La genesi
del feudo di Racalmuto
Ripuliti
gli esordi feudali dai vari Malconvenant, Abrignano, Barresi e Brancaleone
Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca che risulta primo proprietario
del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era costui un immigrato che per
abilità propria o per successione poteva disporre di tre centri
nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci riferiamo
all’indiscutibile diploma che custodivasi negli archivi angioini di Napoli e precisamte a quello che reca il n.° 209 il
cui sunto recita in latino:
Executoria
concessionis facte Petro Nigrello de BELLOMONTE mil., quorundam casalium in
pertinentiis Agrigenti, vid.
Rachalgididi, RACHALCHAMUT et Sabuchetti, que casalia olim fuerunt Frederici
MUSCA proditoris, et casalis Brissane, R. Curie dovoluti per obitum sine
liberis qd. Iordani de Cava, nec non domus ubi dictus Fridericus incolebat.
Era dunque
un’esecutoria della concessione che veniva fatta da Carlo d’Angiò a Pietro
Negrello di Belmonte, milite, di tre casali siti nelle pertinenze di Agrigento,
e cioè Rachalgididi, Sabuchetti ed il nostro Racalmuto, chiamato - non si sa
per errore di trascrizione o per più precisa denominazione - RACHALCHAMUT. Quei
tre casali erano appartenuti (olim) a Federico Musca che Carlo d’Angiò
considera un traditore. Quanto al passo successivo che investe la storia di
Brissana, a noi qui nulla importa.
Federico Musca
viene privato del feudo nel 1271: ribadiamo, è questa la data di nascita della
storia racalmutese, almeno fino a quando non si trovano altre fonti scritte o
archeologiche. Per quel che abbiamo detto prima, gli esordi racalmutesi
medievali possono retrocedersi di una ventina d’anni, ma non di più.
Un
Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna Saba Malaspina colui che
l’Amari considera “diligentissimo cronista”
per non parlare del Montaner, del D’Esclot, di Nicola Speciale, di
Bartolomeo di Neocastro, del Sanudo.
La vicenda
viene dal Peri così sintetizzata ed
interpretata:
«Federico Mosca conte
di Modica acquistava benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282 passò in
Calabria e conseguì buoni successi con una comitiva di 500 almogaveri (le
truppe a piedi che nel corso della guerra del Vespro prospettarono la validità
dei reimpiego della fanteria, che sarebbe salita a clamore europeo a non lunga
distanza di tempo sui fronti di Fiandra).»
E
successivamente (pag. 46):
«Se la reazione
immediata di Carlo d’Angiò fu più minacciosa che vigorosa, se la cavalcata di
re Pietro, nel settembre del 1282, da Trapani a Palermo, a Messina, a Catania,
fu più prudente che difficile, il conflitto poi si spostò prontamente fuori
Sicilia. Nel novembre, il conte di Modica Federico Mosca portava la guerra in
Calabria.»
Annota,
peraltro, l’Amari: «Il Neocastro, cap. 56, accenna anch’egli ad una fazione
degli almugaveri, diversa da quella di Catona. Dice mandatine 500 presso Reggio
e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro il dì 11 novembre mandò il conte
Federigo Mosca a regger la terra di Scalea, che si era data a lui. ...»
Se
Federico Mosca, conte di Modica, è, dunque, lo stesso di quello del diploma
angioino riguardante Racalmuto, sappiamo ora che costui dopo l’esonero del 1271
non tornò più in questo casale. Anche per Illuminato Peri, neppure tornò -
almeno stabilmente - a reggere la contea di Modica che (pag. 31). A lui «sembra
essere succeduto nel titolo di conte di Modica il genero Manfredi Chiaromonte
marito della figlia Isabella», quello che avrebbe edificato il nostro
Castelluccio.
Ma a quale
ribellione di Federico Mosca si riferisce il citato diploma angioino? Non
abbiamo notizie aliunde. Dobbiamo
quindi supporre che trattasi degli eventi del 1269. Li abbozziamo qui sulla
falsariga del racconto dell’Amari. Le truppe angioine riconquistano il castello
di Licata, che era stato assediato dai Ghibellini, nel dicembre del 1268. Nel
1269 si sparse la falsa notizia che il re di Tunisi stesse per sbarcare. Frattanto
Fulcone di Puy-Richard, sconfitto a Sciacca nei primi del 1267, comandava a
poche città che gli prestavano volontaria ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly
dell’ordine degli Spedalieri, venuto in Sicilia da tempo a cambattere per Carlo
con la scusa che stessero per sbarcare i Saraceni d’Africa, agiva da capitano
di ventura e crudelmente (vedasi Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai
primi d’aprile del sessantanove re Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli
mancava solo di conquistare Lucera per fame, combattè di persona i Saraceni e
si accinse a riportare all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi
cambiò due volte il vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con
Guglielmo de Beaumont, poi costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito
agli ordini del solo D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato
dal Estendart, ed indi di quest’ultimo soltanto, fu mandato per sterminare le forze di Corrado
Capece. L’Estendart risultò un feroce capitano che comunque riscuoteva la fiducia
del re, che non mancava di colmarlo di ricchezze e di onori. Saba Malaspina lo
chiama uomo più crudele della stessa crudeltà, assetato di sangue e giammai
sazio (Lib. IV, cap. XVIII).
