AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero
il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla
sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi,
due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di
poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Montedoro (più
propriamente a Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far
pensare); il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di
Bompensiere. Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva
letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare
su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni.
Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta a Santa Maria fatta costruire
da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica
storica appena avvertita.
Quando
le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio
metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi
elementi per una chiarificazione e per il diradamento del fitto buio che oggi
ci angustia.
Non
andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna
s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a
dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono
denominati saraceni. Esistesse o meno
una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino
sociale di Federico II. Che cosa è stato il
“villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che
vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di
uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia saperne di più, gli studi di
I. Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una
parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra.
L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime
del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non
si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne
per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della
nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I
saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico
II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le
testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad
avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai
locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante
litteram.
La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli era
stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’
Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà
questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375
abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico
interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
La genesi del feudo di Racalmuto
Ripuliti
gli esordi feudali dai vari Malconvenant, Abrignano, Barresi e Brancaleone
Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca che risulta primo proprietario
del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era costui un immigrato che per
abilità propria o per successione poteva disporre di tre centri
nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci riferiamo
all’indiscutibile diploma che custodivasi negli archivi angioini di Napoli [1]
e precisamte a quello che reca il n.° 209 il cui sunto recita in latino:
Executoria concessionis facte Petro
Nigrello de BELLOMONTE mil., quorundam casalium in pertinentiis Agrigenti, vid. Rachalgididi, RACHALCHAMUT et
Sabuchetti, que casalia olim fuerunt Frederici MUSCA proditoris, et casalis
Brissane, R. Curie dovoluti per obitum sine liberis qd. Iordani de Cava, nec
non domus ubi dictus Fridericus incolebat. [2]
Era dunque un’esecutoria della concessione che veniva
fatta da Carlo d’Angiò a Pietro Negrello di Belmonte, milite, di tre casali
siti nelle pertinenze di Agrigento, e cioè Rachalgididi, Sabuchetti ed il
nostro Racalmuto, chiamato - non si sa per errore di trascrizione o per più
precisa denominazione - RACHALCHAMUT.
Quei tre casali erano appartenuti (olim) a Federico Musca che Carlo d’Angiò
considera un traditore. Quanto al passo successivo che investe la storia di
Brissana, a noi qui nulla importa.
Federico Musca viene privato del feudo nel 1271:
ribadiamo, è questa la data di nascita della storia racalmutese, almeno fino a
quando non si trovano altre fonti scritte o archeologiche. Per quel che abbiamo
detto prima, gli esordi racalmutesi medievali possono retrocedersi di una
ventina d’anni, ma non di più.
Un
Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna Saba Malaspina colui che
l’Amari considera “diligentissimo cronista” [3]
per non parlare del Montaner, del D’Esclot, di Nicola Speciale, di Bartolomeo
di Neocastro, del Sanudo. [4]
La
vicenda viene dal Peri [5]
così sintetizzata ed interpretata:
«Federico Mosca conte di Modica acquistava
benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282 passò in Calabria e conseguì buoni
successi con una comitiva di 500 almogaveri (le truppe a piedi che nel corso
della guerra del Vespro prospettarono la validità dei reimpiego della fanteria,
che sarebbe salita a clamore europeo a non lunga distanza di tempo sui fronti
di Fiandra).»
E successivamente (pag. 46):
«Se la reazione immediata di Carlo d’Angiò fu
più minacciosa che vigorosa, se la cavalcata di re Pietro, nel settembre del
1282, da Trapani a Palermo, a Messina, a Catania, fu più prudente che
difficile, il conflitto poi si spostò prontamente fuori Sicilia. Nel novembre,
il conte di Modica Federico Mosca portava la guerra in Calabria.»
Annota,
peraltro, l’Amari: [6]«Il Neocastro, cap. 56, accenna anch’egli ad
una fazione degli almugaveri, diversa da quella di Catona. Dice mandatine 500
presso Reggio e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro il dì 11 novembre
mandò il conte Federigo Mosca a regger la terra di Scalea, che si era data a
lui. ...»
Se Federico Mosca, conte di Modica, è, dunque, lo stesso
di quello del diploma angioino riguardante Racalmuto, sappiamo ora che costui
dopo l’esonero del 1271 non tornò più in questo casale. Anche per Illuminato
Peri, neppure tornò - almeno stabilmente - a reggere la contea di Modica che
(pag. 31). A lui «sembra essere succeduto nel titolo di conte di Modica il
genero Manfredi Chiaromonte marito della figlia Isabella», quello che avrebbe
edificato il nostro Castelluccio.
Ma
a quale ribellione di Federico Mosca si riferisce il citato diploma angioino?
Non abbiamo notizie aliunde. Dobbiamo
quindi supporre che trattasi degli eventi del 1269. Li abbozziamo qui sulla
falsariga del racconto dell’Amari.[7]
Le truppe angioine riconquistano il castello di Licata, che era stato assediato
dai Ghibellini, nel dicembre del 1268. Nel 1269 si sparse la falsa notizia che
il re di Tunisi stesse per sbarcare. Frattanto Fulcone di Puy-Richard,
sconfitto a Sciacca nei primi del 1267, comandava a poche città che gli
prestavano volontaria ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly dell’ordine degli
Spedalieri, venuto in Sicilia da tempo a combattere per Carlo con la scusa che
stessero per sbarcare i Saraceni d’Africa, agiva da capitano di ventura e
crudelmente (vedasi Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai primi d’aprile
del sessantanove re Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli mancava solo di
conquistare Lucera per fame, combatté di persona i Saraceni e si accinse a
riportare all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi cambiò due volte
il vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con Guglielmo de Beaumont,
poi costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito agli ordini del solo
D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato dal Estendart, ed indi
di quest’ultimo soltanto, fu mandato per
sterminare le forze di Corrado Capece. L’Estendart risultò un feroce capitano
che comunque riscuoteva la fiducia del re, che non mancava di colmarlo di ricchezze
e di onori. Saba Malaspina lo chiama uomo più crudele della stessa crudeltà,
assetato di sangue e giammai sazio (Lib. IV, cap. XVIII).
