CENNI GEOLOGICI
Nel
succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge
l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in epoca
piuttosto recente. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a
ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la
ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra
“geologicamente recente”([1]). Ed
anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di
milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno
formativo dell’isola. In un primo momento,
“formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie
di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra
Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In
una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo
emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca
quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo
una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan ([2]) Racalmuto
si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo
intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno
Pliocene.
Studi
sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali
(vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella
sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla
trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel
sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A.([3]) - i
terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:
1)
complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2)
formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e
argille;
3)
serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del
Saheliano e Messinese.
4) una
formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e
calcari marnosi (Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma
abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna
competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del
Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate
[sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per
protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma
addirittura uno straordinario
microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo» ([4]).
Secondo tale affascinante teoria, le
ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque,
a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di malefica
premonizione.
LA
PREISTORIA
Ma a
che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu
esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi
nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono
tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche.
Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego,
che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
Dobbiamo
saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei
abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano
in modo indubbio: le tombe a forno
scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo
il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del
paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la
strada ferrata.
Azzardiamo
una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo
agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e
l'altro, in cerca del sale, contiguo
agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande
verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
Il
primo insediamento è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene
definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra
l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma
fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura
di una vendicatrice resurrezione che pare angosciasse i nostri antenati. ([5])
Quei
cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego,
avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca
probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo
strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso
fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il
sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei ([6]).
Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei
fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo,
entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si
foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di
'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Il
secondo insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero
scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([7]) I
reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei
sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno, che si trovavano
nei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo, si sono te del tutto
disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla
primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se
non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a
riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle
ferrovie ([8]).
Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un
importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e
Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe
scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a
Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza
che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran
banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni
rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono
aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i
cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che
hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([9]) Si
ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna
particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e
parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista
a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([10])
Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una
riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una
“coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”,
di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un
corno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, ([11]) - conclude l’A. - nei
cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il
sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle
falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga,
chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città;
ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la
topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città
sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo
la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata
sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa
- presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si
trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione,
con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo
avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel
che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un
policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo
(1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di
Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello
sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono
vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade
racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni
sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al
confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa
che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani
un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi
contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a
tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una
miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([12]) Il
Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti
di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della
colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché
disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza archeologica pare dimostrare.
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI.
Cediamo
alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione
sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a
Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad
ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi
fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità
troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga
posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le
caratteristiche «tombe del tipo a forno »
([13]).
Da
quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali
dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed
alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale
collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura
e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare,
l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A
questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie
dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti
dal mare, i Sicani di Racalmuto preferirono ritirarsi entro le più sicure zone
montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,
si insediarono nella valle agrigentina,
per i radi indigeni di Racalmuto fu il momento del loro melanconico
dissolversi.
I
moderni storici si accapigliano per
stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe
neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza
ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza
della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la
scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un
doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima
ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona
era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre
in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile)
ritorno in patria. I rodiesi ed i
cretesi di Gela fondarono, accrebbero e
consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere
libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide
di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una
devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e
di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse,
fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si
attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi
reperti numismatici con la riconoscibile
effigie del granchio akragantino non
attestano solo l'inclusione di quel
territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla,
schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E
divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi,
irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi
sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le
radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si
evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona.
Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si
pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo
ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il
570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di
Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e
plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci
di quel periodo.
Racalmuto
vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi
delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a
moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi
schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento,
senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati
dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria
vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro
territorio sono i soli indici della loro presenza.
E'
certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e
gli Orlandin ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni
cinquanta, o come quelli degli anni Ottanta guidati dal De Rosa a noi non resta
che avventurarci in malcerte congetture.
Nella
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi,
in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con
l'elegante 'non liquet' (non risulta) di
Filippo Cluverio. Oggi, liquet
(risulta) l'inattribuibilità di Motyon a
Racalmuto e dintorni: la località è
dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.
Quando
vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non
riguardò queste nostre contrade: per
quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati
dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra
Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il
siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti
agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da
quella della fine del secolo XX.
Frattanto
Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani,
dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si
dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i
traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La
continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via
sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare
alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto
continua a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta
pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una
popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno
agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa
Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei
mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni
agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli
nei giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori
greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» erano poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. Ed in quel territorio circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze
greche.
Sfiora
la locale società contadina la nebulosa
vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro
Siculo. La sua cacciata da Akragas, per
il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo
il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa
coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua
volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene
neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti
contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a
goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi,
ma attendibili.
Atene
- con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo
ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415
a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una
disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto
generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a
Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle
tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano
risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a
guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore
fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra.
Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura
e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla
tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso,
Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel
406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa,
Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano
numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000
uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento.
Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi,
nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per
Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu
abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle
tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride.
Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un
afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine
finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano
sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e
ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia
dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio
il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte,
commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione
gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle
esigenze cartaginesi.
Crediamo
che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
ribaltava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia
e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che
artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete
siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili
scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la
spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello
scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia (provincia) cartaginese.
Sempre
il Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi
siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel
periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa.
I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino,
olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano
oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da
consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al
Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno
al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del despota agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e
Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di
Siracusa.
Nel
280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un
imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa.
Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas
e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di
Cartagine e vi restano per quasi un
ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel
264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire un'oscura appendice della lontana e suprema Roma.
La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum
esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai
Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un
secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani
nient'altro che «extera gens»
[gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come
schiavi.
Sette
anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto
la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta
la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo
che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le
antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del
secolo, Akragas e la vicina Eraclea
Minoa appaiono saldamente in mano dei
cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati -
si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da
Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture
raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto
sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani
ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare: alla fine fu vacuo il
suo genio inventivo; lo specchio incendiario fu di ardita e micidiale fattura;
invento speculo, naves romanas incendit;
eppure i romani finirono per avere la meglio. Per i cartaginesi, nel grande
scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano
su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano
l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora
una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui
mercati del mondo. Levino a Roma fa il
suo trionfale ritorno. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni
di grano nella lontanissima Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite
le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da
parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica
si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quella estensione
avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il
cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi
(portorium).
Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che,
assoggettati a decima, prendevano la via del mare per la città ora già caput mundi.
Ma per
uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano
ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace
ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento
contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo
che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e
sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili,
anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella
contrada di S. Anna agli inizi del
secolo scorso furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che
servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi
si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire
nelle voragini degli zubbi sotto il monte Castelluccio per il timore di espropri o
molestie da parte delle Autorità.
E'
tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci
attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da
parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da
Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora
fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel
cui manico [«in manubrio diotae fictilis
erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e
pubblicò tale e quale quella epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola
del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro
appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente nella
prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue
cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo
tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn.
Pedanius Fuscus Salinator e via di
seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra plausibile.
Quello
del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino
di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino
di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè
ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco
romano sino a tarda età, come si evince
dalle Verrine di Cicerone.
Per
quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto,
sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi
ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di
Augusto, ma di miniere racalmutesi non
si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., pare sotto
Comodo, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le
miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi
presero piede.
Per
oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i
cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri
a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento
minerario.
Il
primo ad averne contezza è stato l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi
trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una
preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei
Monumenti di Girgenti ed il Ministero,
che risale al 3 novembre del 1877. Si ha per oggetto: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un alto
dirigente, il dott. Donati, interpella il Picone in termini imprecisi quanto
misconoscenti:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio
in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con
ricordi di prepositi alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò
grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’avvocato
agrigentino risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) e fornisce informazioni di
grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei
Romani:
« Furono or sono pochi anni scoverti nel
bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con
bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si
vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al
rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture
orientali.
In uno di essi mutilato si legge
(totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFORIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre
iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si
legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla
paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di
altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli
imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella
stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua
presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più
dotte illustrazioni che io non saprei. ([14])»
Il
Mommsen fu poco corretto con il Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ([15]) ma si guarda bene dal ricompensare, neppure
con un semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai
consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi
per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca
romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra
Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La
Mantia all'Avv. Giuseppe Picone di
Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio
del XX secolo, il SALINAS aveva modo di venire in possesso proprio a Racalmuto di
alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a
chiamare «tegulae sulfuris». Al
Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con
iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella
costruzione di un sepolcro, presumibilmente
nei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad
un'analisi storica molto erudita, ma deviante, che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei ([16])
Altre «tegulae» sono state trovate nel
1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di
miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([17]), si
trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in
particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio
Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività
mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di
circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi...
Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a
contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a
quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della
miniera, che in tal modo vengono riprodotte in
quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere
di Sicilia ha notato.» ([18]).
Pare,
comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta
nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che
partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto
di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria
racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi
parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data
del 22 ottobre
1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo
Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una
valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane
minatore veniva sepolto nella Matrice. «In
fovea salinae, ob ruinam salis
repentinam, defunctus est», è la
malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri perdeva, dunque, la
vita nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO
ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas
si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi
datare nel IV secolo d.C. ([19]). In
epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto
sarcofago del Ratto di Proserpina ([20]).
Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta
ancor valido l’appunto della Guida del
T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è
detto relativamente a Racalmuto ([21]) -
fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un
sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La concidenza tra la data del sarcofago e
quella della tegula studiata dal
Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque
attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto
probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi
abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta (a
dire il vero, però, trattasi di materiale ceramico databile ad epoca proto-normanna).
In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove
nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento delo zolfo. Si attaglia molto bene
anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota nella citata relazione in Kokalos.
