martedì 23 febbraio 2016


2° Governo Moro (26.07.1964 - 21.01.1966)


Coalizione politica: DC- PSI - PSDI - PRI
Durata (giorni): 548
IV Legislatura

Presidenza del Consiglio
Aldo Moro
  sottosegretari:
Angelo Salizzoni (segretario del consiglio dei ministri)
Ministri senza portafoglio
Petro Nenni (vicepresidente del consiglio);
Attilio Piccioni;
Giulio Pastore (presidente del comitato dei ministri per il Mezzogiorno e le zone depresse);
Luigi Preti (riforma della pubblica amministrazione);
Giovanni Battista Scaglia (rapporti fra governo e Parlamento)
Claudio Arnaudi (ricerca scientifica)
Affari esteri
Giuseppe Saragat (fino al 29.12.1964);
Aldo Moro (ad interim dal 28.12.1964 al 05.03.1965);
Amintore Fanfani (dal 05.03 al 30.03.1965);
Aldo Moro (ad interim dal 30.12.1965 al 22.01.1966);
  sottosegretari:
Giuseppe Lupis;
Ferdinando Storchi
Interno
Paolo Emilio Taviani
  sottosegretari:
Leonetto Amadei;
Guido Ceccherini;
Crescenzio Mazza
Grazia e giustizia
Oronzo Reale
  sottosegretari:
Riccardo Misasi
Bilancio
Giovanni Pieraccini
  sottosegretari:
Giuseppe Caron
Finanze
Roberto Tremelloni
  sottosegretari:
Cesare Bensi;
Athos Valsecchi;
Mario Vetrone
Tesoro
Emilio Colombo
  sottosegretari:
Francesco Albertini;
Giuseppe Belotti;
Renato Cappugi;
Eugenio Gatto
Difesa
Giulio Andreotti
  sottosegretari:
Luigi Angrisani;
Mario Marino Guadalupi;
Guglielmo Pelizzo;
Pubblica istruzione
Luigi Gui
  sottosegretari:
Maria Badaloni;
Piero Caleffi;
Domenico Magrì
Lavori pubblici
Giacomo Mancini
  sottosegretari:
Danilo De Cocci;
Pier Luigi Romita
Agricoltura e foreste
Mario Ferrari Aggradi
  sottosegretari:
Dario Antoniozzi;
Ludovico Camagni;
Venerio Cattani
Trasporti e aviazione civile
Angelo Raffaele Jervolino
  sottosegretari:
Orlando Lucchi;
Salvatore Mannironi
Poste e telecomunicazioni
Carlo Russo
  sottosegretari:
Remo Gaspari
Industria, commercio e artigianato
Giuseppe Medici (fino al 05.03.1965);
Edgardo LAmi Starnuti (dal 05.03.1965)
  sottosegretari:
Maria Vittoria Mezza;
Giorgio Oliva;
Vincenzo Scarlato
Lavoro e previdenza sociale
Umberto Delle Fave
  sottosegretari:
Ettore Calvi;
Giorgio Fenoaltea;
Anselmo Martoni
Commercio con l'estero
Bernardo Mattarella
  sottosegretari:
Girolamo Messeri (fino al 16.12.1964);
Emilio Battista (dal 15.03.1964)
Marina mercantile
Giovanni Spagnolli
  sottosegretari:
Stefano Riccio
Partecipazioni statali
Giorgio Bo
  sottosegretari:
Carlo Donat-Cattin
Sanità
Luigi Mariotti
  sottosegretari:
Calogero Volpe
Turismo e spettacolo
Achille Corona
  sottosegretari:
Emilio Battista (fino al 15.03.1964);
Pietro Micara


 


3° Governo Fanfani (26.07.1960 - 2.02.1962)