L’Estendart
condusse nell’isola millesettecento cavalieri con grande numero di arcieri e vi
furono associati oltre 800 cavalieri che stanziavano nell’isola, tra siciliani
e stranieri. Ricominciò davvero la guerra.
Quel
condottiero andò da Messina per Catania all’assedio di Sciacca, ma qui gli
piombarono addosso oltre 3000 cavalieri provenienti da Lentini; sopraggiunse
Don Federico con cinquecento soldati scelti spagnoli, chiamati Cavalieri della
Morte, e gli angioini furono tricidati. L’Estendart e Giovanni de Beaumont, con
altri baroni, vi trovarono la morte. Ne seguì un tal terrore che Palermo e
Messina trattarono la resa, ma la trattativa non andò in porto. Il racconto -
desunto dagli Annali ghibellini di Piacenza - non convince del tutto l’Amari
che puntualizza: «Manca la data di questa battaglia; falsa la morte dell’Estendart
e fors’anche quella del Beaumont; Sciacca fu assediata di certo dagli Angioini
sotto il comando dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni, de Beaumont, poiché
ricaviamo che gli riscosse le taglie pagate da vari comuni invece di mandare
uomini a quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali genovesi che Sciacca fu
conquistata dagli Angioini.
Anche
Agrigento fu assediata dai francesi, dopo la conquista di Sciacca, che vi
avrebbero però subito una sconfitta. I Ghibellini, astretti da varie parti,
riuscivano ancora a mantenere il controllo di Agrigento, Lentini, Centorbi,
Agusta, Caltanissetta.
Gli eventi
evolvono con l’assedio di Agusta. Carlo d’Angiò ordina all’Estendart di
portarsi a ridosso della città siciliana per il colpo di grazia. Vi si erano insediati
1000 armati e 200 cavalieri toscani che la difendevano valorosamente. Il re
fece costruire apposite galee per quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29
settembre 1269. L’ordine era di passare a fil di ferro quanti si trovassero
nella città. Essa fu presa per il tradimento di sei prezzolati che di notte
aprirono una porta. Guglielmo d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore,
né innocenza, né ragione d’uomini alcuna.»
Cessata la
guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise nell’ufficio di Vicario, il 18 agosto
1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico di perseguitare i traditori e
confiscare loro i beni», annota l’Amari.
In tale
frangente, ebbe dunque a verificarsi lo spossessamento del feudo di Racalmuto
che dal “traditore” Federico Musca passò
al fedele - estraneo e francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se
parente dei tanti Beaumont che abbiamo avuto modo di citare.
Sempre
l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri fragelli s’aggiunse la fame.
In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano salì a cento tarì d’oro la
salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a quaranta tarì, che vuol dire
nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al doppio o al triplo del valore
ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato coinvolto in quella sciagura:
le sue ubertose terre avranno fornito pane sufficiente. Ma il nuovo signore de
Beaumont avrà potuto razziare a man bassa per le solite speculazioni granarie.
Si pensi che anche la vicina Milena - all’epoca chiamata Milocca - finisce in
mani di un omonimo: quel Guglielmo di Bellomonte di cui abbiamo parlato sopra.
Sfogliando
i registri angioini, apprendiamo che il padrone di Racalmuto dal 1271 al 1282,
Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di Montescaglioso e il Camerario del
Regno del 1271. Non pensiamo che il
conte di Montescaglioso sia mai venuto a visitare queste sue lontane terre,
site in una terra dal nome strano, Racalmuto. Avrà mandato qualche suo amministratore.
Solerte, comunque, nello sfruttare quei contadini di origine araba, usciti da
non molto tempo dalla condizione di “villani”, una sorta di schiavitù a mezzo
tra la servitù della gleba e la remissiva subordinazione della fede cattolica,
vigile nell’inculcare il sacro rispetto del padrone per il noto aforisma “omnis
auctoritas a Deo”. Ogni autorità vien da Dio. Ed il lontano Negrello era pur
sempre un padrone caro al Signore Iddio. Bisognava ubbidirgli e basta, come al
ribelle conte di Modica.
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