RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli Arabi
(829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato
dai berberi. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche
solo flebili barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni?
Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché.
Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con
l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove.
E che può
dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma
noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel
tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo
lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di
eclissamento della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un
fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna,
se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Siamo, in
ogni caso, affascinati dai versi di Ibn HAMDIS e tifiamo per un grande rigoglio
della civiltà araba qui da noi.
Pianse, invero, Ibn con accenti che toccano
ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:.
«Ho
riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla
malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non
l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee
in chiese,
«dove i
frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città,
vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i
quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la
mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì
gloriosa e fiera.
«Aprirono
con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi
lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non
hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi
la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior
parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano
soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si
era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd
ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni
amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e
cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani
erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali
convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio
del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di
religione e di culto.
Quanti
erano i berberi e quanti i dhimmi a
Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli
infedeli (i dhimmi) che per avventura
avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere
la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria
quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi
le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo
neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che
sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un
arabista del calibro di Rizzitano per tratteggiare questa congiuntura storica
di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.
«In
entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità
dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e
ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di
Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini
che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano
temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora
concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel
settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento
e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle
posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione
amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che
elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui
prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione
con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia,
e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in
Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti
scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici
venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti
erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo
apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre
sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero
all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo VII, quando
l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di
antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano
condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano
superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore
agricolo.
«Per
quanto concerneva invece i dhimmi, questi
erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini
commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale
che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante;
oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi
erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del
principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi
musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di
conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più
dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è
chiaro che erano i dhimmi a dovere
«pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto
sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto
a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto
da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il
compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde
evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari,
avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel
nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya».
Non è
questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e
Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per
tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono -
scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di
Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di
malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò
guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30
dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le
méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso
dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi
arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte
(investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo,
depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione.
Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica
tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto»,
questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se
così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del
Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari
ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran
in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si
riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio
arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo,
nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non
perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si
sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che
era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese
dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma
furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie
diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore.
Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse
contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il
propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il
nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940
riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame.
Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma
anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate
del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica
dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe
inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme
dell’investitura califfale - protrattosi per oltre un secolo (dal 948 sino al
1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo
congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato
di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno
al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono
diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara,
Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e
Catania s’indussero ad appoggiare i
contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista
della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della
dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma
non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche
ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una
fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire
in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorere” –
poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale
nome.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché
un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha
tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo
Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli
eventi nella sua Storia dei Musulmani di
Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel
passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso,
investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni
normanni.
«Il
cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto
Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta
all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí
primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza
di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti
con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra
schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo
nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027)
indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla
Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in
quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm;
portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze
vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben
risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il quale
si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i
figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città,
batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque
luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di
torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in
breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl, Bifara,
Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella
del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche
aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di
questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli
dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata
custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato
quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.»
E’agevole intravedere nel racconto
dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al
riguardo una mera traduzione dal latino. Credo che Chamuth abbia avuto un
qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi
su questo personaggio. Costui, caduto in
un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa
cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus
efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam
consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con
moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla
quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far
fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri
e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in
presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere
i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi
l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una
sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli gli
antenati nostri di Racalmuto. «dimma,
gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella,
secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono
termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanze,
arroganza del potere. Sono la lingua
degli uomini del potere che
parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla
loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari
nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma
a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono
i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai
giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori
quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni
cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61
e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio dalla libertà
araba allo stato servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti
loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del
canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è
documentabile se non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana
ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo
sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del secolo
scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un
governatore di Rahal-Almut a nome
Aabd-Aluhar, servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro
fantomatico Racalmuto nell'anno 998; di
una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il
solerte arcivescovo Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di
seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia
'palearum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del
giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana
abbia tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni
messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero.
Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le
spigolature sulle tasse e sui 'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro
dell'avvocato agrigentino Picone.
I gravami, le violenze, le
soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di
Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire
quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito
di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno,
o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare
echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il
ricordo di quel nome antico. Solo il Racel
del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni funesti: i
normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e
di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini
o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi
cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e
saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per
durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.
Michele Amari non ebbe in simpatia
l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di
Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal
Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a pag. 178
della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in
Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera;
potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i
pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero
fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento;
egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che
conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò
solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di
lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte,
il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno
con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni;
nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi fatti montar in
sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè,
quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto
all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor
muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più
forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio.
Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la
moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla
disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né
volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti,
il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero
certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice
lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al seguito di
Ruggero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati
prima a Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e
morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di
piazza Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e
disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i
cento lancieri di Ruggero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il
casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto
predoni.
