ARRIVA LA CIVILTA’ ARABA
Con gli
Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi
che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi
a Racalmuto è totalmente buio: né vestigia archeologiche, né testimonianze
scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo
illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è,
appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare
che di arabo Racalmuto non ha nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi -
a partire dal nome del paese - o l’etimologie arabe dei vari lemmi della
parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione
saracena o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria
normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni
arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi
locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben
condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici,
religiosi. Vai a dir loro che trattasi di meri vaneggiamenti, di fole senza
fondamento, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente
intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’
(frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà
terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi
racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal
nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge
attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista
normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia
trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti
ribellistici degli sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non
possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento
di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo
ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più
sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento
così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità
dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca
è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva
1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il
governatore di Rahal-Almut, AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell’Emir
Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([1])
Ma l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate
Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca
di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella
che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la
«tentazione dell’accensione visionaria,
fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso
pur sapendo che è falso». E del resto lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non
mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la
falsità, e precisamente nelle Parrocchie
di Regalpetra.» E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i
racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo
(v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella
falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza
se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, ribadisce, come
abbiamo visto quella diceria. Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia
sia altra o più attendibile rispetto a quanto va asserendo Sciascia sia altra o
più attendibile rispetto a quanto ebbe a sostenere Tinebra Martorana (v. pagg.
33 e segg.). Comprensibile, quindi, se ancor oggi su Internet, compulsando i
siti a carico della collettività, siamo tenuti a credere:
Nell'827 d.C. sulle rovine di Casalvecchio, i
saraceni che avevano conquistato gran parte della Sicilia, edificarono
Rahal-Maut. Sotto il dominio arabo Racalmuto progredì rapidamente,
s'intensificò l'agricoltura mentre le miniere di zolfo e le saline diedero un
impulso maggiore al commercio della città. Nel 1038 Racalmuto fu conquistata
dal generale bizantino Maniace e nel forte di Minsciar (l'attuale
Castelluccio), sventolò per quattro anni la bandiera di Costantinopoli.
Se quanto abbiamo sinora dibattuto ha
una qualche attendibilità, queste chiose di pretesa storia locale rasentano
stadi di demente visionarietà – ben diversa da quella romantica, alla Sciascia
– e attestano solo lo sperpero del pubblico denaro. Il generale Maniace che sta
a fare sventolare il vessillo bizantino al Castelluccio (la cui esistenza in
quel tempo si dà per certa, ed il cui toponomo è mutuato dall’Edrisi di oltre
un secolo dopo), dovrebbe destare beffardo sorriso, se il parto letterario non
fosse a carico del contribuente: le miniere di zolfo e le saline – attive e
proficue dall’IX al XI secolo, non ci vien detto in quale landa racalmutese –
sono presenze che sconvolgono ogni attuale conoscenza storica.
Sciascia, purtroppo,
è drastico nell’assegnare il toponimo Rahal-Maut al locale Ottocento arabo: ne
lima scaramanticamente la portata funerea; il richiamo agli inferi, sotteso al
“Paese dei morti”, si stempera nel più attendibile “paese distrutto dalla
peste”. Invero Racalmuto ebbe consuetudine con le epidemie: «a peste fame et
bello, libera nos Domine» era litania cantilenata nei millenni, con
accoramento, con atavico terrore contadino. Erano davvero malanni con cui si
doveva avere familiarità.
I nostri excursus storici sono contrappuntati di
desolazioni endemiche. Peste nel IV secolo, peste nel 1355, morte e sgomento
per peste dal 1374 al 1375, tentativo di sfruttare l’epidemia del 1576 per
pietire qualche sgravio fiscale; famigerata fu quella del 1624 ove si prodigò
il medico racalmutese Marco Antonio Alaimo; contro la devastante peste del 1671
nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non
annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quella
economica a quella sociale; da quella dell’umano vivere a quella del decomporsi
morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante
primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva
drasticamente ridimensionato; d. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del
1802; un temendo cataclisma era stato il colera del 1837. Un fraticello del
Convento di S. Francesco ci ha lasciato questa agghiacciante testimonianza [2]:
«Nell’anno 1837: mese di agosto vi fù il colera e in questa di Racalmuto
morirono circa mille persone e furono sepolte nella sepoltura di Santo Alberto
al Carmine, all’Anima Santa del Caliato, in Santa Maria di Gesù e porzione in
San Francesco; Monte San Giuseppe e in altre chiese, cioè persone particolari;
poi nella nostra sepoltura grande vi è sepolto il paroco don Antonino Grillo,
che morì a 25 agosto 1827 ed altre persone riguardevoli.» Alla fine del XIX
secolo altra morìa endemica, e per sovrappiù la “spagnola” nel 1919.
