2°
Governo Moro (26.07.1964 - 21.01.1966)
Coalizione politica: DC- PSI - PSDI - PRI
Durata (giorni): 548
IV Legislatura
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3°
Governo Fanfani (26.07.1960 - 2.02.1962)
Coalizione politica: DC
Durata (giorni): 556
III Legislatura
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II Governo Leone (24
giugno 1968 - 19 novembre 1968)
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Le elezioni politiche
2 giugno 1946
18 aprile 1948 7 giugno 1953 25 maggio 1958 28 aprile 1963 19 maggio 1968 7 maggio 1972 20 giugno 1976 3 giugno 1979 27 giugno 1983 14 giugno1987 5 aprile 1992 27 marzo 1994 21 aprile 1996 13 maggio 2001 |
Un
irregolare in Sicilia
"Il
Manifesto": Emanuele Macaluso
La notizia della scomparsa di Danilo
Dolci mi ha fatto pensare all’articolo di Sandro Viola l’altro ieri su
Repubblica. L’associazione è dovuta all’invettiva, che si leggeva in
quell’articolo, rivolta non solo ai dirigenti del Pci, ma ha quegli
intellettuali che con quel partito in qualche modo avevano avuto a che fare,
rei di non avere avuto chiesto perdono agli italiani e al mondo per i
misfatti del comunismo.
Danilo Dolci era certamente uno di loro, tra l’altro ebbe anche il premio Lenin per la pace, ma non ha avuto il tempo per rimediare. Questo intellettuale triestino venne in Sicilia nel 1952, anni duri segnati da scontri sociali e politici durissimi. Dirigevo allora la Cgil siciliana e avevo partecipato a tanti funerali di compagni sindacalisti assassinati dalla mafia. Centinaia di contadini e dirigenti sindacali della sinistra erano stati ed erano ancora in carcere per avere occupato i feudi. Tra questi Pio La Torre, il quale non ha avuto, anche lui, tempo per chiedere perdono agli italiani come vorrebbe Viola. Dolci fondò una comunità a Trappeto, vicino a Partinico, tra Palermo e Trapani e aveva una visione gandhiana della lotta sociale e politica e la pratica del digiuno non fu subito capita dalle masse bracciantili affamate. Eppure le sue denuncie clamorose contro la mafia interessarono, per la prima volta forse, i gruppi di intellettuali che al nord erano rimasti spettatori indifferenti di fronte al fenomeno mafioso. I processi, 26, a Dolci dovuti alle denunce degli onorevoli Bernardo Mattarella, Calogero Volpe, del senatore di Partinico Ambasciatore Messere, (il quale aveva ereditato il collegio dal direttore del Giornale d’Italia Santi Savarino), ebbero una eco straordinaria e contribuirono anch’essi a costruire una coscienza anti-mafiosa. Dell’azione di Danilo Dolci voglio ricordare quattro momenti: il digiuno a Ballarò, uno dei vecchi quartieri degradati della città dove migliaia di persone vivevano nei catoi, lotta che incoraggiò le popolazioni già impegnate nella battaglia per il risanamento; la lotta per la costruzione della diga sul fiume Iato che determinò uno sconto duro con la mafia di quella zona la quale controllava le acque; il convegno e la marcia di Palma di Montechiaro (Agrigento), con l’attiva partecipazione di Carlo Levi e di altri intellettuali, in cui fu messa a nudo una realtà di drammatica di miseria, analfabetismo, degrado e prepotenza mafiosa. Infine vorrei ricordare che alla fine degli anni ‘60 Dolci mise in onda una "radio libera" clandestina che diede per la prima volta la parola ai terremotati del Belice e a tanti esclusi di cui oggi non si parla più. Anche per questo Danilo subì un altro processo. Come ho accennato il rapporto tra i partiti della sinistra, la Cgil e Dolci non furono facili, dato che l’intellettuale triestino con le sue iniziative usciva dagli schemi tradizionali della lotta sociale e politica. Era un "irregolare" paracadutato in una situazione che gli doveva essere estranea. E in parte lo fu. Ma la sua "irregolarità" e la sua "estraneità" provocò rotture e ripensamenti politici e culturali e costituì un grande stimolo per tutti noi siciliani. Il cardinale Ernesto Ruffini negli anni ‘60 in una sua omelia pasquale si espresse con queste parole che vanno oggi ricordate: "La mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci sono le cause che maggiormente hanno contribuito a disonorare la Sicilia". Il riferimento alla mafia era dovuto al fatto che essa produceva l’antimafia come fattore diffamante dell’isola. Da allora molta strada è stata fatta, anche grazie all’opera di Danilo Dolci. E sarebbe bene che l’attuale cardinale di Palermo lo ricordasse anche in chiesa senza chieder perdono a nessuno. |
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NOTIZIARIO
del 27 luglio 2003
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INTERVISTA ALL’EX SENATORE SICILIANO
Macaluso: «Andreotti? E’ una sentenza tipicamente italiana» Nelle motivazioni dell’appello i giudici dicono «cose gravissime prestando attenzione nello stesso tempo ad attenuarle» di Francesco La Licata
NON ho ancora
letto il documento, ma da quanto è stato scritto dai giornali mi sembra di
poter dire che le motivazioni dei giudici d’Appello del processo contro
Giulio Andreotti insistono sul solco delle sentenze, diciamo, compromissorie
e tipicamente italiane: salvare e, nello stesso tempo, condannare tutto».
