Al centro della locale
comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’
originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico
agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però,
se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché
l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono
alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis
Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est
assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo
ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto
l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex
disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario
in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un
tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo
per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam ..
contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte
terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti
et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum
singulo anno”.)
Nella visita del 1540
era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella
misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di
16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La
popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto
lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890
fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di
indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto
elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel
1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di
Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha
decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in
circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni
capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in
statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di
una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime
suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il
fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse
soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie,
l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli
dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e
dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex
administratione cure”).
Nel 1540 si constatava
che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da
chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si
aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione:
«Ecclesia di la Nuntiata confraternitati
et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore
che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet
primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini
Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di
che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da
chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La
vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle
esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che
venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et
hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo
dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli
ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S.
Antonio.
Le
nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui.
Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua
figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore
di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo
sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali
richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri
sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco
de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse
il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti
esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia
penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più
dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio
ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di
cui era titolare.
Il de Leo era vicario,
dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di
curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio
di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i
pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva
accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco
de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel
visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene
compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam
dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario,
oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque,
positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché
tenesse alla vetusta chiesa di S.
Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il
Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de
Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata
e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale
agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est
titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I
contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della
Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un
racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si
assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la
donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il
milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta,
si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra
intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica
del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli
nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro
agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta
l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di
riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella
antica chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci
compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si
appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto
il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa
su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato
che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola”
sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una
Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai
al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3) Chiesa di
Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di
santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di
Santa Margherita;
6) Chiesa di San
Giuliano;
Nella
precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della
“NUNTIATA”
2) Chiesa di
Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di
Santa Margherita;
4) Chiesa di
“Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S.
Giuliano.
(Cfr. le pagine
196v-198v della Visita)
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Passando
al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non
proprio recenti erano le chiese quali:
la
Nunziata, visto che vi si trovava
una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di
varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
Santa Maria di Gesù col suo
vecchio paramento di borchie stagnate (Item
uno casubolo di borcati vecho stagnato);
Santa
Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano
i “avantiletto” lisi (item dui
avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla
di vecchio.
Il testamento di don Giovanni III
del Carretto
Di
Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([1])
steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello
finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone
viene in qualche modo abbozzato.
In
epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D.
Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino
della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e
baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano
di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il
testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il
primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito,
“lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica,
secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor
testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete
in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e
dalla condam Aldonsa mia mugleri in
tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime
in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e
pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti,
orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali,
et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto
Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se
si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di
quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e
vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A
don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà
di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel
contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del
pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile
D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al
signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale
quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello
stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle
600 once che stanno nella cassaforte (in
Arca) del medesimo testatore ed
essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi
gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del
pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile
signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo
e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D.
Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto
con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il
mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia,
con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri
diritti quali il terraggiolo, le
gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo
del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta
Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro,
frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti,
nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi
d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni
che seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel
castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et
mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro
dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt,
ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri
pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il predetto testatore volle e diede mandato,
ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo
figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia
affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni
singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da
chicchessia, e ciò per amore di nostro
Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del
testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato
troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per
Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue
disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi
titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di
Girolamo di far dire tante messe nel
convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una
Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito
annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere:
crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per
spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto.
Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato
artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I
del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e
farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di
Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina purtroppo tragica nella sua acre realtà
storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella
compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro
Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la
costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa
di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de Carea,
barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da prelevare
dalle casse del castello);
donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare Barresi
(altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in
contanti da erogare;
Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima,
monaca del convento di Santa Caterina
della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre
20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale:
introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente
alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed
ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis
Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis,
et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias
quinque, nec non relaxavit et relaxit
mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum
omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae inditionis pro
Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per
esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.»
Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal
terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo
Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure:
Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si
celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la
redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma
non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma
nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto
[in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo
recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et
necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o
il ‘luterano’ notaio inventava?):
5 once al venerabile convento di San Domenico della città di
Agrigento;
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di
Racalmuto;
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché
il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce
(“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a
concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in
auge);
5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si
venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i
tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco
perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae
Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi,
et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis
spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis,
granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum,
et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali
come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una
sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà
feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere
seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco
(dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era
intensa).
Il
processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in
gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì
in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.
GIROLAMO I DEL CARRETTO
Il
Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che fu
l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A
Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque ritorniamo. Su
di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo II re di
Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la famiglia del
Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di Girolamo vantavano
il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro Girolamo fosse chiamato
ed avesse in quel tempo il titolo di
conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la
gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.
«
Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte, sono da
riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e
recitano: “Filippo etc. A tutti quanti
etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei
marchesi di Savona documentato l’insigne
virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato
i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai
del Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo
considerato l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non
soltanto in questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso
titolo resa celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri
uomini della medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e
altissime dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati
verso il lodato D. Girolamo Carretto etc.”
«Noto è per di più quanto l’imperatore Rodolfo
fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera del padre,
l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse Girolamo
con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che
negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro
colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere
in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto
barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente
si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i
suoi discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero
fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la
detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella
baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò in
D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il
titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte
in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto
che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha
origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion
per cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la
Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite
prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la
nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro,
ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio
1580.»
