Calogero
Taverna
* * *
“STORIA RELIGIOSA DI RACALMUTO”
Studi e ricerche
* * *
_________________
PRIMA DELLA STORIA
Racalmuto
si affaccia sulla ribalta della storia - quella almeno documentata - molto
tardi: bisogna attendere il 1271 per imbattersi in un diploma angioino ove il
casale della diocesi di Agrigento è segnato in termini tali da non lasciare
troppi dubbi sulla esistenza del paese. Prima, affiorano solo cenni o spunti
che soltanto in via congetturale possono portare a questo centro dall’incerto
nome arabo di Racalmuto.
Il
toponimo “Racel ...”, ad evidenza corrotto ed incompleto, che trovasi nelle
cronache del Malaterra, è da riferire secondo alcuni a questo entro dell’agrigentino: di conseguenza esso
sarebbe uno dei dodici borghi arabi soggiogati, violati e ricristianizzati dai
lancieri di Ruggero il Normanno, nell’aggiramento per la conquista della
Ghirgent di Kamuth. E Racalmuto nient’altro sarebbe che “Racal-Kamut”, Borgo o
Fortezza di Kamuth - come del resto lascia trapelare la grafia del toponimo nel
diploma del XIII secolo che si custodiva a Napoli, negli archivi angioini.
Altri
si ostina a collegare una delle località descritte dal geografo Edrisi, Gardutah, con Racalmuto (come se si
trattasse di una corrotta trascrizione del fonema dialettale “Racarmutu”).
Altri come Eugenio Messana, invece, reputa che il toponimo Al Minshar sempre
dell’Edrisi non sia nient’altro che il Castelluccio.
Non manca certo l’erudizione, ma ci troviamo di fronte solo a
vaghe congetture.
Noi, invece, restiamo presi da quanto afferma un archeologo
del valore di Biagio Pace che, forse un po’ troppo avvalorando il nostro
Tinebra Martorana, propende per la tesi secondo la quale le Grotticelle, sotto
la contrada del Giudeo, sarebbero state adattate, nei tempi bizantini prossimi
al papa Gregorio Magno, ad ipogeo cristiano.
E sulle ali dell’entusiasmo archeologico, avremmo voglia di
ritenere che quella crocetta che è marcata in una Tegula Sulphuris, di cui
parla qualche archeologo, stia ad indicare una presenza cristiana a Racalmuto
addirittura sotto l’imperatore Commodo. Quelle Tegule - così
approssimativamente denominate dal Mommsen - venivano fabbricate e vendute nel
quartiere ellenico di Agrigento, ma il loro uso riguardava di sicuro le miniere
di zolfo di Racalmuto - quelle della zona di Quattro Finaiti e dintorni.
Secondo studi attendibili, questo avvenne sotto l’imperatore Commodo. Forse un
liberto cristiano fu inviato nelle officine zolfifere imperiali della nostra
terra e nelle sue Tegulae - le antenate delle moderne ‘gavite’ - fece incidere
il segno della sua fede: la piccola croce che non è sfuggita agli archeologi
della nostra epoca. Se è così, la presenza cristiana a Racalmuto è
antichissima, quasi una predestinazione, un pionierismo i cui meriti si sono
protratti nei millenni. Racalmuto è stata una chiesa salda nella fede: giammai
vi ha attecchito la mala pianta dell’eresia: qualche presenza massone alla fine
dell’Ottocento ha rappresentato semplicemente lo snobismo di qualche ex
seminarista alla ricerca di intime rivincite o di moti liberatori da
psicoanalitici complessi. Diversamente che da Grotte, qui da noi mai si sono
avuti fomiti scismatici e giammai si sono espanse sette eretiche. La vicenda
emblematica di Fra’ Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del
pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie
affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente
rigonfiate. Un Fra’ Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata
e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, che un
chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto
pasquale. Lo attesta la più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi
Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi.
LE PROBABILI
ORIGINI BENEDETTINE DI RACALMUTO
Non
v’è dubbio sull’origine araba dell’attuale Racalmuto: il suo nome lo attesta
inconfutabilmente, anche se non significa sicuramente Paese Morto o Distrutto o
simili assonanze funeree. I modernissimi arabisti (Giovan Battista Pellegrini,
in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici italiani - UTET 1990)
sconfessano la vecchia lugubre etimologia ma si avventurano in una infondata
interpretazione: Racalmuto - dicono - “deriva
dall’arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) ‘sosta,
casale’ del Mudd <latino modium ‘Moggio’ “. “Paisi di lu Munnieddu”,
dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la
configurazione. L’immagine potrebbe valere per il vicino Monte Formaggio di
Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a
Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Nell’antico diploma, quello angioino che
abbiamo citato all’inizio, la grafia - per noi molto eloquente - è quella di rachalchamut.
Uscendo
dalle secche della toponomastica, sappiamo di sicuro che per un paio di secoli
a Racalmuto ebbero il sopravvento i musulmani. Questi introdussero sistemi di
coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi
autori riportati dall’Amari descrivono la
coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli
orti sotto l’attuale Fontana. (Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino
1880 - pag. 305-306: dal Kitab ‘al Falah
(Libro dell’Agricoltura di Ibn ‘al Awwam). I secoli dal Nono all’Undicesimo
sono sicuramente secoli arabi per Racalmuto. Ma ebbe davvero a sparire il
cristianesimo radicato nelle ‘massae’ attorno all’asse Casal Vecchio-Montagna
dell’epoca bizantina? Pensiamo di no. Vi fu convivenza tra le due religioni e i
due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono
neppure di segno contrario. Forse le tante lucerne funerarie ed i resti
archeologici rinvenuti nelle zone del Giudeo potrebbero risalire a quei secoli
arabi, e sembrano testimonianze cristiane.