L’Estendart condusse nell’isola millesettecento cavalieri
con grande numero di arcieri e vi furono associati oltre 800 cavalieri che
stanziavano nell’isola, tra siciliani e stranieri. Ricominciò davvero la
guerra.
Quel condottiero andò da Messina per Catania all’assedio
di Sciacca, ma qui gli piombarono addosso oltre 3000 cavalieri provenienti da
Lentini; sopraggiunse Don Federico con cinquecento soldati scelti spagnoli,
chiamati Cavalieri della Morte, e gli angioini furono tricidati. L’Estendart e
Giovanni de Beaumont, con altri baroni, vi trovarono la morte. Ne seguì un tal
terrore che Palermo e Messina trattarono la resa, ma la trattativa non andò in
porto. Il racconto - desunto dagli Annali ghibellini di Piacenza - non convince
del tutto l’Amari che puntualizza: «Manca la data di questa battaglia; falsa la
morte dell’Estendart e fors’anche quella del Beaumont; Sciacca fu assediata di
certo dagli Angioini sotto il comando dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni,
de Beaumont, poiché ricaviamo che egli riscosse le taglie pagate da vari comuni
invece di mandare uomini a quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali
genovesi che Sciacca fu conquistata dagli Angioini.
Anche Agrigento fu assediata dai francesi, dopo la
conquista di Sciacca, che vi avrebbero però subito una sconfitta. I Ghibellini,
astretti da varie parti, riuscivano ancora a mantenere il controllo di
Agrigento, Lentini, Centorbi, Agusta, Caltanissetta.
Gli eventi evolvono con l’assedio di Agusta. Carlo
d’Angiò ordina all’Estendart di portarsi a ridosso della città siciliana per il
colpo di grazia. Vi si erano insediati 1000 armati e 200 cavalieri toscani che
la difendevano valorosamente. Il re fece costruire apposite galee per
quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29 settembre 1269. L’ordine era di
passare a fil di ferro quanti si trovassero nella città. Essa fu presa per il
tradimento di sei prezzolati che di notte aprirono una porta. Guglielmo
d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore, né innocenza, né ragione
d’uomini alcuna.»
Cessata
la guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise nell’ufficio di Vicario, il 18
agosto 1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico di perseguitare i traditori e confiscare
loro i beni», annota l’Amari. [8]
In tale frangente, ebbe dunque a verificarsi lo
spossessamento del feudo di Racalmuto che dal “traditore” Federico Musca passò al fedele - estraneo e
francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se parente dei tanti Beaumont
che abbiamo avuto modo di citare.
Sempre
l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri fragelli s’aggiunse la fame.
In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano salì a cento tarì d’oro la
salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a quaranta tarì, che vuol dire
nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al doppio o al triplo del valore
ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato coinvolto in quella sciagura:
le sue ubertose terre avranno fornito pane a sufficienza. Ma il nuovo signore
de Beaumont avrà potuto razziare a man bassa per le solite speculazioni
granarie. Si pensi che anche la vicina Milena - all’epoca chiamata Milocca -
finisce in mani di un omonimo: quel Guglielmo di Bellomonte [9]
di cui abbiamo parlato sopra.
Sfogliando i registri angioini, apprendiamo che il padrone
di Racalmuto dal 1271 al 1282, Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di
Montescaglioso e il Camerario del Regno del 1271. [10]
Non pensiamo che il conte di Montescaglioso sia mai venuto a visitare queste
sue lontane terre, site in una terra dal nome strano, Racalmuto. Avrà mandato
qualche suo amministratore. Solerte, comunque, nello sfruttare quei contadini
di origine araba, usciti da non molto tempo dalla condizione di “villani”, una
sorta di schiavitù a mezzo tra la servitù della gleba e la remissiva
subordinazione della fede cattolica, vigile nell’inculcare il sacro rispetto
del padrone per il noto aforisma “omnis auctoritas a Deo”. Ogni autorità vien
da Dio. Ed il lontano Negrello era pur sempre un padrone caro al Signore Iddio.
Bisognava ubbidirgli e basta, come al ribelle conte di Modica.
Racalmuto durante i Vespri Siciliani
Dalle brume delle vaghe testimonianze scritte affiora
solo qualche brandello delle locali vicende in quel gran trambusto che furono i
Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle
sue passioni irredentiste, a fare del “ribellamento” del 1282, una
fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi contro ogni
dominazione straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor più i
racalmutesi) sono per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti, propensi
a sopportare ogni autorità, la quale - straniera, o indigena, o paesana che sia
- sempre sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore aggravio
possibile, con il solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo, o in
chiesa, o presso il farmacista o nel greve chiuso della bettola).