Scrive l’insigne archeologo: «Accanto a famiglie di personaggi politici di
rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate
alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II
secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche
tegulae sulfuris. Questo periodo di
ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La
produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi,
subentra] il silenzio dei documenti». ([22])
Sempre secondo il De Miro, la tegula
rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo,
data la formula Ex praedis M. AURELI
([23]).
I dati
archeologici consentono di abbozzare alcune linee evolutive dell’economia
estrattiva racalmutese di quel periodo.
Nei primi decenni del secondo secolo d. C., il territorio a nord di Racalmuto
si presta ad uno sfruttamento solfifero. «Per quanto riguarda la produzione -
annota il De Miro ([24]) -
pur essendo nulla rimasto delle antiche
miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di
estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio
Pace aveva indicato come non dovesse
differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare
che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che,
«distinguendo tra proprietà del fundus
e attività mineraria, affida la gestione della miniera e la produzione a
“officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio
imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione
razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale figura,
in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e
in posizione subordinata [..], quella del conductor
della miniera.» Successivamente appare «una nuova figura, il manceps, figura che assume sempre
maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione
dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione
dell’imperatore. [..] Il manceps
tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo
imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo,
indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes.
[...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale
delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV
sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente
al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi
ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignora
lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette
superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([25])
In
tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di
Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che
verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una
necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là
dove, poi, per secoli è rimasto. I resti
di tegulae, rinvenuti presso S.
Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo
il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi
attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a
determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero,
probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra
Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re
dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani
dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza
alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni
dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra
il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Ma di questo
sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a
venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a
porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire
frettolosamente quello che affiora per caso.
Nei
pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La
Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([26]), ma
non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie appena sufficienti,
specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state
rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche
necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida
ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per
tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche,
sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di
Racalmuto poterono far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui
si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli archeologi non
reggono al vaglio critico.
Traslando
alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C. le scarse
conoscenze che si hanno per quel periodo in tema della più generale storia
della Sicilia, emergono scarsissimi lumi, qualche indizio e indicazioni di
troppo generica portata.
Se nel
439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad
aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso
il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo
difficilmente poteva colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il
profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il
profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo
avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche
riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di
certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di
quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se
crediamo a Sidonio Apollinare [27],
Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e
qui, a Racalmuto, a parte il lontano sbandamento che le scorrerie di Genserico
e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, dovettero esservi condizioni per
regolari raccolti granari e normali vendemmie, atti a consentire alla rada
popolazione un apprezzabile benessere.
I
Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della
Sicilia e la soggiogano sino all’anno in
cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad
Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità
sinora del tutto ignote.
La
Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte
di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i
coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a
congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali,
ma neppure archeologiche.
Il
rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario
riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina
racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non
foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo
dell’insediamento berbero).
IL
TEMPO DEI BIZANTINI
Attorno
al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà
bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal
Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la
Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Si dà infatti il caso che, al di là
dei divieti codificati dalle Autorità a difesa di una asserita rilevanza
archeologia, in tale contrada nessun altro reperto antico è sinora affiorato. E
dire che le ricerche dei privati proprietari sono state frenetiche. Ciò fa
pensare che il tesoretto fu nell’antichità nascosto in zona disabitata per
comprensibile cautela. Il centro abitativo era discosto, ad un paio di
chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per
Biagio Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini
racalmutesi, ormai decisamente convertiti al cristianesimo e sicuramente
grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in
greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali
abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo e trafugando - a
beneficio pare di un giudice che intendevano ingraziarsi - un patrimonio
archeologico d’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre archeologicamente
ricca e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel
periodo di storia racalmutese, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi
locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([28]) retrocede la datazione dellle monete al V
secolo: cosa inverosimile se le effigie degli imperatori bizantini sono di
Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo posteriori)
A
seguito della scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate
ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione
Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza
archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto
interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale,
costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative
affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a
comprovare un più o meno vasto insediamento abitativo in quella zona a partire da
un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi
della caduta dell’impero romano.
Biagio
Pace, invero, accenna ad un ipogeo cristiano in «quell'abitato prearabo che fa
postulare il nome di Racalmuto» ([29])
Nostre personali ricerche ci portano a ritenere che l’importante notizia poggia
su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da
molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati
nel masso con resti di ossa». Da qui - per
esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma
tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti archeologici nei
dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque
essere fattorie o pertinenze di 'massae'
soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure
costituire beni propri della corte di Bisanzio.
Sulla scia di autorevoli storici
([30]) è pur congetturabile una
sorta di continuità tra l'assetto
agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura
saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda
ma non invalicabile.
Ma
l'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il momento il cennato
ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in
contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin
dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta
del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità
intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del
minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo
di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ([31]), secondo il quale è da
collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ...
dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio
II - Héracleonas».. ([32]) Quelle monete sono oggi custodite in una sala
sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o
inficiate da errori di datazione ([33]).