Propendiamo
a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo
della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone
alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono
nelle valli, vicino alle fonti d’acqua della Fontana, del Raffo ed anche di
Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d’ortaggi,
in cui erano maestri e che i Rum (i Cristiani) ignoravano. Dai Rum, l’emiro di
Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il
culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Un
documento greco del 1178, se per avventura si dovesse veramente riferire a
Racalmuto come autorevolmente sostiene il Garufi, proverebbe appieno queste
nostre ipotesi.
In
effetti, in quel documento greco
del 1178 abbiamo il primo attestato storico sul toponimo di
Racalmuto, e già siamo ai tempi di Guglielmo II, il Buono. Ebbe a pubblicarlo nel 1868 il grande paleografo
siciliano Salvatore Cusa (cfr. I diplomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo
1868, pag. 657-658 e pag. 729): vi si parla di una vendita a Berardo, priore di
S. Maria di Gadera, di un fondo sito in rahalhammut, per il prezzo di 50 tarì. A
venderlo, nel settembre di quell’anno, fu tale Pietro di Nicola Gudelo,
insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola.
Il
toponimo Rachal
Chammoùt ( ammu) figura scritto in greco e la vendita del terreno viene fatta
al lontano monastero di S. Maria di Gadera, sito nei pressi di Polizzi
Generosa. Per alcuni studiosi locali, affetti di laico attaccamento alle loro
pretese origini musulmane, vi sarebbero le stigmate della sofferenza post-araba
di Racalmuto. Terra ormai di schiavi, il suo circondario sarebbe stato spartito
tra chiese e conventi e già dal 1093 avrebbe, per di più, subito l’onta
dell’assoggettamento alle decime del Vescovo di Agrigento, di cui per
volontà dell’invasore normanno era stato ridotto a territorio diocesano
subalterno.
Racalmuto
normanna ivi citata, invero, è terra piuttosto frazionata: il fondo in vendita
confina con parecchi proprietari di terreni che non dovevano essere molto
estesi: chorafion è il termine greco
usato proprio per significare un fondo
non vasto. I nominativi sono: a) Basilio Burrello, b) Martino di don Guglielmo;
c) il fu Michele di Rosaneto, sacerdote; d) Niceforo Lipta; e) Rinaldo figlio
del chierico Baldi; f) Nicola figlio del prete Michele; g) il fu Giovanni genero di Filax; h) Basilio
Gudela.
La
preminenza dei ceppi sembra greca, ma i Rinaldo ed i Baldi con i Martino fanno pensare a casati latini e
normanni. Una mistura dunque di gente che sembra essersi ripartito il
territorio saraceno del nostro paese. Vi si possono leggere i segni dei grandi
sommovimenti feudali dei tempi di Margherita e di suo cugino Stefano Le Perche.
Racalmuto che non figura mai nei diplomi della Chiesa Agrigentina, appare ora
pertinenza di quel priore Berardo che ha tutta l’aria di un monaco benedettino.
Forse ebbe ad impossessarsi per soli 50 tarì - cifra sicuramente esigua - di vasti
possedimenti cui erano addetti i
saraceni del luogo in condizioni di quasi schiavitù; tutto fa pensare che dopo vi mandò i suoi
monaci per ergervi un convento e
sfruttare le locali culture granarie. Nel
1308, a pagare le decime al Papa per Racalmuto abbiamo due nomi che
nulla hanno a che fare con la nostra località, ma che proprio possono
collegarsi con i monaci benedettini: Martuzio de Sifolono, titolare della
chiesa di S. Maria, chiamato a
corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310), ed il
prete Angelo di Montecaveoso, tassato
per nove tarì in relazione all’ufficio
sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Sono testimonianze postume
che però sembrano condurci all’erezione del convento di S. Maria, divenuto
francescano solo nel secolo XVI.
All’importante
e fondamentale diploma del 1178 ci ha portato, dicevamo, il GARUFI, il grande storico cui fa ricorso Sciascia nella ‘morte dell’inquisitore’. Nel suo studio sui ‘Patti agrari e comuni feudali di nuova fondazione in Sicilia’
(cfr. Carlo Alberto Garufi, parte
II dell’articolo, in Archivio Storico
Siciliano, anno 1947, pag. 34) troviamo, infatti, questa illuminante nota:
«soggiungo che l’unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta
d’indagarne l’origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m
u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata
tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l’atto di
compra-vendita, dell’a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in
Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout,
nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i
testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero
dell’a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».
Purtroppo
l’autorevole storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non raccolse la
tesi su Racalmuto Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici come il
Bresc o arabisti come il Pellegrini (come si è visto prima). Noi abbiamo
tentato di confrontare questo documento con altro di analoga portata, alla luce
di quanto scrive il Di Giovanni (ARCHIVIO STORICO SICILIANO - 1880: Memorie
Originali - Vincenzo di Giovanni: Il Monastero di S. Maria la Gàdera poi Santa Maria de Latina esistente nel
secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e segg.), e francamente siamo rimasti
molto dubbiosi sull’effettivo riferimento alla terra di Racalmuto.
Non
si riferisca pure a Racalmuto, il documento tuttavia illumina sui processi di
colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E benedettino fu
certamente il primo convento che sorse a Racalmuto.
