GIOVANNI V DEL CARRETTO
Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a
Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi:
Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo
Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il
battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II
ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è
già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626
emigra a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo
aveva un tempo comprato dai Vernagallo .
La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere davvero
scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai non ha
peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via che lo
porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad un
colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se la
squaglia in tempo.
Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando
scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti
era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una
congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere
si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di
Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria
Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia.
Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il
conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e
protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più
grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto
erano dediti.» [1]
Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi a
quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso: [2]
«Rappresentava
il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale avea nome
D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del principato di
Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di capo del braccio militare, potea con l'appoggio
de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe
di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo il giogo
straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli Austriaci di
Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola, poteano i
Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come prima un re
proprio ed interessato al comune vantaggio.
Di
tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il
conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero
all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia
della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e Pesce
tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore
importanza e che con più simulazione
aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo
confidente, i dubbi promossi per la
successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso
Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto
cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che
alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima
destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale,
che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima
qualità, fra le quali il conte di
RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello
del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del
Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe
Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de'
principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e
molti altri.
[p.118]
Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre
SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il
trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con
un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era
allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina,
di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai
congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed
il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12
di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di
Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte
di RAGALMUTO suo cognato. Temendo però egli d'incolparsi maggiormente
con la fuga, lusingossi di non venir nominato come complice da' due avvocati e
dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani de' regi. Mentre però il Vicerè era
ancora a Messina, confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò, che sapevano
dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il procurator Potomia
negassero costantemente avervi avuto parte, furono tutti condannati alla morte.
Allora il Giudice, che di tanto male si conosceva la prima cagione, dettò in
difesa de' compagni una sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio consultore
del vicerè venne onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio Siciliano.
Né
meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza
del Pesce, il quale pria di morire
scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor
maggiore la discussione del processo del
conte di Ragalmuto, e nella corte
la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui facilitata dal viceré stesso
la fuga, per non macchiarsi le mani nel sangue di un sì nobile e
principalissimo barone: ma non ostando a ciò il segretario Leiva, gli fu
concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi intanto il viceré D.
Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle accuse contro gli
altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente contro il duca di
Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il numero de'
vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi servirono, per così dire, di
scudo. »
La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni
V del Carretto l’abbiamo in un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che
Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina
.[3]
Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica.
Seguiamolo, dunque:
«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni
del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]
«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò
che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in
caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del
regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la
notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli
Spagnoli. [v. pag. 364]
«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato
privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e
nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da
testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino
della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo
de’ suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di
Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma
infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi
passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del
Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri,
per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato
castigo.» [v. pag. 367][4]
Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma
Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei
vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato,
c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento
ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini
di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che
possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.
Il testamento di donna Aldonza e le
pretese del monastero di Santa Rosalia di Palermo
Tra
le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della
terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice
di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.
Donna
Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il primo conte
di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana,
Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita)
e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede
Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una cospicua dote per
ogni fratello e per ogni sorella. Pare
che il violento conte non se ne desse eccessivo pensiero. Snobbò principalmente
di dotare le sorelle specie quella zitellona che fu donna Aldonza. Questa non
glielo perdonò mai, pure sul letto di morte. Redasse un testamento, tanto pio
quanto subdolo verso l’inviso fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal
nutrito numero dei suoi eredi universali,[5]
che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna,
donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali
portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus
praedictis et infrascriptis».
Dopo aver
fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver
dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si
ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et
perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di
Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti,
pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una
con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e
qualsivoglia leggi et altri ragioni in
suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in
contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali
leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in
juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di
essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle,
siano et s’intendano instituti heredi
universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et
lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una
volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni
quolibet competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta
testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare
la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli
li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600
essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto
soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla]
presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Il
chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad Agrigento
(Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il “Libro d’esito
del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra di Racalmuto
dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24 agosto 1649.
Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera passano dunque
44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi 4.400 onze, come
dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro. Tutto quel tempo
impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma alla fin fine le
sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà
testamentaria della terribile virago. Nel chiostro, però, non andarono solo
giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche. Verso la
fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei
libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e
della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di
questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi
Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta
terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna
Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di
detta terra.»