Se Sciascia, dunque, si concede
la licenza storica di fari derivare il toponimo del apese da un’impressionante
peste, ha le sue brave ragioni letterarie. E come tali, finiamo per accettarle
e rispettarle. Ma non sono verità storiche né narrabili né adombrabili.
Il
toponimo si diffonde in Sicilia nel 1178 e riguarda una località, che, sia
chiaro, nulla ha a che fare con Racalmuto e che riguarda addirittura la lontana
Polizzi Generosa.
Racalmuto
si affaccia alla storia documentata con un plateale falso, quello confezionato
dal celebre abate Vella, di cui al Consiglio
d'Egitto del grande Sciascia . Quell'ingegnoso falsario propina a Mons.
Airoldi questa pagina su Racalmuto, che, a nostro avviso, non era a quel tempo
neppure sorto:
«O mio Padrone Grande assai, il servo della sua grandezza
con la faccia per terra le bacia le mani e le dice che l'Emir di Giurgenta mi
ha ordinato che avessi a numerare la popolazione di Rahal-Almut e dopo dovessi
scrivere alla sua Grandezza una lettera e mandarla a Palermo. Ho numerato tutti
ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502 figliuole.
Tutti questi fanciulli sia Musulmani che Cristiani sono sotto i 15 anni. Onde
con la faccia per terra le bacio le mani e mi sottoscrivo così:
Il
Governatore di Rahal-Almut: AABD-ALUHAR, per
bontà di Dio servo dell'Emir
ELIHIR DI
SICILIA.
24 del mese Regina (gennaio) 385 di Maometto (che
corrisponde all'anno 998 dell'era cristiana)».
L'Abate
Vella, evidentemente, era a conoscenza delle particolari attenzioni che mons.
Airoldi dedicava in quel tempo alle rilevazioni statistiche della Sicilia
Araba. Cercò, così, di assecondarlo. Resta, però, il fatto che il monsignore -
fattosi avveduto dopo le note vicende giudiziarie del suo protetto - espurgò
dai sui appunti di statistica demografica quell'accenno alla popolazione araba
di Racalmuto. Di Rahal-Almut non troviamo infatti alcun cenno nelle serie
demografiche dell'Airoldi pubblicate, nell'Ottocento, dal Ferrara, il noto
economista siciliano.
Non così,
invece, il nostro Tinebra Martorana che riporta integralmente la ghiotta pagina
di pretesa storia locale. A dire il vero egli avverte, sia pure in nota[3]
e con qualche astuzia linguistica, che trattasi di un falso. Ma forse ebbe a
pensare che anche i falsi un qualche fondamento storico ce l'hanno pur sempre,
e tanto valeva richiamarli. Si dava, purtroppo, il caso che nella circostanza
il falso era totalmente falso ed anziché fornire un qualche lume, finiva con il
far sviare del tutto dalla ricostruzione storica di un periodo racalmutese fra
i più oscuri (e più chiacchierati, forse appunto perché oscuri).
Leonardo
Sciascia sembra aver dato credito, in un primo momento, al falso dell'abate
Vella e nelle Parrocchie di Regalpetra, Racalmuto figura esistente sin dal 998 «.. anno ..
dell'era cristiana [in cui] il governatore arabo di Regalpetra scriveva
all'emiro di Palermo "ho numerato
tutti ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502
figliuole"» . Ma, già nella Morte dell'Inquisitore, l'abbaglio viene
emendato ed il dato demografico scartato. Al tempo poi della elaborazione del
magistrale "Il Consiglio d'Egitto" lo scrittore conosce intus et in cute il grande imbroglio
dell'intraprendente abate maltese. Rimembra il lapsus delle
"Parrocchie" ed in fondo in fondo gliene dispiace. Si spiega così
l’acre rimbrotto[4] che
rivolge al suo - tutto sommato - apprezzato Tinebra Martorana, che suona un po’
falso, visto che la ripubblicazione delle "Memorie" del Tinebra
l'aveva voluta proprio Sciascia.
Chi scrive,
dal canto suo, è propenso a ritenere che bisogna risalire al tardo 1271 per avere
il primo documento certo dell'esistenza storica di Racalmuto. Tutto quello che
precede è frutto o di fantasia o di imbroglio - letterario o storico, poco
importa - o di campanilismo visionario. Tutta la faccenda dell'etimo arabo di
Racalmuto si tinge di bizzarria intellettualistica. Iniziarono certi araldisti
del Seicento e da ultimo ci si è messo pure uno specialista di assoluto valore,
il Pellegrini[5], che
propina un Racalmuto equivalente a "Paese del Moggio".