Siffatto
pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia “rachalmutana” di cui
si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un grado e divenne contea, ma
marchesato giammai. Diciotto anni dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono alla
carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste
un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si diceva: “Antica e regale è la famiglia dei del
Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta
ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte
di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di
nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra
benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che
possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da
quanto sopra è ben chiaro che Girolamo e
la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli imperatori come le
citate missive, altri documenti che non ho citato ed autorevoli testimoni ampiamente comprovano.»
Le
note del Baronio rendono invece a noi chiaro che i del Carretto, giunti
all’apice della ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero il largo e
andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà aveva solo
l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli immigrati del Carretto, il titolo
di barone suonava stretto: si prodigarono in regalie, bussarono a varie corti
regali, impetrarono favori, ma non riuscirono a superare la soglia del titolo
comitale.
Il
Villabianca lesse il Baronio e vi si ispira quando redige questo profilo sul
nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte
di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per privilegio del
serenissimo Rè Filippo Secondo, dato
nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576, [2]
esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577. [3]
Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 [4],
e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente
l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il lodevolissimo
governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento. Presiedette
altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel 1549., e adorno
videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con le sue
Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per
extensum da BARONE loc. cit. lib. 3.
c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p. 205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto di questo
nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo nel 1600. [5]
di non minor merito di quello del genitore come vuole il citato DI GIOVANNI
nell'istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu egli dotato di tanta
prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol carriera di reggere gli affari
pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e magnati suoi
contemporanei.»
Sciascia
dileggia questo nostro barone assurto al rango di conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande racalmutese [6] -
fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui Filippo
II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un privilegio
che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non sappiamo
molto: fu pretore a Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione seu
presunzione”, come invece afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani
contro la sua autorità. Né mi pare che sia da ascrivere a sua gloria il fatto
che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento,
trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza
commento offre il già ricordato erudito regalpetrese [alias il Tinebra, n.d.r.]». Tutto bene, salvo il fatto che
nel 1600 Girolamo primo del Carretto era già morto da diciotto anni. L’abbaglio
nasce da imprecise letture da parte del Tinebra dell’opera del Villabianca.
Dai
processi ricaviamo questi dati biografici. Girolamo I del Carretto fu il
primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento redatto dal notaio
Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560 Girolamo s’insedia quale
barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo procuratore, il magnifico
Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita che il barone prese “l’attuale,
vera, naturale, corporale baronia del castello, dei feudi e del territorio di
Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero e misto imperio, con le giurisdizioni
civile e criminale su tutto lo stato, risultato integro giusta la forma dei
privilegi baronali”. Il procuratore rispetta il meticoloso ed emblematico
rituale: “esibisce la chiave del portone del castello; di propria mano apre e
chiude quella porta; entra ed esce; si reca presso i feudi; ne prende alcune
pietre in segno di libera disponibilità di quelle terre; revoca e rinomina
tutti gli ufficiali locali: il castellano nella persona del nobile Scipione de
Selvagio; il capitano nella persona di Giovanni Piamontesi; il giudice nella
persona del nobile Marco Promontori; i giurati nelle persone di Cesare di
Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo Caravello; il maestro notaio nella persona
del nobile Innocenzo de Puma”. Viene redatto pubblico atto. I testi sono: il
nobil homo Maragliano, il nob. Antonino de Averna, l’onorabile Antonuccio
Morriali e l’onorabile Gerlando de Pitrozella. Il notaio è ancora il povero
Jacopo Damiano che però si dichiara agrigentino.
Girolamo
I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i processi d’investitura
a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di
Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu aperto un anno dopo, il 9
agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura
in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della
chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa
di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma
come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella lontana
terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi nobili
accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un
‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la
presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche
battesimo. Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà
ritorno solo Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde
al vero) nel 1622.
In
altra parte del presente lavoro pubblichiamo il privilegio di Filippo II che
erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue formule da cui non riusciamo a
cavare alcun briciolo di microstoria locale.
Non abbiamo qui note in proposito da proporre.
Da
questo momento la vicenda familiare dei del Carretto è cosa che solo di
striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della città di Palermo.
Ciò
non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a seguito della
concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II a tutto
vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una
ricerca fra le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha
consentito di rinvenire documenti di quel tempo, estremamente significativi per
la riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostettero i nostri antenati
racalmutesi del Cinquecento.
Peste e tasse a Racalmuto
Il
carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università feudale
ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel
1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe pure a
colpire l’Italia intera.
Del
pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel
carteggio che «per lo contaggio del morbo
che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a
Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento
delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel
precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279
abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che
sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto
e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte
dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso
che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della
consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in
pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di
scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio
tributario.
Tuttavia,
la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un
dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle
tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua
corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le
“tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino all’ultimo
grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse
arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è
agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione dei Giurati
racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della
terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di
quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per
donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti
per il Regno à Sua Maestà, come per le
tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del
morbo che in quella s’hanno ritrovato
... , à vostra Eccellenza
l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta
università deve alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università
fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva
pagare ..»