Nel
1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole
signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per
esigenze di bilancio familiare.
Dovevano bene
ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro,
gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità
d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare
quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi
pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa
ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno
concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide
a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte della Matrice per farne una
doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un
monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche
a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la sua non molto pia
donatrice testamentaria.
Il
fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di nemesi
storica, viene riesumato a danno sul
nostro Giovanni V del Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci svela
l’arcano. [6]
E’ il 10 ottobre del 1645: Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni, sta a
Palermo, non crediamo che avesse voglia di fare dei colpi di stato per far
nominare re di Sicilia il cognato, il conte di Mazzarino. E’ costretto a
stipulare un contratto (in effetti una transazione) con il dottore in utroque Giuseppe Bonafante. Su questa
figura di prelato vedasi il Nalbone. ([7])
Si trattava in effetti del “procuratore generale e protettore del venerabile
convento di Santa Rosalia” in Palermo.
Costui
aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una “provvisionale” datata 5
luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del 5 maggio 1643 che
investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva condannato a pagare entro un mese al monastero di Santa
Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d. Margaritae, d. Eumiliae et
d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle che abbiamo prima citate)
di quattro delle sorelle del trucidato conte Giovanni IV del Carretto. E non
era una bazzecola: si trattava di once 7.687, diciassette tarì e tre grani. Un
calcolo in moneta attuale? era la cospicua cifra di quasi quattro miliardi e
mezzo.
Ma
che diavolo era avvenuto?
Come
si disse, anche sul letto di morte presso il pauroso convento di Santa
Caterina, donna Aldonza del Carretto non sia acquietò contro il fratello
Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la vecchia non
voleva che con la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del fratello.
Stabilì dunque che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione dei
diritti del conte del Carretto, andasse alle sorelle che istituiva sue eredi
universali.
In
base ad una clausola del testamento di Donna Aldonza, il destino del futuro conte Giovanni V del
Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31 marzo del 1605.
Nel
1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge una sorta di
monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante sorelle del Carretto. Sia
come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza, donna Margherita, e donna
Eumilia finiscono sotto le grinfie del convento. Si sostiene che sarebbero
state devolute per volontà testamentaria in dote del chiostro palermitano.
Attorno
al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale protettore e
procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro il sedicenne conte
Giovanni V del Carretto. Si nominano periti, si fanno conteggi, si tentano
espedienti formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de Uzeda, consultore di
Sua eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane conte ad una cifra
enorme. Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal Gaspare Guarneri, il
conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno convento di
Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo detto circa quattro
miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma il 10 ottobre del 1645, la pretesa
viene elevata ad onze 7.977.29.9.
A
questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di paragi pagati, di
biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a quelle tremende prozie.
Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa conventuale.
Inoltre,
chiede che si nominino altri periti di sua fiducia. E’ una corsa ad ostacoli
... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di baglia di
Racalmuto. Questa offerta viene gradita dagli organi giudicanti. Il padre
Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine palermitane giammai
sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni sui poveri e
riluttanti racalmutesi.
I
diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali.
In un arido documento palermitano v’è comunque
uno spaccato delle condizioni economiche di Racalmuto che va qui sottolineato.
Ogni capo famiglia doveva dunque corrispondere al conte 12 tarì per il tugurio
ove abitava; era lo jus proprietatis del feudatario che stava a gozzovigliare
nell’opulenta capitale panormitana. Non desta meraviglia che i 1.500 fuochi
(per una popolazione di oltre 5.000 abitanti) tenessero ad apparire alloggiati
in dimore povere, non idonee a sopportare quell’imposta catastale, ed erano
abili nel vantare titoli d’esenzione. Il prete Bonafede lo sa e non vuole
incappare nelle astiose incombenze esattoriali avverso evasori e gente con
pretese di ogni sorta di franchigia (preti, monache, conventi, indigenti,
confraternite etc.)
Non
accetta la cessione dei diritti feudali e congegna un accordo con il conte:
ridurre il tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita annua (ma perpetua)
dovrà avvenire sotto la diretta responsabilità del conte e dei suoi successori
e con la garanzia di tutte le entrate feudali di Racalmuto.