Coalizione politica: DC
Durata (giorni): 556
III Legislatura

Presidenza del Consiglio
Amintore Fanfani
Vicepresidente del Consiglio
Attilio Piccioni
  sottosegretari:
Umberto Delle Fave (segretario del consiglio dei ministri);
Renato Tozzi Condivi (riforma della pubblica amministrazione);
Giovanni Giraudo (informazioni)
Ministri senza portafoglio
Giulio Pastore (presidente del comitato dei ministri per il Mezzogiorno e le zone depresse);
Giuseppe Codaci (rapporti fra governo e Parlamento);
Tiziano Tessitori (riforma della pubblica amministrazione)
Affari esteri
Antonio Segni
  sottosegretari:
Carlo Russo;
Ferdinando Storchi
Interno
Mario Scelba
  sottosegretari:
Guido Bisori
Grazia e giustizia
Guido Gonella
  sottosegretari:
Francesco Maria Dominedò
Bilancio
Giuseppe Pella
  sottosegretari:
Giuseppe Cerulli Irelli;
Enrico Rosselli
Finanze
Giuseppe Trabucchi
  sottosegretari:
Antonio Pecoraro;
Michele Troisi (deceduto il 16.10.1961);
Filippo Micheli (dal 22.11.1961)
Tesoro
Paolo Emiluio Taviani
  sottosegretari:
Alfonso De Giovine;
Lorenzo Natali;
Dino Pernnazzato
Difesa
Giulio Andreotti
  sottosegretari:
Vittorio Pugliese;
Giovanni Bovetti;
Italo Giulio Caiati
Pubblica istruzione
Giacinto Bosco
  sottosegretari:
Maria Badaloni;
Giovanni Elkan
Lavori pubblici
Benigno Zaccagnini
  sottosegretari:
Domenico Magrì;
Tommaso Spasari
Agricoltura e foreste
Mariano Rumor
  sottosegretari:
Giuseppe Salari;
Giacomo Sedati
Trasporti
Giuseppe Spataro
  sottosegretari:
Cesare Angelini;
Calogero Volpe
Poste e telecomunicazioni
Lorenzo Spallino
  sottosegretari:
Dario Antoniozzi;
Remo Gaspari
Industria, commercio e artigianato
Emilio Colombo
  sottosegretari:
Nullo Biaggi;
Filippo Micheli
Lavoro e previdenza sociale
Fiorentino Sullo
  sottosegretari:
Ettore Calvi;
Cristoforo Pezzini
Commercio con l'estero
Mario Martinelli
  sottosegretari:
Tarcisio Longoni
Marina mercantile
Angelo Raffaele Jervolino
  sottosegretari:
Salvatore Mannironi
Partecipazioni statali
Giorgio Bo
  sottosegretari:
Eugenio Gatto
Sanità
Camillo Giardina
  sottosegretari:
Crescenzo Mazza
Turismo e spettacolo
Alberto Folchi
  sottosegretari:
Renzo Helfer;
Gabriele Semeraro


 


 
II Governo Leone   (24 giugno 1968 - 19 novembre 1968)

 
V  Legislatura
Coalizione politica: DC
Durata (giorni) 148
Giorni di crisi 23

 
Presidente del Consiglio

 
Giovanni Leone

Luigi Michele Galli (segretario del consiglio dei ministri)
Albertino Castellucci
Mario Pedini
Athos Valsecchi


Ministri senza portafoglio
Italo Giulio Caiati (interventi straordinari nel Mezzogiorno e le zone depresse del centro-nord)
Crescenzo Mazza (rapporti con il Parlamento)
Tiziano Tessitori (riforma della pubblica amministrazione)


Affari esteri
 
Giuseppe Medici

sottosegretari:
Franco Maria Malfatti
Giorgio Oliva


Interno
 
Franco Restivo

sottosegretari:
Remo Gaspari
Angelo Salizzoni


Bilancio  e programmazione economica
Emilio Colombo ad interim

sottosegretario:
Giuseppe Caron


Finanze
 
Mario Ferrari Aggradi

sottosegretari:
Giovanni Gioia;
Vincenzo Russo
Tommaso Spasari


Tesoro
 
Emilio Colombo

sottosegretari:
Ermenegildo Giuseppe Bertola
Bonaventura Picardi
Natale Santero


Grazia e giustizia
 
Guido Gonnella

sottosegretario:
Giuseppe Vedovato (fino al 06.07.1968)
Renato Dell'Andro (dal 13.09.1968)


Difesa
 
Roberto Tremelloni

sottosegretari:
Francesco Cossiga
Guglielmo Donati
Guglielmo Pelizzo


Pubblica istruzione
 
Giovanni Battista Scaglia

sottosegretari:
Maria Badaloni
Vincenzo Bellisario
Giovanni Elkan


Lavori pubblici
 
Lorenzo Natali

sottosegretari:
Danilo De Cocci
Luigi Giglia
Stefano Riccio


Agricoltura e foreste
 
Giacomo Sedati

sottosegretari:
Dario Antoniozzi
Arnaldo Colleselli
Vincenzo Indelli


Trasporti  e aviazione civile
 
Oscar Luigi Scalfaro

sottosegretari:
Arcangelo Florena
Giacinto Genco


Poste e telecomunicazioni
 
Angelo De Luca

sottosegretari:
Loris Biagioni
Bernardo D'Arezzo


Industria,  commercio e artigianato
 
Giulio Andreotti

sottosegretari:
Paolo Barbi
Emanuela Savio
Sebastiano Vincelli


Lavoro e previdenza sociale
 
Giacinto Bosco

sottosegretari:
Alessandro Canestrari
Vito Lattanzio
Francesco Turnaturi


Commercio con l'estero
 
Carlo Russo

sottosegretari:
Dante Graziosi
Mario Vetrone


Marina mercantile
 
Giovanni Spagnolli

sottosegretario:
Mariano Pintus


Partecipazioni statali
 
Giorgio Bo

sottosegretario:
Carlo Donat-Cattin


Sanita' 
 