La
burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non
conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una
gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene
alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un
localismo, il nostro, quello di Racalmuto,
che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che
isola nell’isola ..
Remissivamente
i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e fatalisticamente
annotano:
[Ma
tale petizione non ha avuto esito] “per
lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra
Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li
Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per l’officio
del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo alcuno di
satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et interessi
supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di poter fare
eligere persona facultosa, poiché
pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e raddoppiare alcune
delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per consiglio si
concluderà, acciò potersi sodisfare
nullo preiudicio generato ad essa
università circa detta diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato
doversi fare à detta Terra per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra Eccellenza sia quello mezzo che si concluderà quello che
di sopra si è detto per detto consiglio
concederli dilattione almeno di mesi due, altrimente stando assentati non
potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia Corte non verria ad esser
sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di sodisfare, ne tener altro
patrimonio ut Altissimus. ..”»
La
messa in mora della locale
amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena
dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato
paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali
diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali «con
eccessivi danni ed interessi».
Si
accordino - si chiede da Racalmuto - due
mesi di dilazione per trovare un
sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa
seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una
serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo
sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il
carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi,
organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna.
Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla
cultura storica degli accademici.
Viene
fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero
dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa
trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità
tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente
organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine,
certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare
le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali
consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a
raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari,
ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la
giunta comunale: la giurazia.
Affascinano
questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che
debbiate in giorno di festa e sono di campana come è di costume congregare il
vostro solito consiglio sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e
quello che per detto conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et
accordato, e sigillato lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò
di quello fattone relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi
11. Martij 5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus ... conservatore [f. 229] Marianus Magister
Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de Aurello Magister
Notarius, ..»
Il
Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche allora,
molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a Racalmuto - ed abbiamo anche il verbale consiliare che mi
pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind.
1577.
Die festivo supradicti Martij in
Ecclesia Sanctae Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea
publica.=
Perche ritrovandosi l’università di
questa Terra di Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte
è stato supplicato da parte di
detta Università per li Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti
debiti se li concedesse dilatione competente per potersi ritrovare il modo di
quelle sodisfare, et in quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto
offerta à Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone
di tutte città, e terre del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino
[f. 230] che per il ripartimento e numero di persone che allora vi erano in
detta terra tocca à detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia detta
Università non si vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra
volta à Sua Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter eligere
persone facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle
di detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere
acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et interesse nullo
prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che
se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni predette come si
contiene per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et
essendo stato provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real
Patrimonio che si congregasse sopra le cose contente in detto memoriale
consiglio, e quello si trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per
ciò s’ha devenuto alla congregatione del presente consiglio come intesa la
presente proposta habbiano sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente
dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo
uno delli Magnifici Giurati di detta Terra, e locotenente del Magnifico
Capitano di quella, è di voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta di
rendita da pagarsi quolibet anno come meglio e per manco interesse di detta
Università si potrà accordare con quelle persone che vorranno attendere à tal
compra di rendita.
* * *
Per
inciso, richiamiamo l’attenzione sul menzionato giurato racalmutese del 1577
Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene indicato
con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola
borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La
Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di
Diego La Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente
che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio
democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da
quello del sorgere dello stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare
alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto cittadino espresso in una
solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel
centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava
nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava
nell’attuale Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sonnecchiano i
palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza
di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con quello che l’ex voto del Monte ci fa
intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di
Racalmuto dello scorso secolo di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati
sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza
dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle
menti più elette del nostro paese come
dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa vicenda
fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che
oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per
Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento,
tal Caputo, superriverito ed adulato dal pubblico notaio.
Popolazione racalmutese nel 1577
Sembra opportuno tracciare il grafico della popolazione di
Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio del 1577.
La curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500 si
avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576. Il crollo
demografico di quell’anno irreversibile (anche se fu dovuto più alla fuga che alla morte dei racalmutesi:
i superstiti quindi ebbero poi modo di ritornare nelle loro case di paese,
lasciando - riteniamo - quelle di campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un
secolo) per risalire a quota 5.165 e solo nel 1660 la popolazione supererà
quella del 1570 assestandosi sui 5488 abitanti.
Quanto alle finanze locali, la crisi del 1577 fu in qualche modo
tamponata; il bilancio comunale toccherà nel 1593 un disavanzo di appena 28
onze, un tarì e quattro grani (460 onze
d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana quattro d’esito). La forte
pressione fiscale - tutta basata sulle imposte indirette - finì di certo in una
asfissiante strozzatura dei consumi da parte dei poveri. I proventi dalle
rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché nulli: pane, foglie, pilo, vino,
formaggio, legname, pesci e qualche altra voce diedero un gettito tributario
che si volatilizzò essenzialmente per le spese militari e per oltre la metà per
ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo imprecisato. Inoltre si pagavano
sei onze annue per “tande”.
* * *
Terraggio e terraggiolo sotto il
primo conte di Racalmuto
In
prossimità della morte, Girolamo primo del Carretto riusciva a raggiungere un
accordo con i suoi vassalli di Racalmuto. Era l’anno 1580. Il 15 gennaio, a
rogito del notaio Nicolò Monteleone di Racalmuto veniva stilata una transazione
(transactio et accordium) [7]
tra il conte e l’università variamente articolata; tra l’altro i cittadini e
gli abitanti di Racalmuto s’impegnavano per loro e per i propri successori di
corrispondere al conte e suoi successori il terraggiolo (tirragiolum) in ragione di due salme di frumento per ogni salma di
terra seminata dai racalmutesi fuori del territorio dello stato comitale.