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta
Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di
Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne
possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
Che
cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono
insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un
tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi
altrove. Nessuna reperto attesta il sopravvivere in questa zona della comunità
bizantina, dopo il consolidarsi del dominio arabo. E se diamo credito alla
toponomastica, una località chiamata Saracino
è segnata nelle mappe catastali al n.° 21, mentre quella di Casalvecchio - ospitante l’antico
villaggio greco - vi è indicata coi nn. 47-48, a testimonianza della non
stretta contiguità dei due luoghi d’insediamento.
E che può dirsi della religione? E’
opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di
moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona
dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi
di credere a quel che vogliamo e propendere verso tesi di eclissi della
religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto
islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna.
Siamo troppo affascinati dai versi di Ibn HAMDIS ([34]) per
non propendere per questa seconda tesi. Pianse costui con accenti che
trafiggono ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:
«Ho riacquietato
il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale,
fastidiosa.
«Che? Non l'hanno
macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in
chiese,
«dove i frati picchiano
a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi
che foste propugnacolo contro popoli possenti.»
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i
quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la mia patria
vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro
spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le
tenebre.
«Passeggiano
nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di
incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi la conquista araba, a
Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini
venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati
che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato
il periodo eroico del gihàd ed il
rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative.
La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e
proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine
etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La
restante popolazione era costituita da dhimmi,
ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un
tributo annuo fisso, avevano salva la vita
e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.
Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E quesito per lo
stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei
territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta
personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non
distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi, le donne, i vecchi ed i
bambini.
Dopo neppure un quarantennio dalla
conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di
Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano ([35]) per
tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto anche per le vicende
arabe locali.
«In entrambe .. le classi sociali -
in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano
ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti
personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn
al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri
erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete
le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della
conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i
musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno
impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella
partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più
sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano
di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed
è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli
arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quella incompatibilità
fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a
provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che -
fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i
due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero.
Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni
sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei
berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai
remoto secolo vii, quando l’Islàm
iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di
antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano
condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano
superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore
agricolo.
«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto
notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti.
Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano
sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di
continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano
esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle
rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più
violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili
ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse
inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza
di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte
di a-Abbàs.
«Pertanto a nuovo governatore -
Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti,
rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare,
per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse
pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad
un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante
dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([36])»
Non è questa la sede per dilungarsi
sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci
interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la
storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua
SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli
accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime
altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che
fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i
Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i
contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville;
mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredevano ogni
parte dell’isola. »
Elementi arabi, con intenti
vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo,
quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando,
violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una
qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione
che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto», questa
andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così
inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del Tinebra
Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...] a memoria perenne.»
Amari ritiene che Grotte corrisponda
alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o
caverna. Ed allora perché non congetturare che si riferisca alla contrada di
Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle
attorno a cui si spandeva un’apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle
tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere
denominato in epoca post-sveva S.
Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità
dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si
sollevò, ancora una volta, nel 937
contro il delegato distaccato da Sàlim in quel territorio accusato di soprusi.
La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli
marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono
adire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché
destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese,
però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La
rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq
(937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel
novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola
capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi
furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate del 948 viene a Palermo
l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia dej Kalbiti. Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato
ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per
circa un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più
elevato livello di vita. Possiamo sospettare che anche l’insediamento musulmano
racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno al 1065 si determina un
momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le famiglie che cercano
di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn
at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania s’indussero ad appoggiare i contrattacchi cristiani nel
1060-61. Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò soprattutto
a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione
araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato,
dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non
due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu
Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire in arabo fortezza, castello, stazione.
Quella fortezza - se esistette - era
sotto il dominio di Chamuth.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino
normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero ce ne ha tramandato la
memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra.
Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi
nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia
non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo di sapido
stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso, investe
Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni normanni.
«Il cauto normanno
[il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano
tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086,
radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per
la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva
allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo
della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo
nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027)
indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla
Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in
quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm;
portato in alto non da propria virtú, ma dal nome illustre e dalle pazze
vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben
risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il quale si rannicchiò
tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli
soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura
con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo
anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e
fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse
undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl, ([37]) Bifara,
Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; ([38]) di talché
occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a
Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la
Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome
e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita
caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando,
così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli
accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([39])
E’agevole intravedere nel racconto dell’Amari la fonte
malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una mera
traduzione dal latino ([40]). Credo che Chamuth abbia avuto un qualche peso nelle
vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi su questo
personaggio. Costui, caduto in un
tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa
cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus
efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam
consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con
moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla
quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far
fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri
e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in
presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere
i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi
l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una
sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli
gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma,
gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella,
secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono
termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanze,
arroganza del potere. Sono la lingua
degli uomini del potere che parlano
forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro
congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei
matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a
danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i
nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai
giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori
quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni
cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra' (v. p. 60 e 61
e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo stato
servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro eppure
vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato
agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se
non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre alle
imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo sorriso - e
alle invenzioni fantastiche di un ‘galantomo’ della fine del secolo scorso,
Serafino Messana. Abbiamo accennato alla poca verosimiglianza delle
notizie di un governatore di Rahal-Almut a nome Aabd-Aluhar,
servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto
nell'anno 998; di una popolazione di
2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcidiacono Du
Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel
nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte
quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico Tinebra.
Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per il suo
racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di
Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in
quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui
'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino Picone.
I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il
pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi
furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di panico e
distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il potente,
come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti arabi di
altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni
sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome antico.
Solo il Racel del Malaterra, incerto
e controverso.
Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri
nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La Racalmuto
contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani mogli
furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai capelli
chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli
longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri
giorni, ineludibilmente.
Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro Chamuth -
quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto - e lo
descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Malaterra, ma ne
stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia
dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni;
occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire,
non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra,
né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento
lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed
ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte:
rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di
compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle:
alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne
tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo
stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo
appostato già col musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri,
traendosi dietro su per i muli quanta altra gente poté, quasi a tentar impresa
di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que'
fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla
volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte,
e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò,
impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né
gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi
sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospettasse di
lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare
in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente
visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al seguito di Ruggiero per la
consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racalmuto
(la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte? A Racel vi era
forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era,
probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e disattenti; non erano
eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i cento lancieri di
Ruggiero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il casale e per le
campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto predoni.
L'Amari è aspro nei giudizi contro il capo degli arabi,
CHAMUTH. Ma costui aveva già moglie e figli in mano dei Cristiani a Girgenti.
Il Malaterra, monaco benedettino, intorbidisce ancor più la sua non chiara
prosa per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori suoi compaesani.
Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua eccellente prigioniera. E
noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del
Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già
macchiato di molte ignominie, specie in
giuventù. Il suo biografo ufficiale che pure è chiamato all'osanna del
suo committente, ne sente tante a corte da inorridire, fors'anche per la sua
mentalità claustrale. Ed allora la sua settaria cronaca si lascia andare a
pesanti giudizi morali contro i suoi.
Quando, però, si tratta di cose militari, il candido
monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze del
nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; quelle amiche e
vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed attendibilità. L'Amari, tutto
preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e sentenzia che nelle cronache
del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per otto ed,
invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano le forze normanne,
quando vincono.
Eppure il Malaterra resta sempre cronista piuttosto
attendibile, come dimostra il Pontieri nell'opera citata. I tanti episodi
cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne, tra i
quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno
una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non
sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite
della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non
dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta le fanfaronate
dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di generali, si fanno
chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in Sicilia, ma restano
i rudi vandali, incolti ed immorali della loro avventuriera giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze che gli ispirano disagio
morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive, esalta
il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare chiosando gli
eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari irridere a Chamuth. Lo ha fatto
alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio va, però,
corretto con una lettura più spassionata della cronaca del benedettino. Questi dice che il Conte Ruggiero aveva già
debellato tutti i potenti di Sicilia, eccetto Chamuto. La voglia di annientarlo
era tanta ma l'impresa non era agevole e ciò costituiva un cruccio per il
Normanno. Ruggero non intende demordere; sa però che non è sul campo che può
avere ragione del musulmano. Pensa, quindi, a batterlo con l'astuzia e
l'inganno. L'ablativo assoluto adoperato dal Malaterra è efficace: «ipso
circumveniendo debellato». Lo si può debellare solo circuendolo. Chamuth
allora non è l'imbelle che ama descrivere M. Amari. Per vincere il Musulmano,
il conte Ruggero assalta l'impreparata Girgenti ove sa che dimorano la moglie
ed i figli di costui. Prende la città, la fortifica. Principalmente si preoccupa
della sorte della moglie di Chamuth. Questa viene sottratta da ogni
«dehonestatione» e viene messa sotto diretta tutela del conte normanno, il
quale è consapevole che in tal modo il Saraceno può venire ricattato ed essere
facile preda del nemico. Il conte Ruggiero è proprio «sciens Chamutum sibi
facilius reconciliari», afferma il Malaterra; ciò equivale a dire che così
sarebbe stato più facilmente soggiogabile.
Per fare terra bruciata attorno al nostro Chamuto, tocca ad 11 castelli l'ignominia
delle scorribande dei lancieri di Ruggiro. Alla nostra Racalmuto è dato
assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani,
Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti
Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuto si arrese, non ci sembra proprio che
tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se anche fosse
stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le città di Chamuth sono
costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di Girgenti e
Castrogiovanni ci convince molto di più
delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del
resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui
Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano tagliato i viveri a
Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
Il Chamuth venne in seguito rammentato con qualche tono
di esaltazione. A Sciacca per secoli si pensò di possedere il fonte
battesimale in cui era battezzato l'ultimo potente arabo di Girgenti, e si era
fieri di ciò. Un certo Vincenzo VENUTI aveva scritto una memoria in tal senso.