L'Amari è aspro, come si è detto, nei
giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna pur capire
avendo “famiglia”: moglie e figli erano, infatti, in mano ai torbidi normanni.
Il Malaterra, monaco benedettino, impantana ancor più la sua non chiara prosa
per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori suoi compaesani.
Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua eccellente prigioniera. E
noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del
Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già
macchiato di molte ignominie, specie in
gioventù. Il suo biografo ufficiale che pure è chiamato all'osanna del
suo committente, ne sente tante a corte da inorridire, fors'anche per la sua
mentalità claustrale. Ed allora nella sua cronaca si lascia andare a pesanti
giudizi morali contro i suoi.
Quando, però, si tratta di cose
militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del
Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a
dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed
attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e
sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze
musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le
cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.
Eppure il Malaterra resta sempre
cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri. I tanti episodi
cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne, tra i
quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno
una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non sempre
è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite della
corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non
dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta, il monaco, le
fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di
generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in
Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali, dell’avventuriera
giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze che gli
ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica.
Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare
chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari irridere a
Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il
giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della cronaca del
benedettino.
Per fare terra bruciata attorno al
nostro Chamuth, tocca ad 11 castelli
l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggero. Alla nostra Racalmuto è
dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri
Platani, Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli
incerti Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuth si arrese, non ci
sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi.
E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le città di
Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di
Girgenti e Castrogiovanni ci convince
molto di più delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute
dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle
terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano poi
tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
* * *
Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del
fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni,
fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio
Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che
dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione
riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava l’esistenza
di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata all’Arcangelo.
Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo che lasciò il
Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo lasciò
seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte «li
signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale
succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va
ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però
impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.
I Normanni
a Racalmuto
Conquistata Agrigento nel 1087, i
lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio
limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla
schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento.
Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna
restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a
Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.
Ma chi erano questi normanni?
Il giudizio storico moderno resta
ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze
razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti
dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle
terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli
avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio rinvigorimento
delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio saracene. Va da sé
che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal giogo infedele hanno
avuto il possente encomio della letteratura confessionale. A dire il vero, in
tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero ebbe con i papi atteggiamenti di
distacco con punte di indifferenza, patteggiando e pretendendo benefici e
concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato apostolico'. Sorge la famosa
"legazia" che qualche spregiudicato religioso sembra, a dire il vero,
avere inventato in tempi smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce
non mancò di avere espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse -
dava alla persona del re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a
quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa ortodossa.»
L'Amari, si è visto, parteggia per
gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per
la poderosa personalità di Ruggero II.
Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del
Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith
nella sua Storia della Sicilia Medievale
e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri
provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto
come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici
mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti,
rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti
salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le
parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di
Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i
cristiani greci dell'Italia meridionale;
e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici».
Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno
inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene
giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come
colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe
stata edificata una famosa dinastia».
*
* *
Che cosa ne è stato della Sicilia
musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza
della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della
prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La
tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli
abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche.
Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno
quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un
cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo
arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti
arabo-siculi.»
*
* *
Dopo i primi cedimenti il Granconte
Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una sovranità personale. La
tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre
terre profondamente intrise di islamismo, sembrò sottrarsi sia al
fenomeno normanno del feudalesimo sia a
quello accentratore e demaniale
dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò qualche tempo dopo.
Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo
EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni,
addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli
ortaggi. Per quello che diremo dopo, il
nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era
appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni
da seminare ben coltivati.»
Gli storici stanno ritornando sul
controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di
rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e
conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della
stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità.
Del resto in Sicilia, mancava da tempo ogni
forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro religioso era diverso da
quello in cui gli Altavilla erano abituati ad operare. La religione cristiana di rito latino era
pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in maggioranza, ci è
ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano poteva esserci ad
Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a Palermo, la cui
chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in un primo tempo si mise a
favorire i monasteri greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di
beni. Si rese, però, subito conto che
ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico.
Bisognava avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita,
in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in
secoli di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture
ecclesiastiche. Le sole in grado di
coordinare le manifestazioni di
pratiche religiose e quindi di vita
quotidiana della gente e di riconfermare e rendere operativa l'alleanza fra Chiesa
e politica che affidava un
ruolo di
protagonista agli Altavilla e
rappresentava un dato strutturale
della società normanna.»
Ruggero
non ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo
conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e
perspicace. Una religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo
progetto politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi
di Melfi col papa latino. Le preoccupazioni politiche erano ad ogni modo
preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di fiducia, allogeni, chiamati
dalla natia Normandia, fu - ripetiamo - il taglio adottato da Ruggero
nella instaurazione della Chiesa di Roma nelle
terre della Sicilia musulmana.
Così il Normanno fondò i vescovati di Troina, Agrigento, Catania, Mazara e di
altre città isolane.