E nel primo
documento disponibile - quello appunto del 1271, che si conservava negli
archivi angioini di Napoli - Racalmuto viene trascritto, quanto correttamente
non si sa , come RACHAL CHAMUT. A questa trascrizione qui ci si aggancia per
affermare che se un senso ha il toponimo "Racalmuto" questo non può
allontanarsi di molto dal significato di "Fortezza di Chamuth". Come
voleva il padre Parisi, e come affermava lo storico Garufi.
Il
più antico documento ove viene menzionata una località denominata Rahal-kamuth
risale – come si disse – al 1178: stilato in greco, fu pubblicato nel 1868 dal
grande paleologo siciliano Salvatore Cusa. [6]
Vi
si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un fondo
sito in RAHALHAMMUT, per il prezzo di 50 tarì. A venderlo, nel settembre
di quell'anno, fu tale Pietro di Nicola Gudelo, insieme alla moglie Sofia ed
ai figli Tommaso e Nicola. Il toponimo
Rachal Chammoùt ((((((rakal
kammou/t) figura naturalmente scritto in greco e la vendita del terreno
viene fatta al monastero di S. Maria di Gadera, sito nei pressi di Polizzi
Generosa.
Il
rimarchevole diploma del 1178 ha suscitato un particolare interesse in
Garufi, un grande storico cui fa ricorso Sciascia nella Morte dell’inquisitore, il quale sembra opinare che il toponimo sia
da riferire a Racalmuto, e così argomenta: [7]
«soggiungo che l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta
d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m
u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata
tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di
compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in
Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout,
nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i
testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero
dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».
L'autorevole
storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non raccolse la tesi su Racalmuto
Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici come il Bresc o arabisti come
il Pellegrini (come si è visto prima). Noi abbiamo tentato di confrontare
questo documento con una sua copia in latino riportata e studiata dal Di
Giovanni[8],
e francamente siamo rimasti molto dubbiosi sulla fondatezza della tesi del
Garufi.
Non si
riferisca pure a Racalmuto, il documento, tuttavia, illumina sui processi di
colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E tanto potrebbe
giovare all'ipotesi di un insediamento benedettino a Racalmuto, come vorrebbe
ad esempio il Pirri.[9]
Sinora, La storia di Racalmuto resta purtroppo vincolata all'opera giovanile di
Tinebra Martorana. I tanti tentativi posteriori non hanno per il momento, a dir
poco, avuto presa sull'intellettuale collettivo del paese. Molto ha contribuito
Sciascia nel rendere incorrodibile quel libretto di storia locale: il substrato
che ne ha fatto per i lavori a dichiarato sfondo racalmutese (Le Parrocchie di Regapetra e Morte dell'Inquisitore) lega il nome del
al dire del Tinebra, sublimato dal paradigma letterario sciasciano; la
splendida prefazione scritta nel 1982 diffonde un'autorevolezza spropositata
sulla fatica giovanile di quel medico racalmutese. Parole, come queste,
risuoneranno magiche ed imperative in tempi futuri anche non prossimi: «Il
libro [quello del Tinebra Martorana], per i racalmutesi, per me racalmutese, va
bene così com'è: col gusto e col sentimento degli anni in cui fu scritto e
degli anni che aveva l'autore, con l'aura romantica ed un tantino
melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi
mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro
l'acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono
nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»[10]
I Normanni a Racalmuto
Conquistata Agrigento
nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il
terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol
dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi
di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna
restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto
per un ritorno al cristianesimo.
Ma chi erano questi
normanni?
Il giudizio storico moderno resta
ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze
razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti
dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle
terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli
avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio
rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio
saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal
giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura
confessionale. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero
ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza,
patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di
'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche
spregiudicato religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi
smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere
espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del
re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in
Russia sulla Chiesa ortodossa.» ([11])
L'Amari, si è visto, parteggia per
gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per
la poderosa personalità di Ruggero II.
Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del
Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith
nella sua Storia della Sicilia Medievale
e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri
provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto
come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici
mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti,
rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti
salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le
parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di
Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i
cristiani greci dell'Italia meridionale;
e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici».
Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno
inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene
giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come
colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe
stata edificata una famosa dinastia». ([12])
*
* *
Che cosa ne è stato
della Sicilia musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo
sulla grandezza della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle
sofferenze e della prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in
definitiva. La tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni
(quali erano gli abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e
fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi
racalmutesi, almeno quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in
testa. «Sciascia è un cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome
diffusissimo nel mondo arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II
deportò tanti arabo-siculi.» ([13])
*
* *
Dopo i
primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una
sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma
Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo, sembrò
sottrarsi sia al fenomeno
normanno del feudalesimo sia a quello
accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò
qualche tempo dopo. Crediamo che nei
primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di
Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli
ortaggi. Per quello che diremo dopo, il
nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era
appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni
da seminare ben coltivati.» ([14])
Gli storici
stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il
risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a
vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche
l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità. ([15])
Del resto in
Sicilia, mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo
quadro religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad
operare. La religione cristiana di rito
latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in
maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano
poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a
Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in
un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora rifondandoli,
qualche volta dotandoli di beni. Si
rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di
frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo portatore di
scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i limiti gravi e
le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e
organiche strutture ecclesiastiche. Le
sole in grado di coordinare le manifestazioni di pratiche religiose e
quindi di vita quotidiana della gente e
di riconfermare e rendere operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che
affidava un ruolo di protagonista agli Altavilla e
rappresentava un dato strutturale
della società normanna.» ([16])
Ruggero non
ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato.
Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una
religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e
forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa
latino. Le preoccupazioni politiche
erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di
fiducia, allogeni, chiamati dalla natia Normandia, fu -
ripetiamo - il taglio adottato da
Ruggero nella instaurazione della Chiesa
di Roma nelle terre
della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovadi di Troina,
Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale
quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire
della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe notizia di
essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata
al vescovo francese Gerlando. Nell'anno 1092, [17]
dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna,
giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando. I confini della diocesi sarebbero stati
definiti da Ruggero
in persona. Il documento, in latino ([18]),
può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le
sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene
chiamato GERLANDO. Assegno alla sua
giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di
Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi
sino ai confini di Iatina [Iato]
e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al
fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine,
e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa
diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui,
da dove sorge, si
estende verso Pira, sotto Petralia;
quindi sino al monte
alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso,
nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi
seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade
(Licata). Questa località divide Agrigento
da Butera. Lungo la costa i confini
della diocesi corrono dal Licata
sino al fiume Belice, che costituisce i confini
con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia la delimitazione, che ad ogni modo esclude
Vicari, Corleone e Termini.»
Se il lettore è stato paziente nel seguire il
zig zag dei confini avrà subito colto
che Racalmuto, quale centro al di qua
del Salso, venne in quella bolla
assegnato a GERLANDO, un vescovo santo
ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo
il consunto steriotipo di uomo di nobile prosapia, bello, alto, biondo e di
gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il
Picone la riecheggia con questi tratti
descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato
in Besansone, città della
Borgogna, di copiosa
dottrina fornito, eruditissimo
nelle chiesastiche discipline ed
eloquentissimo, trasse alla fede gran
numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti
ci appaiono più circospetti. In base
alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano
del conte Ruggero, carica che
fu di GEROLDO, e quanto al
resto si
rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che
riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo
l'ultima critica paleografica del
COLLURA risalgono per lo meno alla seconda
metà del sec. XII. Quattro tra i
primi sei più antichi documenti della
Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra
lecito nutrire dubbi.
Il personaggio
non è dunque inventato e questo è già
molto. E il vescovo
ebbe subito fama di santità, come può
arguirsi dal Libellus custodito nell’Archivio Capitolare ove
si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi
dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima,
carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella
sua facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino - ed a
Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da secoli arabo
e solo arabo. Forse residuava un uso del greco nei
ceppi antichi più tenaci. Questo
vescovo borgognone che chissà quale lingua parlava (pensiamo a quella natìa di
Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di
capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, e, di
certo, per lui, incomprensibilmente. E
le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di stucco i
'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo
normanno in mezzo ai saraceni
dell'agrigentino un nucleo di
verità deve pur esservi: forse
Gerlando ebbe qualche successo nello stabilire un certo
colloquio con i potentati locali di lingua araba.
In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti
che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo
Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24 dicembre 1092) - una falsificazione in
forma originale, secondo il Collura
- accenna a nobilati
francesi già presenti in Agrigento, a
concanonici che officiano in una chiesa dedicata a S. Maria, a
parenti francesi da beneficiare con diciassette villani, due paia
di buoi ed un cavallo.
Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato
da un Rogerius che ci avrebbe redento da 'demonicis ... ritibus'
da riti demoniaci (che pure era
la grande religione di Allah). Emerge
il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale, invero, Petrus Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con
una gamma greca nel bel mezzo della
grafia latina. Principalmente, a
colpirci, è il richiamo allo
strumento giuridico del privilegium
che viene firmato in presenza di testi e
davanti ad un vero e proprio notaio 'Rosperto
notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il
suo consiglio viene giudicato 'justus'.