A stroncar tutto è il solito Michele Amari che la reputa una mera credenza
volta ad onorare un immeritevole CHAMUTH , dal canto suo, «degenere nipote di
'Ali». Per il resto, il libro del Venuti sarebbe stato corredato da «diplomi
che puzzano di falso, negli opuscoli di autori Siciliani [V. Venuti, t. VII, p.
16 - Palermo, 1762]».
* * *
Da tempo gli
eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del fascinoso periodo
arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni, fantasticherie. La silloge
più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio Napoleone Messana. Spigolando a
pag. 35 e segg. di quel suo libro - che dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no -
apprendiamo che vi fu una tradizione riportata da un non precisato cultore di
storie sacre che avvalorava l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che
sarebbe stata riconsacrata all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi,
l’ultimo arabo che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il
tesoro ma ve lo lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo -
vagherebbero di notte «li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna,
se dopo un temporale succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono
arance d’oro a chi va ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le
arance però impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.
[1]) Ferdinando Milone: Sicilia, la natura e l’uomo - Torino, 1960, pag. 13.
[2]) L.
Trevisan: Les mouvements tectiques
récents en Sicile - Hipothèses et problèmes.
[3]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto -
GEOLOGIA - Università di
Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[4]) Pratesi e Tassi: Guida alla natura della Sicilia, Milano 1974, p. 21 ss.
[5]) Cfr.
S. Tinè: L'origine delle tombe a forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73
ss.
[6]) C.I.
Solinus, 5\ 18; 19
[7]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ..
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880.
[8])
Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra
il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra
Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”.
Il Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale
di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S.
di Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI
(AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 - Fascicolo 40.5.2 ).
[9]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ..
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880,
pag. 17.
[10]) Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[11])
Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del
finitimo Castrofilippo.
[12]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale. - Roma 1983 - pag. 114.
[13]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale. - Roma 1983 - pag. 14.
[14])
A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' E
BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 - Fascicolo 40.3.4 -
(annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli,
miniere solfuree).
[15])
C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X, 2 p.
857 - TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[16])
NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[17])
KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[18]) B. Pace, Arte
e Civiltà, I pp. 393-4
[19])
L’accenno al MANCEPS conduce a quella
datazione, se si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali
si leggono nella sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982,
pag. 324.
[20])
Fino a poco tempo fa mal custodito nell’androne del Comune, ora è ritornato al
Castello ove il padre Cipolla, dopo il rinvenimento, l’aveva ubicato. Invero,
il sarcofago viene al momento neghittosamente esposto nei locali che un tempo
furono adibiti a cappella palatina dei Carretteschi. La particolarità è ovviamente
del tutto ignota alle locali autorità.
[21])
Guida d’Italia del Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[22]) Ernesto De Miro: Città e contado nella Sicilia Centro-Meridionale, nel iii e iv sec.
d.C. - in Kokalos pag. 320. In quella relazione, spunti riguardanti
specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di cui alla
Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST, se non è
proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[23]) E.
De Miro, op. cit. pag. 321.
[24]) E.
De Miro, op. cit. pag. 320.
[24]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393 ss.
[25]) E.
De Miro, op. cit. passim.
[26])
M.R. LA LOMIA, in Kokalos, VII, 1961; E. DE MIRO, in Encicopledia Arte Antica,
VII, 1966, p. 276, ID, in Kokalos, XVIII-XIX, 1972-73, pp.247.
[27])
Sidonio Apollinare - Carm. II - Panegirico recitato in Roma all’imperatore
Artemio (ediz. di Parigi 1599). Di risalto i versi 362-372. Si celebra la
vittoria di Ricimero del 456 con questi encomiastici tratti:
Agrigentini recolit dispendia campi,
Inde furit, quod se docuit satis iste nepotem
illius esse viri, quo viso, Vandale, semper
Terga dabas, nam non siculis illustrior arvis,
Tu, Marcelle, redis per quem tellure, marique
Nostra syracusios texerunt arma penates.
(Da G. Picone: Memorie Agrigentine, pag. 283).
[28]) Il
Griffo (op. cit.) accenna all’esposizione di «un ripostiglio di aurei imperiali
(ben 207 pezzi) del V secolo d.C. proveniente da Racalmuto per scoperta
occasionale del 1940. » A suo dire il medagliere sarebbe stato oggetto di «un accurato
inventario a cura della dott.ssa M. T. Currò-Pisanò, che s’era preso anche
carico di elaborarlo per le stampe». (Ibidem,
pag. 317). Abbiamo cercato di saperne di più presso il Museo di Agrigento, ma
siamo stati sgarbatamente messi alla porta come importuni scocciatori.
[29]) B. Pace,
Arte e Civiltà della Sicilia Antica IV, p.174.
[30]) V. D'Alessandro, per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in
Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981.
[31]) André Guillou, L'Italia
bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316.
[32]) Cfr. Arch.
Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149
[33]) P.
Griffo, Il Museo Archeologico
Regionale di Agrigento, 1987,
pag.192.
[34]) Ibn Hamdis: poeta arabo, nato a Siracusa verso il 1053 e morto in
Africa nel 1133. Vedi Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula - Torino 1880 -
pagg. 312 e ss.
[35]) Umberto Rizzitano: Gli Arabi di Sicilia, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso,
UTET 1983, Vol. III, pagg. 384 e ss.
[36])
«Khafagia ibn Sufyàn era indubbiamente una personalità di primo piano; si era
già distinto in Ifrìqiya all’epoca della rivolta dei giùnd, dando prova di grande fedeltà alla dinastia aghlabita.
Quando arrivò in Sicilia non mancava quindi né di esperienza né di prestigio
personale. Il primo anno della sua permanenza a Palermo lo trascorse, secondo
Ibn al-Athìr, più che in operazioni militari proprio nel delicato compito di
ristabilire ordine e disciplina fra gli elementi musulmani, e di armonizzare
conquistatori e conquistati: condizioni indispensabili alla ripresa delle
operazioni militari. Cfr. Ibn al-Athìr,
Al-Kàmil, pag. 312. Cfr. anche SMS,
I, 482.
[37]) Su tale toponimo RAHL
abbiamo appuntato tutta la nostra attenzione ritenendo che potesse essere
quello del nostro paese. AMARI riduce in RAHL un RACEL che trovavasi nel
manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e
pubblicato a Saragozza nel 1578. Quel manoscritto è andato perduto. La
pubblicazione che resta ancora l'edizione principe fu recepita nella colossale
opera di Ludovico Antonio MURATORI RERUM
ITALICARUM SCRIPTORES nel vol. V con il sintetico titolo HISTORIA SICULA,
Gaufredi MALATERRAE. Il Muratori dà la lezione RACEL e in calce annota
RASEL-BISAR ad indicazione di altre lezioni da lui tenute presenti. L'Amari non
si produce in ulteriori ricerche paleografiche: distingue RACEL da BIFAR; per
lui arabista, RACEL equivale a RAHL [casale]; si confessa incapace di
individuare un RAHL nelle pertinenze agrigentine, che ne sono piene. Il PICONE
segue la pista dell'AMARI e nelle sue MEMORIE (cfr. pag. 401) reputa incompleto
il toponimo e segna RAHAL..., distinguendolo comunque da BIFAR, una località
piuttosto nota tra Campobello di Licata e Licata. Si sa che la raccolta di
'scriptores rerum italicarum' è stata, a cavallo di secolo, oggetto di
pregevolissime riedizioni con interventi di personalità della cultura del
calibro del CARDUCCI. Il testo del monaco benedettino dell'XI secolo ha avuto
nel 1927 una diligentissima riedizione con una illuminante introduzione da
parte di Ernesto PONTIERI. Questi venne in Sicilia; trovò altri codici (A=Cod.
X. A 16 della Biblioteca Nazionale di Palermo; B=Cod.II.F 12 della Società
Siciliana per la storia patria; C=Cod. 97 della Biblioteca universitaria di
Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca comunale di Palermo) che, comunque,
mutili e scorretti e pur sempre derivanti dalla fonte dell'edizione principe
del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il PONTIERI adottò la lezione
RASELFIFAR, legando insieme Racel e Bifar, e in nota fornì la versione della
Biblioteca universitaria di Catania (C): RACEL GIFAR. Nel 1937, Carlo Alfonso
NALLINO, nell’ integrare le note della STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA di M.
AMARI controbatteva al PONTIERI e reinterpretava il passo malaterrano con
questa dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177 op. cit.]: «In realtà i
castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra (Saragozza 1578), e le
prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno 'Ravel, Bifara', come se
si trattasse di due luoghi diversi; ció ingannó V.D'Amico, Diz. topogr. trad.
Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del 1757-1760), che nel vol. I, pag.
143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di RACEL (dal solo Malaterra), e
quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente all'attenzione del Diz. stesso, I,
p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL BIFARA' (evidentemente nell'uso locale
siciliano). Il traduttore Dimarzo, I p. 144, n. 1, osserva che Bifara ' è un
sottocomune aggregato a Campobello di Licata ..., in provincia di Girgenti
(Agrigento) ..., circondario di Ravanusa'. Campobello dista 50 Km. da Girgenti
(Agrigento) e 9 da Ravanusa. E. Pontieri, ultimo editore del Malaterra (1928),
trovò nei mss. anche le varianti Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la
prima nel testo (p. 88) e nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo
componente è rahl (racel, racal, ragal), come ben vide l'A.» [cfr. pag. 178 op.
cit.] Quel che sorprende in entrambi
quest'ultimi due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali
conquistati da Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la
premessa del MALATERRA che parla di ben undici castelli agrigentini presi
all'arabo CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come
si vede un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere
apparso pedante e tedioso. Ma è l'unico probabile appiglio ad una fonte
storica delle origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica, vien però
da domandarsi se è proprio importante trovare un antico toponimo da assegnare
alla storia della nostra terra.