Ancor
oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese Léon Cadier
sull’amministrazione della Sicilia angioina. [11]
Il Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera,
specie là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande
storico siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive
infatti il francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto
d’arme della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai
posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento
glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto
aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i
carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini;
l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più
fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»
Ed
a noi Racalmutesi del Duemila, il culto dei Vespri ci è stato inculcato sin da
bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro raffigurato nel
sipario del teatro comunale. [12]
Leonardo Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in
una sua cerebrale superfetazione sul mito del Vespro. [13]
Di rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non era un
mito ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese sempre:
ma certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della riscossa
nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del tempo,
quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da parte
sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia
stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.»[14]
Ad ogni buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla [15]
- che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura - di
documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva resta
per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che nessuna
cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non preparato,
ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»
Se
il Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono neppure
le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al padrone
Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico, predatore - era subentrato
Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi messi
partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di libertà,
di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il grande
disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il caos
amministrativo e la rapida fuga dei loro
sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare i campi seminati,
mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone, immagazzinare,
alienare, incassare e per intero. Il 10 settembre 1282, arriva da Palermo una
missiva [16]
indirizzata “Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio
ordine dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15
arcieri: una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno capito
neppure che cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma era
una richiesta che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era
finita; i padroni ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami,
imposte, angarie e sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.
Racalmuto
- si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di Federico II di Svevia.
Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro Altipiano un certo numero
di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità trattasi di marrani
sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappresaglie della persecuzione
religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali per necessità
mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che quella specie di
schiavitù è tramontata, ma la loro condizione sociale ed economica è molto
simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso coincidono con la
disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel territorio a strapiombo
sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva fisionomia di abitato
trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il pagliaio a sopperire alle
necessità abitative; sorsero le case “copertae
palearum” che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du
Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un
incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliaio - scrive il Peri non ad hoc ma
pertinentemente [17] - non richiedeva scavo in profondità per le
fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in grossi pezzi sovrapposti
“a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La costruzione si alzava, quindi,
con paglia e fogliame impastato con fanghiglia. Costituito abitualmente da un
vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le bestie collaboratrici e
compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle intemperie e dava una pur
limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole. Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad lapides et calces), anche nelle città erano e sarebbero
rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata secolare.
E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano nozione diversa
dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la fatica prolungata e
l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente
offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche
dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e
al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con
rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle
generazioni.»
Il
prisco insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti che i successivi
riveli sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo ebbe a chiamarsi
di Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di Pannella incluso,
dalla Madonna della Rocca sino alle
Bottighelle dell’attuale corso
Garibaldi, tra S. Pasquale e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli
altri tre quartieri: San Giuliano, Fontana e Monte.
I racalmutesi tengono molto alla
tradizione che vuole la chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente
addirittura al 1108: una chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si
indicano come i primi baroni del casale. Non è facile farli ricredere. La ‘notizia’
ha per di più una fonte scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici locali la
danno per certa, ed anche i restauratori della chiesa, negli anni ottanta del
secolo scorso, parlano di facciata “normanna”.
Il Pirri, palesemente, collega
la notizia ad un paio di diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi
capitolari della Cattedrale di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a
cavallo tra il XIX ed il XX secolo per la nota questione delle decime della
mensa vescovile agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi incaricati di
difendere le ragioni dei grossi agrari della provincia, riluttanti a
riconoscere le antiche tassazioni ecclesiastiche, e giuristi, canonici e
storici di parte cattolica, tutti alle prese con la dimostrazione che trattavasi
di tasse dominicali e quindi di gravami ancora validi.
Nel
1960, il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta dal concordato del 1929 e
nella sudditanza alle autorità ecclesiastiche propinata dal consolidato regime
democristiano - incaricava il grande paleologo Mons. Paolo Collura di uno
studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi. La pubblicazione che ne è
seguita è pietra miliare per ricerche del genere.[18]
Noi siamo andati a cercare quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria
di Racalmuto ed abbiamo scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese.
Vi sono, sì, due diplomi del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della
fondazione di una chiesa dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la
località nulla ha a che fare con la nostra Racalmuto .
Si
riferisce evidentemente ad alcuni di codesti diplomi, il Pirri nel fornire
notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde nota lo stesso
Collura ([19]). Ma
come si può ben vedere, sia per le precisazioni del Collura sia per l'ubicazione
dei fondi sia per i toponimi, si tratta di Santa Margherita Belice (o presso i
suoi dintorni) e Racalmuto va senz'altro escluso. ([20])
E’, poi, certo che Racalmuto non appare
mai in modo incontrovertibile nel carte capitolari di Agrigento che vanno dalla
conquista normanna al 1282. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad un tardo
affermarsi del toponimo arabo del nostro paese o ad una sua indipendenza
fiscale nei confronti della curia agrigentina. Noi, come detto dianzi,
propendiamo per la tesi della tarda fondazione del paese di Racalmuto, qualche
decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo soffermati sopra.