Il
carteggio relativo a tale transazione del 1580 è disponibile presso il Fondo
Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo. Per i riverberi sulla storia
locale, ci si deve qui dilungare nello stralciare ampi passi.
Iniziamo
dal testo della lettera inviata dai deputati racalmutesi eletti in un apposito
consiglio del 1580:
«Illustrissimo et eccellentissimo Signore,
Bartolo Curto, Pietro Barberi, Giacomo Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio
Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonio Lo Brutto, Vito Bucculeri,
Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella, Antonio Gulpi e Giacomo Morreale, li quali
furo deputati eletti per consiglio congregato circa la questione e lite
vertenti tra l’altri, e l’illustris.mo Conte di Racalmuto in la R.G.C. esponino
a Vostra Eccellenza che sono più anni che in detta R.G.C. ha vertuto lite fra
detto conte e suoi antecessori in detto contato ex una, e li Sindaci di detta
terra ex altera sopra diversi pretenzioni, particularmente addutti nel libello,
e processo fra loro compilato per li quali intendiano detti Sindaci essere
esenti, e liberi di certi raggioni e pagamenti, come in detto processo si
contiene, e poichè s’have trattato certo accordio fra esso conte ed essi
esponenti come deputati eletti per detta università circa le pretentioni
predetti, e circa il detto accordio s’hanno da publicare per mano di publico
notaro per comuni cautela dell’uno, e l’altro, e stante che è notorio che detti
capitoli s’habbiano da publicare con vocarsi per consiglio onde habbiano da
intervenire li genti di detta università, e la maggior parte di quella per ciò
supplicano a V. E. si degni restar servita provedere che s’abbia a destinare
uno delegato dottore degente in la città di Girgenti per manco dispendio (o di
spesa) dell’esponenti, e benvista a V.E. il quale s’abbia da conferire in detta
università di Racalmuto,, ed in quella abbia da congregare consiglio si la
detta università è contenta si o no di pubblicare il detto atto d’accordio, li
quali si abbiano di fari leggiri per il detto delegato a tutte le persone che
interverrano in detto consiglio per potersi stipulare il detto atto con lo
consenso di tutta l’università, o maggior parte di quella - e restando
l’esponenti d’accordio V.E. sia servita al detto delegato concederli autorità,
e potestà di tutto quello e quanto sarrà concluso per detto accordio che possa
interponere l’authorità, potestà, e decreto di V.E. e sopra questo possa
interponere perpetuo silenzio, e decreto con tutte le clausole, e condizioni
solite, e necessarie farsi in detti atti ut Altissimus. »
La
curia viceregia acconsente ed impartisce le opportune istruzioni con lettera Data Panormi die vigesimo nono Februarij
nonae Ind. 1580.
Il
3 gennaio 1581 si presenta a Racalmuto il magnifico ed esimio Ascanio de Barone
della città di Agrigento con le sue credenziali. Il successivo giorno 5 si
aprono i lavori del «Consilium congregatum » sotto la presidenza dell’esimio
signor Ascanio de Barone “ad sonum campanae in maiori Ecclesia terrae Racalmuti
die dominicae” chiamati e convocati i due terzi del popolo. I giurati Lorenzo
Giustiniano, Giacomo Monteleone e Antonio Alaimo assicurano la regolarità della
convocazione e certificano la presenza del numero legale. L’ordine del giorno
consiste nell’approvazione dell’accordo fatto con l’illustre don Girolamo del
Carretto.