Giovanni
V del Carretto sembra ora più avveduto - o ha migliori consiglieri. Dice che
gli sta bene il minor tasso ed il diverso modo di pagamento delle rendite
annuali, ma è la sorte capitale che va tutta revisionata.
Contrario
in un primo momento è il sullodato sacerdote Bonafede.
Ma
deve, il prete, fare buon viso a cattivo gioco.
Si
consegue l’avallo delle superiori autorità.
La
conclusione è una soggiogazione da parte del conte di Racalmuto per onze 160, 3
tarì e grani 7 annuali, in favore del monastero di Santa Rosalia in Palermo.
La
mappa agricola di Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali messi in bella mostra;
i dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della rievocazione e inducono ad
un interessamento nei riguardi di questi antichi opifici, spesso capolavori di
ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed abbandonati, corrono il rischio di
sparire per sempre.
L’intricato
carteggio si conclude con l’accordo transattivo che nel suo nucleo essenziale
contiene i termini giuridici della soggiogazione delle predette 160 onze (più
tre tarì e sette grani) nella ragione del 4 per cento di un capitale pari ad
onze 4.002, 24 tarì e 14 grani.
Vi
erano molte riserve: non credo che il monastero le abbia potute far rispettare.
Il conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le modalità e per le vicende
prima ricordate.
Ma
il censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con gli interessi di
mora, come sta ad indicare questo resoconto del 1693:
13 Le onze 253.11.9. pagati al ven. monasterio
di Santa Rosalia di questa città per l'interusurio dell'anno 14^ ind. come per
apoca in d.ti atti a 30 sett. 1692: onze 253, tarì 1, grani 9.=
Alla
fine dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette sobbarcarsi a soggiogare
160 onze a valere sui diritti feudali racalmutesi. Circa 80 milioni di lire
annuali prendevano il largo da Racalmuto per finire nelle ingorde mani degli
amministratori del monastero di Santa Rosalia di Palermo. Nulla legava l’economia
racalmutese a quella claustrale di Palermo: un esborso dunque a vuoto; un
impoverimento monetario della illiquida realtà curtense dei nostri compaesani
del Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo andavano quelle imposte. Se nelle
tasche dello scervellato Giovanni V del Carretto o in quelle del monastero, non
v’era poi grande differenza. Magari il fine era più nobile! Ma si racchiude
tutta qua la giustificazione di
quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura feudale.
Giovanni
V del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo ebbe. Ebbe bisogno di
alienare un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio Grillo che comprò “il
feudo di Donna Maria nel territorio di Cerami - annota il San Martino de
Spucches - avendolo comprato sub verbo regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge l'investitura a 16 settembre
10 Ind. 1641 ....”.
Anagrafe di Giovanni V del Carretto
Sarà
il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.
Ex
dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de Carretto et de Viginti
Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem donnam Mariam
Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi
Branciforte, principis Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et
Santapau.
Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
Qui la vita scorre come può.
Sotto l’arciprete Filippo Sconduto (vedi sopra) inizia la controversia
per sottrarre Racalmuto all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo
Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae
13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol.
Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti
Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in
criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni
Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene
delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in
Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato
montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La
notte, preso da raptus estraeva le
casse, le apriva, e ci si curcava sopra.
Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte
pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di
Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava
l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente
ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in
Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte
furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si
trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in
registr....13 januar. [1632].” Tanto per
chi avrà voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma
quei diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio
1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il
seguito della faccenda, così ce la
racconta il Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem
litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit,
ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter
Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte
le furie: se ne dispiacque proprio summopere,
forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a
Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini,
caduti in un indegno crimine (indignitas
facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere
penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse
il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso
denaro (e già perché anche allora Roma era ...
Roma ladrona). Fatto sta che
immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che
Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto
deve tornare come prima: ad pristinum
rediere locum omnia.
Ma
chi erano i domini terrae Racalmuti?
Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della
copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di
Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto un fanciullo
tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del Palagonia ci vengono
in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere
l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera
Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:
Universitas terrae et comitatus
Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae
terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus
Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae
terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente
congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto
Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque
non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria,
un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre
agevolazioni ai borgesi racalmutesi
che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni
feudali: ([8])
Il Viceré comunica ai Giurati delle
terre di Bivona, Adernò, Termini, RACALMUTO,
Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le
istruzioni emanate sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.
