RIEVOCAZIONI
Riprendo il
racconto con una precisazione: nel 1943 nessun MATTINO ILLUSTRATO giunse a
Racalmuto. Mi sembrava strano: ora so che varie annate del MATTINO ILLUSTRATO
tutte e belle e rilegate pervennero a Racalmuto ma da una bancarella di Palermo
e quando eravamo negli anni ‘60. Nel 1943 a Racalmuto era solo cessato
ascoltare a mezzogiorno il comunicato radio, dopo il celebre cinguettare, a
capo scoperto. Con il 13 maggio anche il residuo patriottismo dei più grintosi
fascisti si era afflosciato. Solo Giuggiu Agrò poté credere alla retorica del
bagnasciuga dell’ormai spento Mussolini. Certo i baldi cadetti vi facevano
coro, ma con quanta convinzione non sappiamo dire. L. M., L. di M., G.C.,
Leopoldo, tutti i cugini di M., il non cresciuto P. F. ed altri ed altri ligi
al duce, poco al re, si dichiaravano pronti alla morte ma nel calduccio delle
case racalmutesi; ad ammirare il martire fascista e a credere, ubbidire e
combattere, ma solo nelle colonie elioterapiche del Serrone. A sbirciare magari
le piccole donne in camicetta bianca ed in gonnellino nero. Quando insomma
fiorirono i primi amori. E mi pare che non andarono a buon fine. Amori che se
si consumarono, come dicono i preti, non portarono al matrimonio. Il matrimonio
magari dopo vi fu, ma tra parenti stretti, Alcuni di loro spinnarono fino al decomporsi della non più giovane vita.
Sciascia
odiava il “giummo”: quando l’ho scritto, un fanatico per poco non va a
comprarsi una lupara per scaricarmela addosso. Sciascia giovane col fascismo vi
bazzicò. Aveva zio quasi federale ed il primo impiego glielo diede nelle odiose
trappole fasciste della requisizione del grano superfluo o intercettato al
mercato nero. Si chiamava Consorzio
Agrario. Un galantuomo di vecchia data ebbe ad adontarsene e se lo segnò a
dito. Venuti gli americani, quel galantuomo, che pur aveva avuto alti incarichi
nelle ragnatele paramilitari fasciste, divenne persino capo della inventata
sezione partigiana racalmutese. Subito se la intese con Guarino Amella di
Canicattì. Quando ancora forse il celeberrimo Tony, questo strano yenkee americano che signoreggiò su
Racalmuto e ne taglieggiò qualche
ricattabile farmacista, non era sbarcato; il galantuomo, dottore per
antonomasia, riuscì a far spedire in Africa per un paio di anni di internamento
Giuggiu Agrò l’ex gerarca fascista (che aveva osato requisirgli qualche stanza
del suo palazzo in via Matrona per darlo ad ufficiali tedeschi ed anche
italiani), l’evanescente maresciallo Craveri (cui i tre americani conquistatori
di Racalmuto, avevano tolto la pistola d’ordinanza in piena piazza, che è poi
il Corso Garibaldi dinnanzi la putia
di Ticchitì) e tale don Bardiddu (finito vice podestà per la insostituibilità del podestà Matina
chiamato alle armi e per la indisponibilità degli altri gerarchi anzianotti,
Grillo o Farrauto, riluttanti a coprire tale ormai scottante carica). Uomo vendicativo, quel galantuomo, passato
dalla sera alla mattina da gerarca fascista a capo della sezione partigiana di
Racalmuto, non fu contento di avere fatto tre vittime – per il paese tutti e
tre innocenti, ma più innocente di tutti viene ancora ritenuto ed era don Bardiddu.
Il nostro
galantuomo compila una lista di duecento nomi – tutti quelli che odiava o di
cui si voleva vendicare o per un motivo o per un altro - e lo porta a Canicattì per il confino in
Africa. Tra questi vi era Nardu
Sciascia e don Pino Matina; vi era
pure un altro giovane che mi pare fosse Fofu
la Gadda. Ne ebbe sentore il neo sindaco, il celeberrimo – per i
racalmutesi, e celebrato da Tanu Savatteri – don Ballassaru Tinebra. Questi si precipitò a Canicattì e bloccò
arrabbiatissimo il provvedimento. Sarà stato quello che si dice (e si scrive),
sarà stato ammazzato da ignoti, o da C. come credo, il mandante sarà stato
ignoto oppure - e pare – certo, sarà
stato l’ex affittuario di Gibillini, sarà stato quel che volete, ma Sciascia,
don Pino Matina ed altre centinaia di Racalmutesi si risparmiarono un paio di
anni di confino in Africa per la solerzia e l’umanità di questo primo sindaco
imposto dagli americani, tramite il solito Guarino Amella di Canicattì. Questa
era allora mafia; questa era allora infiltrazione mafiosa, ma non risulta che
si avesse voglia di inviare a Racalmuto prefette
in gonnella per sbaragliare le nostre cosche mafiose.
”La trasuta di li miricani” a Racalmuto, Sciascia
ce la racconta, molto sapidamente, in Kermesse. In quel tempo avevo pur io età per ricordare
qualcosa. In tante parti del racconto del Racalmutese i ricordi combaciano, in
altre no. Per il seguito credo di sapere ciò che Sciascia non volle confessare.
L’esordio è frutto di erudita ricerca storica. Sfracella il generale Roatta; un
tempo mi era sembrato eccessivo, ma un bel giorno del marzo 2012 Enzo Macaluso
mi trascina nel museo di Catania e lì quel proclama ironizzato da Sciascia c’è
esposto e mostra davvero la marronata di quel generale: davvero – ho pensato –
la guerra è una cosa molto seria per farla fare ai generali.
Dopo, lo scrittore fa una cronaca di guerra
diversa dai miei ricordi e dalle versioni che pur bambino riuscivo a
decriptare. Io racconto la mia versione.
Da San Giuliano, nel primo pomeriggio del 14 o 15
o 16 luglio del 1943 affacciato nell’ “astracu” della mia vecchia casa natia di
Via Fontis dei documenti (divenuta
poi via Fontana ed ora Via Gramsci), vedo scendere una ronda di tre soldatoni,
marziale il passo. Martellante l’incedere, armatissimi, casco in testa. Fucili
in pugno. “ I tedeschi .. i tedeschi” gridavano alcuni. A Racalmuto i tedeschi
non c’erano. Soldati italiani tanti, a lu
cannuni, davanti a “ma mamma Cuncittì”. A frotte. Mangiavano nelle loro
gavette. Molti seduti sul marciapiede lungo tutta la facciata del fortilizio;
altri appoggiati alle inferriate di “lu Cannuni”. Un pacioso in divisa
grigio-verde prese in braccio mio fratello Luigi, allora belloccio e
biondiccio, e cominciò a baciarlo. Mia nonna terrorizzata voleva levaglielo di
mano ma quel pacioso militare gli disse in dialetto nordico: me lo lasci
baciare un po’: ho un bambino come questo che non vedo da mesi. E’ bello come
questo qui. Mio fratello aveva manco tre anni.
“ Che tedeschi e tedeschi” risposero altri.
“Questi, americani sono”. Sgomento, prima, perplessità, dopo. Infine come una
folgorazione: “viva gli americani”. Figli
di taliani sunnu. Abbasso il duce,
stu’ gran curnutazzu, ca nni rruvinà. E giù battimano , tutti a batter le
mani. La ronda si rasserenò, sorrise persino. Gli americani “eranu trasuti a
Racalmuto”.
Sciascia sapidamente irride al noto proclama
Roatta. Come ho precisato, lo ebbi a leggere in una gita fatta con Enzo
Macaluso visitando il museo sullo sbarco di Catania, un museo molto agghindato.
Ne vale la pena visitarlo, anche se forse molto esuberante per una sola decina
di giorni di storia siciliana. Ma trattasi di inquietanti vicende a raggio
planetario. Altre priorità della tanto incalzante Sicilia, se aspettano, non è
poi malanno esiziale.
A leggere le invocazioni roattiane non si può non
dare ragione a Sciascia. Quando Sciascia scriveva, non credo che si soppesasse
ancora a pieno il movimento di Bossi, considerato a torto o a ragione
antisiciliano. Poi quel movimento crebbe e per reazione il sentire siciliano
divenne nazionalista e gli empiti separatisti del primo dopoguerra si
afflosciarono. Un tantinello anche i miei. Solo che ora mi sento cittadino del
mondo nato a Racalmuto. Se ho bisogno di una patria fisica, mi rifugio a
Racalmuto, se mi si parla di valori nazionali ne rifuggo reputandomi uomo alla
pari di quei sei o sette miliardi di esseri umani sparsi per l’intero mondo. Ce
l’ho con l’Italia intera dopo che ho ben capito che cosa significò
l’essere stato mio nonno disperso di
guerra. Della guerra del 15-18, per intenderci. Mio nonno aveva soltanto 37
anni nel ’17. La strategia militare dei generali del tempo rimase terribilmente
nota per usare gli esseri umani in grigio-verde come muraglia all’avanzare del
nemico: che avanzava e sparava e falcidiava. Mio nonno aveva comprato una mula;
stava salendo di grado nella scala sociale dell’era giolittiana: da mezzadro a
coltivatore diretto. Aveva già cinque figli. La moglie ancor più giovane
divenne subito vedova per la faccenda di Caporetto. Mio nonno sparì e nella
burocrazia militare fu segnato come disperso. Ancor oggi non si sa ove fu
sepolto. Sinceramente non gliene importava nulla a mio nonno di liberare Trento
e Trieste. Non capiva neppure una parola di quel dialetto veneto, lui
analfabeta che le lettere alla moglie se le faceva scrivere da qualcuno lì al
fronte che lu cuocciu di la littra ce
l’aveva.