Caducata
l'attendibilità della fonte documentale del Pirri, si sbriciola la narrazione
del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il Capitolo II ed il III [21]
che contengono notizie sulla "signoria dei Malconvenant" e su
"Santa Margherita Vergine" che corrisponderebbe "alla nostra Santa Maria di Gesù" sono
destituiti di fondamento storico. Il Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta
conoscenza dell'abate netino. Egli si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura
Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte
a Racalmuto» e del «Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°,
pag.393-4». L'Amico è esplicito nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui
Malconvenant e su Santa Margherita Vergine: è il Pirri della Not. Agrig. [22]
Il Pirri fu sicuramente indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo
agrigentino. Nasce così il falso storico di una chiesa racalmutese intestata a
S. Maria di gesù, risalente al XII secolo.
L'avallo
di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra Martorana [23]
ha ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie storiche su Racalmuto e non
sarà facile a chicchessia rettificarle o raddrizzarle. Malconvenant e chiesetta
vetusta di Santa Margherita-Santa Maria sono usurpazioni storiche cui i
racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è che, ancora nel 1986, il padre
gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso narrando:[24] «frutto
della rinascita normanna fu per Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte
Ruggero conferì l'investitura di signore delle terre di Racalmuto a Roberto
Malcovenant che dopo venti anni dalla liberazione vi fece sorgere la prima
chiesa sotto il titolo di S. Margherita vergine e martire, vicino l'attuale cimitero,
dotandola di fondi agricoli che convertì in prebenda canonicale. Rocco Pirro
colloca l'erezione della chiesa nell'anno 1108 e precisa che avvenne con
licenza del Vescovo di Agrigento, Guarino (+1108)» ([25])
Il mendacio storico è proprio duro a morire, se anche un colto ed avveduto
gesuita vi incappa or non sono più di una ventina di anni fa.
Quanto a falsità storiche, ancor
più salienti sono quelle che confezionate dal Tinebra Martorana, furono
ribollite da Eugenio Napoleone Messana: sono le incredibili avventure della
Racalmuto nel crogiolo della rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana [26]
che nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai baroni
filofrancesi «Giovanni Barresi, signore
di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti vassallaggi di
Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse le armi contro
il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del 1282, «Giovanni Barresi, che palesemente aveva
seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in auge,
ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato, fu
spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la baronia
di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu concessa alla
famiglia Chiaramonte.»
* * *
Il
Fazello non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli
incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto
storico è basilare nella storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni
che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+
1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale
castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la
seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello è del
tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito
Amico [27]
ed il Villabianca, quello della Sicilia Nobile [28] - su
un'evidente distorsione di un passo dell'opera storica del Fazello. [29]
Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto
[30]:
Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da re Ruggero l'investitura
di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri
"oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio
Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo
su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno in tal
modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende avventurose di quella
famiglia.
Non
è questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci pare di avere fornito
elementi sufficienti per comprovare la validità dei nostri convincimenti in
ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei Malconvenant e dei Barresi
con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere se possa parlarsi della
signoria degli Abrignano.
Il
solito Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina questa successione:
«Alla morte del conte Ruggiero Normanno, sia
perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta, sia perché fosse
caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini ed uffici.
Ciò che è indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il gran re
Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli
Abrignano [Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli
Abrignano però non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto,
fu per breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E
tanto è davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come
“indubitato”, diviene subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe
essere consentita - “non sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò a
definire quella del Martorana “una buona storia del paese”. [31]
Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49) non ha dubbi che «nella cronaca dei
re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero II concesse la baronia di Racalmuto
ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad Abbo Barresi dopo. Della
concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il Minutolo, altri la omettono e
riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.» Evidentemente, né Tinebra
Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto il Minutolo, diversamente
non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano letto soltanto Vito Amico che
nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo Memor. Prior. Messan. Lib. 8
attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla famiglia di Abrignano, dato poscia
a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel Villabianca: « e la tenne [Racalmuto]
pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente ci dispiace che
nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro stimato amico. [32]
Egli sintetizza: «La famiglia Albrignano - Decaduta la famiglia Malconvenant,
Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto agli Albrignano o Alvignano nel
1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle storia o, se vi fu, ebbe a durare
pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia di Racalmuto era già nelle mani dei
Barresi.» Un evidente sunto, con quella aggiunta della data che vorrebbe essere
una precisazione e diviene invece una colpevole topica.
Il
Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina
che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran priorato” [33]
: raccolse le dichiarazioni dei vari suoi confratelli sulle loro ascendenze
nobili. Essere nobili era indispensabile se si voleva essere ammessi fra quei
frati cavalieri. Fra D. Alberto Fardella di Trapani nell’anno 1633 asserisce -
in buona fede o fraudolentemente, non sappiamo - che un suo antenato era:
«Hernrico Abrignano dei Signori di Recalmuto, nobile di Trapani, e Regio
Giustiziero, e Capitano» nell’anno 1395. La falsità era talmente evidente da
non doversi dare alcun credito al mendace frate, ma il Minutolo non se ne
accorge ed incappa in una smentita a se stesso, quando trascrive l’albero
genealogico dell’altro confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo del Carretto, di
Giorgenti, 1617”, il quale, in coincidenza della pretesa signoria di Racalmuto
da parte di Enrico Abrignano nell’anno 1395, colloca , correttamente, al posto
dell’Abrignano, il proprio antenato, il celebre barone Matteo del Carretto. Ma
già un altro dei due monaci della famiglia Fardella (fra D. Martino Fardella di
Trapani 1629) si era limitato a dichiarare quell’identico antenato come
semplice nobile di Trapani («Enrico Abrignano Nobile di Trapani»).
Gli
Abrignano con Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse una qualche
parente di Matteo Del Carretto andò sposa al “mercante” Enrico Abrignano,
attorno al 1391.
Quanto
ai Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero abbiano avuto il dominio di
Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se il padre Aprile, scrivendo
in epoca moderna, era propenso alla tesi affermativa. Si disse che Abbo Barresi
I o Senior ebbe concesse dopo il 1130 dal re Ruggero il Normanno vari feudi,
Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a Matteo; da Matteo a Giovanni, la
successione in quei domini feudali. Il San Martino Spucches resta sconcertato
dalla contraddittorietà delle notizie fornite dal Villabianca. Si limita allora
a questa secca elencazione: «Il
Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo
Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200).
Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico II concesse, dopo il
1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio di Giovanni (di Matteo
di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio Matteo: al quale successe
Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi visse sotto Re Giacomo di
Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo divenuto Re di
Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo
momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad
elencare i Baroni di Racalmuto con numero progressivo.» [34]
Ma, così facendo, l’esimio araldista, allunga la teoria delle successioni,
ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si passerebbe ad Abbo II iunior che avrebbe avuto dall’imperatore
Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a quell’epoca, ancora da fondare); da
Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo III, cui sarebbe subentrato Giovanni
Barresi che è personaggio storico distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro
signore di Pietraperzia, Naso e Capo d’Orlando.
Scettici sulle signorie
pre-Vespro dei Barresi, non possiamo escludere che, con la restaurazione
feudale di re Pietro, Giovanni Barresi possa essersi impossessato di Racalmuto,
stante la latitanza di Federico Musca, cui invero sarebbe spettata la
titolarità della baronia racalmutese. Con il passaggio tra le fila di re
Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra al proprio fratello, Federico
III, che era stato proclamato re di Sicilia nella ben nota crisi di fine secolo
XIII – poté essersi pur verificata la perdita da parte di Giovanni Barresi del
recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli altri suoi possedimenti
siciliani, finiti sotto confisca.
L’Amari,
nella sua guerra del Vespro siciliano, accenna ad un diploma del 28 dicembre
1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo II d’Angiò, ove Racalmuto
e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto. [35]
Ovviamente si trattò di promesse dell’angioino che non ebbero seguito alcuno.
Ma quella promessa sa di sonora smentita della tesi che vorrebbe feudatario di
Racalmuto Giovanni Barresi: questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure
sotto la bandiera di Giacomo d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò
arrivasse al punto di confiscare il feudo ad un amico per prometterlo ad un
altro amico. Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse
ancora la concessione a Pietro Negrello di Belmonte e che si pensasse di girare ora il feudo al
milite alleato Pietro di Monte Aguto.
[1] ) I
REGISTRI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA - VOL. VIII - A CURA DI JOLANDA DONSI' GENTILE -(Ricostruiti
da Riccardo FILANGIERI con la collaborazione degli Archivisti Napoletani) vol.
VIII 1271-1272 Napoli 1957
[2]
) Reg. 1271.A, f. 246. Fonti: De Lellis
l.c. Dal Secreto Sicilie - cfr. op. cit. pag. 65 La località viene nell'indice,
a pag. 333, riferita a Racalmuto (veramente
sta scritto: Racalnuto). Per De Lellis l.c. bisogna intendere: Carlo De
Lellis, Notamenta ex registris Caroli I. Trattasi di un manoscritto. Il
documento trovavasi già pubblicato in una analoga opera: REGESTA CHARTARUM
ITALIAE - 'GLI ATTI PERDUTI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA' - transunti da Carlo de
LELLIS, pubblicato sotto la direzione di Riccardo Filangieri, a cura del R.
Istituto Storico per il Medio Evo - Roma 1939 - Vol. I a cura di Bianca
Mazzoleni - Il testo palesa molte difformità, sia pure solo formali. [v. pag.
55]
967 - Petro Negrello de
Bellomonte militi, exequtoria concessionis casalium in pertinenciis Agrigenti,
videlicet Rachalgididi, casale Rachalchamut et Sabuchetti et casale Brissane,
nec non domus in qua habitat Fredericus Musca proditor; que casalia Rachalgididi,
Rachalchamut et Sabuchetti et dicta domus fuerunt Frederici et casale Brissane
devolvit per obitum sine liberis quondam
Iordani de Ceva. - (f. 246)
Vi appunta la sua attenzione ( ma con
qualche inesattezza): Illuminato PERI: Uomini, città e campagne in Sicilia dall'XI
al XIII secolo - Laterza, Bari 1978. Nella nota n. 6 al cap. XXI (cfr. pag. 331
e 332) riduce in questi termini l'assegnazione di Racalmuto: La nuova lotteria feudale dai Reg. ang. (e cioè: I Registri della Cancelleria
angioina, ricostruiti da R. Filangieri di Candida e dagli Archivisti
napoletani, Napoli 1950 sgg. - cfr. pag. 294) .......RAHLHAMUD e altri casali
già di Federico Mosca e Giovanni de Ceva ( VIII, pag. 65, a Pietro Nigrel de
Bellomonte) ...
La nota riguarda il seguente passo di
pag. 266: «Erano espressione, nell'insieme, e con maggiore evidenza i secondi,
del movimento nella cerchia dei feudatari di Sicilia verificatosi sotto Carlo
d'Angiò: una lotteria che toccò
intiere terre e casali; ma che, se non mise in circolo una feudalità irriguardosa per ambizioni fondate
su reale potenza, non creò neppure un solido aggangio alla dinastia. Anche
perchè i nuovi signori non foruno accompagnati da un seguito che avesse presa
sul tessuto demico o valesse quanto meno a contenere prevenzioni e
risentimenti, nostalgie seppur strane e aspettative magari vaghe ...»
[4] )
Michele Amari - La guerra del Vespro siciliano - Milano 1886 - vol. I - cap. IX
pag. 339 e pag. 340. Cfr. in particolare la nora sub 1) di pag. 339 che bene
inquadra la questione del diploma del 30 dicembre 1282, base della narrazione
dei fatti che vedono tra i protagonisti appunto il nostro Federico Mosca,
indicato come conte di Modica.