Viene subito introdotto l’argomento:
Magnifici Nobili, et persone
decorate [a.v.: honorati] et altri populani, siti congregati in questo loco;
sapiti ch’avendosi tanto tempo ed anni litigato infra l’università di questa
terra con li spettabili illustri ed illustrissimi signori Baroni e Conti di
questa terra sopra alcuni pretenzioni ed esenzioni di tirraggi di fora [a.v.:
supra alcuni pretenzioni et exemptioni di alcuni soluptioni di dupli terragi di
fora] et altri esenzioni come più largamente si contiene per lo libello e
processo contenti nella R.G.C. con detti spettabili ed illustri signori Baroni
e Conti di questa sudetta terra, ed avendosi tant’anni litigato non s’have mai
finito per tanto si congregao consiglio, e si elessero deputati lo magnifico
Gio: Vito d’Amella, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo
Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino lo
Brutto, Pietro d’Alaymo, Antonino Gulpi e Giacomo Morreale, li quali deputati
esposiro a S.E. e R.G.C. che avendo più anni litigato in detta R.G.C. con li
predecessori dell’illustre signor Conte di questa terra di Racalmuto ed anche
con detto signor conte sopra diversi pretenzioni d’essere esenti e liberi di
diversi raggioni e pagamenti in detto processo e libello addutti, e contenti, e
che s’ave trattato accordio fra l’università e detto signor conte, e sopra ciò
fatti certi capitoli li quali s’hanno da publicare per notaro publico per
commune cautela ed era di publicarsi con la volontà della maggior parte del
Popolo congregato per consiglio supplicando S.E. resti servita provedere e
comandare che si destinasse un delegato in questa terra per congregare detto
consiglio, ed essendo la maggior parte contenta dell’ accordio, farrà leggere
li capitoli ed essendo contenti quelli detto delegato farrà publicare, e
stipulare ed interponere l’authorità di S.E. e R.G.C. per ciò S.E. mi ha
destinato delegato in questa terra, undechè personalmente mi conferisca a
congregare detto consiglio, ed intendere la vostra volontà se volete accordio
per questo siti convocati in questa maggior chiesa acciò ognuno di voi dasse il
suo parere [a. v.: siti convocati in questa maggior Ecclesia a tal che ogn’uno
di voi dugna lo suo pariri e vuci si vuliti accordio], se volete accordio con detto
signor conte, perché volendo accordio si leggiranno li capitoli che mi sono
stati presentati per detti deputati e notar publico, ed essendo contenti di
detti capitoli per voi s’eligeranno dui Sindaci e procuratori per potere quelli
publicare e fare instrumento pubblico con li soliti obligazioni, renunciationi, stipulazioni giuramento
firmato in forma, alli quali Io come delegato di S.E. e R.G.C. interponissi
l’autorità e decreto acciò omni futuro tempore s’habbiano inviolabilmente
osservare siché ogn’uno venga, e dona la sua vuci, e pariri, lo magnifico Gio:
Vito d’Amella capo di detta terra di Racalmuto dice che è di voto, e parere, e
si contenta che si faccia accordio stante li lite e questioni che sono stati et
su infiniti e sono immortali e non hanno mai diffinizioni e sono dubbij ed
incerti e per evitarsi tante spese che s’hanno fatto e si potranno fare tanto
più che s’ha visto la buona volontà dell’illustrissimo signor conte lo quale
per li capituli ni ha fatto molte grazie ed esenzioni in favore di
quest’Università di Racalmuto e non facendosi accordio interim esigirà come per
il passato s’have fatto e perché in l’accordio e in mancari quelle raggioni che
siamo obligati paghari per questo è contente come è detto di sopra che si
faccia detto accordio e si leggano li capitoli e doppo si contratta in forma;
lo magnifico Lorenzo Justiniano giurato contiene [a.v.: concurri] con il detto
magnifico Gio: Vito d’Amella,
Già tutti voi esistenti in lo
consiglio aviti inteso leggiri detti capitoli per notar Cola Monteleone si
restati contenti di detti capituli ognuno dugna la sua vuci, e pariri, ed
eliggia dui sindaci e procuraturi ad effetto di putiri publicare detti capituli
e farsi istrumento publico con suoi patti renunciazioni cum juramento firmati in
forma, lo magnifico Joan Vito d’Amella capitano di detta terra dici ed è di
pariri che si contenta di detti capitoli letti nelli quali ci sù multi
relasciti e gratij fatti per lo signuri Conti, e che si pubblicano ed eliggiasi
per sindaci e procuratori ad Antonino Lo Brutto ed Antonuzzo Morreale, ad
effetto di putiri fari publicari detti capitoli dictae universitatis con li
soliti obligazioni stipulazioni juramento fitmati in forma; lo magnifico
Lorenzo Justiniano concurri con detto d’Amella; lo magnifico Giacomo Monteleone
ut proximus, lo nobile Antonino d’Alaymo ut proximus et sic omnes et singulae
prenominatae personae concurrerunt cum dicto de Amella et de Monteleone de
Justiniano et de Alaymo, capitaneus et jurati,
Capitoli dell’accordio si fà infra l’illustrissimo
signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e per esso suoi
figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu
Capitoli dell’accordio si fà infra
l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e
per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu
per lo quali si havi di promittiri
di rato iuxta formam ritus di ratificari lu presenti contrattu à prima linea
usque ad ultimam, ita che li masculi d’età si habbiano da fari ratificari infra
mesi due da contarsi d’oggi innanzi, e li minuri quam primum erunt maioris
aetatis cum pacto et condictione che la persona che rathifichirà s’habbia
d’obligare di rato per li suoi figli utriusque sexus, e cossì li figli di figli
in infinitum intendo per quelli che haviranno di succediri in detto stato e
terra di Racalmuto, e non altrimente ne per altro modo s’intenda detta
promissione di rato ut supra di l’una parti, e Bartolo Curto, Pietro Barberi,
Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzzo Morreale, Cola Macaluso, Pietro
Macaluso, Antonino Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito
d’Amella ed Antonio Gulpi eletto di nuovo per la morte dello quondam Jacobo
Morreale, deputati eletti per consiglio circa la questione e liti vertenti tra
lo detto illustre signor conti e l’università di detta terra in la R.G.C. ed
altri differentij che tra loro sono stati, in lo quali accordio s’intenda e sia
imposto perpetuo silentio:
Testes magnificus Marianus
Catalano, magnificus dominus Antonutius Cirami Ar: et Med: doctor, magnificus Gaspar Lo Giudice,
Mazziotta di Neri, Franciscus la Vecchia de civitate Agrigenti, reverendus d.
Joseph de Averna, clericus Orlandus de Averna, reverendus pater Monserratus de
Agrò et magnificus Hieronimus Riggio.