Emilio Zelioli Lanzini

sottosegretari:
Maria Cocco
Calogero Volpe


Turismo e spettacolo
 
Domenico Macrì

sottosegretari:
Leandro Rampa
Adolfo Sarti


 
 
 
Le elezioni politiche
 

Un irregolare in Sicilia

"Il Manifesto": Emanuele Macaluso



La notizia della scomparsa di Danilo Dolci mi ha fatto pensare all’articolo di Sandro Viola l’altro ieri su Repubblica. L’associazione è dovuta all’invettiva, che si leggeva in quell’articolo, rivolta non solo ai dirigenti del Pci, ma ha quegli intellettuali che con quel partito in qualche modo avevano avuto a che fare, rei di non avere avuto chiesto perdono agli italiani e al mondo per i misfatti del comunismo.
Danilo Dolci era certamente uno di loro, tra l’altro ebbe anche il premio Lenin per la pace, ma non ha avuto il tempo per rimediare. Questo intellettuale triestino venne in Sicilia nel 1952, anni duri segnati da scontri sociali e politici durissimi. Dirigevo allora la Cgil siciliana e avevo partecipato a tanti funerali di compagni sindacalisti assassinati dalla mafia. Centinaia di contadini e dirigenti sindacali della sinistra erano stati ed erano ancora in carcere per avere occupato i feudi. Tra questi Pio La Torre, il quale non ha avuto, anche lui, tempo per chiedere perdono agli italiani come vorrebbe Viola.
Dolci fondò una comunità a Trappeto, vicino a Partinico, tra Palermo e Trapani e aveva una visione gandhiana della lotta sociale e politica e la pratica del digiuno non fu subito capita dalle masse bracciantili affamate. Eppure le sue denuncie clamorose contro la mafia interessarono, per la prima volta forse, i gruppi di intellettuali che al nord erano rimasti spettatori indifferenti di fronte al fenomeno mafioso. I processi, 26, a Dolci dovuti alle denunce degli onorevoli Bernardo Mattarella, Calogero Volpe, del senatore di Partinico Ambasciatore Messere, (il quale aveva ereditato il collegio dal direttore del Giornale d’Italia Santi Savarino), ebbero una eco straordinaria e contribuirono anch’essi a costruire una coscienza anti-mafiosa. Dell’azione di Danilo Dolci voglio ricordare quattro momenti: il digiuno a Ballarò, uno dei vecchi quartieri degradati della città dove migliaia di persone vivevano nei catoi, lotta che incoraggiò le popolazioni già impegnate nella battaglia per il risanamento; la lotta per la costruzione della diga sul fiume Iato che determinò uno sconto duro con la mafia di quella zona la quale controllava le acque; il convegno e la marcia di Palma di Montechiaro (Agrigento), con l’attiva partecipazione di Carlo Levi e di altri intellettuali, in cui fu messa a nudo una realtà di drammatica di miseria, analfabetismo, degrado e prepotenza mafiosa. Infine vorrei ricordare che alla fine degli anni ‘60 Dolci mise in onda una "radio libera" clandestina che diede per la prima volta la parola ai terremotati del Belice e a tanti esclusi di cui oggi non si parla più. Anche per questo Danilo subì un altro processo.
Come ho accennato il rapporto tra i partiti della sinistra, la Cgil e Dolci non furono facili, dato che l’intellettuale triestino con le sue iniziative usciva dagli schemi tradizionali della lotta sociale e politica. Era un "irregolare" paracadutato in una situazione che gli doveva essere estranea. E in parte lo fu. Ma la sua "irregolarità" e la sua "estraneità" provocò rotture e ripensamenti politici e culturali e costituì un grande stimolo per tutti noi siciliani. Il cardinale Ernesto Ruffini negli anni ‘60 in una sua omelia pasquale si espresse con queste parole che vanno oggi ricordate: "La mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci sono le cause che maggiormente hanno contribuito a disonorare la Sicilia". Il riferimento alla mafia era dovuto al fatto che essa produceva l’antimafia come fattore diffamante dell’isola. Da allora molta strada è stata fatta, anche grazie all’opera di Danilo Dolci. E sarebbe bene che l’attuale cardinale di Palermo lo ricordasse anche in chiesa senza chieder perdono a nessuno.