Dal fronte mio nonno urgeva: che si recasse mia
nonna a supplicare la suocera. Mio nonno padre di cinque figli era; ben tre
altri suoi fratelli erano sotto le armi. Lui aveva diritto a venire congedato,
gli avevano detto. Bastava che la madre ne facesse istanza. Mia bisnonna, mamma
Pippina – matriarca vera e dispotica e tutta la famiglia, maschi e femmine
teneva sotto di sé – non se ne dava per intesa: “sì, fazzu turnari Caliddu .. e
cchi bbeni intra nni mia; intra nni tia ssi nni va … va … va, vattinni va” . Mia nonna la odiò
per tutta la vita. A noi nipoti, ci fuorviava con quelle invettive contro la
suocera. Noi nipoti finimmo col crederle … e la bisnonna divenne una odiosa
“mamma Pippina” come se non fossimo sangue del suo sangue.
Sarà! I miei ricordi stridono. Una mia zia monaca
che mi sembrava tanto vecchia ed invece aveva appena 33 anni, aveva dovuto
lasciare il convento per i tremendi bombardamenti americani ed era venuta a
dimorare a casa nostra. Tutta nera di vestito, destava preoccupazione. Si
diceva che gli americani scambiassero chi andava vestito di nero per fascista e
lo mitragliavano di colpo. Un carrettiere racalmutese ebbe a morire per le mitraglie americane sol
perché – si diceva – aveva la camicia nera per un lutto strettissimo:
altrettanto si disse per un contadino racalmutese trucidato dagli
anglo-americani. Brava gente si vorrebbe
oggi.
A far levare l’abito monacale e farla vestire da
cristiana qualunque, non c’era verso e la monaca, provvisoriamente di casa, non
si sapeva come nasconderla. Fu così che anzitempo andammo “fori”, nella
casettina di la Curma, mia nonna, la
figlia monaca, una nipote cresciutella, mio fratello Giacomo, ed anche Giovanni
e Luigi.
Questo avvenne nei primissimi di Luglio. Si
sussurrava dappertutto che la guerra era persa e francamente questo non
interessava ad alcuno: sia pure
vagamente si pensava che i disagi potessero diminuire. Va detto che a
Racalmuto, fame vera e propria non ve ne fu. Si coltivava la terra e l‘arriconta bastava per tutti; il pane –
non quello della tessera che era immangiabile e serviva ai bambini per
appallottolare la mollica e farne palline da gioco – che si mangiava veniva
accompagnato dalla pasta, dal sugo di pomodoro maturato al sole o dall’astrattu nel periodo invernale.
Racalmuto ha sempre prodotto vino, non di eccelsa qualità, ma sempre vino
genuino era; nutriente. Favi, ciciri,
piseddi, cacuocciuli, puma, piruna, ficu, e fucudinii, in abbondanza. Chi
non aveva terra comprava al mercato nero da chi ce l’aveva. V’era l’obbligo
dell’ammasso. Sciascia, che per via dello zio gerarca era privilegiato, ebbe
subito un posticino negli uffici comunali dell’ammasso. Credo che dopo se ne
vergognasse un po’. In FUOCO ALL’ANIMA qualcosa dice, molto nasconde.
Quella storiellina del contadino e dell’arciprete
va un tantinello rettificata: a Racalmuto tutti in quel tempo facevano il
mercato nero con il grano, cercando di non darlo per nulla all’ammasso, ove
bivaccavano due baldi giovanotti raccomandati. Sciascia dice di non essere
andato militare perché gracilino. Se non avesse avuto un paio di zii quasi
federali, ci sarebbe andato e come. I due – il contadino e l’arciprete –
finirono nei guai il primo per testardaggine, il secondo per astiosa vendetta.
La storia del contadino, che contadino non era ma un buon burgisi con figlie femmine che non tutte sposarono e con tre figli
maschi divenuti professionisti di tutto rilievo, quando me la raccontarono
molto mi son divertito. Ora non la ricordo più bene. Aveva un figlio ufficiale
il contadino e si credeva una parte dello stato; come potevano molestarlo per
una sciocchezza che, se reato era, tutti i racalmutesi erano colpevoli, anche
l’arciprete. L’arciprete subì anch’egli l’onta del processo, ma più accorto ne
uscì assolto, l’altro, invece, cominciò a sbraitare, ad insolentire e forse
aveva ragione: appunto per questo indispettì oltre misura i giudici, che la
coscienza pulita al riguardo non ce l’avevano neppure loro, ed ecco una bella
condanna a dispetto.
I due giovanottoni, per essersi acquistata una
buona dose di malevolenza da parte di un dottore non medico, alquanto irritabile, dovevano finire dopo tra
i berberi in Africa. Il famiglio del grande mafioso Calogero Vizzini – già
quando come dice Sciascia in fuoco
all’anima, “la mafia era la mafia” ed è frase se non elogiativa almeno
lievemente ammiccante – evitò a Canicattì presso il comando alleato la deportazione,
come si disse, e così Sciascia poté dopo persino vincere il concorso a maestro
elementare. Insegnò a Racalmuto, svogliatamente, se vogliamo esser sinceri. I
suoi meriti sono letterari, non didattici, né storici (almeno nel campo della
microstoria locale) e per quel che mi riguarda nemmeno politici. Né con lo
Stato né con le Brigate rosse non fu frase molto felice. La cena con
Berlinguer, Guttuso e lo scrittore finì
in tribunale ma ancora non ha sentenza. Io sono per Berlinguer e per Guttuso.
Il giornalista racalmutese, molto bravo,
Macaluso è rissosamente per Sciascia: si vede che ne sa più di me.
In NERO SU NERO di Sciascia, a pag. 118, trovo
questa chicca: «Ho vivo il ricordo di quel che è successo quando, nel ’43,
l’amministrazione militare alleata nei territori occupati AMGOT: ne ripeto la
sigla assaporando l’amarezza di un tempo, (più che perduto, deluso) mostrò di
avercela coi fascisti e di gradire denuncie contro i più pericolosi e
disonesti. Non uno ne fu denunciato e subì deportazione in Algeria che non
fosse degli onesti, degli innocui, dei ‘fessi’ (e cioè di quelli che dal regime
in articulomortis avevano accettato
quelle cariche da cui i furbi ormai si defilavano). I facinorosi , i
profittatori, i ladri furono non solo risparmiati, con una selezione a rovescio
che si può dire senz’altro perfetta, ma furono segnalati alla fiducia degli
ufficiali americani ed inglesi, che gliene accordarono.»
Certo quella ‘i’ in più nelle denunce, lascia un po’ stupiti. Il quadro è
dilettevole. A voler fare le pulci al grandissimo Sciascia, diciamo che tra
quei “fessi” vi fu a Racalmuto solo don Bardiddu,
che maresciallo e segretario politico, chi per devozione fanatica e chi per il
pane quotidiano che insieme al companatico elargiva la benemerita, non potevano
passare tra i “furbi” tra i quali Sciascia qualche suo parente stretto (meglio
affine, forse) sapeva vi annidasse. E meno male che tra i “facinorosi, i profittatori e i ladri”,
vi fu qualcuno che, dopo, impedì la
deportazione in Africa del Nostro. Il quale, ora lassù, mentre col profittatore
(fulminato dalla lupara davanti Danieli) sta a rimembrare “questo pianeta”, un
qualche “ingrato” se lo becca. Queste vicende mi sono state narrate dal don Pinu Matina, per me un gran signore, un
“galantuomo”, uno di quelli di cui si sono perse le tracce al Circolo Unione.
Anche lui prossimo alla deportazione. Lui sempre grato ed obiettivo anche.
D’altronde poteva urtare la suscettibilità di chi talora gli stava vicino impettito nella signorile poltrona del
Circolo.
Nella sua primavera letteraria Sciascia scrisse
KERMESSE. Quattro o cinque pagine sapide, deliziose, ironiche, veritiere. Solo
un po’ pudiche nella parte finale.