(Trib. del R. Patrimonio. Lettere
viceregie e dispacci patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale
1639-1640, f. 48 e s.) - Il margine si
legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni,
Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi
riportato la stessa lettera diretta ai giurati di Lentini.
Philippus
etc.
Locumtenens
et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus Juratis terre Bibone Racalmuti fidelibus regi dilectis
salutem.
Siamo
stati informati che per la povertà di borgesi, massari et arbitrarianti della
[contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio nè quello coltivare nè
fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno et convinendo che un
tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo commesso a voi il
negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al dovere conforme sarrà
di giustizia osserbando quanto vi si ordina per l'infrascritti istrutioni sopra
ciò fatti del tenor seguente Videlicet.
Panormi die octobris 4^ inditioni 1636.
Instructioni
fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar soccorso alli
borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare delli borgesi che sono in detta [contea di
Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per seminare come per
ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi
futuri e per il governo delli seminati e terre
et si sono persone che, essendo soccorsi, si serviranno veramente del
soccorso per seminare e governare li seminati et a quelli che saranno tali et
haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli
feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in caso che
detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere essendo habili di
denari, farrete che coprino [comprino] li formenti per dare li soccorsi et in
caso chi padroni o affittatori siano affatto inhabili a dar soccorso ne di
formento ne di denari per comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse
habili a darlo promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò
faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se li daranno
cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza etiamdio delli terraggi [[9]]
et che per la restitutione non se li concederà per il pagamento di detti
soccorsi dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi che avessero
apparecchio o terre di ammaisare baronie, feghi, o terre disabitate, questi
ancora verranno esser soccorsi o di padroni o di affittatori, o di facultosi
del più vicino loco habitato con le medesime prelationi nel pagamento di
soccorso. Li borgesi che si soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria]
di seminare quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a
restituire il soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il
tempo suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle
pene inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia
pagato il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato,
etiamdio a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in
prontezza e senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli
borgesi et massari della [contea di Racalmuto] osserverete er essequirete tutto
quello et quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in
ciò la diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo
di tanto benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa
le cose premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per
quanto la gratia di S. Maestà tenete cara.
Datum
Panormi 6 octobris, 8 inditionis, 1639. El
Cardinal IOAN DORIA. Dominus
locumtenens mandavit, etc.
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox
clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più
commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa
Rosalia.
Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero
nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un
piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo?
Per avere alleggerite le onnivore tasse.
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del
Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era
succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi
giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino
Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor
meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente
Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono
assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae
Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume
aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura
di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un
giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di
nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo
segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita
terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più,
finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele
Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639
figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre
del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito
il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che
vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione
del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II,
prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo,
diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri
contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un
pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in
favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono
nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina
al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede
per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete
Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò:
sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza,
dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn.
Sancti de Agrò.
Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo
d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo
testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua
tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli
altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra
dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed
indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del
testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da
rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana,
procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da
quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel
po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non
manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento
più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani
scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco
Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale,
con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai
limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del
Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro
quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una
secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli
atti della Matrice segnano:
30/8/1648
Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il
cappellano detentore dei libri annota:
Il
d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto
d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice
chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante
peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella
macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti
caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae
libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo
pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui
racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un
protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua
Storia della Sicilia.
L’interregno
di Maria Branciforti
Eseguita
la pena capitale, i beni feudali di Giovani V del Carretto furono prontamente
requisiti. La Corte però non li trattiene: li concede alla vedova donna Maria
Branciforti, quale tutrice di don Girolamo III del Carretto e Branciforti. Con
un privilegio di Filippo IV, rilasciato nel Cenobio di San Lorenzo il 28
ottobre del 1654 e reso esecutivo in Palermo il 13 novembre 1655, Racalmuto
torna in potere dei del Carretto.