Un
passo della Sicilia Sacra del Pirri testimonia della presenza
benedettina a Racalmuto. Stralciando dalle colonne dedicate alla “Agrigentinae ecclesiae” (foglio 758 e
segg.), veniamo resi edotti dal Netino che
«Coenobium cum Ecclesia S. Benedicti prope viam, qua itur Agrigentum, &
Rahyalmutum, de suffraganeis Ecclesiae Agrigentinae invenio excriptum in libro
Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211; puto id esse hodie Monalium Annuntiatae
Musumellis. Olim enim erat coenobitarum eiusdem Ecclesiae Annuntiatae. Vide
ibidem». [1] A
dire il vero, l’abate Pirri si avvale dei Capibrevi del Barberi che risalivano
ad un secolo prima. La descrizione del convento di monache benedettine sotto
titolo dell’Annunziata interessa poco Racalmuto e resta una mera ipotesi quella
del Netino che vuol far derivare il convento di Mussomeli da quello, già
distrutto nel XVII secolo, che sorgeva nel nostro territorio. Quel che rileva è
invece l’accenno ben preciso all’abbazia benedettina di Racalmuto. «Trovo
scritto - ci par qui di dover tradurre il passo dal latino - nel Libro dei
Capibrevi Ecclesiastici nei Registri della Cancelleria, foglio 211, che si
ergeva un cenobio con una chiesa dedicata a S. Benedetto presso la via di
congiunzione di Agrigento con Racalmuto e rientrava tra quelli suffraganei
della Chiesa Agrigentina. Penso che esso sia lo stesso di quello che è oggi il
convento di monache dell’Annunziata di Mussomeli. Una volta apparteneva a cenobiti della Chiesa
dell’Annunziata. Vedi colà.» Eugenio Napoleone Messana colloca, anche sulla scia di alcuni ruderi
archeologici di una cisterna, quell’importante abbazia benedettina al vecchio
Campo Sportivo.
Siamo
franchi, il Pirri nei passi
citati non è né perspicuo né convincente. Se un convento benedettino vi fu a
Racalmuto, esso dovette essere ben
più antico del 1466, diversamente da quanto sembra ritenere lo storico di Noto. Ai suoi tempi - e siamo
attorno al 1630 - non vi erano più memorie documentabili. Nella visita
pastorale del vescovo Tagliavia del 1542-1543 non è dato di rintracciare alcun
riferimento all’abbazia.
Nella
prima decade del 1300 rinveniamo, invece, un sacerdote officiante a Racalmuto che ha tutta l’aria di un benedettino, oriundo
di Montescaglioso in provincia di Matera. Trattasi delle decime
pagate per gli anni 1308 e 1310 ai Papi di Avignone. I tassati di Racalmuto
sono due, come abbiamo avuto modo di dire, ed uno di essi è palesemente
designato con il suo nome di religioso: Angelo di Montecaveoso
Costui
appare come il primo arciprete di Racalmuto, stando almeno ai documenti
disponibili.
L’ipotesi,
dunque, che Racalmuto si avvii all’attuale conformazione ad opera
dei benedettini non è poi del tutto cervellotica. Dovette avvenire la
colonizzazione benedettina attorno al Dodicesimo-Tredicesimo secolo, alla
stregua di quanto desumibile dal documento greco di S. Maria di Gadera che abbiamo prima revocato. L’opera contadina
e civilizzatrice dei frati per tanti versi ebbe a sopperire alla grave crisi
determinata dalla repressione dei saraceni da parte di Federico II.
GLI ESORDI STORICI
Su
interessate segnalazioni dei canonici agrigentini, il Pirri non aveva, attorno al 1630, dubbi che la più
antica chiesa di Racalmuto fosse S. Margherita Vergine - che secondo
postumi documenti appare contigua e collegata con la chiesa di S. Maria di Gesù - e che essa fosse stata fondata nel 1108 da
Roberto Malconvenant. Purtroppo, la notizia si
basa su un documento dell’Archivio Capitolare agrigentino, che, come ebbe a
dimostrare Mons. Paolo Collura, si riferisce a ben altra
località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice. Sappiamo di certo che S.
Maria di Gesù non è chiesa del XII secolo: dobbiamo risalire alla prima metà
del XVI secolo per averne indubbi dati documentali.
I
primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e
1310 che abbiamo già richiamate. Nell’abitato racalmutese vi erano almeno due
chiese: quella parrocchiale retta dal cennato p. Angelo di Montecaveoso, e quella forse conventuale dedicata alla
Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone
(divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra
pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi
avignonesi dell’Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell’arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità
contributiva e raccoglierne l’imposta per togliere l’interdetto che si
originava dalla rivolta dei Vespri Siciliani. Era l’anno 1375.
Nel
1375 Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con
non più di 900 abitanti. Nell’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO è reperibile il
resoconto delle collette redatto in quell’anno dall’arcidiacono du MAZEL (cfr. Reg. Av. 192). Questi era stato mandato
in Sicilia per raccogliere il sussidio che
doveva servire alla rimozione dell’interdetto per i Vespri Siciliani. Il
sussidio andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle
condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le ‘mediocri’,
3 per le agiate e cioè ‘qualsiasi fuoco
di ricchi abbondanti in facoltà’ (cfr. Peri I.: la sicilia dopo il vespro -
Laterza, 1982, pag. 235). Il 29 marzo del 1375, il pio collettore (o suoi emissari) giungeva a
Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il
‘sussidio’ e scioglieva l’interdetto
(cfr. AVS - Reg. Av. 162 f.419v). Dato che per ogni fuoco è calcolabile
un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa
610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti
resisi irreperibili. In un secolo e tre
quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre
congetture e i dati del Tinebra-Martorana hanno una qualche attendibilità - si
sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale lasso di tempo, la crescita si è invece
limitata solo al 48,32%, che in ogni
caso è tasso di sviluppo normale.