Ex actis quondam notarij Nicolai
Monteleone extracta est presens copia per me notarium Michaelem Castrojoanne
Racalmuti; dictorum actorum conservatorem collectione salva.
* * *
Nei
27 articoli dell’accordo tra l’università di Racalmuto e il conte del Carretto
abbiamo uno spaccato della vita sociale e civile del nostro paese, nell’ultimo
ventennio del Cinquecento.
All’art.
1 abbiamo la singolare angheria di una gallina o di un galletto che ogni
allevatore di polli doveva al governatore del castello, anche se a prezzo
prestabilito.
All’art.
2 scatta il divieto di andare a lavare i panni alla fontana. La fontana dei
nove cannoli c’era dunque anche allora e doveva avere l’aspetto che si arguisce
dall’ex voto del Monte.
All’art.
3 viene imposta la macina nei mulini del conte, anche se ne viene attenuato il
rigore con una disciplina abbastanza elastica. Interessante il richiamo ai
mulini del Raffo, di cui ancor oggi è possibile ammirare la perizia della
realizzazione, una pregevole opera di ingegneria idraulica del ’500.
L’art.
4 disciplina l’istituto della “baglia”, una magistratura feudale che giudicava
dei piccoli forti e riscuoteva le multe per contravvenzioni ai locali
regolamenti di polizia.
L’art.
5 compendia norme sulla gabella della carne bovina, vaccina, ovina.
L’art.
6 getta spiragli di luce sulle intollerabili angherie personali che massari,
donne di servizio, lavoratori subivano da parte della corte feudale.
L’art.
7 è quello nodale: reimposta i diritti di terraggio e di terraggiolo al centro
dell’annosa controversia con il conte. Emergono arretrati d’imposta che i
racalmutesi non hanno alcuna voglia di estinguere.
L’art.
8 esonera dal terraggio sul lino, che non crediamo dovesse essere intensamente
coltivato.
L’art.
11 impartisce disposizioni sulle modalità delle estirpazioni delle vigne e
sulle licenze comitali occorrenti.
L’art.
10 concerne la nomina del “rabbicoto” il commissario per il grano.
L’art.
11 contiene giusti divieti ad esigere le contravvenzioni della baglia
in natura come frumento, bestiame, etc.
L’art.
12 concerne le tasse feudali sui mosti.
Con
l’art. 13 viene stilato un nuovo accordo sul terraggiolo.
L’art.
14 reimposta invece il diritto del terraggio.
L’art.
15 scende in dettaglio e disciplina i diritti dovuti quando gli abitanti di
Racalmuto detengono campi di stoppie fuori dello stato o mantengono vacue le
terre al di fuori del territorio feudale.
L’art.
16 ribadisce e approva la consuetudine circa il modo di tenere le bestie al
tempo della mietitura nel territorio e nel feudo di Racalmuto e di Garamoli.
Con
l’art. 17 viene disciplinato il diritto di portar seco animali quando si va a
coltivare vigne o ‘chiuse’.
Con
l’art. 18 si concede una sorta di sanatoria per le vendite abusive di abitazioni all’interno
dell’abitato di Racalmuto.
L’art.
19 detta norme sui tempi e modi di addurre prove nei processi.
L’art.
20 stabilisce una transazione sulle spese processuali fin allora sostenute, una
sorta di reciproca rinuncia alle rispettive pretese.
Con
l’art. 21 si stabilisce un rinvio ricettizio delle norme e consuetudini per
quanto non espressamente previsto e stabilito.
L’art.
22 contiene l’assicurazione da parte del conte che per l’avvenire non potranno
essere imposti nuovi tributi, servitù, angherie e consuetudini se non nelle
forme pattizie concertate con il consiglio dell’Università.
L’art.
23 attiene alle forme pubbliche da conferire all’accordo che si è raggiunto.
L’art
24 stabilisce il terraggio per le terre “strasattate”.
L’art.
25 prevede la perpetuità degli obblighi contratti sia da parte del conte che da
parte dell’Università.
L’art.
26 disciplina il terraggio in misura ridotta per le terre ingabellate inferiori
a salme 50.
L’art.
27 stabilisce il numero massimo di bestie che possono tenersi nel territorio di
Racalmuto, Garamoli e Culmitella, presumibilmente in esenzioni d’imposta.
L’organizzazione feudale del centro agrario di Racalmuto.
Sorprendentemente,
i religiosi del Carmelo di fine ’500 detenevano tutta una documentazione[8]
sugli strani debiti di uno di tali rami cadetti. Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione
feudale di un centro agrario qual era Racalmuto. Con una “polisa” il 15
febbraio del 1569 il barone di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita
con Antonio Pistone. «Io don Fidirico del Carretto per la presente polisa mi
fazzo debitori ad Antoni Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento
forti et sunno li detti ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi
prestao hora dui anni in lo fego di la Menta quali frumenti prometto darli per
tutto lo misi di augusto proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la
presenti polisa scripta di mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^
Ind. 1579, dico salme 40 e tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»
Quale il
rapporto sottostante di questa transizione di frumento della Menta, non è dato
di sapere. E’ da pensare ad una speculazione granaria. Il nobile agrigentino,
un cadetto della celebre famiglia, ha entrature a Racalmuto. Qui pare che non manchino
gli abbienti come questo Antonio Pistuni che può tranquillamente prestare
ingenti quantità di frumento. Federico del Carretto cessò di vivere qualche
anno dopo.