Il
privilegio di Filippo IV non evita di fare riferimento alla tragica ma anche
ingloriosa fine di Giovanni V del Carretto, ma alla fine risulta più munifico
di quel che ci si aspettasse. Al figlio di Giovanni V del Carretto andrebbe
anche il feudo di Gibillini, ma noi crediamo che si sia trattato di un errore
dei curiali di Palermo.
Donna
Maria Branciforti - evidentemente giovanissima - resta nel 1650 vedova ma con
buone rendite specie per i beni paterni. Ma ci pare in mano di usurai. La sua
situazione economica è riepilogata in questo documento che si conserva alla
Gancia di Palermo:
(Anno
1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)
Donna
Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda
della città di Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3 e Anna
Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once
300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il
capitale spetta onze 6000;
inoltre
rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382 e tt. 5 per il principato di Butera quale che
tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d.
Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve
a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.
Giovanni
V del Carretto lascia dunque due figli: Girolamo di anni 2 e Beatrice di cui
ignoriamo l’età.
GIROLAMO III DEL CARRETTO
Girolamo
III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto della famiglia
carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea mentre era ancora in
vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma Giuseppe era malaticcio; premorì al
padre ed Girolamo III ritornò la contea di Racalmuto; Girolamo morì senza altri
figli maschi; la contea finì in mano alla moglie del defunto figlio Giuseppe;
era costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe mantenere il feudo
racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di una tal Macaluso -
in mano dei Gaetani.
Girolamo
III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con la morte del
padre, la vita a Palermo dovette essere ardua. Così la vedova con i due
figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella capitale si infittiscono gli
approcci per il recupero dei beni feudali requisiti dalla corte spagnola.
Nel
1660, secondo una numerazione delle anime che si custodisce in Matrice, i del
Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di Racalmuto con questa composizione:
1625
LA CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA
MARIA C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO C.TA
Girolamo
del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da qualche prete
locale; subisce l’autorità della madre che appare molto volitiva.
S’iniziano
i lavori della Matrice e donna Maria Branciforti è munifica nelle elemosine.
La
contessa, in effetti, versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina” di cento
onze in ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze) lungo un
arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10 marzo 1660.
Sembra
che dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad Agrigento.
Girolamo III del Carretto ha voglia (o necessità) d’intrupparsi nell’esercito
spagnolo per andare a fronteggiare gli invasori francesi nei pressi di Messina
nel 1674. Aveva 26 anni. Non militò a lungo. Tornò a casa, si era sposato con
una Lanza. Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.
Il
San Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il profilo
araldico:
«Girolamo del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio del precedente [Giovanni V], per grazia
speciale di Filippo IV ebbe restituiti i beni paterni e con nuova concessione,
data nel cenobio di S. Lorenzo, a 28 ottobre 1654, fu nominato Conte di
Racalmuto; il Privilegio fu esecutoriato nel Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e
propriamente il 13 novembre. In base al suddetto privilegio egli s'investì a 14
agosto (R. Canc. IX Indiz. f. 73).
Si reinvestì, a 16 settembre 1666, per il passaggio della Corona (R. Cancell. V
Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze, Melchiorra
LANZA MONCADA di LORENZO, Conte di Sommatino, e di Aloisia MONCADA; sposò in seconde nozze, Costanza AMATO ed ALLIATA di Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca).
Fu maestro di campo dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione di Messina
(1674)[10];
Vicario Generale Viceregio a Noto, Girgenti, Licata, Caltagirone; Pretore di
Palermo nel 1682; Gentiluomo di Camera del Re Carlo II a 10 agosto 1688.»
Dal
1682, dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale era stato
anche per lui irresistibile.
Ha
voglia a Racalmuto di mettere mano a riforme: affida il vecchio ospedale di San
Sebastiano ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San Giovanni di Dio.
E’
leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia fondazione. [11] Sono ricavabili questi estremi:
"COPIA Della fondazione di
questo nostro Convento..." "ANNO
1693" Nell'anno 1693
l'Ill.mo Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO
E BRANCIFORTE Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO E LANZA sua
moglie". ...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo figlio. -Bolle Pontificie date in
Roma il .. 13|2|1693 .. in Palermo
l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".