Francesi, notai, prebende
ecclesiastiche, canonici, vescovi
probi ed assennati, ma anche interessati
alle cose terrene, tutto il
mondo della burocrazia
ecclesiastica romana vi traspare,
ed era passato appena un
quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si
è visto, villani, schiavi ed oggetto di
pii legati.
AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero
il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla
sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi,
due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di
poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Montedoro (più
propriamente a Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far
pensare); il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di
Bompensiere. Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva
letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare
su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni.
Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta a Santa Maria fatta costruire
da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica
storica appena avvertita.
Quando
le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio
metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi
elementi per una chiarificazione e per il diradamento del fitto buio che oggi
ci angustia.
Non
andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna
s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a
dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono
denominati saraceni. Esistesse o meno
una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino
sociale di Federico II. Che cosa è stato il
“villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che
vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di
uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia saperne di più, gli studi di
I. Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una
parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra.
L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime
del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non
si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne
per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della
nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I
saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico
II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le
testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad
avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai
locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante
litteram.
La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli era
stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’
Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà
questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375
abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico
interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
La genesi del feudo di Racalmuto
Ripuliti
gli esordi feudali dai vari Malconvenant, Abrignano, Barresi e Brancaleone
Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca che risulta primo proprietario
del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era costui un immigrato che per
abilità propria o per successione poteva disporre di tre centri
nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci riferiamo
all’indiscutibile diploma che custodivasi negli archivi angioini di Napoli [19]
e precisamte a quello che reca il n.° 209 il cui sunto recita in latino:
Executoria concessionis facte Petro
Nigrello de BELLOMONTE mil., quorundam casalium in pertinentiis Agrigenti, vid. Rachalgididi, RACHALCHAMUT et
Sabuchetti, que casalia olim fuerunt Frederici MUSCA proditoris, et casalis
Brissane, R. Curie dovoluti per obitum sine liberis qd. Iordani de Cava, nec
non domus ubi dictus Fridericus incolebat. [20]
Era dunque un’esecutoria della concessione che veniva
fatta da Carlo d’Angiò a Pietro Negrello di Belmonte, milite, di tre casali
siti nelle pertinenze di Agrigento, e cioè Rachalgididi, Sabuchetti ed il
nostro Racalmuto, chiamato - non si sa per errore di trascrizione o per più
precisa denominazione - RACHALCHAMUT.
Quei tre casali erano appartenuti (olim) a Federico Musca che Carlo d’Angiò
considera un traditore. Quanto al passo successivo che investe la storia di
Brissana, a noi qui nulla importa.
Federico Musca viene privato del feudo nel 1271:
ribadiamo, è questa la data di nascita della storia racalmutese, almeno fino a
quando non si trovano altre fonti scritte o archeologiche. Per quel che abbiamo
detto prima, gli esordi racalmutesi medievali possono retrocedersi di una
ventina d’anni, ma non di più.
Un
Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna Saba Malaspina colui che
l’Amari considera “diligentissimo cronista” [21]
per non parlare del Montaner, del D’Esclot, di Nicola Speciale, di Bartolomeo
di Neocastro, del Sanudo. [22]
La
vicenda viene dal Peri [23]
così sintetizzata ed interpretata:
«Federico Mosca conte di Modica acquistava
benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282 passò in Calabria e conseguì buoni
successi con una comitiva di 500 almogaveri (le truppe a piedi che nel corso
della guerra del Vespro prospettarono la validità dei reimpiego della fanteria,
che sarebbe salita a clamore europeo a non lunga distanza di tempo sui fronti
di Fiandra).»
E successivamente (pag. 46):
«Se la reazione immediata di Carlo d’Angiò fu
più minacciosa che vigorosa, se la cavalcata di re Pietro, nel settembre del
1282, da Trapani a Palermo, a Messina, a Catania, fu più prudente che
difficile, il conflitto poi si spostò prontamente fuori Sicilia. Nel novembre,
il conte di Modica Federico Mosca portava la guerra in Calabria.»
Annota,
peraltro, l’Amari: [24]«Il
Neocastro, cap. 56, accenna
anch’egli ad una fazione degli almugaveri, diversa da quella di Catona. Dice
mandatine 500 presso Reggio e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro il dì
11 novembre mandò il conte Federigo Mosca a regger la terra di Scalea, che si
era data a lui. ...»
Se Federico Mosca, conte di Modica, è, dunque, lo stesso
di quello del diploma angioino riguardante Racalmuto, sappiamo ora che costui
dopo l’esonero del 1271 non tornò più in questo casale. Anche per Illuminato
Peri, neppure tornò - almeno stabilmente - a reggere la contea di Modica che
(pag. 31). A lui «sembra essere succeduto nel titolo di conte di Modica il
genero Manfredi Chiaromonte marito della figlia Isabella», quello che avrebbe
edificato il nostro Castelluccio.