Che
cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi
Chiaramonte, e la metà del XVI secolo
non è chiaro. Il salto nell’intensità abitativa testimonia comunque un
massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo
motivo di congetturare che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti
per la paura dei pirati. L’improvviso sviluppo della coltura granaria ha
esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I
molti cognomi di paesi e terre del
circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei
feudi racalmutesi che talora sostituiscono e talora si aggiungono ai
patronimici.
Tanti
immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni
pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o
funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l’antica carica di maestri di
xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d’Angiò i soprintendenti alla sicurezza notturna. Se
ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283
sotto Pietro d’Aragona.
Non
è racalmutese il ‘segreto’ addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l’incarico
- lo denunciano straniero. Il ‘segreto’ era l’esattore dei dazi e delle gabelle
ed era denominazione che risaliva al 1296.
Per
avere un nome arabo (anche se per noi, il funereo senso di paese di morti andrebbe
più gloriosamente cambiato in fortezza di Hammud vuoi in riferimento al mitico condottiero
saraceno della caduta di Girgenti vuoi agli omonimi che si riscontrano tra i
personaggi arabi del tempo dei normanni), Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con
nome di derivazione araba.
Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo, forse Burruano e simili, possiamo calcolare in
meno di 150 gli abitanti di origine forse araba (su 2215 desunti dai
registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti
saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si
sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso
dovette verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata
della regina Isabella nel 1492 (cfr. G. Picone - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.) o sparirono del tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di
archivio, a partire da 50 anni dopo,
troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio
dell’8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da
Grotte.
Racalmuto non è quel centro che nel 1108, secondo il
Pirri, sarebbe
stato sotto la giurisdizione di Roberto di Malconvenant, al quale risalirebbe la
dotazione della chiesa di S. Margherita Vergine. Gli studi del 1960 del Collura, prima citato, dissolvono
quella tradizione, così gradita al Tinebra-Martorana o a Eugenio Napoleone
Messana. Il documento che ha dato
adito alla credenza che vuole la chiesa di S. Maria risalente appunto al 1108 è
quello che si trova nell’archivio capitolare di Agrigento e che in un primo momento aveva indotto in errore lo stesso P.
Collura.
L’analisi attenta fa luce sul fatto che
trattasi di una ‘ecclesia Sante Marie virginis, que est in casali Rahalbiath’ la quale è gravata verso la curia vescovile
di ‘incensi libra I’. Il Collura precisa che non si tratta di ‘Racalmuto, ma di un casale non lungi
da Castronovo’ (cfr. Paolo Collura, Le più antiche carte dell’archivio capitolare di Agrigento (1092 -
1282) - Palermo 1961, pag. 65). La confusione, protrattasi nei secoli, si spiega forse con l’interesse
della curia ad avvalorare certi censi in quel di Racalmuto. Né ancor meno può
riferirsi a Racalmuto un altro privilegio che cita i Malconvenant ed è del 1108 (cfr. ib. pag. 25). Vi si premette che Roberto di Malconvenant aveva
ordinato di fabbricare in un suo fondo una chiesa in onore di S. Margherita.
Viene quindi precisato che Gilberto, un suo consanguineo, ne
aveva curato l’erezione, previo assenso del vescovo Guarino e dei canonici. Ordinato poi chierico, gli
viene concessa l’amministrazione dei beni della chiesa, ma è tenuto a versare
tre libbre d’incenso alla curia agrigentina.
Annota il Collura: ‘’Non abbiamo nel
testo del diploma elementi sufficienti per localizzare questa chiesa di S.
Margherita, che probabilmente va
identificata con quella ricordata nel doc. n. 27 «ecclesia sancte Margherite
virginis, incensi libras III = c/o S. Margherita Belice» e che nella seconda metà del sec. XII pagava come censo
tre libbre d’incenso. Tenuto conto che i Malconvenant erano signori del Feudo di Calatrasi (cf.
Garufi: I documenti
inediti etc. pp. 85-86) e di Bisacquino (cf. l.c. pp. 190-192) si
sarebbe indotti a pensare che essa possa essere localizzata in quella zona;
tuttavia la nota dorsale ci indica con chiarezza che si tratta di quella chiesa
attorno alla quale nel sec. XVI fu edificato il paese di S. Margherita Belice (cf. Scaturro, I, p. 246)”.
Svanita la prova di un luogo sacro
risalente al 1108, quel documento ci chiarisce almeno come in quel tempo
potesse sorgere un centro agricolo, per
esempio, in un castello saraceno che si vantava di risalire al buon Hammud quale è da pensare fosse Racalmuto.
Il Malconvenant dona ad un suo consanguineo delle terre con
degli schiavi saraceni. Un parente, un militare in
disarmo, vi costruisce una chiesa (una
chiesa di S. Maria vi è pur sempre a Racalmuto: non risale al 1108, ma nel
1310 è operante ed il suo presule, martuzio
de silofono, versa un’oncia al papa per
le decime <cfr. ASV - Collect. 161 f96r>). Viene dal vescovo fatto
chierico per amministrarla. Le terre di pertinenza sono vaste. Ad accudirle
penseranno i saraceni. Così recita il documento agrigentino: ‘hec sunt nomina
rusticorum, quos predictus Robertus Sancte Margarite donavit: alibithumen, hben el chassar, sellem eblis,
mirriarapip abdelcai, maimon bin cuiduen, hii quinque’. Scomunica per
chi vi attenta; benedizioni per chi ne accresce la ricchezza: ‘ Si quis -
aggiunge il vescovo - vero ecclesiam Sancte Margarite Agrigentine Ecclesie omnino subiectam circa
possessiones eius in aliquo defraudaverit, anathema sit; qui vero eam aut de
rebus mobilibus aut immobilibus augmentaverit, gaudia eterne vite cum sanctis
peremniter percipiat’.