Il
16 giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una figlioletta che
viene così registrata nei libri della Matrice:
Domina
Joanna, Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni Hijeronimi
Carretti et Branciforti comitis
Racalmuti et principis XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius
uxor; duorum annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti
animam Deo redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia S.te
Marie de Monte Carmeli in communione S. Matris Ecc,sie presente clero,
congregationibus confraternitatibusque et Senato. GRATISSappiamo
che donna Melchiorra Lanza morì a Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta
come attestano i soliti libri della matrice:
10.4.1701
D. MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA RACALMUTI
di anni 70 sepolta a S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII. Assistita
da D. FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE. Morì in sua propria domo.
Girolamo
III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni. Tra lui e la
prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di differenza. Questo, stando
ai dati che riportiamo. Confessiamo, però, di nutrire noi stessi forti dubbi:
forse gli anni della contessa defunta vanno rettificati in soli 50.
Girolamo
III del Carretto acquisisce contorni di litigiosità con i dati che emergono dal
Fondo Palagonia. Un atto soprattutto. [12]
Il
conte ha modo di dire di sé:
Ex ditto d. Joanne natus est
illustris don Hieronymus de Carretto et Branciforte, cuius nomine et pro parte,
illustris donna Maria de Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta
terra, statu et comitatu Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta
terra, statu et comitatu Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die
decimo quarto Augusti nonae indittionis 1656 per attum apparet et die sua
melius etc.
Il feudo di Racalmuto a fine del ’600
Ed
ecco come ci descrive il suo feudo, il nostro Racalmuto:
Item ponit et probare intendit non
se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto
in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme
setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme
seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e
salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni,
trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli
dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra
[134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:
delli Gibillini e feghi
delli Cometi;
e fegho delli Bigini;
del fegho di Zalora;
del fegho di Scintilìa;
del stato e ducato delli Grotti;
del fegho e principato di
Campofranco;
e fegho della Ciumicìa
e altri
confini ...
Non v’era dunque dubbio che le terre usurpate dai sacerdoti
racalmutesi erano integralmente sotto la giurisdizione del conte.
Item ponit
et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate
nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della
Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino
dell’Arco, Menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e
stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto
come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama
publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel
audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - - -
Non
sappiamo come sia andato a finire quel processo. Sorto alla fine del Seicento,
con tutta probabilità non era concluso alla morte del litigioso conte. Il quale
pare ebbe molto a litigare anche con il figlio che pure aveva dotato della
contea ancor prima della sua stessa propria morte.
Girolamo
III del Carretto non era comunque un mangiapreti: sotto di lui l’arciprete Lo
Brutto - e con il suo esplicito e imperioso avallo - aveva potuto costituire la
“comunia” di Racalmuto con ben dodici mansionari, adorni di fregi appariscenti.
Religione, clero ed altri aspetti
nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don
Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia.
Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina
subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e
deve emigrare. Lo segue uno stretto
parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e
con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in
Matrice. Già nel 1649, il nuovo
arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è
felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di
nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è
impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i
figli dell’infelice Giovanni V del
Carretto.
La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del
recupero dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento
del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli
atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di
consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus
Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora
l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della
Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui
pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per
conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di
novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore
Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal
vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal
vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità
diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo
et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò
ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o
Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle ..
pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata,
è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice:
oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale:
il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il
diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui
si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà
nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di
architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi
sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino,
come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti
della Matrice riportano:
1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis
Ecclesie
Viene
sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio
ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un
racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per
lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott.
sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno
profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella
centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta
un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote
che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità
potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la
diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra
Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17
dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668);
Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio
1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata
vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696.
Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori
Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo
atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale
controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale
fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il
profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e
sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il
vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento della
confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto
comportamento di alcuni catapani che
avevano tentato di applicare l’imposta
di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene -
del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente
per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia
Apostolica).
Se, un moribondo -
ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in
stato di semplice attrizione, dunque,
avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli,
era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia
agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i
tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono
in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia -
«a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del
pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al
sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre.
Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della
Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli
non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il
padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò
altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le
chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano
che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò
il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio
Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto
retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non
abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e
tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un
interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed
una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo”
godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto
- finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non
dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare
l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che
accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro
Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo
Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il
Monte. E’ consultabile la bolla di
elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe
sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr.
Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato
M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale
congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al
presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la
Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero
arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella
calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello
economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi
morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante
primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva
drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a
racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del macinato
per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che
rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il
neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre
Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di
“paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento
degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed
in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e
delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato
convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di
Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo
III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su
quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il
torchio della giustizia palermitana.
Girolamo
III del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i
padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di
Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie
rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte
dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso
erano di dubbia origine.
Girolamo
III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il
Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che
riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed
una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di
impossessarsi dell’ormai esausta contea
di Racalmuto.
Quanto
fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a
nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al
Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del
Carretto:
GIROLAMO
del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del
Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di
Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì
lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella
Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel
1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II.
pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron.
f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di
LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA,
figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE
del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete
Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di
Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a
fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria
diocesi). Là [13]
troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di
richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM
- Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la
cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha
per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si
recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali
(Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
-
dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
-
dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
-
dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
-
dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;
-
una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al
momento un sacerdote e due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi
religiosi, dopo avere accettato di accudire
all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto
ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti
dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per
costringerli a rinunciare ai proventi o
a lasciare i locali del convento.
Sorge
un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove
servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.
Oltre
alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici
chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul vescovo
Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari riferimenti.
Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è profonda ed
illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
[1] ) Leonardo Sciascia, Morte
dell’inquisitore, op. cit. pag. 182 e segg.
[2] )
Gio. Battista Caruso, Storia di Sicilia, PUBBLICATA
CON LA CONTINUAZIONE SINO AL PRESENTE SECOLO PER CURA DI Gioacchino di MARZO Palermo 1878 - Vol. IV - LIBRO XIV [p. 116]
[3] ) Leonardo Sciascia, Morte
dell’inquisitore, op. cit. pag. 177.
[4] ) Dal Diario delle cose
occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16
dicembre 1652, composto dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai
manoscritti della Biblioteca Comunale a’ segni Qq C64a e Qq A 6, 7 e O - pubblicato a Palermo nel
1869 da Gioacchino di Marzo (pagine citate nel testo).
[5]) vedi testamento
reperibile in Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 501.
[6])
Archivio di stato di Palermo - Fondo archivistico Palagonia - Serie Fondi
Privati - UNITA’ n.° 636 ff. da 372r a 390r
[7]) Da Giuseppe Nalbone:
Santa Rosalia (dattiloscritto 1994): pag.
8: «Che i del Carretto fossero devoti a S. Rosalia è anche dimostrato
dal fatto che le figlie del Conte di Racalmuto Girolamo, Margherita e poi
Diana, Ippolito, Giovanna, Emilia, fondarono in Palermo, intorno al 1643, un
Monastero intitolato alla Santa, sotto le regole di S. Benedetto, eretto di
fronte alla Chiesa Parrocchiale S. Giovanni dei Tartari, e completato poi dal
fratello Aleramo, nella sede dove don Giovanni Bonfante sacerdote palermitano,
nel 1625, aveva già istituito sotto lo stesso titolo un conservatorio di
donzelle (Gioacchino di Marzo. Biblioteca Storica Letteraria vol. XIII pag.
287)..
[8]) Documenti per servire
alla storia di Sicilia - SECONDA SERIE - FONTI DEL DIRITTO SICULO VOL
VII - PA 1911 - PAG. 129 XIII - Palermo 6 ottobre 1639, VIII Ind.
[9]) terratico: la somma per l'affitto di un terreno. In Sicilia, il
terratico si corrispondeva in natura, con parte del raccolto del grano.
[10] ) Giovan Battista CARUSO, Memorie
Storiche di Sicilia, volume II, parte III, pag. 132 e seguenti.
[11] ) Archivio di Stato di
Agrigento - Soppresse Corporazioni
Religiose - Inventario n. 46 - fascicolo 532.
[12] )
ARCHIVIO DI STATO PALERMO Fondo archivistico Palagonia - Serie Fondi Privati -
UNITA’ n.° 631 ANNI 1502-1706 Pagine da 126 a p. 143v
[13]) Archivio
Segreto Vaticano: Agrigentum, relationes ad limina, B18 - f. 314.
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