Prende
subito di mira ROATTA e il suo proclama: lo lessi al museo dello sbarco di Gela
a Catania. I generali, non solo non sanno fare la guerra ma se si cimentano nelle cose della storia,
sanno anche, loro malgrado, divertire. A Roatta attribuisce il merito di essere
stato il «primo ad avvertire i siciliani che italiani proprio non potevano
considerarsi e che gli italiani si proponevano di difendere i siciliani allo
stesso modo e nello stesso sentimento dei “camerati” tedeschi.»
Che i miei compaesani di Racalmuto avessero il
complesso del “cambiar bandiera” non ha riscontro nella mia memoria.
Preoccupazione, invece, tanta, perché non si sapeva che fine potessero fare i
loro cari che – poco raccomandati – erano finiti in Grecia; quelli d’Algeria, come mio zio Luigi,
presi prigionieri dagli inglesi, abbiamo saputo dopo, finirono in Inghilterra,
stivati per giorni in navi, sotto tiro di aerei e a rischio di siluramento dai
sottomarini tedeschi, quando non italiani. Mio zio Luigi, classe ’14, nel 1939
parte per la leva; non fa tempo a concluderla e su un trabiccolo sorvola il
Mediterraneo per finire in Africa a fare il meccanico. Preso prigioniero dagli
inglesi approda nella grande isola britannica, si rifiuta di collaborare e
viene sfruttato come uomo della terra: un ritorno coatto al mestiere del
padre. Ritornerà in Italia il 29 giugno
1945. Parte ventunenne, ritorna
trentunenne: non ebbe giovinezza. Era un grande affabulatore, ma appena settantaquattrenne muore di cancro,
dopo ampie metastasi alla gola e per quasi dieci anni non poté parlare, privo
dell’unico suo piacere, quello della loquacità. Che strano mondo questo qui! A
mio nonno non importava nulla di Trento e Trieste e lo spogliano della vita a
37 anni. A mio zio gli piaceva tanto vivere e parlare e per un quinquennio lo
costringono a coltivar patate in terra di Albione, terra a lui del tutto
estranea e che non amava di certo. Mia nonna paterna, sempre vestita di nero,
col fazzoletto bianco in testa non so se a trent’anni piangesse il marito che
per cinque volte l’aveva resa madre in manco nove anni; sembrò uscir di mente
per il figlio disperso, per oltre un anno. Poi tramite vaticano ebbe notizia
della prigionia in Inghilterra. In quell’anno, mia nonna andava dalle
cartomanti che pullularono a Racalmuto. Maria la Billizza la più rinomata. Mia
nonna però preferiva quella della straduzza
di ‘gnura Annidda. Non era facoltosa, eppure i soldi per sapere se il
figlio era vivo dall’arcano linguaggio delle carte della “maga” se li faceva
uscire. Per la chiesa faceva peccato; mia nonna non se ne dava per inteso;
credo che non ne parlasse nel confessionale e si faceva egualmente la
comunione. Subito dopo magari passava per la “maga” che sempre buone notizie
aveva.
Nel 1943 mio zio l’aveva scampata per miracolo in
Africa sotto un bombardamento a tappeto: volle che si portassero due buchè alla Madonna del Monte, due buchè con fiori, erano alti filiformi
vitrei. Nicu Lu Sardu, il barbiere
fotografo, venne a casa mia, a tutti i nipoti ci fece mettere a scala per altezza
e ci fece la fotografia con avanti i due buchè.
Non erano ancora nati mio fratello Angelo e Lina la figlia di mio zio paterno
Calogero. Non eravamo allegri, non sorridevamo, specie io che assumevo l’area
pretesca ad appena nove anni. Questo non significa che eravamo tristi, solo
compunti, dignitosi come possono essere sette bambini il più anziano di soli
nove anni. Non capivamo che stavamo vivendo un periodo tragico della storia
d’Italia, stavamo perdendo la guerra che aveva voluto Mussolini.
Ricordo il giorno in cui quello lì di Roma, da
Piazza Venezia sfidò le maggiori potenze del mondo. Scesi con mia nonna materna
a San Franciscu: vi era il raduno
delle cinque sorelle (i cinque fratelli, uno faceva il “dirigibile”, l’altro
stava accanto a mia nonna in un dammusu
tentando impossibile fortuna da “scarparu” ed era sordastro, l’altro ancora
stava facendo invece fortuna con una salumeria avviatissima a Palermo - dopo dovette scappare per i bombardamenti, e
finì a Racalmuto con una bellissima figlia e due masculi non disprezzabili, ma finì, se non in miseria, col
disperdere i suoi risparmi); due fratelli in America. Erano in dieci figli.
A San Franciscu, donne e giovinette (la zza Lillina, Teresina, etc.) si
trasformarono nelle ancestrali prefiche e piansero, e imprecarono, e chiamavano
Mussolini con improperi che non ricordo, forse oltre la decenza. Disertò per
prima la ‘zza Mariù: aveva il figlio
cadetto ed era fanatico. Sembrava che avesse il fascismo nel sangue; aveva però
appena diciassette o diciotto anni e sotto Giuggiu Agrò e con a lato
l’autoritario ingegnere Falletti i calci nel culo che ebbe a dare nel raduno
fascista del sabato alle scuole nuove restarono proverbiali. Balilla e avanguardisti,
militarescamente bardati e con fucili di legno, dovevano marciare impeccabilmente . Di
statura meschinella, mal nutriti, per natura ribelli, non erano uno spettacolo,
finivano fuori schiera e il calcio nel culo se lo meritavano. Con tanti di loro
ho parlato, tutti a parlar bene del cadetto Luigi Di M. Arrivava tronfio
Giuggiuù Agrò e sembrava l’avvento del Duce a Racalmuto.
Sciascia, pare, non partecipasse perché aveva in
odio il “giummo” della divisa fascista: forse lo zio il prof. Farrauto sapeva
ben proteggerlo ed esonerarlo. Ex avanguardista se non erano in età di leva, potevano benissimo
servire lo Stato fascista con l’arruolamento volontario: se ne guardarono bene.
La retorica tanta, i fatti pochi. Tartufescamente, tra il dire (in sproloqui
patriottardi) ed il fare ( al fonte si moriva) si disse ma non si andò al
fronte. Armiamoci e partite, si ironizzava a Racalmuto. Le piccole italiane,
ora giovincelle appetite dai guerreschi
in calore, le addestrava la maestra Taibi, maschia ma non insensibile.
Il “cadetto” aveva una sorella che si affacciava alla giovinezza:
longilinea, soave, alquanto francesizzante. Se dò adito ai miei molto tardivi
vagheggiamenti cinematografici, dovrei dichiararla emula di Anouk Aimée. La ormai ineludibile entrata
degli americani, metteva in apprensione. Non per i baldi yenkee ché quelli composti
ne dovevano stare vuoi per i figli militari dei nostri vuoi perché si sapeva
che risorta era la vecchia mafia (quella vera) e già accordi c’erano per una
tranquilla conquista della Sicilia, vigilata, indirizzata e protetta dai tanti
rispettabilissimi capimafia di ogni centro abitato siciliano. Si vociferava che
potessero seguirli i marocchini e costoro si diceva essere famelici di giovani
donne, specie se minorenni o meglio vergini. Era propaganda fascista,
d’accordo. E Moravia on la sua “ciociara” era molto di là a venire. Un po’ si
sapeva un po’ no: un accordo di ferro era stato concertato: niente squadre
marocchine in Sicilia. La diffidenza sicula in materia di salvaguardia della
giovinezza intemerata delle proprie figlie in età da marito era acuminata ed
angosciante. Già di giovani in paese c’erano pochi per via della guerra voluta
da quel “cornutazzu” di Mussolini.
Aveva in
bel da fare Giuggiu Agrò ad impedire discorsi disfattisti al Circolo del mutuo
soccorso tra i sedentari che qualcosa dovevano avere per le loro interminabili
discussioni. Qualcuno lo prese e se lo portò in gattabuia. Brav’uomo in
definitiva Giuggiu Agrò – lo dice anche Sciascia. Aveva comunque un
fanatismo fascista in corpo che se lo
portò sino alla tomba. Prematuramente, purtroppo. Quando ritornò dalla
deportazione in Algeria, cercò una sistemazione. Tutto il suo servizio come
segretario del fascio ora non solo non serviva a niente, ma era da ostacolo ad
un impieguccio al municipio. Allora non c’era l’attuale scorciatoia dei LSU o
dei posticini a contratto. Bisognava essere di intemerata fede “democratica”.
Giuggiu Agrò l’attestato di intemerata fede democratica ovviamente non poteva
esibirlo, neanche con carte false. Cercò allora di farsi dare una dichiarazione
di civile convivenza dal Mutuo Soccorso. Lì, però insorsero pingui maldicenti,
usi al male e l’attestato gli si doveva negare per la faccenda
dell’incarcerazione di un socio reo di mormorazioni disfattiste. Giuggiu Agrò
altezzosamente prevenne lo smacco, ritirò la richiesta: a dire il ci aveva
pensato un astro nascente della politica di sinistra, piissimo e neo comunista
per dissidio da un compagno di letto omo. Giuggiu Agrò fu regolarmente assunto.