Con siffatta benedizione, anche Racalmuto ebbe a prosperare.
Nel 1308 e 1310 anche un altro religioso pagava le decime a
Roma. Era meno ricco, ma pur sempre tassato come risulta dalle Rationes Collectorie Regni Neapolitani -
1308/1310 (ASV-Collect. 161 f97v). «Presbiter Angilus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali quod impendit in
Casali rachalamuti solvit pro
utraque (decima)......tt. (tarì) IX».
Si rammenti che 30 tarì formavano un’oncia. I frutti di S.
Maria valevano oltre tre volte e un terzo quelli per la cura delle anime dell’intero villaggio o ‘casale’
secondo la precisazione del collettore papale. I religiosi di Racalmuto pagano, dunque, 39 tarì per due decime dei primi anni dieci del XIV secolo. Nel 1375, l’intero paese
pagherà per liberarsi dall’interdetto 228 tarì, ripartiti tra 136 fuochi.
Dei
saraceni, fatti schiavi e condannati alla servitù della gleba,
si era frattanto persa la traccia. I pochi nomi che troviamo negli archivi del cinquecento,
seppure eredi di quei primi contadini indigeni, hanno ora tutta l’aria di
essere i benestanti del paese. Hanno cariche pubbliche. Dominano la scena e sono l’alta borghesia del paese.
Tra
la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie
che hanno dominato nell’ottocento. Né baroni Tulumello, né gentiluomini come i
Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di
allora quali i d’amella, i la lomia, gli ugo, i piamontisi ed altri si sono dopo volatilizzati da quel di
Racalmuto. Alcuni loro eredi prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì.
Verso
la fine del 500, giungono a Racalmuto ‘mastri’ che vi attecchiranno ed oggi i loro
discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. savatteri, buscemi, schillaci, rizzo, bongiorno, chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi. Lo
comprova un atto matrimoniale che riportiamo a mero titolo
esemplificativo:
SAVATTERI (provenienza: Mussomeli 7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio di
Vito et Angila Carlino cum
Margaritella figlia di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di
Mussumeli, servatis servandis et facti li tri denunciatione inter missarum
solenia et observato l’ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando
inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie et foro
beneditti nella missa celebrata per me presti Francesco Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo
Montiliuni et notaro
Jo:Vito D’Amella et di multa
quantità di personj».
IL
QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO
Il
quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo,
la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia
genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un
personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi
fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva
di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte
capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo
a quella famiglia proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e
mezzo vero del 13 aprile 1400 ([2]) - abbiamo
le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo
qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che
inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,
difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione
che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia
che specificatamente ci interessa in questa sede.([3])
Quel
che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina
di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del
beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele
alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era
conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di
sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di
Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla
riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano
istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai
saraceni da parte dei
Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una
inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa in
Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare
canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto
beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante
gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che
riportiamo, in calce, in una nostra traduzione dal latino ([4]):
Il
documento fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava comodo per ribadire l’autorità
delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo
del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’:
diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511,
nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa
in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che
solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta
del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti
collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò
origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può
benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile
ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola
concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col
Papa.
GLI
EBREI A RACALMUTO
La
presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità
sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca
(lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di
Agrigento), nella loro monumentale
opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel
1492. ([5])
Raccapricciante
lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato.
Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel
periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un
ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento interessante e che va riportato integralmente
sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi
termini dialettali della nostra terra. [6]
In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen
Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra
il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore)
Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione
dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era
avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice
e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro
Raneri. Ma tanti
altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad
alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne
assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato.
Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato
ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.
Non
sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette,
dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità
nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che
sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi
d’oro - una enormità per i tempi e le
condizioni della Racalmuto di allora -
e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.
L’algoziro
Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà
appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e
fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario
viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi
di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di
moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non
va trascurata l’eventualità che addirittura si sia consumata una vendetta
collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale
relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno
carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle
carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga.
La
città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono
in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non
tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che gli ebrei sono servi della regia Camera e
quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli
ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa
privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento con le autorità locali agrigentine e quelle
racalmutesi.
E’
uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine
e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia
traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali,
ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare
nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi
in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel
quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo.
Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e,
pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad
appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è
accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere
locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La
corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.
Quanto
alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano significativi assetti
organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero Sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben
strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò
provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a
Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e
sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro
fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di
marrani racalmutesi, finiti sotto l’Inquisizione. Quel non glorioso tribunale
ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla
fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome
abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul
povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non
collimanti con quelle della laica canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.
IL SECOLO
DELLA MADONNA DEL MONTE
La
tradizione colloca nell’anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente
scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che
suonerebbe falsa e blasfema. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la
seconda lezione dell’Officio sulla nostra prodigiosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita
in latino - da tempo immemorabile, un
prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del
Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo
poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico
tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella
antica città di Castronovo. E questo fu un mero portento.»