 






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NOTIZIARIO del 27 luglio 2003
 
 
 
 
 
 
INTERVISTA ALL’EX SENATORE SICILIANO
Macaluso: «Andreotti? E’ una sentenza tipicamente italiana»

Nelle motivazioni dell’appello i giudici dicono «cose gravissime prestando attenzione nello stesso tempo ad attenuarle»
di Francesco La Licata
NON ho ancora letto il documento, ma da quanto è stato scritto dai giornali mi sembra di poter dire che le motivazioni dei giudici d’Appello del processo contro Giulio Andreotti insistono sul solco delle sentenze, diciamo, compromissorie e tipicamente italiane: salvare e, nello stesso tempo, condannare tutto».
Emanuele Macaluso, siciliano, lunga esperienza al Senato (pci) e antica militanza nel tormentato territorio di Sicilia (due volte segretario regionale comunista), oggi direttore della rivista «Le ragioni del socialismo», non tradisce la fama di acuto provocatore e gran fustigatore del luogo comune e della banalità.
Di fronte all’effluvio di analisi e giudizi sui primi particolari contenuti nella vasta motivazione della Corte d’Appello di Palermo, mantiene l’atteggiamento dubbioso - si direbbe «sciasciano» - che riserva ad ogni presunta verità codificata e insiste: «Ho visto nelle parole dei giudici l’antico vezzo di voler dire alcune cose, gravissime, prestando attenzione, nello stesso tempo, ad attenuarle. E così il reato prescritto viene dato per accertato, a mio parere non senza qualche forzatura (ma su questo aspetto non mi sbilancio perché non conosco le carte), il reato che avrebbe comportato una condanna rimane indimostrato».
Anche questa sentenza discutibile, dunque? «Come tutte le sentenze che affrontano argomenti che faticano a restare nell’ambito della semplice investigazione giudiziaria. E tuttavia devo ammettere che i giudici palermitani sembrano aver colto l’importanza di un nodo politico, a mio parere essenziale, della vicenda che riguarda Giulio Andreotti. Alludo al discrimine dell’inizio degli Anni Ottanta, quando si verificò un mutamento epocale, un cambiamento che investiva il potere nel suo complesso, mafia compresa, e si manifestava con la scelta cruenta di Cosa nostra che cercava di contrapporsi ad uno Stato, agli apparati di sicurezza anch’essi profondamente mutati in meglio».
Sembra credibile, perciò, la scissione operata dai magistrati sui periodo ante e post 1980. «L’anno terribile fu il 1979. La strategia aggressiva della mafia si manifestò con l’assassinio del vicequestore Boris Giuliano, preceduto dall’agguato a Cesare Terranova. Era la campagna di Cosa nostra contro gli apparati che cambiavano atteggiamento, passando dall’indifferenza alla reazione. Una campagna che culminerà negli omicidi del procuratore Gaetano Costa e del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Un vero salto di qualità che aggrediva persino quel potere politico che aveva scelto di convivere con la mafia. Possiamo dire che in quel momento Cosa nostra viene attraversata dalla consapevolezza di aver trovato tanta legittimazione - specialmente a livello sociale - da poter interagire direttamente con quel blocco di potere di cui faceva parte a tutti gli effetti».
La sentenza, in questo senso, è l’esatta fotografia di quel particolare momento storico che, almeno fino al 1980, verrà catalogato come la stagione del quieto vivere? «Ironia, la definizione appartiene allo stesso Andreotti. E’ lui che ha ammesso una sorta di responsabilità collettiva di fronte alla mafia, giustificandola con l’esistenza di altre emergenze, per esempio il terrorismo. Ma bisogna stare attenti. Il quieto vivere non lo inventò Andreotti, il quieto vivere esisteva da prima. Andreotti sbarca in Sicilia nel 1968 e non v’è dubbio che da almeno vent’anni ci si era adagiati sul quieto vivere».
Ma cos’era, senatore, quella stagione? «La deliberata creazione di un blocco di potere, giustificato dalle ragioni della lotta al comunismo. Ciò avviene nel 1948, all’indomani della vittoria della democrazia cristiana. Esistono persino testimonianze precise di tali elaborazioni politiche. Ricordo un articolo di Dossetti che radiografava, paese per paese della Sicilia, il passaggio di gruppi mafiosi all’interno della dc e ricordo anche come Bernardo Mattarella teorizzasse, per esempio in un’analisi pubblicata sulla “Sicilia del Popolo”, che il mutamento del potere era tale che questi gruppi non potevano non trovare accoglienza nella dc».