Pensate un po’, da un “comunista”. A Racalmuto sappiamo tutto sommato essere
ilari.
La sorella del “cadetto” dunque destava qualche
preoccupazione per via degli evanescenti marocchini. Ragazza già donna
all’Anouk Aimée (per mia palese mistificazione), era prima cugina di mia madre.
Soprattutto era nipote di mia nonna materna, scheletrica per troppa vedovanza.
C’era pure mia zia monaca, venuta dal trapanese per sfuggire ai terrificanti
bombardamenti americani. La monaca, allora caruccia anche se traccagnotta con i
suoi sei o sette cinquine, portava un nero integrale e si diceva che gli
americani dove vedevano nero vedevano fascisti e sparavano ed ammazzavano, Ma
c’era soprattutto l’apprensione marocchina. Mia zia monaca il saio nero non
volle assolutamente levarselo. Quanto all’altra faccenda, non era Claudia
Cardinale del Gattopardo per farsi quella sconcia risata. Noi nipotini in fin
dei conti la consideravamo asessuata, come asessuate consideravamo tutte quelle
vedove di vecchia data che a Racalmuto (ed altrove, penso) brulicavano.
In un primo tempo, alla fine di giugno, ci
radunammo tutti in casa mia vecchia casa che mio padre aveva fatto aggiustare
dal Mussumulisi sperperando tanti suoi risparmi sudati, letteralmente parlando,
con i suoi viaggi a Palermo per rifornirsi di “roba” che poi forniva
lucrosamente a tanti venditori ambulanti. Un altro mio zio faceva quel
mestiere, aveva la “bardanella” che un aiutante, quando non faceva il facchino,
portava a tracollo girovagando per i paesi vicini: Milocca, lu Naduri, Castrufllippu e soprattutto Montedoro. Aveva
purtroppo scarsa fortuna. Bellissimo quel mio zio, vestiva “allicchittatu”, lo
ricordo in eterno lucidarsi le scarpe. Le donne, sedicenti zie, venivano anche
da Palermo per corteggiarlo. Salivano in un terrificante solaio della casa
paterna di mia nonna. La quale aveva di che strillare. Lassù figlio e “parente” palermitana facevano i loro comodi.
Così pensava mia nonna ed io penso che pensasse giusto. Mio zio giovanissimo cominciò
ad avere disturbi di stomaco: Vomitava tanto. Non voleva, però, curarsi; aveva
terrore dei ferri. Morì di cancro nel ’50 a soli trent’anni. Era mio “pipino”.
Gli volevo un bene dell’anima. Me ne voleva di più. Ave, carissimo zio, ovunque
tu sia!
Mia zia monaca sembrava l’esperta di
bombardamenti. All’improvviso a Racalmuto, sul cielo di Racalmuto, cominciarono
a volteggiare aerei, pareva che giostrassero: in picchiata e poi
s’inerpicavano, rumori assordanti. Le sirene che preannunciavano aerei già in
sorvolo, che dovevano segnare la fine ed
invece gli apparecchi militari americani ancora lì stavano, dal Castelluzzo
alla montagna, da dietro il Serrone sino al mare e dal mare in paese.
Luccichii, lampi in cielo. Mitraglie che dannatamente crepitavano lassù in
alto, senza senso … fortunatamente.
Veramente non ce ne davamo più apprensione, tutto divenne consueto,
insenso ma non preoccupante. Mia zia sosteneva che quando suonava la sirena nel
rifugio dovevamo andare … ma rifugio a Racalmuto non c’era. Almeno di notte,
disse mia zia sotto in cantina dovevamo dormire. Scendemmo tutti i parenti
stretti nella nostra cantina che era ampia ed aveva archi di supporto che
secondo mia zia ben potevano proteggerci da improvvisi lanci di bombe. Cunzarunu letti. Per noi bambini era più
un divertimento che un rifugiarsi. La novità appariva gradevole, spezzava la
monotonia dei giorni a scuola chiusa. Mia nonna paterna, però, non volle
venire: nella sua alcova, quella antica alla siciliana si sentiva più al
sicuro. Mio zio Pietro la seguì. Mia nonna Concetta venne un paio di notti, non
si trovava a suo agio. Se ne tornò nel suo catoio.
Mia zia monaca non poté lasciare la mamma sola e melanconicamente andò a
dormire nel mono ambiente della mamma.
La festa evaporava. Giunti così ai primi di luglio mio padre decise che
il tempo orami era caldo e ben si poteva andare “ fori” a la Curma. Si prese il solito carretto; il
carrettiere, il solito, sistemò tanta di quella roba su quei pochi metri
quadrati del tavolato del carro che sembrava un miracolo. Le lunghe tavole del
letto matrimoniale di mia nonna – che su quello ancora dormiva con me bambino
accanto a farle compagnia - fuoriuscivano dietro, con i trispa a cavalcione. Il marito le era morto da oltre trent’anni.
E lei vedova rimase con il nero del lutto perennemente addosso. Jppuni nero, falletta nera, calze nere, scarpe – ineleganti tappini – nere; il fazzoletto largo in testa come soggolo, però,
era bianco, candido. Aveva la dentiera ed ogni sera se la levava. Io bambino
non capivo e ormai vi avevo fatto
l’abitudine. Quando a tarda età mi sono messo a rimembrare ed a cercare di capire mi sono chiesto che tipo
di femminilità vivevano tutte queste vedove in giovane età; e di allegria la
retriva società siciliana poco gliene concedeva; divenivano proprio asessuate,
neppure discorsi alacri si concedeva. Tante, quasi tutte assurgevano però a
matriarche, il dominio dell’intera famiglia avevano e le maggiori vittime erano
le altre donne del clan; i maschietti ci guadagnavano, un occhio di riguardo
veniva loro elargito; qualcuno diveniva il cocco di nonna ed in famiglia
conseguiva scandalosi ed invidiati privilegi. Sciascia ebbe a dire una volta
che in Sicilia vigeva il matriarcato; la Maraini lo fulminò.
Fu così che ai primi caldi di luglio 1943 ci
trovammo a la Curma. Mia nonna aveva
ereditato una piccola proprietà, manco due tumoli di terra, bonificati, però,
con alberi di pero, di pesco, di fico. Grande il castello di fichidindia che
faceva da pudica cortina alla “robba”. C’era un casolare siciliano con feritoie
per scrutare e se del caso sparare. Era dell’Ottocento. Tre ambienti si direbbe
oggi: la cammara, tre metri per tre
metri, l’ingresso giù con scala d’accesso e sotto la scala la mangiatoia; di
fronte, la cucina all’antica; adiacente una stalla grande. L’ingresso era parte
su pietra gessosa – la chiamavamo balata
– e parte sulla nuda terra, battuta comunque e con sopra residui di paglia da
tempo immemorabile; frammisti rami secchi di pruni. Amplissima la mangiatoia. Proveniva
dall’ampia proprietà di mio bisnonno. Questi nell’ottocento si era dato alla
speculazione zolfifera. Non aveva avuto molta fortuna. Bucava la terra, cercava
zolfo. Quasi mai lo trovava, debiti contraeva. Sul letto di morte fece
testamento, lo dettò al notaio che riservò per se stesso una buona fetta della
nostra terra alla Curma. Una parte
comunque pervenne a mia nonna. A quella casa non piccola, non grande, ero
affezionato. Pervenuta a mia madre, fu venduta in un momento di nostre
difficoltà economiche. Non sono riuscito a recuperarla. Ora, spalla; i
proprietari attuali sparsi per il mondo non hanno tempo e voglia di buttar
l’acqua fuori, come si dice.
Appena si arrivava si faceva subito la “ittena”,
una rudimentale panca in pietra; v’era dentro una sorta di nicchia grande e vi
si affiggeva una immagine sacra grande; di solito il sacro cuore di Gesù. Il
miracolo avveniva nella “cammara”. In quei pochi metri quadri mia nonna faceva
disporre il suo grande letto matrimoniale. Nell’angolo di fronte si
apparecchiava il lettino per mia zia monaca che aveva per paravento due
lenzuola legate ad un filo ad L che
partiva da un chiodo alla parente di fronte, si attorcigliava ad un bastone che
faceva da angolo e si fissava ad un altro chiodo alla parete di lato. Un
lettino a terra nel mezzo ci usciva. Vi si coricava la sorella del cadetto di
cui abbiamo parlato. Nel letto grande dormivano mia nonna due nipoti accanto e
due altri ai piedi del letto. Mia nonna il suo materasso lo voleva di lana, per
gli altri il materasso era un ripieno di paglia che si andava a prendere dalle
aie fresche della tradizionale trebbiatura con le bestie. La raccolta era già
alle spalle.
