Come quando e perché Sciascia scrisse le sue FAVOLE DELLA DITTATURA? Scrive Adelphi: "trasparentissime , appuntite allegorie che denunciano gli orrori della dittatura fascista". Mai mendacio letterario fu csì audace. Sfido chiunque conobbe Sciascia, chi visse come lui l'immediato dopoguerra (ce ne siamo ancora tanti in vita; anche a Racalmuto) a condividere siffatto tronfio dire del non vero. Certo, nel 1951 anche Pasolini ci mie del suo nell'invenzione di un "favoloso" Sciascia antifascista.
con un fondo di amarezza tutta scontata, Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione e proprio con gusto della forma chiusa, fissa quasi ermetica, insomma, era proprio uno dei rari momenti di passiva resistenza
Quando si dice il fascino della letteratura, del calligrafico esporre: il nero davvero diventa di albo candore. Nel 1950 - data della pubblicazione - poteva avere qualche striatura rossastra. Ma nel ricordo era diciamo nostalgicamente nero. Dopo il suicidio del fratello (1949) cambiò irriducibilmente.
Ermetico Sciascia? ma se era "rondista"? Conciliabilità? Non so: sono svagato bancario e il bancario non ha anima, non approda mai nel mondo calligrafico dei geni dello scrivere. Mi può qui almeno aiutare il professor Di Grado, credo vestale lettararia per volere di Sciascia della dormiente Fondazione di viale Vittoria? Ma mai si degnerà di colloquiare con un "bancario". Non sono neppure il professorucolo che pensava fossi Sciardelli. Per penitenza non potrebbe pubblicare - da par suo, nella sua arte è sublime - le favole di Sciascia ridipinte, con altro tocco, da Agato Bruno? C'è da dare qualche obolo alla famiglia? E diamoglielo, facciamo una raccolta. Tanu perché non ci metti una buona parola?
...per
mestiere spiego bene agli altri quello che per me non comprendo.
sabato 5
gennaio 2013
La
“buona tecnica” e l’ipotattico scrivere; favole antiche e questioni d’oggidì.
Recupero
finalmente il pacco con i libri rari speditomi a fine novembre da Agato Bruno.
Risultava introvabile il volume di Pier Maria Rosso di San Secondo “Tutto il
Teatro – la dimensione europea”. Il secondo volume ero riuscito a procurarmelo
a Roma presso la specializzata IBS di via Nazionale.
Resta
singolare che le pagg. 67-71 accolgano un saggio del 1951 di Pier Paolo
Pasolini, il terzo volume della Bompiani, no. Cosa sia successo non mi è dato
di sapere. Anche qui sospetti .. buoni per eventuali dispetti.
Come
qualcuno sa, mi sono adoperato per far desumere opere pittoriche dal testo
delle favole edite nel 1950 dalla Baldi, pronubo quel Mario dell’Arco che venne
a Racalmuto per piazzare per poche lire alcune sue favole al Circolo Unione. In
cambio, Sciascia pubblicò il suo primo lavoretto presso la tipografia del
Parlamento, Baldi. Di quella edizione posseggo le fotocopie degli omaggi a
pagamento che Sciascia fece del suo primo successo editoriale a Giuseppe
Gregorio Delfino (in Racalmuto il 28/11/1950) ed al suo fido e valido parente
Jachino Farrauto. Il gusto scabro ed elegante della stampa Sciascia ce l’ha già
tutto, e se l’Adelphi con la sua Piccola Biblioteca non scantona troppo, non
altrettanto può dirsi della inelegante pingue edizione della Bompiani. Pervenuto
il libretto Adephi, leggo il Pasolini. Qui il sommo Pier Paolo bleffa alquanto.
Elegia ma fuori campo. Il testo sciasciano esordisce con il latino sempliciotto
di Fedro (superior stabat lupus), cosa da quarta ginnasiale. Ma Sciascia non
credo che sia stato un ginnasiale. Fino a quindici anni scribacchiava da cane
le cartoline “fascistissime” a don Piddu Tulumello. Esaltava e si esaltava per
le adunate che aveva potuto ammirare a Trieste, meta di uno dei suoi giovanili
viaggi a spese di zii federali e di zie maestre elementari. Povere cose –
diceva – quelle di Racalmuto, a confronto. Ma qui almeno la maestra Taibi
faceva sfilare fanciulle in fiore di quella che sarà Regalpetra e tra queste
v’era una tale innominata dal petto straripante che eccitava entrambi i due
corrispondenti. La grammatica a quel tempo era per Nardu un optional. E tale
restò anche nell'immediato dopoguerra per quello che gli rimbrottava un
autorevole firma vaticanesca, come rammento di aver letto.
Dice
Pasolini: “queste favole hanno la chiusura di brevi liriche, e richiamiamoci
pure al quadretto di genere alessandrino, alla maiolica orientale, o alla
lirica popolare (e magari proprio siciliana), tanto per dare al lettore un’idea
di questo linguaggio”. “Troppo garante di non volgare attualità è questa lingua
così ferma e tersa”. Comunque “questi improvvisi bagliori, queste gocce di
sangue rappreso, sono assorbiti nel contesto di questo linguaggio, così puro
che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non
sia stata una favola”.
Desistiamo. Annusiamo effluvi censori (o di autocensura; peggio). Una triviale domanda: con un “direttore artistico” di tal fatta quanta speranza residua nei conati di conseguire gli scopi statutari della Fondazione Sc
Nessun commento:
Posta un commento