Un racconto inquietante, il suo. «L’anticomunismo era il collante che unificava il blocco sociale e politico: al Nord appoggiato alle classi produttive e agli industriali, al Sud sorretto dalla mafia».
Un abbraccio nato quando? «Nato con l’Unità d’Italia quando si teorizzò che il Sud sarebbe stato ingovernabile senza una sorta di accordo con la mafia. Un legame evidente nella storia di Salvatore Giuliano e nell’utopia separatista. Ma davvero crediamo che sia possibile liberarsi di una forza criminale tanto forte da esser chiamata a funzioni statuali?».
Allude alla trattativa per sconfiggere Giuliano e il banditismo? «La mafia venne in soccorso delle deboli istituzioni dell’epoca e in cambio le venne riconosciuta legittimità. Nel ‘52 un prefetto come Angelo Vicari - che non era dei peggiori tanto che poi, da capo della polizia, ingaggerà un duro scontro con Vito Ciancimino e il gruppo di mafia corleonese - ospitava nel suo gabinetto le riunioni per la compilazioni delle liste elettorali. Ebbene: insieme con le segretrie dei partiti c’erano esponenti della mafia, della mafia più potente cioè quella di Monreale, di Partinico, di Bagheria. Tutto ciò è stato scritto e mai smentito. Quelli erano tempi in cui si ammazzavano i sindacalisti senza che nessuno venisse mai condannato e Scelba, nelle sue memorie, scriveva che era difficile sconfiggere Giuliano perchè era protetto dalla Curia di Monreale».
Certo, senza dimenticare altre gravi sottovalutazioni del fenomeno: il cardinal Ruffini che definisce la mafia «invenzione dei comunisti», la pantomima delle Commissioni parlamentari. «Stiamo attenti, però. Andreotti - ripeto - trova tutto ciò, non lo crea. I magistrati si appellano al giudizio della Storia e allora bisogna dire che prima di lui altri avevano contribuito ad accrescere l’impunità per la mafia. Fanfani in Sicilia poteva “vantare” l’allenza con Gioia, Lima e Ciancimino e quando faceva i comizi, sollevato da una pila di giornali sotto i piedi perché non arrivava al microfono, non gli ho mai sentito pronunciare una sola parola contro la mafia. Moro aveva un ottimo rapporto con Bernardo Mattarella e Calogero Volpe era medico personale di Segni presidente della Repubblica. Quando Lima rompe con Gioia e va con Andreotti è il 1968, sono passati vent’anni di quieto vivere e l’esattore Nino Salvo, tanto per citare uno dei personaggi più compromessi, è considerato un ottimo borghese di Salemi che va in giro con il distintivo dello scudocrociato all’occhiello. Ancora oggi continuo a meravigliarmi del perché Andreotti si ostini a dire di non averlo mai conosciuto. Per non parlare di Stefano Bontade o di Michele Greco, visti come benestanti di ottime tradizioni, ambiti nei migliori salotti, nei circoli borghesi. E non dimentichiamo qual era lo stato degli apparati repressivi, basti pensare all’immobilismo delle Procure della Repubblica dell’epoca che intervenivano soltanto in seguito a qualche fatto cruento. Intervenivano per chiedere leggi speciali subito vanificate, ammesso che venissero mai varate, da un’ondata di normalizzazione invocata per il buon nome dei siciliani. La storia bisogna raccontarla tutta».
Questo per dire che Andreotti non ha responsabilità? «Al contrario. Non ho mai risparmiato critiche ad Andreotti. Rimango convinto che la sua colpa più grande sia stata quella di sfruttare con cinismo la mediazione di Salvo Lima, fingendo di non sapere quali fossero le frequentazioni del suo uomo nella Sicilia occidentale e chiudendo gli occhi davanti ai sistemi con cui si portava avanti la lotta politica. Non si tratta di peccati veniali. Io non so se siano veri, come sembrano credere i giudici d’Appello, i racconti dei pentiti sugli incontri coi capimafia. Ad intuito mi sembra cervellotico il viaggio di Andreotti che atterra all’aeroporto di Birgi, va a Palermo da Bontade, a Catania... Non insisto, però, per carenza di informazioni. Ma le sue responsabilità morali e politiche sono pesanti, perché anche a causa della sua omertà istituzionale sono morti molti servitori dello Stato».
da La Stampa
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