[38]) A completamento del
discorso sui toponimi svolto nella precedente nota, riportiamo il commento
dell'AMARI nella sua STORIA (pag. 177, n. 1): «I nomi delle castella prese
nella provincia di Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun
evidente errore del testo. Rimane dubbio il suo Racel, che ho trascritto sicuramente
in Rahl (stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella
appellazione generica, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi
Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il Remise (variante
Remunisse) del testo, poiché MICOLUFA sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone
da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra nel suo libro 'La
conquista di Sicilia' recentemente uscito alla luce (Collezione d'opere
inedite e rare, Bologna 1865, in -8), dà otto soli nomi degli undici, dicendo
non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un ms. della stessa opera,
appartenente alla Bibliothèque de l'Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette
soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catalanixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo
'e li altri, aggiunge, non so chi si fusseru e non si canuxirianu, ect.).
Intorno i nomi non si trovano nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi
vegga il Dizionario Topografico dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine
della 'Carte comparée de la Sicile, [1859], Notice'.»
[39]) Michele AMARI - STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA, Catania
1937, Vol. III, parte prima, pagg. 174, ss. Nel trascrivere il CHAMUTH del
MALATERRA in HAMMUD, l'AMARI annota [nota 1 di pag. 175]: «la h, sesta lettera
dell'alfabeto arabico, fu resa per lo piú, sino ad uno o due secoli addietro,
con le lettere latine ch; e il d, ottava lettera, piú spesso con una t che con
una d. L'anonimo ha HAMUS [cioè ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic. pag. 855].
Sapendosi dalla storia che Chamuth, fatto cristiano con tutta la famiglia,
rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo ben identificare il casato
con quello di Ruggiero HAMUTUS, già proprietario di certi beni che Federico II
concedea nel 1216 alla chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra,
p. 142) e dell'Ibn Hammud, ricchissimo signore che Ibn GUBAYR vide in Sicilia
nel 1185. Questo nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote del regolo di
Castrogiovanni. Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abû al Qâsim, sembra
anco il Bucassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne' primordi del
regno di Guglielmo il Buono....». Ancor oggi, alcune nobili famiglie siciliane
vantano discendenze da quel ceppo Hammûdita. Trattasi dei nobili NICASIO di
BURGIO. Impietoso l'Amari contro il libello di Nicasio Burgio, conte palatino
XXIII intitolato «La discendenza di Achmet ultimo potente ammiraglio fra i
Saraceni dominanti in Sicilia, rappresentato in questo medesimo luogo dalla
chiarissima famiglia Burgio», pubblicato a Trapani nel 1786. Indulgente il
NALLINO che nella stessa nota si dilunga accogliendo le precisazioni di una
nobildonna di quella famiglia. Costei segnala che i primogeniti della casata
Burgio continuano a chiamarsi ACHMET, ( ad. es. ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO,
principe di Aragona e di Villafiorita, di Palermo). Per quel che ci riguarda,
l'ipotesi potrebbe avere qualche fondamento. Tra i beni del citato Ruggiero
HAMUTUS poteva esserci qualche signoria sul diruto castello di Racalmuto, un
tempo appartenuto al nonno, o bisnonno, CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che
lascia il tempo che trova.
[40]) Trascriviamo qui per eventuali cultori delle
fonti l'intero passo latino della cronaca del Malaterra: «Comes ergo Rogerius,
omnes potentiores Siciliae a se debellatos gaudens, et nemine, excepto CHAMUTO,
seperstite, ad hoc assidua deliberatione intendit, ut ipso circumveniendo
debellato, omnem sibi de caetero Siciliam subdat. Unde, exercitu admoto, ipso
apud Castrum-Joannis immorante, uxorem eius ac liberos apud Agrigentinam urbem
obsessum vadit, anno Dominicae Incarnationis millesimo octogesimo sexto
[l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis, quam undique exercitu vallans,
diutina oppressione lacessivit; studioque machinamentis ad urbem capiendam
apparatis, tandem vicesimaquinta die Julii viribus exahusta, imminentibus hostibus,
patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est captione. Comes itaque,
pro libitu suo positus, uxorem Chamuti, omni dehonestatione prohibita, suis
custodiendam deliberata, sciens Chamutum sibi facilius reconciliari, si eam
absque dehonestatione cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo
ordinans, castello firmissimo munit, vallo girat, turribus et propugnaculis ad
defensionem aptat, finitima castra incursionibus lacessens ad deditionem cogit.
Unde et usque ad undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt
nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Rasel, Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua
interpretatum, resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.» [Le lezioni
dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi volesse averne
completa conoscenza, deve consultare
l'edizione del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss. A parte RASEL, che ovviamente abbiamo seguito
con puntigliosa attenzione, per il resto abbiamo scelto alquanto liberamente, intendendo
privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai toponimi di
Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, Bifara, Milocca (?!), Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa.
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