Ma
a quale ribellione di Federico Mosca si riferisce il citato diploma angioino?
Non abbiamo notizie aliunde. Dobbiamo
quindi supporre che trattasi degli eventi del 1269. Li abbozziamo qui sulla
falsariga del racconto dell’Amari.[25]
Le truppe angioine riconquistano il castello di Licata, che era stato assediato
dai Ghibellini, nel dicembre del 1268. Nel 1269 si sparse la falsa notizia che
il re di Tunisi stesse per sbarcare. Frattanto Fulcone di Puy-Richard,
sconfitto a Sciacca nei primi del 1267, comandava a poche città che gli
prestavano volontaria ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly dell’ordine degli
Spedalieri, venuto in Sicilia da tempo a combattere per Carlo con la scusa che
stessero per sbarcare i Saraceni d’Africa, agiva da capitano di ventura e
crudelmente (vedasi Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai primi d’aprile
del sessantanove re Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli mancava solo di
conquistare Lucera per fame, combatté di persona i Saraceni e si accinse a
riportare all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi cambiò due volte
il vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con Guglielmo de Beaumont,
poi costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito agli ordini del solo
D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato dal Estendart, ed indi
di quest’ultimo soltanto, fu mandato per
sterminare le forze di Corrado Capece. L’Estendart risultò un feroce capitano
che comunque riscuoteva la fiducia del re, che non mancava di colmarlo di ricchezze
e di onori. Saba Malaspina lo chiama uomo più crudele della stessa crudeltà,
assetato di sangue e giammai sazio (Lib. IV, cap. XVIII).
L’Estendart condusse nell’isola millesettecento cavalieri
con grande numero di arcieri e vi furono associati oltre 800 cavalieri che
stanziavano nell’isola, tra siciliani e stranieri. Ricominciò davvero la
guerra.
Quel condottiero andò da Messina per Catania all’assedio
di Sciacca, ma qui gli piombarono addosso oltre 3000 cavalieri provenienti da
Lentini; sopraggiunse Don Federico con cinquecento soldati scelti spagnoli,
chiamati Cavalieri della Morte, e gli angioini furono tricidati. L’Estendart e
Giovanni de Beaumont, con altri baroni, vi trovarono la morte. Ne seguì un tal
terrore che Palermo e Messina trattarono la resa, ma la trattativa non andò in
porto. Il racconto - desunto dagli Annali ghibellini di Piacenza - non convince
del tutto l’Amari che puntualizza: «Manca la data di questa battaglia; falsa la
morte dell’Estendart e fors’anche quella del Beaumont; Sciacca fu assediata di
certo dagli Angioini sotto il comando dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni,
de Beaumont, poiché ricaviamo che egli riscosse le taglie pagate da vari comuni
invece di mandare uomini a quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali
genovesi che Sciacca fu conquistata dagli Angioini.
Anche Agrigento fu assediata dai francesi, dopo la
conquista di Sciacca, che vi avrebbero però subito una sconfitta. I Ghibellini,
astretti da varie parti, riuscivano ancora a mantenere il controllo di
Agrigento, Lentini, Centorbi, Agusta, Caltanissetta.
Gli eventi evolvono con l’assedio di Agusta. Carlo
d’Angiò ordina all’Estendart di portarsi a ridosso della città siciliana per il
colpo di grazia. Vi si erano insediati 1000 armati e 200 cavalieri toscani che
la difendevano valorosamente. Il re fece costruire apposite galee per
quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29 settembre 1269. L’ordine era di
passare a fil di ferro quanti si trovassero nella città. Essa fu presa per il
tradimento di sei prezzolati che di notte aprirono una porta. Guglielmo
d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore, né innocenza, né ragione
d’uomini alcuna.»
Cessata
la guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise nell’ufficio di Vicario, il 18
agosto 1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico di perseguitare i traditori e confiscare
loro i beni», annota l’Amari. [26]
In tale frangente, ebbe dunque a verificarsi lo
spossessamento del feudo di Racalmuto che dal “traditore” Federico Musca passò al fedele - estraneo e
francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se parente dei tanti Beaumont
che abbiamo avuto modo di citare.
Sempre
l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri fragelli s’aggiunse la fame.
In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano salì a cento tarì d’oro la
salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a quaranta tarì, che vuol dire
nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al doppio o al triplo del valore
ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato coinvolto in quella sciagura:
le sue ubertose terre avranno fornito pane a sufficienza. Ma il nuovo signore
de Beaumont avrà potuto razziare a man bassa per le solite speculazioni
granarie. Si pensi che anche la vicina Milena - all’epoca chiamata Milocca -
finisce in mani di un omonimo: quel Guglielmo di Bellomonte [27]
di cui abbiamo parlato sopra.