Emanuele Macaluso,
siciliano, lunga esperienza al Senato (pci) e antica militanza nel tormentato
territorio di Sicilia (due volte segretario regionale comunista), oggi
direttore della rivista «Le ragioni del socialismo», non tradisce la fama di
acuto provocatore e gran fustigatore del luogo comune e della banalità.
Di fronte
all’effluvio di analisi e giudizi sui primi particolari contenuti nella vasta
motivazione della Corte d’Appello di Palermo, mantiene l’atteggiamento
dubbioso - si direbbe «sciasciano» - che riserva ad ogni presunta verità
codificata e insiste: «Ho visto nelle parole dei giudici l’antico vezzo di
voler dire alcune cose, gravissime, prestando attenzione, nello stesso tempo,
ad attenuarle. E così il reato prescritto viene dato per accertato, a mio parere
non senza qualche forzatura (ma su questo aspetto non mi sbilancio perché non
conosco le carte), il reato che avrebbe comportato una condanna rimane
indimostrato».
Anche questa
sentenza discutibile, dunque? «Come tutte le sentenze che affrontano
argomenti che faticano a restare nell’ambito della semplice investigazione
giudiziaria. E tuttavia devo ammettere che i giudici palermitani sembrano
aver colto l’importanza di un nodo politico, a mio parere essenziale, della
vicenda che riguarda Giulio Andreotti. Alludo al discrimine dell’inizio degli
Anni Ottanta, quando si verificò un mutamento epocale, un cambiamento che
investiva il potere nel suo complesso, mafia compresa, e si manifestava con
la scelta cruenta di Cosa nostra che cercava di contrapporsi ad uno Stato,
agli apparati di sicurezza anch’essi profondamente mutati in meglio».
Sembra credibile,
perciò, la scissione operata dai magistrati sui periodo ante e post 1980. «L’anno terribile
fu il 1979. La strategia aggressiva della mafia si manifestò con l’assassinio
del vicequestore Boris Giuliano, preceduto dall’agguato a Cesare Terranova.
Era la campagna di Cosa nostra contro gli apparati che cambiavano
atteggiamento, passando dall’indifferenza alla reazione. Una campagna che
culminerà negli omicidi del procuratore Gaetano Costa e del presidente della
Regione Piersanti Mattarella. Un vero salto di qualità che aggrediva persino
quel potere politico che aveva scelto di convivere con la mafia. Possiamo
dire che in quel momento Cosa nostra viene attraversata dalla consapevolezza
di aver trovato tanta legittimazione - specialmente a livello sociale - da
poter interagire direttamente con quel blocco di potere di cui faceva parte a
tutti gli effetti».
La sentenza, in
questo senso, è l’esatta fotografia di quel particolare momento storico che,
almeno fino al 1980, verrà catalogato come la stagione del quieto vivere? «Ironia, la
definizione appartiene allo stesso Andreotti. E’ lui che ha ammesso una sorta
di responsabilità collettiva di fronte alla mafia, giustificandola con
l’esistenza di altre emergenze, per esempio il terrorismo. Ma bisogna stare
attenti. Il quieto vivere non lo inventò Andreotti, il quieto vivere esisteva
da prima. Andreotti sbarca in Sicilia nel 1968 e non v’è dubbio che da almeno
vent’anni ci si era adagiati sul quieto vivere».
Ma cos’era,
senatore, quella stagione? «La deliberata creazione di un blocco di
potere, giustificato dalle ragioni della lotta al comunismo. Ciò avviene nel
1948, all’indomani della vittoria della democrazia cristiana. Esistono
persino testimonianze precise di tali elaborazioni politiche. Ricordo un
articolo di Dossetti che radiografava, paese per paese della Sicilia, il
passaggio di gruppi mafiosi all’interno della dc e ricordo anche come
Bernardo Mattarella teorizzasse, per esempio in un’analisi pubblicata sulla
“Sicilia del Popolo”, che il mutamento del potere era tale che questi gruppi
non potevano non trovare accoglienza nella dc».
