Cara Ministra Cancellieri,
te ne stai andando e quell’atto, quel ravvedimento operoso,
quel decreto di autotutela che mi aspettavo, in cui speravo, sparisce. Giammai
hai voluto ascoltarmi. Come cittadino (ex) non ho diritto all’ascolto; v’è un
decreto a firma anche di Napolitano che ci dichiara tutti (proprio tutti) noi
cittadini di Racalmuto indegni di sceglierci noi i nostri amministratori. Siamo
tutti (magari in spirito e verità)
INFILTRATI MAFIOSI. In compenso noi tutti racalmutesi non di tenace ma di
eletto concetto vi ascriviamo all’altra schiera quella dell’antimafia. Così
come la pensava il nostro grandissimo Sciascia, e come la pensava già prima
della sua disavventura con Falcone e anche molto prima di quell’articolo sul corriere,
non certo da lui titolato.
Cara Ministra, ti leggo una pagina de Il Giorno della Civetta che tu dici di conoscere bene. Se questa
pagina, non l’hai capita - né posso sperare che te la spieghi la triade che
dopo un ripensamento hai riconfermato a Racalmuto - forse se ti induci a leggere la pag. 406 e la
successiva (ed. Bompiani) forse potresti ravvederti in articulo mortis e quell’atto di autotutela che non sono riuscito
ad importi con una bella interrogazione parlamentare – per accidia o peggio, di
tutta la classe politica, bipartzan – lo potresti confezionare, firmare e
pubblicare. Napolitano non firmerebbe? Beh! allora la respobilità sarebbe sua e
tu torneresti candida, magari a difender meglio a legittimità delle anzianità
convenzionali dei presidenti delle società assicurative.
«Il confidente di S. rischiava la vita: una cosca
o l’altra, con un colpo doppio a lupare o con una falciata di mitra (anche nell’uso
delle armi le due cosche facevano
differenza), un giorno l’avrebbe liquidato. Ma tra mafia e carabinieri, le due
parti in cui si muoveva il suo azzardo, la morte poteva venirgli da una sola
parte. Da questa parte non c’era la morte, c’era quest’uomo biondo e ben
rasato, elegante nella divisa; quest’uomo che parlava mangiandosi le esse, che
non alzava la voce e non gli faceva pesare disprezzo, e pure era la legge,
quanto la morte paurosa; non, per il confidente, la legge che nasce dalla ragione
ed è ragione, ma la legge di un uomo, che nasce dai pensieri e dagli umori di
quest’uomo, dal graffio che si può fare sbarbandosi o dal buon caffè che ha
bevuto, l’assoluta irrazionalità della legge, a ogni momento creata da colui
che comanda, dalla guardia municipale o dal maresciallo, dal questore o dal
giudice; da chi ha la forza, insomma. Che la legge fosse immutabilmente scritta
ed uguale per tutti, il confidente
non aveva mai creduto, né poteva: tra i ricchi e i poveri, tra i sapienti e gli
ignoranti, c’erano gli uomini della legge; e potevano, questi uomini, allungare
da una parte sola il braccio dell’arbitrio, l’altra parte dovevano proteggere e
difendere. Un filo spinato, un muro. E l’uomo che aveva rubato e scontava una
condanna, stava coi mafiosi e mediava prestiti ad usura e faceva la spia,
cercava soltanto una breccia nel muro, uno slargo nel filo spinato. Presto avrebbe
avuto in mano un piccolo capitale ed aperto un negozio; e il figlio più grande
teneva in seminario, ché si facesse prete o ne uscisse prima di prendere gli
Ordini per diventare prima che prete, avvocato. Varcato il muro non poteva far
più far paura la legge: e bello sarebbe stato guardare quelli rimasti di là del
muro, del filo spinato. Così, lacerato dalla paura, a vagheggiare la sua pace
futura. Fondata sulla miseria e l’ingiustizia, un po’ si consolava: e il piombo
della sua morte intanto colava.» Ma tu perché litighi tanto con Sciascia,
mi si dirà: Perché la penso esattamente come Lui.
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