Sfogliando i registri angioini, apprendiamo che il padrone
di Racalmuto dal 1271 al 1282, Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di
Montescaglioso e il Camerario del Regno del 1271. [28]
Non pensiamo che il conte di Montescaglioso sia mai venuto a visitare queste
sue lontane terre, site in una terra dal nome strano, Racalmuto. Avrà mandato
qualche suo amministratore. Solerte, comunque, nello sfruttare quei contadini
di origine araba, usciti da non molto tempo dalla condizione di “villani”, una
sorta di schiavitù a mezzo tra la servitù della gleba e la remissiva
subordinazione della fede cattolica, vigile nell’inculcare il sacro rispetto
del padrone per il noto aforisma “omnis auctoritas a Deo”. Ogni autorità vien
da Dio. Ed il lontano Negrello era pur sempre un padrone caro al Signore Iddio.
Bisognava ubbidirgli e basta, come al ribelle conte di Modica.
Racalmuto durante i Vespri Siciliani
Dalle brume delle vaghe testimonianze scritte affiora
solo qualche brandello delle locali vicende in quel gran trambusto che furono i
Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle
sue passioni irredentiste, a fare del “ribellamento” del 1282, una
fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi contro ogni
dominazione straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor più i
racalmutesi) sono per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti, propensi
a sopportare ogni autorità, la quale - straniera, o indigena, o paesana che sia
- sempre sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore aggravio
possibile, con il solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo, o in
chiesa, o presso il farmacista o nel greve chiuso della bettola).
Ancor
oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese Léon Cadier
sull’amministrazione della Sicilia angioina. [29]
Il Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera,
specie là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande
storico siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive
infatti il francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto
d’arme della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai
posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento
glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto
aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i
carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini;
l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più
fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»
Ed
a noi Racalmutesi del Duemila, il culto dei Vespri ci è stato inculcato sin da
bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro raffigurato nel
sipario del teatro comunale. [30]
Leonardo Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in
una sua cerebrale superfetazione sul mito del Vespro. [31]
Di rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non era un
mito ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese sempre:
ma certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della riscossa
nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del tempo,
quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da parte
sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia
stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.»[32]
Ad ogni buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla [33]
- che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura - di
documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva resta
per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che nessuna
cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non preparato,
ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»
Se
il Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono neppure
le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al padrone
Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico, predatore - era subentrato
Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi messi
partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di libertà,
di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il grande
disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il caos
amministrativo e la rapida fuga dei loro
sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare i campi seminati,
mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone, immagazzinare,
alienare, incassare e per intero. Il 10 settembre 1282, arriva da Palermo una
missiva [34]
indirizzata “Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio
ordine dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15
arcieri: una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno capito
neppure che cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma era
una richiesta che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era
finita; i padroni ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami,
imposte, angarie e sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.
Racalmuto
- si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di Federico II di Svevia.
Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro Altipiano un certo numero
di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità trattasi di marrani
sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappresaglie della persecuzione
religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali per necessità
mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che quella specie di
schiavitù è tramontata, ma la loro condizione sociale ed economica è molto
simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso coincidono con la
disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel territorio a strapiombo
sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva fisionomia di abitato
trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il pagliaio a sopperire alle
necessità abitative; sorsero le case “copertae
palearum” che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du
Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un
incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliaio - scrive il Peri non ad hoc ma
pertinentemente [35] - non richiedeva scavo in profondità per le
fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in grossi pezzi sovrapposti
“a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La costruzione si alzava, quindi,
con paglia e fogliame impastato con fanghiglia. Costituito abitualmente da un
vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le bestie collaboratrici e
compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle intemperie e dava una pur
limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole. Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad lapides et calces), anche nelle città erano e sarebbero
rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata secolare.
E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano nozione diversa
dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la fatica prolungata e
l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente
offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche
dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e
al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con
rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle
generazioni.»
Il
prisco insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti che i successivi
riveli sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo ebbe a chiamarsi
di Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di Pannella incluso,
dalla Madonna della Rocca sino alle
Bottighelle dell’attuale corso
Garibaldi, tra S. Pasquale e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli
altri tre quartieri: San Giuliano, Fontana e Monte.
I racalmutesi tengono molto alla
tradizione che vuole la chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente
addirittura al 1108: una chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si
indicano come i primi baroni del casale. Non è facile farli ricredere. La ‘notizia’
ha per di più una fonte scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici locali la
danno per certa, ed anche i restauratori della chiesa, negli anni ottanta del
secolo scorso, parlano di facciata “normanna”.