[5] )
Illuminato Peri - La Sicilia dopo il Vespro - Uomini, città e campagne
1282/1376 - Bari 1981, pag. 31.
[6] )
Michele Amari - La Sicilia dopo il Vespro ..., op. cit. p. 345.
[7] )
Michele Amari - La Sicilia dopo il Vespro ..., op. cit. p. 55 e segg.
[8] )
Michele Amari - La Sicilia dopo il Vespro ..., op. cit. p. 65.
[9] )
Arturo Petix - Da Milocca a Milena - Milena 1984, pag. 27.
[10] )
Nell'inventario dei Registri Angioini compilato nel 1568 al n.12 leggiamo: «Item
uno altro registro di carta ut supra intitulato Registrum Regis Caroli I° anni
1271, comincia 'Scriptum est Bayulis' e finisce 'ultimo augusti XV indictionis'
di carte n. 248.» Cfr. pag. 248:
PROVISIONES SEQUENTES DIRIGUNTUR SECRETIS SICILIAE. - Cfr. pag. 250 : N. 966
Petro Negrello de Bellomonte ... etc.
c.s. Pietro, Conte di Montescaglioso,
Camerario del Regno, BEAUMONT (de) o BELMONTE ( cfr. pag vol. VIII 127, 128,
145, 173, 187, 191, 199 etc.) NEGRELLO PETRO DE BEAUMONT (cfr. pag. 65 e
182). Cfr. pag. 145 (n. 246) - Mandatum
pro mutuo unc. C cum Petro de
BELLOMONTE, Montis Caveosi et Albe Comite, Regni Siciliae Camerario. Reg. 1272, XV ind. f. LXVIII, t) De Lellis
l.c. n. 580.
[11] )
Léon Cadier - L’amministrazione della Sicilia angioina, a cura di Francesco
Giunta - Flaccovio editore Palermo, 1974 -
[12] )
Sul sipario non è poca la letteratura sinora accumulata. Citiamo a caso:
Gaetano Restivo: quel sipario abbandonato, in Malgradotutto, novembre 1993, f.
2MT; Aldo Scimé: Perché rinasca, in Malgradotutto, settembre 1994, f. 3MT;
Leonardo Sciascia su l’Espresso (1978?) citato dallo Scimé;
[13] )
Leonardo Sciascia - Il mito del Vespro, Sciacca 1982, pag. 21.
[14] ) ibidem,
pag. 13.
[15] ) ibidem,
pag. 14.
[16] ) Ci
riferiamo al documento VIII che Giuseppe Silvestri pubblicò nel 1882 tra i
“Documenti per servire alla storia di Sicilia” - Prima Serie - Diplomatica -
vol. V - Palermo 1882 - “De rebus regni Siciliae” (9 settembre 1282-26 agosto
1283). Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona d’Aragona -
Documento VIII - pag. 8 (Palermo 10 settembre 1282, ind. XI) - «....
universitati RACALBUTI. Archeorum XV».
[17] )
Illuminato Peri - Uomini, città, e campagne in Sicilia, dall’XI al XII secolo -
Bari 1978, pag. 12.
[18] )
Paolo Collura: le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Agrigento
-Agrigento 1961
[19])
Come ebbi a scriverti a pag. 5 e seguenti del mio precedente malloppo si tratta
del seguente passo della Notitia contenuta a pag. 697 della Sicilia Sacra del
Pirri: «XIV. Warinus, sive Guarinus
eiusdem coenobii monacus ... in episcopatu Agrigenti, Dragoni successit an.
sal. 1105. uti ipsemet memoriae prodidit in quondam privilegio. Anno incarnationis dominicae 1108
praesulatus mei anno IV. Rogerii junioris consulatus, forte comitatus, anno III.
Robertus Malconvenant cum Giliberto consanguineo suo milite perfecis in praedio
suo sub honore S. Virginis Margaritae templum, illudque multis auxit praediis.
ac Gilibertus clericali tonsura decoratus illa bona in praebendam Canonicatus
Ecclesiae Agrigentinae dedit, dummodo tres libras incensi anno quolibet 15.
augusti in festo S. Mariae persolveret. De hoc Roberto Malconvenant domino
praedii, quod nunc est oppidum Rayalbuti [sottolineatura nostra,
n.d.r.], atque eius filio Guillelmo
Malconvenant Magistro Justiciario Magn. R. C. ....
[20]) Gli
altri due accenni del Collura alla nostra chiesa di S. Margherita sono: a)
Documento n. 27 [pag. 63-65] e b) Libellus
(c 16 A [rectius c.17 a], n.d.r.]), pag. 304.
Il Documento sub a) non ci
è di molto aiuto per la nostra ricostruzione: esso si limita ad includere in
uno scarno elenco [pag. 65] la "Ecclesia Sancte Margarite virginis, incensi
libras. III". Per il Collura non vi sarebbero dubbi: si tratta per lui
del beneficio dei nostri due documenti nn. 8 e 9 sopra riportati [cfr. nota n.
2 di pag. 65 del Collura]. L'elenco si intitola CENSUUM INDICULUS e viene datato prima del 1177. Quell'accenno
all'onere delle tre libbre d'incenso sembra dargli ragione.