Un casale quale Racalmuto,
periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione
religiosa messa in atto da Ruggero.
Dubitiamo persino che ebbe notizia
di essere incluso nelle
pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata al vescovo
francese Gerlando. Nell'anno 1092,
dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte
normanna, giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando. I confini della diocesi sono stati
definiti da Ruggero
in persona. Il documento, in latino, può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella
conquistata Sicilia le sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui
soglio episcopale viene chiamato
GERLANDO. Assegno alla sua giurisdizione quanto rientra nei seguenti
confini: da dove sorge il fiume di Corleone fin su Pietra di
Zineth [Pietralonga]; indi sino ai confini di Iatina [Iato] e
Cefala [Cefaladiana] e quindi ai
limiti di Vicari; indi fino al fiume Salso,
che costituisce il discrimine tra
Palermo e Termine, e dalla foce di questo fiume là dove cade in
mare si estende questa diocesi
lungo il mare sino al fiume
Torto; e da qui, da
dove sorge, si estende verso Pira, sotto Petralia; quindi
sino al monte alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira;
poi verso il fiume Salso, nel punto in cui si congiunge con il fiume di
Petralia e da questo punto i confini
della diocesi seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade
(Licata). Questa località divide Agrigento
da Butera. Lungo la costa i confini
della diocesi corrono dal Licata
sino al fiume Belice, che costituisce i confini
con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia la delimitazione, che ad ogni modo esclude
Vicari, Corleone e Termini.»
Se
il lettore è stato paziente nel seguire lo zig zag dei confini avrà subito colto che Racalmuto,
quale centro al di qua
del Salso, venne in quella bolla
assegnato a GERLANDO, un vescovo santo
ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno,
venne descritto dalla pur tardiva
storiografia secondo il consunto stereotipo di uomo di
nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il
Picone la riecheggia con questi tratti
descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato
in Besansone, città della
Borgogna, di copiosa
dottrina fornito, eruditissimo
nelle chiesastiche discipline ed
eloquentissimo, trasse alla fede
gran numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti ci appaiono più circospetti. In base alle loro attente
letture dei vari 'privilegi' escludono
che Gerlando fosse il gran cappellano del conte
Ruggero, carica che fu di
GEROLDO, e quanto al resto si rifanno
alle postume storie del FAZELLO e
del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo
anche citato e che riguardano il
vescovo Gerlando, sono postumi
e secondo l'ultima
critica paleografica del COLLURA risalgono per lo meno alla seconda metà del
sec. XII. Quattro tra i primi sei più antichi documenti della Cattedrale di Agrigento accennano a
tale vescovo di nome Gregorio e sulla
sua esistenza storica non sembra lecito
nutrire dubbi.
Il
personaggio non è dunque
inventato e questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come
può arguirsi dal Libellus
custodito nello stesso Archivio Capitolare ove si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi
dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima,
carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli
noi laici è quella sua facondia trascinatrice di Ebrei e Musulmani.
Nell'agrigentino - ed a Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da secoli arabo
e solo arabo. Forse residuava un uso del greco nei
ceppi più tenaci. Questo vescovo borgognone
che chissà quale lingua parlava (pensiamo a quella natìa di
Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di
capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo,
per lui, incomprensibilmente. E le sue
prediche inventate dal Pirro, se davvero vi
furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia
salvifica del vescovo normanno in mezzo
ai saraceni dell'agrigentino un nucleo di
verità deve pur esservi: forse
GERLANDO ebbe qualche successo nello stabilire un certo
colloquio con i potentati locali di lingua araba.
In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti
che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo
Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre -
24 dicembre 1092) - una falsificazione in
forma originale, secondo il Collura
- accenna a nobilati
francesi già presenti in Agrigento, a
concanonici che officiano in una chiesa dedicata a S. Maria, a
parenti francesi da beneficiare con diciassette villani, due paia
di buoi ed un cavallo.
Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato
da un ROGERIUS che ci
avrebbe redento da 'demonicis ...
ritibus' da riti demoniaci (che pure era la grande religione
di Allah). Emerge il nome di un
francese: Pietro de Mortain (nell'originale,
invero, Petrus Maurituniacus). Vi
è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con una gamma greca nel bel mezzo della grafia latina.
Principalmente, a colpirci, è il
richiamo allo strumento giuridico
del PRIVILEGIUM che viene firmato
in presenza di testi e davanti ad un
vero e proprio notaio 'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene
riconosciuta 'probitas', probità, ed il suo consiglio viene giudicato
'justus'. Francesi, notai, prebende ecclesiastiche, canonici, vescovi probi ed assennati, ma anche
interessati alle cose terrene, tutto il mondo della burocrazia ecclesiastica
romana vi traspare, ed era passato
appena un quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si
è visto, villani, schiavi ed oggetto di
pii legati.
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