Si ricorda
dei suoi debiti nel testamento: «E’ da sapere - si può volgere dal latino -
come fra gli altri capitoli del testamento fatto a mio rogito il 9 novembre p.^ Ind. 1572 dal
quondam spettabile signor don Federico del Carretto un tempo barone di
Sciabica, sussista l’infrascritto capitolo del seguente tenore:
«Del pari lo stesso spettabile testatore
volle e conferì mandato che qualsiasi persona dovesse ricevere od avere dal
detto spettabile testatore qualsiasi somma di denaro o quantità di frumento, di
orzo o di altro sia saldata dalla propria moglie secondo diritto a valere sui
redditi del detto spettabile testatore, sempreché quei debiti appaiano in atti
pubblici o con testi degni di fede o in scritture ricevute da qualsiasi curia.
E ciò volle e non altrimenti né in altro
modo.»
«Faccio
fede, io notaio Giovan Battista Monteleone».
Vi è un
atto esecutivo della Gran Corte del XV luglio 1573 dai toni pomposamente
ultimativi ma che in definitiva non fanno altro che confermare i fatti
suesposti.
La
curialità cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo la forma della nuova Prammatica, si dovrà procedere con
l’accesso ed il recesso e per la soddisfazione di cui sopra pignorando
qualsiasi bene e vendendo quelli privilegiati ... carcerando e scarcerando ed
operando l’estradizione da un luogo ad un altro o da un castello all’altro ...»
Ma ci limitiamo agli atti formali della locale curia racalmutese, emergendone
procedure, figure locali, personaggi
pubblici.
«Racalmuto
28 gennaio 1572 - atti contro donna Eleonora del Carretto per Gaspare La
Matina, baiulo.
«Testi
ricevuti - alcuni passi sono in latino, ma qui ne diamo la traduzione - ed
esaminati a cura dello spettabile baiulo della terra di Racalmuto ad istanza e
richiesta di Antonuzzo Pistuni avverso e contro la spettabile donna Eleonora
del Carretto tutrice testamentaria dei propri figli e figlie, eredi del quondam
spettabile don Federico del Carretto suo marito, in ordine alla verifica dei
documenti.»
Identica
relazione fanno i sotto indicati personaggi:
nob.
Giovanni Antonio Piamontisi, Secreto della terra di Racalmuto, con don Federico
ha avuto “pratica et canuxi la sua manu”;
magnifico
Jo: Saguales di Racalmuto, «che canuxi
essiri la manu propria del ditto quondam et che ni havj multi polisi de causa
sua et interrogatus dixit scire premissa per modum ut supra ditta sunt..»;
hon. Vincenzo
Lo Perno di Racalmuto, «como pratico che
era con lo ditto quondam don Fiderico ...»;
Diacono
Martino Rizzo di Racalmuto, il quale «vitti
quando ditto quondam don Fiderico scrivia la ditta polisa et la vitti scriviri
et la ditta polisa scripta che fui l’appi in potiri lo ditto di Pistuni
....»;
Reverendo
don Alerico Tudisco di Racalmuto, che sa «come
quillo che a pueritia usque in diem obitus canuxi a ditto quondam del Carretto
et canuxi essiri ditta polisa la sua propria manu modo quo supra...».
Risulta
il tutto dagli atti della curia del baiulo della terra di Racalmuto, essendone
stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de Ugone (gli Ugo del Rivelo).
Sotto
Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere contadino: il conte è
lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è tutto a favore del
feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di aggirarlo; lo
contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti di Racalmuto.
Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e l’arciprete Campanella
riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il terraggio ed il terraggiolo.
Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale borbonico sentenziò: “ius terragii
et terragiolii tam intra, quam extra territorrium declaratur non deberi”.
Ecco
perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia (sull’onda degli anatemi del
Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena ventiquattrenne - Girolamo II del
Carretto: ben altre erano le responsabilità dei predecessori; ancor più inique
le pretese dei suoi successori e persino dei feudatari settecenteschi che non
portavano più l’esecrato nome dei del Carretto.
Oltre ad
una caterva di figlie femmine, Girolamo I del Carretto lasciò tre figli maschi:
Giovanni IV, suo successore nella contea di Racalmuto, Aleramo, che diverrà
conte di Gagliano e resterà famoso per gli abusi amministrativi, ed un tal
Giuseppe, di cui si occuparono le cronache nere del tempo.
GIOVANNI IV DEL CARRETTO
Giovanni
IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le
cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che
visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto
non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un
genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo
della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da
legittimarla.
Tinebra
Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di
questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano
curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però
molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte
Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi
la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
Ad
onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo,
Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata
in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I,
questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche
usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il
rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di
loro hanno patrimoni apprezzabili.
In un
siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo
censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò
si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni,
infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi
era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come
ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni [9]
«In questi tempi [tra il 1589 ed il
15 maggio 1591] successe che essendo riportato a D. Giovanni Carretto, conte di
Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue
opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro
quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un
disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
Gli mandò
dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fûro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano
promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar
meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in
questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo
accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non
uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a
trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del
Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato
genti per tal effetto.