Francesco
Vinci, in un una memoria del
1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura
Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913,
Eugenio Napoleone Messana nel 1968,
Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci
sfuggono hanno scritto sull’evento, quasi sempre con filiale devozione e con
trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto.
Un
quadro storico puntuale e documentato ce l’ha fornito di recente il compianto
gesuita locale P. Girolamo Morreale. Esso è esaustivo per chi
pretende l’umana verità storica. Col suo candore l’ex-voto esposto nel
Santuario del Monte rappresenta, pare dalla fine del Seicento, la nostra
ancestrale devozione mariana; esso ci immerge nella concitazione del popolo
racalmutese per l’arrivo nella parte alta del paese del carro trainato dai buoi
con sopra il venerato simulacro della Madonna.
Nella
visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la
gloriosa statua viene come inventariata, con stile del tutto anodino.
Nell’Archivio Vescovile di Agrigento si rinviene il documento della visita fatta
nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non
mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa
richiamare alla mente un santuario prestigioso della Vergine. P. Morreale ([7]) ha come
un moto di stizza quando vede il notista della Curia trattare apaticamente
l’argomento. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa
importanza, l’irriguardoso burocrate si limita ad inventariare il glorioso
simulacro semplicemente come «una figura di nostra donna di marmaro».
Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode a Racalmuto solo a partire dai primi decenni del ‘700,
dopo l’opera del p. Signorino.
La visita pastorale del Vescovo di Agrigento, datata 1540, è per altri
versi un momento importante per la storia religiosa di Racalmuto. Abbiamo un documento
storico basilare. Pur nel linguaggio non
perspicuo ed arcaico, balza un quadro della struttura ecclesiale di Racalmuto.
Ci
affacciamo, così, all’epoca moderna per la quale disponiamo di fonti d’archivio
e documentali rilevantissime che vanno studiate ed interpretate con rigore
scientifico, bandendo quel vezzo della visionarietà cui gli eruditi locali sono
stati soliti abbandonarsi. La storia della comunità ecclesiale racalmutese
appare ora circostanziata e colma di
affascinanti spunti e di specificità di grande portata edificante. Si
pensi al culto della Madonna, alla devozione verso S. Rosalia, alla
veneranda figura di padre Elia Lauricella ed ai tanti servi di Dio della nostra epoca
contemporanea.
[1] ) Il passo cui Pirri rinvia, recita: «Monalium Benedictonarum monasterium S. Annuntiatae est antiquissimum.
Id olim erat Monachorum eiusdem ordinis: lego enim in lib. Cancell. Prioratum,
sive Monasterium S. Mariae Annuntiatae ordinis S. Benedicti prope Misimerium
Agrig. dioec. esse de jurepatr. laicorum, et fuisse datum à PP. Paulo II post
obitum Augustini, Philippo Cappa cl. Panorm. ex litt. apost. 12. Aug. 1466.
pont. an. 2 in lib. sec. Macri 4 Feb. 1467. 15 ind. Fol. 42. Capib. fol. 233.
Hospitium habebat monachorum sub titulo S. Benedicti, hodie dirutum, juris
Monalium harum ad p. 6. m. ab oppido Rahyalmuto. Moniales 22, cum unc. 236.»
[2]) Ci
riferiamo allo scambio dei beni tra Gerardo e Matteo del Carretto. Il documento che utilizziamo
è una fotocopia dovuta alle solerti ricerche del prof. Giuseppe Nalbone presso l'Archivio di Stato di Palermo (cfr.
ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE
GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181 - Data 9/4/1993).
[3])
Resta a nostro avviso ancora insuperata la ricostruzione che della vicenda fa
lo SPUCCHES nel quadro 783 del vol. VI (Avv. Francesco SAN
MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia
dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol VI). In
particolare, ci riferiamo ai seguenti punti dell'opera:
«1. - Federico CHIARAMONTE, figlio terzogenito di Federico e
Marchisia PREFOLIO, ebbe Racalmuto da FEDERICO di Aragona; lo affermano concordi
tutti gli storici. Sposò questi certa Giovanna di cui si sconosce il casato.
Egli morì in Girgenti; il suo testamento porta la
data 27 dicembre 1311, X Indiz., fu pubblicato da notar Pietro PATTI di
Girgenti il 22 Gennaro 1313, II Indizione.
[XI IND.]
2. - Costanza CHIARAMONTE, come figlia unica di Federico suddetto,
successe in tutti i suoi beni come erede universale del padre. In conseguenza
ebbe il possesso di RACALMUTO. Sposò questa in prime nozze,
Antonino del CARRETTO, M.se di Savona
e del Finari (Dotali in Notar Bonsignore de Terrana di Tommaso da Girgenti li 11 settembre 1307). Sposò in seconde nozze Brancaleone Doria, genovese, col quale
ebbe molti figli. Questo risulta possessore di RACALMUTO, (MUSCA, Sic. Nob. pag. 20). Costanza morì in Girgenti
... Il testamento di lei è agli atti di Notar Giorlando Di Domenico di
Girgenti, sotto la data 28 marzo 1350, V Indiz.; fu transuntato in Catania,
agli atti di Notar Filippo Santa Sofia li 24 novembre 1361 (INVEGES, Cartagine
Siciliana, f. 228-229).
3. - Antonio del CARRETTO successe nella signoria di RACALMUTO, come donatario della madre,
per atto in Notar RUGGERO d'ANSELMO da
FINARI li 30 agosto 1344, XII Indizione. Sposò questi certa SALVASIA
di cui si sconosce il casato. Nacquero da lui GERARDO e MATTEO. Il
primo se ne tornò a Genova dopo aver servito Re MARTINO contro i ribelli;
i beni di Sicilia li cesse al fratello.