Fu così che nella notte del 10 luglio 1943
facemmo la tremenda esperienza di una bomba americana esplosa là vicino, a Piru. Si disse che a tarda notte avevano
acceso il fuoco per cuocere i pomodori nel grande pentolone di rame e farne poi
l’ “astratto”. Non morì nessuno per
quell’incauto richiamo del volteggiante aereo americano, pronto a sganciare una
bomba su innocui contadini alle prese con le conserve di pomodoro. Dopo guerra,
a dignità nazionale ripresa, una denuncia penale occorreva fare contro quei
nostri liberatori, figli o imparentati di emigranti compaesani.
Svegliati di soprassalto, nulla capendo,
stropicciandoci gli occhi impauriti, non avemmo neppure il tempo di farci dire
da mia zia monaca cosa era successo. Subito,
subito, iusu, intimò con voce strozzata mia zia monaca. Bommi ittaru, bummi ittaru, soggiunse la
zia che dicemmo essere esperta.
Ci sdraiammo giù, all’ingresso, sopra la paglia
antica frammezzata da pruni pungenti. I culetti di noi bambini ebbero dolorose
pizzicate. Le anziane per decenza tacquero. Stemmo alquanto in attesa di chissà
quale nuova deflagrazione. Per fortuna nulla ebbe a seguire. Allora, mia zia
salì sopra, prese coperte e lenzuola. Sotto, tutto aggiustò al fioco lume di
una “lumera” ad olio. Risistemati da cristiani, mia zia monaca prese il suo rosario
e cominciò a biascicare le solite avemaria. “Ave Maria, piena di grazie, il Signore è teco. Tu sei la benedetta”
….. e noi di seguito: Santa Maria madre
di Dio, prega per noi peccatori …Il salmodiare ad un tratto cominciò a
venire frammezzato dalla sorella del cadetto che con stridulo pianto
istericamente lamentava “mammuzza mia can
un ti viiu cchiu”. Quando poi raccontavano la vicenda, a noi bambini
piaceva celiare: “ Santa Maria Madre di
Dio … Mammuzza mia can un ti viiu chhiu”.
Mia nonna ebbe un moto di stizza. “U cafè vuogliu”. Aveva voglia mia zia
monaca a dire: Madre mia, non si può!. Se
accendiamo il fuoco, ci bombardano. Mia nonna, perentoria: u cafè vuogliu. Paziente e remissiva mia
zia monaca, salì di sopra, prese il caffè scese giù e lo versò nel pentolino di
acqua. Ristoratici in qualche modo, la tardissima ora ci portò tutti in un
sonno che almeno per noi bambi fu profondo e tranquillo.
Alle prime luci del giorno, giunse il fratello
della cuginetta di mia madre e se la portò via. Subito dopo, giunsero mio zio
Pietro e mio padre e tutti quanti, nonna e nipoti, ci riportarono in paese. A
Sant’Antonino, mio fratello Luigi, il bambino di manco tre anni e lo zio Pietro
videro volteggiare sopra di loro gli impazziti aerei americani. Scesero da cavallo,
e ripararono sotto un rovo ai bordi della strada. Sopra gli aerei sparavano a
vuoto, in continuazione. Quei piloti saranno stati drogati, che non vi era
bisogno alcuno di sparare. Non c’erano militari, e lo sapevano, non c’erano
tedeschi e lo sapevano. Vero è che
Mussolini, o chi per lui, aveva fatto piazzare sopra il fortilizio del
Castelluccio un gran cannone. Non vi erano però artificieri, non vi erano
soldati. Anche a lu “Cannuni” avevano piazzato un cannone. Lì, i soldati
c’erano, ma neppure un colpo ebbe a sparare. Inettitudini? Ordini segreti?
Intesa col nemico? Mah! Un dubbio mi assale. Non c’era alcun bisogno di
bruciare tanto carburante, di sprecare tante munizioni, di mettere a
repentaglio tante vite umane; tanti loro soldati, anche e far tanto spreco di
apparecchi, come a quel tempo li chiamavamo. Ed allora, nessuno mi toglie dalla
mente che tutto dipese dagli interessi delle grandi industrie di armi
americane. Cui si aggiunse, strategicamente, l’intento di tenere impegnate
forze tedesche in Sicilia. Cui dopo seguì la folla sfida tra Patton e
Montgomery a chi arrivava prima a Palermo. Tutta roba da tribunale di guerra.
Ma gli americani vinsero e furono eroi e liberatori, i tedeschi persero ed
ebbero l’ignominia di Norimberga. Poi il fratello piccolo di tre anni andava
salmodiando “ bum bum bum … mi spararu
ccà (a quel posto) m’acchiapparu”.
Erano state, però, le spine del rovo.
,.
Dice Sciascia all’atto dell’entrata degli
americani, i siciliani erano “servi che finalmente si liberano da un padrone ed
un altro attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido”. Noi non abbiamo tanto
pessimismo, pensiamo semplicemente che i siciliani a cominciare dai loro
“fasci” si scrollarono di dosso questa abitudine a considerarsi servi e furono
cittadini dignitosi, magari un po’ accorti nei confronti della giustizia
“romana”. Con la democrazia cristiana – bisogna riconoscerlo – Roma non fu più
“nemica”, lo Stato non più nemico. Un pizzico di diffidenza, non guasta ma
senza mai esagerare. Simile sentire non è perspicuo e la letteratura abbisogna
di forti tinte. Ritornare, dopo millenni, alla “servitù della gleba” fa molto
scic e fa vendere. Per quel che ricordiamo nella congiuntura dello sbarco
americano a Gela, c‘era molto senso della congiuntura, molto prammatico senso
del presente, del vivere giorno per giorno. Non si pensava più né a Roma né a
Mussolini. Sicuramente non si sapeva di Stevens e neppure più “la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto”. Alla radio non ci
si toglieva più il berretto al comunicato di mezzogiorno: c’era il problema del
mezzogiorno da risolvere. Accortamente dai Racalmutesi, desolatamente per i
tanti “sfollati” venuti soprattutto da Palermo. Suonarono davvero “sirene e
campane a martello [per annunciare] l’emergenza”? Noi non ricordiamo,
francamente ci pare svolazzo poetico.
Non saremmo tanto propensi a vedere i siciliani celebrare una strana
kermesse quella «dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro
ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido.» Non si attaglia a Racalmuto. Racalmuto fu sinceramente
anche se in modo indolente fascista. La creme dirigenziale era in mano a
galantuomini del primo liberalismo giolittiano e facevano più o meno bene i
medici o gli insegnanti elementari. Ronzavano un po’ troppo i giovinastri
venuti su dal basso, ma velleitari erano, dopo tutto innocui, note
folkloristiche. Non abbiamo avuto martiri fascisti (e manco comunisti). Il
fascismo a Racalmuto lo introdusse – sì, proprio così – Calogero Vizzini con
don Ciccu Burruano, i figli di costui e Agostino Puma. Nacque da esigenze
padronali: quelle dei conduttori di miniere associatisi in un sindacatino
confindustriale per fronteggiare l’incipiente rivolta dei laboratori delle
miniere. Calogero Vizzini non tardò, però, a subire l’onta della repressione
del prefetto Mori, la cui sovrastima di sé ebbe a perderlo per diffidenza di
Mussolini in persona. In quella caduta fu coinvolto il fascista della prima ora
il tenentino Burruano, che per diventare colonnello, a tarda età, dovette
aspettare la caduta del regime. Dopo, fu più che altro celebre per le sue
suadenti doti di gran cerimoniere nei veglioni (promiscui) del Circolo Unione.
Diviene qui ancor più sapida la prosa mirabile di
Sciascia. Dilettiamoci insieme a leggerla: «La mattina del dieci gli americani
erano sulla costa tra Gela e Licata. Il paese in cui mi trovavo, e che era il
mio, distava da Licata una cinquantina di chilometri: ma era compreso in una
zona rimasta alle semplici operazioni di rastrellamento. Così gli americani non
giunsero che una settimana dopo. Giungevano alla spicciolata i feriti di un
reggimento di bersaglieri che, nel punto più vicino della costa, erano entrati
in contatto isolato con gli americani. Non erano siciliani, ma in gran parte
veneti. I siciliani non si erano fatti cogliere, sapevano dove andare, si
sbandarono al primo urto: che era in realtà urto insostenibile e grottesco, se
si pensa che si contava su fossi mal scavati e in gran fretta per arrestare i
carri armati; e che soltanto un paio di aerei si videro timidamente sorvolare i
margini della zona. Dunque i feriti giungevano: e finivano proprio là dove il
regime in vent’anni non aveva speso una lira né sostenuto i muri poco saldi.
Finivano nell’inutile e vuoto ospedale del paese dove un medico frettolosamente
fasciava le loro ferite, ma in quanto a mangiare, proprio niente da fare.
Non
avevano niente le suore, niente sapeva che fare il podestà, ancor meno il
segretario politico. C’era, sì, una colonia della Gil piena di buone cose e
dotata di buone somme; ma via, proprio in quel momento, per dei solati che
perdevano la guerra – mica si poteva perdere di vista il futuro, che era ben
altrimenti nero che l’orbace.