Lo ingannâro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di
accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e
quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il
pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano
per salvarli, sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in
fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e
menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì]
assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande
diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco
Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne
seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per
l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo
prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al
viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del
sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola
‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì
per venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista
, quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva
ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che
soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il
conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti
si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà,
che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il
conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio,
dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo
ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco.
In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
Il Tinebra
Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo
partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul
testo - invero arduo - del Di Giovanni
(che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione,
sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione
(v. pag. 105-107).
L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto. Il Sant’Offizio.
Ma dobbiamo
al Garufi[10]
queste esplicative note.
«S’aspettava
ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante] - scrive l’illustre storico - e chi sa per
quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse
fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il
19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo,
spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un
altro rapporto[11] con
le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni
su due nuovi fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli
La Valle. [...]
[E sono
fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una
riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al
foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere
appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra
riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la cittadinanza
palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo l’Inquisitore
“sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice il Franchina,
ad esser gravemente vilipesa”. [...]».
Ed il Garufi così illustra il caso che avrebbe
coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo
avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto passa a parlare del fratello del conte di
Racalmuto.
«Premetto
che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli
interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del
Carretto, tramutato per l’occasione in
un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del
S. Officio.
«Arrestato
costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati
dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario
per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a
favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di
famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie
a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo
alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto
che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una
regolare sentenza di magistrato.
«E giacché
la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo
il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo: che “di pieno diritto spettasse loro di
giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
«Affermato
codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle
inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte
sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi
reclami a Filippo II
«La
moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo
molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto,
condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo
che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per
l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a
verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del
19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che
Gasparo la Cannita - un
personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista - faceva al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse
una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante
conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale del S. Officio contro la G. Corte per salvare
l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del
Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma
l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la
reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
Al conte Giovanni
del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua
volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a
Palermo.
Il figlio
Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne
fatto fuori da un servo.
Morì il 1°[12]
( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
Il nipote
Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26
febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano),
colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV,
re di Spagna.
Ma
qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel 1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A
noi sembra, decisamente compromessa.
Un
sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano [13]
che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la
famiglia del Carretto.
I documenti
lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI.
Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio,
dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse
ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al
più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel
processo n. 3542 del 1600 [14]
, appare che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le
procedure per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere trattenuto in
carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.
La presa del possesso di Racalmuto.
Veniamo
innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era
riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli
magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini
sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il
castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo
che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI
indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di
Palermo.
Defunto
l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di
recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente
agrigentino don Cesare del Carretto.
Eccone, in
traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di
possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si
premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di
Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui
successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e
provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio
primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e
degli altri atti e scritture.
«In
relazione a ciò, nel predetto giorno, lo
spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio,
presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don
Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del
presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti,
contratti e scritture, con ogni miglior
modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e
pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don
Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato
ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del
principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome
e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto
procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo,
libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello
stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e
degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
«E per me
infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore
predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome
del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della
predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze
universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione civile e criminale e nel mero e misto
imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi
ed altre scritture.
«E ciò per
acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue
porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
«Così come
si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di
castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e
dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio
Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di
magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
«E tanto si
è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di
mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco;
e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro
Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
«Per nuova
elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi
ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina
degli ufficiali in altra occasione o circostanza.
«Per la
solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero,
reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo
signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro
di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di
Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi
registrato a suo tempo e luogo.
«Testi
presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e
m.° Pietro Cacciatore.
«Nello
stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso
per me predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del
Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il
feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli
e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della
detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni,
facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi,
toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio
delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di
possesso.
«Testi:
Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di
Cerami, regio pubblico notaio del Regno.»
Il truce
personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se
ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando
deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene due
dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come
da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind.
1584 - prestitit juramentum [..]»
Giovanni
del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di
oneri, pesi e debiti.
[1] ) Archivio di Stato di
Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r -
56v.
[3] ) (b)
[R. Cancell. ann. 1577. f. 476]
[7] )
PALAGONIA . N.° 709 ANNI 1613-1749 - N.° 2
[8]) Archivio di Stato di
Agrigento - Fondo 46 - vol. 509 - f. 52-55.
[9]) Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restaurato - Palermo 1989, pag.
334-335. Trattasi della ripubblicazione di un testo manoscritto del 1627 (una
trentina d’anni dunque dopo la conclusione degli eventi).
[10]) C.A. Garufi - Fatti e Personaggi dell’Inquisizione di
Sicilia - Edizione Sellerio, Palermo 1978, pag. 255; 260; 260 e 262-263
[12]) Nel
libro dei Morti della Matrice di Racalmuto del 1614 alla
colonna n. 83, n.ro d'ordine 17, leggesi:
«2 dicto [maggio
1622] il Ill.mo D. Ger.o [Geronimo] del Carretto fu morto e sepp.[llito] nella
ecclesia di S.to Francesco per lo clero». Dai processi d’investitura
sappiamo che era morto il giorno prima
1° maggio 1622.
[14]) Archivio di Stato di
Palermo - Protonotaro del Regno - Processi d’investiture - Busta n. 3542 -
Contea, terra e castello di Racalmuto - del Carretto Francesco (così
erroneamente indicato, ma trattasi di Giovanni del Carretto)
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