Molto più complesso è il
discorso sul documento sub b). Il riferimento è al «Libellus de successione
pontificum agrigenti et institutione prebendarum et aliarum Ecclesiarum
dyocesis, sicut ex relatione cognovimus precedentium seniorum et ipsi
inspeximus in eodem statu». Il Collura data questo la stesura di questo Libellus nel "1250 o comunque, giacché il documento più
recente (n. 74) è del 1252, non più tardi del 1260" [pag. XXII]. Il passo
che ci interessa è il seguente: «Sancta
Margarita [e qui il Collura annota: "S. Margherita Belice (cfr. docc.
nn. 8-9), n.d.r.] beneficium cuius est terra sua et burgenses
in spiritualibus et temporalibus cum platea et mercedibus». Al riguardo non
son proprio certo che il Collura abbia ragione. Il precedente passo recita: «Quatuordecim
debet habere Ecclesia Agrigentina et non amplius. Subsequencia fuerunt
beneficia: ..» e segue l'elenco dei benefici tra i quali quello citato di
Santa Margherita. Non si può quindi escludere che prima del 1250 vi sia stata
una generale ristrutturazione di tutti i benefici canonicali della curia
Agrigentina (prima infatti di parla di una prebenda «insituta de camera pro auctoritate legis») e in quel frangente si
attribuì ad un canonicato (che sappiamo dal Pirri essere stato nel XVII secolo
il XVIII°) il beneficio di Racalmuto, denominato più o meno appropriatamente di
Santa Margherita nel ricordo o falsando il vetusto beneficio del Malcovenant,
che peraltro si riferiva a S. Margherita Belice. Un'astuzia curiale non è poi
tanto impensabile ed inconsueta.
[21] )
Nicolò Tinebra-Martorana - Racalmuto, memorie e tradizioni - Racalmuto 1982,
pagg. 55-57.
[22] )
Cfr. l'Appendice al volume del Tinebra-Martorana, pag. 199.
[23] ) Addirittura elogiativo
asserendo il grande scrittore che «il libro, per i racalmutesi, per me
racalmutese, va bene così com'è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu
scritto e degli anni che aveva l'autore, con l'aura romantica e un tantino
melodrammatica che vi trascorre» (op. cit. pag. 9).
[24] ) P.
Girolamo M. Morreale, S.J - Maria SS. Del Monte di Racalmuto - Racalmuto 1986,
pag. 23.
[25]) In
effetti si ignora l'anno della morte del Vescovo Guarino o Warino che
addirittura potrebbe essere avvenuta attorno al 1128 (Cfr. Collura P. , Le più
antiche carte..., op. cit. pag. XII)
[26] ) N.
Tinebra Martorana, Racalmuto, op. cit. pag. 60 e segg.
[27]) Vito Maria Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi
secundi pars altera, Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma
pos. 1.24.C. 19/24] In proposito, il passo in latino di pag. 115 è il seguente:
« ... Barresiis subinde datum [Racalmuto,
cioè]; Joannes subinde eiusdem familiae ad Andegavensium partes deficiens, secum opida sibi subdita
traxit, Petrapretiam, Nasum, Rahalmutum et alia.» Gioacchino Di Marzo ne fece questa traduzione:
« .... dato poscia a' Barresi; poichè
Giovanni della medesima famiglia
essendosi ribellato in pro delle parti angioine, seco trasse i soggetti paesi
Pietraperzia, Naso, Racalmuto ed altri.»
[28]) F.
M. Emanueli e Gaetani - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore [copia
anastatica dell'edizione Palermo 1759 - Parte II, libro IV, pag. 199 e segg.
Invero, l'A. sembra voglia far ricadere la colpa al padre Aprile. Noi, a dire
il vero, non abbiamo avuto modo di consultare l'opera di questo storico
siciliano che scrisse nel 1725. Disponiamo solo di una bibliografia del Bresc
ovè è così segnato: Francesco Aprile, Della
cronologia universale della Sicilia, Palerme, 1725, XXIV-808 p. [centré sur
Caltagirone]. Vedi Henri Bresc: Un monde méditerranéen - économie et société
en Sicile - 1300-1450 - Palermo 1986, pag. 48. Ad altri studiosi
quindi il compito ed il gusto di correggerci ed eventualmente integrarci.
[29])
Anche se non l'artefice primo della fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese,
il Villabianca è responsabile degli abbagli storici degli ereduti di Racalmuto
- a cominciare dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio
indigeno, dunque, ma pur sempre autore principe del racconto della 'venuta'
della Madonna del Monte. Questi a pag. 2 del suo libretto Maria Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, testualmente
annota: «L'ultimo di questa dinastia fu Giovanni Barrese, il quale al riferire del padre Aprile (Cron. Sic. cap. 1 f. 164)
[corsivo ns.] si rese indegno del dono, oscurando col più turpe tradimento la
fede siciliana. Nella guerra tra Carlo d'Angiò Conte di Provenza e Manfredi lo
Svevo Re legittimo del regno di Sicilia e Napoli fu il primo che vilmente
desertò le bandiere del suo Re, e passò al partito Angioino acquistandosi il
nefando nome di traditore della patria e del suo Re, una marca indelebile di
eterna infamia, e la perdita totale di tutti i beni, giusto e ben dovuto premio
dei traditori. Ma l'infamia a chi tocca: il vespere Siciliano manifestò al
mondo il valore dei figli di Sicilia, e la lor fedeltà ai legittimi Sovrani.»
La frase che abbiamo riportato in corsivo svela la totale sudditanza del p.
Caruselli dal Villabianca (a parte la diversa pagina: 164 al posto di 144,
evidentemente un mero errore). Ecco infatti cosa aveva scritto il celebre
autore della Sicilia Nobile a pag.