Allora i giovani cercarono di rimediare alla
meglio, quei pochi giovani del paese che ancora erano capaci di sentire
qualcosa d buono [ …] Così i feriti poterono mangiare qualcosa, fino all’arrivo
delle gallette e del corned beef
americano.»
Riteniamo autobiografica l’ultima parte del
nostro stralcio. Spiega bene come i commilitoni feriti a Racalmuto poterono
aspettare, tutto sommato, la loro liberazione ‘americana’. Qualche chiosa: il
podestà non c’era perché sotto le armi. Non si poteva destituirlo e così si
pensò ad un Vice Podestà. So che fu fatta offerta ad uno zio di Sciascia:
questi celestinianamente rifiutò. L’abbiamo scritto e tanto basta. La faccenda
della Gioventù italiana del Littorio e soprattutto la faccenda delle buone cose
e buone somme, ha purtroppo riscontri sgradevoli. Personaggi squallidi ebbero
in mano quei beni e ne locupletarono. Nefasti prima, durante e dopo l’epoca
fascista. Furono delatori fiscali e fecero impoverire certa brava gente su cui
caddero strali tributari per inesistenti profitti di guerra. Di converso
spalleggiarono quelli che i profitti di guerra li avevano davvero conseguiti.
Comunque, figli e nipoti, dopo, condussero e o conducono vita esemplare e i
meriti dei figli ricadano sui loro immeritevoli padri. Cose che comunque
potranno venire alla luce solo ad apertura degli archivi per la caduta
dell’attuale riserbo settantennale. Quei baldi giovani qualche peso sulla
coscienza dovevano sentirlo: parlavano ancora di patria, di onore, di dedizione
e se ne stavano caldi e sicuri mente i loro coetanei o poco più che coetanei
perdevano sì la guerra ma con tanto onore e ne uscivano anche malconci nel
corpo quando non perdevano le loro giovani vite. Io sono tutt’altro che
patriottardo ma onore al merito … ed alla verità storica.
Sciascia, quando scriveva, non poteva disporre di
informazioni come quelle che qui ritraiamo da WIKIPEDIA. Se avesse saputo,
prudente com’era, sarebbe stato più accorto e puntuale. Accordiamogli di buon grado l’esimente della buonafede. Ma
rileggiamo le note oggi disponibili in Internet.
Dopo una serie di
bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana,
comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal
generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo
sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore
2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono
lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini
furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann
Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli
americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i
contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione
motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di
carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le
posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35
di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi
tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi
della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente
motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il
piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata
solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile
sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso
CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura
deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che
si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da
arrestare l'impeto americano.
E qui riprendiamo il bello e puntuale ricordo di
Sciascia:
«Gli americani ancora non venivano. Passarono due
autocarri carichi di soldati tedeschi, bagnati di sudore e con le armi al
piede, seduti per quattro avevano lo sguardo fisso in avanti, stanco ed
allucinato. L’indomani a mezzogiorno passarono ancora due tedeschi con una
automobile munita di radio. Fecero sentire il bollettino trasmesso da Roma che
da più giorni non sentivamo; mangiarono tranquillamente, fumarono i loro
sigari. Due ore dopo la loro partenza, cinque soldati col lungo fucile
abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una
porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolarono nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano
tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa
e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di
spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale.»
Questa singolare sincronia tra due tedeschi,
quasi pacifici, che se ne vanno e cinque americani che “sbucano improvvisamente
nella piazza”, lascerebbe perplessi se non si sospettasse che tra invasori
americani e tedeschi belligeranti intesa c’era. Qualcuno mi dice che per un
certo tempo carri armati tedeschi bivaccarono sotto l’arco di Tulumello, mentre
fanti in gran numero stazionavano ai bordi del Purgatorio, finché non giunsero
autocarri a prelevarli. Subito dopo, come avvisati, arrivò la ronda americana
liberatrice.
Soggiunge Sciascia: «La festa era cominciata. Da
tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come cannate di vino passate di mano in ano sorvolarono la folla,
bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce
violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava
goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in
America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa o
podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta
lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel pover’uomo che
l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso,
proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento
di passare alle insegne della casa del fascio. Tirate giù, furono accompagnate
a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un
abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. »
Aggiunge sempre Sciascia: «La kermesse era al suo
vertice. Camionette e carri blindati affluivano tra ali plaudenti di popolo.
Alquanto nervoso, e nervosamente sorridendo, un soldato dalla faccia di
meticcio puntava dall’alto di un carro, la mitragliatrice sulla folla. In
cambio ne riceveva un sorriso cordiale riflesso su centinaia di facce, un
ammicco di intesa: ‘vuoi scherzare, lo sappiamo, ma domani mangeremo tutte le
buone cose che ti porti dietro, i biscotti salati e gli spaghetti in scatola’.
Qualche sigaretta pioveva sulla generale letizia, e alla mischia che ne seguiva
la macchina fotografica di qualche soldato scattava. »
«Nel frattempo – soggiunge Sciascia – un
contadino che, vedendo in campagna spuntare una pattuglia di americani, tentava
chissà perché di fuggire, veniva raggiunto ed ucciso da una scarica di mitra:
ma la notizia non incrinò la generale allegria.»
A questo punto per Sciascia scatta il represso
ricordo di ingiustizie patite. «..la danza di circostanza era in preparazione.
Si chiamava il ballo delle spie. Le spie. Mentre il popolo si scatenava nella
ebbrezza, il vecchio avvocato C. [e forse
doveva dire B.], con mano tremante di gioia intestava una specie di
supplica: ‘Onorevole Comando Militare Alleato di …’ [intendeva
dire di Canicattì?], e chiedeva la testa di una cinquantina di fascisti
locali [noi pensiamo oltre duecento]
che, da ex massone passato al fascismo, mai l’avevano tenuto nella dovuta
considerazione. [Diciamo gli avevano
fatto torto, o così pensava, lui]. Il segretario politico, il podestà [rectius, il vice podestà che quello era
ancora lontano, sotto le armi], il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie
giunsero alle famiglie qualche mese dopo, da Orano.» Venenum in cauta, una stilettatina a Ballassaru Tinebra. Non molto tempo dopo, finito sotto i colpi di
lupara in piena piazza, da Centoeddeci,
disse il processo; innocente, invece, per Sciascia e per Tanu Savatteri. Sul
debito di Sciascia per questo primo sindaco, imposto dagli americani, abbiamo
già detto e non vogliamo ripeterci. Oltretutto potremmo avere torto.
Ci pare che qualche ripensamento Sciascia lo
abbia avuto, prossimo alla morte, in Fuoco all’Anima. Parlando con Porzio,
taluni ricordi di kermesse sembrano perduti, altri ne affiorano. Qualche
rettifica ci pare di coglierla. Al lettore il confronto ed il giudizio.
Se ben leggiamo, come si vede la storia è
ondivaga; dipende agli umori, dalle idee, dalle convinzioni, dalle età. C’è chi
ricorda una ronda di tre americani che scendono dalla guardia, per San
Giuliano, svoltando per via Fontana all’insù e chi è certo di una pattuglia di
cinque militari che sbucano all’improvviso. E questo è solo un dettaglio. Chi è
certo di occhi corruschi e di placidi sguardi di graduati tedeschi e chi
presume avieri drogati delle Forze Alleate. Ma tanto collima e tanto basta per
varare uno squarcio di storia racalmutese.
Noi licenziamo il nostro rincorrere i nostri
ricordi infantili. Valgano per i nostri compaesani senza fisime letterarie,
senza voglia di avere la certezza in tasca, senza assumere atteggiamenti
censori, senza volere violentare chi la pensa diversamente. Soprattutto senza
idolatrie preconcette e senza sarcasmi astiosi.
Per chi la storia la vuole come sta nella carta
stampata (a dire il vero, oggi, prevale quella leggibile in Internet) forniamo
una raccolta di appunti e contrappunti informatici.
Chiediamo
scusa per la noia che nolenti, ma incapaci, vi abbiamo arrecato.
Calogero Taverna
APPENDICE
[da WIKIPEDIA]
Le forze in campo
Perdite circa
167.000 perdite totali: Germania: 12.000
morti e prigionieri 8.000 feriti[4]
Regno d'Italia: 147.000 perdite (soprattutto
prigionieri)[4] 24.846 perdite
(5.837 morti, 15.683 feriti, 3.326
prigionieri)[5]:
USA: 2.899 morti e dispersi 6.471 feriti
598 prigionieri
Regno Unito:
2.376 morti 7.548 feriti 2.644 prigionieri
Canada:
562 morti 1.664 feriti 84 prigionieri
L'operazione Husky
(colosso) fu la prima invasione alleata del suolo italiano che durante la
seconda guerra mondiale permise, con l'utilizzo di sette divisioni di fanteria
(tre britanniche, tre statunitensi e una canadese) l'inizio della campagna
d'Italia. L'operazione Husky costituì una delle più grandi azioni navali mai
realizzate fino ad allora. Le grandi unità impegnate appartenevano alla 7ª
Armata USA al comando del generale George S. Patton, e l'8ª Armata britannica
al comando del generale Bernard Law Montgomery, riunite nel 15º Gruppo di
Armate, sotto la responsabilità del generale inglese Harold Alexander.