4. - Matteo del CARRETTO suddetto fu investito della Baronia di RACALMUTO in
Palermo, a 4 Giugno, IV Indizione 1392. (R.
Cancelleria, libro dell'anno 1391, f. 71) [L'indizione è del tutto errata.
Il 1392 cadeva nella XV Indizione. Occorrerebbe cercare meglio di quanto
abbiamo fatto noi nella R. Cancelleria il citato documento che a dir poco è
segnalato in modo impreciso]. .»
[4])
Archivio di Stato di Palermo: Real Cancelleria - Vol. 34 - p. 137 v. - 1398
[Ricerche del prof. Giuseppe Nalbone] «Martino etc. Al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della
terra di Paternò, cappellano della
nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci
inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. E così apprezziamo quelli che sappiamo essere i morigerati vostri costumi di vita di cui v’è generale stima e nei quali noi
siamo pienamente fiduciosi, e pertanto per l’autorità apostolica in ciò a noi
sufficientemente accordata, il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con
prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è
reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione
contro le nostre benignità - fiduciariamente vi commendiamo e per grazia vi
conferiamo, concediamo e doniamo in modo che possediate la prebenda,
l’aumentiate, la teniate, ne usufruiate e l’amministriate con i suoi redditi e
proventi che potrete destinare alla vostra comodità affinché in modo più
consono - Dio permettendo - possiate trarne mezzi di sussistenza durante la
nostra vita e finché quel canonicato ci resterà affidato dall’autorità
apostolica.
Ai nunzi ed agli incaricati presso il
venerabile eletto governatore della predetta maggiore chiesa agrigentina nonché
al consesso dei canonici diamo incarico acché vi pongano e vi immettano nel
materiale e reale possesso di quel canonicato, con prebenda redditi ed i suoi
debiti e consueti proventi, per l’autorità delle presenti credenziali, oppure
che ve ne rendano il possesso per il tramite di altri, non mancando di tenerlo
intatto e di salvaguardarlo e di rendervelo quindi integro sia per quanto
attiene allo stesso canonicato sia alla pertinente prebenda nei consueti
termini giuridici.
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato
al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti
ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto
presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano
rendere integralmente e pienamente la
prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso
canonicato, se desiderano e possono mantenere la nostra benevolenza.
Dato
in Siracusa, l’anno del Signore, VII^ Ind. 1398.
.... Re Martino - »
[5])
CODICE DIPLOMATICO DEI GIUDEI DI SICILIA raccolto e pubblicato dai fratelli
sacerdoti Bartolomeo e Giuseppe LAGUMINA
- edito dalla SOCIETA' SICILIANA
PER LA STORIA DI SICILIA - Documenti
Storia di Sicilia - Serie I - DIPLOMATICA N.°
12 - Trattasi del terzo volume dei fratelli Lagumina . Palermo 1890. (pag. 145, documento n.° LIX -
Palermo 7 luglio 1474, Ind. VII.)
[6] ) «Il
Vicere’ Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi
a Racalmuto per punire coloro che uccisero
il giudeo Sadia di
Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.»
«Ioannes etc. Vicerex etc. nobili oliverio
raffa militi algoczirio regio fideli dilecto salutem. diviti sapiri comu quisti
iorni prossimi passati sadia di palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di
raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto
da uno liuni figlastro di mastro raneri et dapoy alcuni altri di lu dictu
casali quasi a tumultu et furia di populu dediru infiniti
colpi a lu dictu iudeu non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo diabolico
spiritu dicti tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro
li denti usando in la persuna di
lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu gettaru in una fossa et copersilu di pagla et gictaru
foco petri et terra.
la qual cosa essendo di malo exemplo
merita grande punicioni et nui
tali commoturi di popolo et delinquenti
volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et
a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia
havimo provisto per sapiri la veritati e quilli foru a tali
malici participi et culpabili. et per la
presenti vi dichimo commictimo et
comandamo che vi digiati
personaliter conferiri in lu dictu casali et
cum quilla discrepcioni lu casu riquedi digiati inquisiri et
investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu
tumultu et actu. et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu
iudeu et cui si trovau presenti et partechipi
a la dicta morti et delicto. et de tucti
li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito
vestru li portariti a nui. comandanduvi chi cum
diligencia et cum quilla
discrecioni da vui confidamo digiati
prindiri de personis tucti quilli
foru culpabili et si trovaro alo dicto
acto et quilli digiati minari in la chitati di girgenti et carcerarili in lu
castellu di la dicta chitati in modo
chi non si pocza
di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che a lu
dictu iudeu fu prisa certa roba et intra
li altri uno gippuni in lu quali si
dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro farriti di lo
dicto gippuni e di tucta l’altra roba libri et
scripturi diligenti
investigacioni et perquisicioni
cui li prisi et in
putiri di chi persuna sono. et
trovandoli cum ydonia et sufficiente pligiria de restituirili ad omni
simplichi requisicioni di la regia curia li restituiriti a li heredi di lu dictu
iudeu. preterea perche multi
audachi et temerari persuni li quali
poco timino la iusticia
presummino in la chitati di girgenti
parlari et usari alcuni prosuncioni et adminanzi ac
iniurij contra li iudei
di dicta chitati di che porria suchediri inconvenienti et scandalu
non senza disservicio di la regia
curti. a
li quali inconvenienti volendo
debitamente providiri actento chi li
iudei sono servi di la regia cammara
et non si divino lassari
indebitamente vexare ne
molestari. vi comandamo chi eciam vi
digiate conferiri in la dicta
chitati di girgenti per li lohi soliti
et consueti farriti voce preconis
emictiri banno puplico sub pena vite et publicacionis bonorum et altri a
vui meglo visti chi non sia persuna
alcuna digia ne persuna cuiusvis
condicionis et gradus chi digia palam vel oculte de die nec de
nocte intus nec extra civitatem
offendiri vexari ne molestari li dicti iudey.