199 e ss. - parte seconda, libro IV: Racalmuto «credesi indi concessa dal Rè
Ruggieri Normanno figlio del liberatore testè accennato ad ABBO BARRESE in
consuso con quelle Terre, che sotto l'aggettivo di pleraque oppida per conto di
esso Barrese numera FALZELLO nella sua Stor. di Sic. dec. 2. lib. 9. cap. 9 f.
184 avvegnachè sullo spirare del secolo decimoterzo stava ella in potere di
Giovanni BARRESE, il quale al riferire
del Padre APRILE Cron. Sic. f. 144 c. 1 [corsivo nostro] fu il primo tra i
Baroni del nostro Regno, che nelle guerre fatte dall'armi dei Collegati
Angioini in quest'Isola passasse al loro partito col suo vassallaggio
consistente nelle Terre di PIETRAPERZIA, NASO, RAGALMUTO, CAPO D'ORLANDO, E
MONTEMAURO, terra oggi disfatta, situata in quel monte, che si alza fra la
Città di Piazza e 'l MAZZARINO presso il fiume Braeme. Sicchè dichiarato
fellone esso Giovanni, cadde Tal Baronia nelle mani del Reg. Fisco.» (Vedasi:
F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore
[Copia anastatica dell'edizione Palermo 1759] - RAGALMUTO - [pag. 199 e ss.
Parte II Libro IV).
Il padre Caruselli
sicuramente non consultò il p. Aprile, come noi del resto. Ma fu abbaglio suo
personale quello di credere che Giovanni Barrese sia stato privato delle sue
terre per aver tradito Manfredi a favore di Carlo d'Angiò, grosso modo tra il
giugno del 1265 ed il febbraio del 1266. Le turbolenze di Giovanni BARRESE
avvennero invece nella contesa tra i due fratelli Federico III e Giacomo II
d'Aragona e cioè tra il 1298 ed il 1302, circa vent'anni dopo il Vespro
siciliano: Illuminato Peri (vedasi La
Sicilia dopo il Vespro - uomini, città e campagne 1282/1376 - Laterza Bari
1982, pag. 39) data la dissidenza di quel nobile attorno al 1299 (ed era solo
signore di Pietraperzia, Naso e Capo d'Orlando, come da pag. 39 e nota 44). Il
padre Caruselli non era ovviamente ferrato nella storia medievale della
Sicilia, e l'intrigo degli eventi lo giustifica. Ma quell'accenno ai Vespri
Siciliani ebbe grande fortuna. Il Tinebra Martorana, con la sua «aura romantica
e un tantino melodrammatica», per dirla alla Sciascia, vi si buttò a capofitto
vergando il capitolo IV su Racalmuto e la famiglia Barrese (pag. 58 ed. 1982).
Eugenio Napoleone Messana diviene incontenibile - da pag. 54 a pag. 58 - nella
sua storia su Racalmuto (ed. 1969). Purtroppo anche il valido padre Calogero
Salvo cade nella trappola, in ispecie a pag. 25 del suo Ecco tua Madre - Racalmuto 1994.
Non si lascia ingannare, invece, da quell'ambiguo parlare di un
passaggio "ad Andegavensium partes" dell'Amico l'avv. Francesco San
Martino De Spucches: Egli bene inquadra la congiuntura storica: «Questi
[Giovanni Barrese] - scrive a pag. 181 del quadro 783, op. cit. - visse sotto Re Giacomo d'Aragona e seguì il
suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo, divenuto Re di Sicilia, dichiarò
esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo momento comincia una
storia certa e noi cominciamo da questo momento ad elencare i baroni di
Racalmuto con numero progressivo...»
[30]) F.
TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC
PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS -
Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes
Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad
Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca
Nazionale - manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia)
pag. 592 - De rebus .. posterioris decadis liber nonus - cap. Nonum
Hic genus suum ad Abbum Barresium, cuius pater ex proceribus, qui cum
Rogerio Normanno ad propulsandos
Sarracenos in Siciliam venerunt, unus fuit, ut Rogerij Regis diplomate
constat, hoc ordine refert. Ex Abbo, qui Petrapretiam, Nasum, Caput Orlandi,
Castaniam, et pleraque alia oppidula à Rogerio Rege adeptus est, Matthaeus.
[31] )
Leonardo Sciascia - Morte dell’Inquisitore - Bari 1967, pag. 181.
[32] )
Sac. Calogero Salvo - Ecco tua Madre - Racalmuto 1994 - pag. 24.
[33] )
MEMORIE DEL GRAN PRIORATO DI MESSINA - RACCOLTE DA FRA DON ANDREA MINUTOLO dei
baroni del Casale di Callari, e feudi di Boccarrato - Cavaliero Gerosolimitano
1699 - dedicate all'illustrissimo Eccellentissimo Signo mio Padrone
Colendissimo il Signor Fra D. Giovanni Di Giovanni de Principi di Tre Castagni
; Gran Priore di Messina, e già di Barletta, Capitan Generale della Squadra
Gerosolimitana, e Condottiero di quella di N.S. Innocenzo xij nel 1692-1693. In
Messina - Nella stamperia camerale di Vincenzo d'Amico 1699 - Con licenza de'
Superiori.
[34])
Avv. Francesco San Martino de Spucches - La storia dei feudi e dei titoli
nobiliari di Sicilia, dalla loro origine ai nostri giorni (1925) - vol. VI,
Palermo 1929, pag. 181 e segg.
[35] )
Michele Amari - La guerra del Vespro siciliano, vol. i - Milano 1886, pag. 386.
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