La campagna ebbe
inizio con lo sbarco in Sicilia (a Licata, tra Gela e Scoglitti e tra Pachino e
Siracusa) delle forze alleate, tra il 9 e il 10 luglio 1943, a cui presero
parte circa 160 000 uomini.
La pianificazione
dello sbarco
L'attacco
all'Italia fu deciso da americani ed inglesi durante la Conferenza di
Casablanca del 14 gennaio 1943 (a tal proposito, celebre rimase la definizione
dell'Italia di Winston Churchill: «L'Italia è il ventre molle dell'Asse») e la
pianificazione e l'organizzazione venne affidata al generale Dwight Eisenhower.
Accordi
preliminari
La preparazione
allo sbarco interessò una trattativa tra i rappresentanti del governo alleato e
chi realmente aveva in Sicilia una grande influenza, ovvero la mafia[6]. Dalla
relazione conclusiva della Commissione parlamentare Antimafia presentata alle
Camere il 4 febbraio 1976: “Qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in
Sicilia numerosi elementi dell'esercito americano furono inviati nell'isola,
per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione
sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a
Casablanca l'occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò
un'apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere le
necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della “preparazione psicologica”
della Sicilia. Fu così predisposta una fitta rete informativa, che stabilì
preziosi collegamenti con la Sicilia, e mandò nell'isola un numero sempre
maggiore di collaboratori e di informatori. Ma l'episodio certo più importante
è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco dal
gangster Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di
origine siciliana, il quale stava scontando una condanna a 15 anni[7]. Si
comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie
dell'infiltrazione alleata in Sicilia prima dell'occupazione. Il gangster
americano, una volta accettata l'idea di collaborare con le autorità governative,
dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine
siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari
piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli elementi
dell'esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per
preparare all'occupazione imminente le popolazioni locali. “Luciano” venne
graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra”,
tornò a Napoli a fare contrabbando di sigarette e traffico di eroina.
E un fatto che quando il 10 luglio 1943 gli
americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, il generale Patton
raggiunse Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “...è
storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo
sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d'accordo con il gangsterismo
americano, s'adoperò per tenere sgombra la via da un mare all'altro...”[7].
Ancora la Commissione antimafia: "la mafia rinascente trovava in questa
funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i
lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta
e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i
suoi crediti verso le potenze occupanti”[7].
Accordi fra Allen
Dulles e Lucky Luciano
La trattativa fra
servizi segreti americani e criminali mafiosi passò attraverso l'Office of
Strategic Services, (OSS), diretto dal generale William Donovan:
gerarchicamente, l’OSS in Europa dipendeva da Allen Dulles[8], che aveva la
propria sede in Svizzera, il suo diretto dipendente in Italia era
l’italoamericano Massimo Corvo, di origini siciliane, noto come "Max"
e detto in codice "Maral", numero di matricola 45[9].
Max Corvo incominciò ad organizzare i propri
uomini formando un'unità militare che, fra le forze armate americane era nota
come the mafia circle (il circolo della mafia). Stabilì quindi ulteriori
contatti con Victor Anfuso, Lucky Luciano, Vito Genovese, Albert Anastasia e
altre persone delle organizzazioni criminali italoamericane inserite
nell’operazione Underworld, un giovane raccomandato dallo stesso Luciano,
Michele Sindona, e anche un certo Licio Gelli[9].
Max Corvo e la sua squadra vengono sbarcati in
Nord Africa a maggio 1943. Poi tre giorni dopo l’attacco, l’unità prende terra
a Falconara, vicino a Gela, e si stabilisce nel castello della cittadina. A
Melilla Corvo incontra padre Fiorilla, parente di uno dei suoi uomini e parroco
di San Sebastiano, poi è ad Augusta, sua città natale, per reclutare
collaboratori locali. Intanto gli agenti dell’OSS occuparono le isole piùà
piccole intorno alla Sicilia, fra cui Favignana e liberarono dalla prigione
numerosi boss della mafia, che furono arruolati nel servizio dell’OSS, circa
850 "uomini d'onore" raccomandati dai capi mafiosi siciliani, che
dopo l'occupazione assunsero cariche pubbliche nell’amministrazione militare
del colonnello Charles Poletti: in provincia di Palermo ci furono 62 sindaci
mafiosi.[9].
Le forze
contrapposte erano sulla carta di consistenza quasi pari, dato che la Sesta
Armata italiana (generale Alfredo Guzzoni) poteva contare su circa 220.000
uomini, solo 170.000 dei quali erano però combattenti. Le grandi unità italiane
erano inoltre carenti sotto tutti i punti di vista (armamento e motorizzazione
soprattutto), e molte erano unità costiere prive di armamento pesante. Alcune
eccezioni erano costituite da un battaglione di artiglieria semovente aggregato
alla Divisione Livorno, che aveva in carico un certo numero di semoventi da
90/53, in grado di mettere fuori combattimento qualunque mezzo corazzato
alleato. Il contingente tedesco, forte di 30.000 uomini circa ed al comando del
generale Frido von Senger und Etterlin (sostituito il 15 luglio da
Hans-Valentin Hube), a differenza degli italiani era perfettamente equipaggiato
ed aveva sotto il suo controllo anche la Fallschirm-Panzer-Division 1
"Hermann Göring", dotata di alcuni carri pesanti Tiger I.
Pantelleria si
arrende
I primi segnali
dell'invasione si ebbero già un mese prima (11 giugno 1943), con la presa
dell'isola di Pantelleria[10], primo lembo di terra italiana a cadere in mano
alleata, seguita dalla caduta dell'isola di Lampedusa il 13 giugno.
A Pantelleria, dopo un violentissimo
bombardamento aereo, il comandante italiano chiese e ottenne da Mussolini il
permesso di arrendersi, facendo credere di non avere scorte idriche. In realtà
le capaci caverne dell'isola, che già ospitavano degli hangar per l'aviazione,
erano in grado di offrire un riparo sicuro a tutta la popolazione civile e
militare dell'isola, e le scorte idriche e alimentari erano tutt'altro che
esaurite. Gli alleati fecero circa 11.000 prigionieri tra le forze italiane.
Le forze navali
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Le forze da sbarco,
precedute da uno sfortunato lancio di paracadutisti (nessuna delle unità scese
nel luogo stabilito e molti parà vennero catturati; inoltre 23 dei 144 Dakota,
lungo la rotta di ritorno, sorvolarono le navi alleate e vennero abbattuti
perché scambiati per bombardieri dell'Asse) erano protette e scortate da una
formidabile flotta combinata.
Supermarina non si
assunse la responsabilità di inviare la flotta a difesa dell'isola,
rischiandone la totale distruzione, quindi chiese capo di stato maggiore di
prendere tale decisione; ne segui una serie di discussioni che non portarono ad
alcuna azione operativa.[11] La decisione fu in qualche modo giustificata dal
fatto che, in assenza di adeguata copertura aerea, le corazzate e gli
incrociatori italiani sarebbero salpati per una missione suicida. Tuttavia
neppure i numerosi sommergibili in agguato a sud della Sicilia ottennero
risultati: nel corso della campagna di Sicilia la Regia Marina perse i
sommergibili Ascianghi, Bronzo, Flutto, Nereide, Argento ed Acciaio con la
morte in tutto di 152 uomini, ottenendo come unica contropartita i gravi
danneggiamenti degli incrociatori leggeri Cleopatra e Newfoundland e
l'affondamento della motocannoniera MGB 641[12][13].
La flotta alleata
contava quattro navi da battaglia (Nelson, Rodney, Warspite e Valiant,
quest'ultima appena rientrata in servizio dopo l'attacco di Alessandria), più
altre due di riserva ad Algeri ("Forza Z" con le corazzate Howe e
King George V), le portaerei Formidable e Indomitable, gli incrociatori Orion,
Newfoundland, Mauritius e Uganda, gli incrociatori contraerei Aurora, Penelope,
Euryalus, Cleopatra, Sirius e Dido, e 27 cacciatorpediniere. Le forze di
appoggio diretto contavano 2 monitori, l'incrociatore Dehly, 8
cacciatorpediniere, 4 cannoniere, 5 mezzi da sbarco trasformati in batterie
galleggianti, e 6 mezzi da sbarco con lanciarazzi. La US Navy per parte sua
schierava cinque incrociatori (USS Boise, USS Savannah, USS Philadelphia, USS
Brooklyn e USS Birmingham), oltre a 25 cacciatorpediniere e a un monitore
britannico. Da notare anche la presenza tra queste forze di unità appartenenti
a paesi occupati, come Olanda e Grecia. Con l'appoggio di queste forze le prime
truppe toccarono terra nelle prime ore del 10 luglio.