ne alcuno di loro tanto masculi comu fimini tanto grandi comu pichuli ne
loru beni re facto verbo et opere. et
chi lo capitaneo iurati gubernaturi di li iudei et altri
officiali digiano ipsi iodey
favoriri et defendiri contro omni persuna chi indebite li volissi offendiri et molestari. lu quali
banno post eius pubblicacionem farriti reduchiri in scriptis ut appareat
in futurum. et si alcuno volissi
dimandari iusticia oy incusari alcunu
iudeu digia compariri davanti di nui et
farrimo debito complimento di iusticia. in modo chi cui havira commissu malificio et
delicto sarra debitamente castigato. Nam in
premissis et circa ea cum dependentibus emergentibus et annexis vi damo
et conferimo plena bastanti et sufficienti potestati per presentes.
per li quali comandamo a tutti et singoli
officiali et persuni di la
chitati nec non a lu nobili baruni
officiali et persuni di lo dicto
casali chi in la execucioni di li
sopradicti cosi cum li dipendenti emergenti et quilli vi digiano
obediri et assistiri ac
prestari omni aiuto consiglio et
faguri et loro brazo
si et quociens opus erit et per vos fuerint requisiti nec contraveniant aut aliquem contravenire
permictant ratione aliqua sive causa sub pena unciarum mille regio fisco
applicandarum. vui vero in la execucioni
di li dicti cosi vi haviriti et
portariti in tali modo et omni quilla diligencia chi pozati
meritatamente essiri inanzi nui comandatu. Dat. panormi die VII Iulij
VIIe Indicionis M° CCCCLXXIIII°.
post datam. constituimo a vui dicto
nobili per vostri iornati et salario ad racionem de tarenis octo pro
quolibet die dum in premissis legitime vacaveretis. Dat. ut supra.
Lop Ximen Durrea»
Cancelleria, vol. 130, pag.
332 - R. Protonotaro, vol. 73, pag. 160
[7])
Girolamo M. Morreale, S.J - Maria SS. del Monte di
Racalmuto - Racalmuto 1986: pag. 29 «Le notizie più sicure e più antiche sulla
Madonna del Monte le
abbiamo dalla sacra Visita, fatta a Racalmuto dal vescovo o da un suo delegato,
nel 1540 ... La statua è descritta con termini assai scarni, secondo lo stile
inventariale: "Una figura di Nostra Donna di marmaro"» Pag. 30: «Poco dopo sono riportati gli ornamenti
della statua: "Item uno panigliuni [rectius: pavigluni, n.d.r.] di cuttuni cum sua frinza di sita
russa per [rectius: supra, n.d.r.] la
Immagini [rectius: inmagini, n.d.r.] di marmaro di Nostra Donna et una
cultra vecchia [rectius: vecha, n.d.r.] per la ditta Immagini [rectius: supra la ditta inmagini, n.d.r.] ... Item: uno panigliuneddo [rectius: paviglunetto, n.d.r.] a la immagini [rectius: inmagini, n.d.r.] di Nostra Donna .»
«Il titolo della chiesa è riportato nel paragrafo che la riguarda:
"Visitatio ecclesie sancte Marie di lo Munti".
«Per la quantità di beni riportati nell'inventario, la chiesa del Monte
è la terza dopo la Matrice e
l'Itria. Si ha l'impressione di una chiesa periferica che ha appena il necessario: sono ricordati
un solo paio di candelieri di legno e le 13 tovaglie di altare come biancheria
sacra. Le due chiese centrali, Annunziata (Matrice) e l'Itria, invece appaiono bene
attrezzate di parati sacri..»
A quest'ultimo proposito mi
par di potere annotare: a) Il P. Morreale legge sicuramente in modo errato Jsu in Itria
(la chiesa dell'Itria sorgerà a Racalmuto un secolo dopo); b) la chiesa del Monte figura
dopo Matrice, S. Maria di Gesù ed anche S.
Giuliano, al quarto posto, forse addirittura alla pari di S. Margherita; c) in
ogni caso, trattasi delle prime cinque chiese di Racalmuto: le altre (ricordo
ad esempio: S. Rosalia e S.
Leonardo) non attiravano l'attenzione dei visitatori episcopali per la loro
scarsa importanza. La chiesa del Monte, comunque, ha una buona dotazione di
paramenti sacri, ha una cassetta per le elemosine ed un guardaroba per la sua prestigiosa
statua di marmo, anche se viene indicata come vecchia (da ciò si potrebbe anche
dedurre che la statua marmorea non è poi detto che sia quella che si venera
oggi e che la chiesa del Monte è molto antica, forse più antica della stessa S.
Maria di Gesù).
Altra importante fonte è :
«LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno
1542-43)» - Tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura
dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno
accademico 1981-1982. Racalmuto risulta tratttato nelle pagine 207-218. La
visita è dell'11 giugno 1543 ed è successiva di tre anni a quella qui indicata.
La Chiesa del Monte non vi figura perché il visitatore si limitò ad annotare a
lato la vecchia visita.
Nessun commento:
Posta un commento