiacenti robuste libagioni, ora rideva a squarciagola Bisteccone: pur
sempre meno rosso, a tavola era eccellente commensale. Provammo l’antico
rosolio: ma non riuscì. Si imitarono i “marsala” e si superò il porto ed anche le celsitudini
dei Whitaker . Finì ubriaco persino l’arciprete e così ci risparmiò il Deo gratias.
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