Le forze terrestri
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Nave inglese
colpita da un bombardiere tedesco durante lo sbarco a Gela l'11 luglio.
Le forze dell'8ª
Armata (il XXX Corpo d'armata formato dalla 1ª Divisione canadese, la 51ª
Divisione e la 231ª Brigata Malta, e il XIII Corpo d'armata costituito dalla 5ª
e dalla 50ª Divisione) sbarcarono nei tratti di costa compresi tra la penisola
di Pachino e la piazzaforte di Siracusa-Augusta, sul versante ionico, ad
eccezione della 1ª Divisione canadese che sbarcò più a sud. Due brigate, la 1ª
Brigata Paracadutisti e la 1ª Brigata Aviotrasportata (su alianti), distaccate
dalla 1ª Divisione Aviotrasportata britannica furono aviosbarcate dietro le
linee italiane per conquistare dei punti chiave.
La 7ª Armata di
Patton sbarcò dapprima tre divisioni nel tratto di costa compreso tra Licata e
Gela[14]. La 3' divisione sbarcò nella costa a ovest di Licata, località Torre
di Gaffe e baia di Mollarella, 5-8 chilometri a ovest di Licata. La 1ª
divisione sbarcò nei pressi di Gela e la 45ª divisione nei pressi di Scoglitti.
L'82ª Divisione Aviotrasportata o paracadutisti fu invece aviosbarcata tra Gela
e Scoglitti. Di fronte a queste forze c'erano le divisioni denominate costiere
dell'Asse Germania Italia, in particolare la 206ª nell'estremo sud-est
dell'isola, la 207ª a Licata in località Sant'Oliva o San Oliva o S.Oliva, e la
18ª Brigata costiera sulla costa di Gela. Furono queste unità, oltre alle
batterie costiere, a sopportare l'urto dello sbarco americano. Il fuoco di
controbatteria delle navi da guerra e l'appoggio aereo favorirono la rapida
attestazione delle forze di invasione, anche se nei punti maggiormente muniti
di artiglieria costiera la lotta fu piuttosto aspra. Nei numerosi tratti di
costa privi di difesa le truppe alleate poterono avanzare dai punti di sbarco
senza difficoltà. Tuttavia a Licata furono combattute aspre battaglie porta a
porta e la città fu interamente conquistata dagli Alleati il 21 luglio 1943 e
quindi fu fatta sbarcare anche la 2' divisione corazzata. Nell'entroterra erano
presenti la divisione Livorno e la divisione Hermann Göring, oltre alla male
armata Napoli. In riserva momentanea la 15ª Divisione Panzergrenadier tedesca,
divisa in gruppi tattici, non aveva più di 60 carri. A ovest erano schierate le
divisioni italiane Aosta e Assietta. Al comando delle forze dell'Asse, da
Berlino fu inviato Hans-Valentin Hube.
La Sicilia si
arrende [modifica]
I combattimenti
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Il generale Patton
a Palermo riceve il 28 luglio 1943 il gen. Montgomery all'aeroporto
Dopo una serie di
bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana,
comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal
generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo
sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore
2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono
lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini
furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann
Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli
americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i
contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione
motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di
carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le
posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35
di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi
tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi
della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente
motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il
piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata
solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile
sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso
CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura
deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che
si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da
arrestare l'impeto americano.
Sul fiume Simeto fu
combattuta un'altra durissima battaglia che impegnò gli inglesi dell'VIII
Armata, bloccando la loro avanzata verso Catania. Il 16 luglio gli americani
arrivarono ad Agrigento. Nonostante la combattività e il valore di gran parte
delle forze dell'Asse (non solo le efficienti unità tedesche)[senza fonte], la
Sicilia fu occupata in soli 38 giorni quando, il 17 agosto, le truppe Alleate
entrarono a Messina, dopo aver conquistato Palermo il 22 luglio e Catania il 5
agosto.
I tedeschi con un
ponte di barche riuscirono a trasferire in Calabria la gran parte delle loro
truppe e dei loro mezzi, a differenza degli italiani che abbandonarono molti
dei loro.
Lo sbarco a Licata
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Lo sbarco a Licata
avvenne la notte tra il 9 e 10 luglio 1943 mediante la 7ª Armata statunitense
comandata dal generale Patton che sbarcò la 3ª Divisione Fanteria (3rd Infantry
Division), comandata dal Maggiore Gen. Lucian King Truscott (Joss Force). Lo
sbarco avvenne nelle spiagge vicino Licata, poiché il Porto di Licata
costituiva obiettivo strategico e quindi occupato dai militari dell'Asse
(Germania nazista e Italia). L'ora "H" ebbe inizio alle ore 2.45 del
10 luglio 1943 e quindi iniziarono le operazioni di sbarco nelle spiagge
prestabilite. Alle 2,57 nella spiaggia di Mollarella e Poliscia toccarono terra
i primi carri armati americani. La 3ª divisione sbarcò contestualmente a ovest
della città di Licata, nelle spiagge di Torre di Gaffi e Mollarella e ad est di
Licata nelle spiagge di Falconara e nelle spiagge della Playa. Gli Alleati sbarcati
a Licata furono bombardati dalle forze dell'Asse e furono colpite e affondate
la nave Maddox e Sentinel delle forze Alleate. Gli Alleati comunque riuscirono
a sbarcare tutti gli uomini dalle navi e conquistata completamente Licata già
nella mattinata del 10 Luglio 1943, proseguirono verso Palma di Montechiaro e
Campobello di Licata. Il faro del porto di Licata, data la notevole altezza, ha
una portata di circa 21 miglia marine, costituiva un sicuro riferimento. Il
porto di Licata nei giorni successivi allo sbarco, assicurava l'arrivo dei
rifornimenti. Gli alleati la mattina del 10 luglio 1943, alle ore 8 circa,
avevano già messo la bandiera stelle e strisce degli Stati Uniti d'America, a
Licata, sulla montagna di Sant'Angelo. Il giorno 12 luglio gli Alleati erano
nelle campagne circostanti la città, in località S.Oliva o Sant'Oliva o San
Oliva, nei pressi dell'omonima stazione ferroviaria, distante circa 7
chilometri dalla città di Licata. Nella piana di Licata gli Alleati
approntarono qualche giorno dopo lo sbarco, una pista di atterraggio.
L'occupazione
alleata [modifica]
A capo
dell'amministrazione militare alleata della Sicilia occupata, di competenza
dell'AMGOT che venne battezzata in questa occasione, fu indicato Charles
Poletti.
Solamente il 3
settembre iniziò lo sbarco e quindi l'invasione alleata nella penisola italiana
con l'Operazione Baytown, in concomitanza con la firma dell'armistizio.
Armistizio che fu firmato a Cassibile, in provincia di Siracusa.
Attanasio, S.
Sicilia senza Italia. Luglio-Agosto 1943. Milano, Mursia 1983.
Alfio Caruso, Arrivano i nostri, Longanesi,
2006, ISBN 978-88-502-1100-5
Bartolone Giovanni, Le altre stragi. Le stragi
alleate e tedesche nella Sicilia 1943-1944, Bagheria (Palermo), Tipografia
Aiello & Provenzano, 2005.
Carloni Fabrizio Gela 1943 Le verità nascoste
dello sbarco americano in Sicilia Mursia ISBN 978-88-425-4742-6
Costanzo Ezio Sicilia 1943. Le nove muse.
Costanzo Ezio, Mafia e Alleati, Le Nove Muse
Editrice, Catania 2006
D'Este, C. 1943. Lo sbarco in Sicilia. Milano,
Mondadori 1990. ISBN 978-88-04-33046-2
Li Gotti, C. Gli americani a Licata.
Dall'amministrazione militare alla ricostruzione democratica (capitolo I -
L'operazione Husky). Civitavecchia, Prospettiva editrice 2008. ISBN
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Mondadori 1981.
Mangiameli, R. "La regione in guerra
(1943-1950)" in Storia d'Italia - Le regioni dall'Unità ad oggi, a cura di
M. Aymard e G. Giarrizzo. Torino 1987
Pantaleone M., Mafia e politica, Einaudi,
Torino 1978
Renda F., Storia della Sicilia (1860-1970),
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Santoni, A. Le operazioni in Sicilia e
Calabria. Roma, S.M.E. 1983.
Tranfaglia N., Mafia, politica , affari
nell’Italia repubblicana (1943-1991), Laterza, Roma 1992
Zingali, G. L'invasione della Sicilia. Catania
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Zangara Carmela 10 Luglio 1943 Lo sbarco degli
Americani nelle testimonianze dei Licatesi. "La Vedetta" Editrice.
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