Un racconto
inquietante, il suo.
«L’anticomunismo era il collante che unificava il blocco sociale e politico:
al Nord appoggiato alle classi produttive e agli industriali, al Sud sorretto
dalla mafia».
Un abbraccio nato
quando?
«Nato con l’Unità d’Italia quando si teorizzò che il Sud sarebbe stato
ingovernabile senza una sorta di accordo con la mafia. Un legame evidente
nella storia di Salvatore Giuliano e nell’utopia separatista. Ma davvero
crediamo che sia possibile liberarsi di una forza criminale tanto forte da
esser chiamata a funzioni statuali?».
Allude alla
trattativa per sconfiggere Giuliano e il banditismo? «La mafia venne
in soccorso delle deboli istituzioni dell’epoca e in cambio le venne
riconosciuta legittimità. Nel ‘52 un prefetto come Angelo Vicari - che non
era dei peggiori tanto che poi, da capo della polizia, ingaggerà un duro
scontro con Vito Ciancimino e il gruppo di mafia corleonese - ospitava nel
suo gabinetto le riunioni per la compilazioni delle liste elettorali. Ebbene:
insieme con le segretrie dei partiti c’erano esponenti della mafia, della
mafia più potente cioè quella di Monreale, di Partinico, di Bagheria. Tutto
ciò è stato scritto e mai smentito. Quelli erano tempi in cui si ammazzavano
i sindacalisti senza che nessuno venisse mai condannato e Scelba, nelle sue
memorie, scriveva che era difficile sconfiggere Giuliano perchè era protetto
dalla Curia di Monreale».
Certo, senza
dimenticare altre gravi sottovalutazioni del fenomeno: il cardinal Ruffini
che definisce la mafia «invenzione dei comunisti», la pantomima delle
Commissioni parlamentari. «Stiamo attenti, però. Andreotti - ripeto
- trova tutto ciò, non lo crea. I magistrati si appellano al giudizio della
Storia e allora bisogna dire che prima di lui altri avevano contribuito ad
accrescere l’impunità per la mafia. Fanfani in Sicilia poteva “vantare”
l’allenza con Gioia, Lima e Ciancimino e quando faceva i comizi, sollevato da
una pila di giornali sotto i piedi perché non arrivava al microfono, non gli
ho mai sentito pronunciare una sola parola contro la mafia. Moro aveva un
ottimo rapporto con Bernardo Mattarella e Calogero Volpe era medico personale
di Segni presidente della Repubblica. Quando Lima rompe con Gioia e va con
Andreotti è il 1968, sono passati vent’anni di quieto vivere e l’esattore
Nino Salvo, tanto per citare uno dei personaggi più compromessi, è considerato
un ottimo borghese di Salemi che va in giro con il distintivo dello
scudocrociato all’occhiello. Ancora oggi continuo a meravigliarmi del perché
Andreotti si ostini a dire di non averlo mai conosciuto. Per non parlare di
Stefano Bontade o di Michele Greco, visti come benestanti di ottime
tradizioni, ambiti nei migliori salotti, nei circoli borghesi. E non
dimentichiamo qual era lo stato degli apparati repressivi, basti pensare
all’immobilismo delle Procure della Repubblica dell’epoca che intervenivano
soltanto in seguito a qualche fatto cruento. Intervenivano per chiedere leggi
speciali subito vanificate, ammesso che venissero mai varate, da un’ondata di
normalizzazione invocata per il buon nome dei siciliani. La storia bisogna
raccontarla tutta».
Questo per dire
che Andreotti non ha responsabilità? «Al contrario. Non ho mai risparmiato
critiche ad Andreotti. Rimango convinto che la sua colpa più grande sia stata
quella di sfruttare con cinismo la mediazione di Salvo Lima, fingendo di non
sapere quali fossero le frequentazioni del suo uomo nella Sicilia occidentale
e chiudendo gli occhi davanti ai sistemi con cui si portava avanti la lotta
politica. Non si tratta di peccati veniali. Io non so se siano veri, come
sembrano credere i giudici d’Appello, i racconti dei pentiti sugli incontri
coi capimafia. Ad intuito mi sembra cervellotico il viaggio di Andreotti che
atterra all’aeroporto di Birgi, va a Palermo da Bontade, a Catania... Non
insisto, però, per carenza di informazioni. Ma le sue responsabilità morali e
politiche sono pesanti, perché anche a causa della sua omertà istituzionale
sono morti molti servitori dello Stato».
da La Stampa
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