Il Pirri, palesemente, collega
la notizia ad un paio di diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi
capitolari della Cattedrale di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a
cavallo tra il XIX ed il XX secolo per la nota questione delle decime della
mensa vescovile agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi incaricati di
difendere le ragioni dei grossi agrari della provincia, riluttanti a
riconoscere le antiche tassazioni ecclesiastiche, e giuristi, canonici e
storici di parte cattolica, tutti alle prese con la dimostrazione che trattavasi
di tasse dominicali e quindi di gravami ancora validi.
Nel
1960, il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta dal concordato del 1929 e
nella sudditanza alle autorità ecclesiastiche propinata dal consolidato regime
democristiano - incaricava il grande paleologo Mons. Paolo Collura di uno
studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi. La pubblicazione che ne è
seguita è pietra miliare per ricerche del genere.[36]
Noi siamo andati a cercare quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria
di Racalmuto ed abbiamo scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese.
Vi sono, sì, due diplomi del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della
fondazione di una chiesa dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la
località nulla ha a che fare con la nostra Racalmuto .
Si
riferisce evidentemente ad alcuni di codesti diplomi, il Pirri nel fornire
notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde nota lo stesso
Collura ([37]). Ma
come si può ben vedere, sia per le precisazioni del Collura sia per l'ubicazione
dei fondi sia per i toponimi, si tratta di Santa Margherita Belice (o presso i
suoi dintorni) e Racalmuto va senz'altro escluso. ([38])
E’, poi, certo che Racalmuto non appare
mai in modo incontrovertibile nel carte capitolari di Agrigento che vanno dalla
conquista normanna al 1282. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad un tardo
affermarsi del toponimo arabo del nostro paese o ad una sua indipendenza
fiscale nei confronti della curia agrigentina. Noi, come detto dianzi,
propendiamo per la tesi della tarda fondazione del paese di Racalmuto, qualche
decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo soffermati sopra.
Caducata
l'attendibilità della fonte documentale del Pirri, si sbriciola la narrazione
del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il Capitolo II ed il III [39]
che contengono notizie sulla "signoria dei Malconvenant" e su
"Santa Margherita Vergine" che corrisponderebbe "alla nostra Santa Maria di Gesù" sono
destituiti di fondamento storico. Il Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta
conoscenza dell'abate netino. Egli si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura
Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte
a Racalmuto» e del «Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°,
pag.393-4». L'Amico è esplicito nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui
Malconvenant e su Santa Margherita Vergine: è il Pirri della Not. Agrig. [40]
Il Pirri fu sicuramente indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo
agrigentino. Nasce così il falso storico di una chiesa racalmutese intestata a
S. Maria di gesù, risalente al XII secolo.
L'avallo
di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra Martorana [41]
ha ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie storiche su Racalmuto e non
sarà facile a chicchessia rettificarle o raddrizzarle. Malconvenant e chiesetta
vetusta di Santa Margherita-Santa Maria sono usurpazioni storiche cui i
racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è che, ancora nel 1986, il padre
gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso narrando:[42] «frutto
della rinascita normanna fu per Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte
Ruggero conferì l'investitura di signore delle terre di Racalmuto a Roberto
Malcovenant che dopo venti anni dalla liberazione vi fece sorgere la prima
chiesa sotto il titolo di S. Margherita vergine e martire, vicino l'attuale cimitero,
dotandola di fondi agricoli che convertì in prebenda canonicale. Rocco Pirro
colloca l'erezione della chiesa nell'anno 1108 e precisa che avvenne con
licenza del Vescovo di Agrigento, Guarino (+1108)» ([43])
Il mendacio storico è proprio duro a morire, se anche un colto ed avveduto
gesuita vi incappa or non sono più di una ventina di anni fa.
Quanto a falsità storiche, ancor
più salienti sono quelle che confezionate dal Tinebra Martorana, furono
ribollite da Eugenio Napoleone Messana: sono le incredibili avventure della
Racalmuto nel crogiolo della rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana [44]
che nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai baroni
filofrancesi «Giovanni Barresi, signore
di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti vassallaggi di
Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse le armi contro
il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del 1282, «Giovanni Barresi, che palesemente aveva
seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in auge,
ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato, fu
spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la baronia
di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu concessa alla
famiglia Chiaramonte.»
* * *
Il
Fazello non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli
incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto
storico è basilare nella storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni
che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+
1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale
castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la
seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello è del
tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito
Amico [45]
ed il Villabianca, quello della Sicilia Nobile [46] - su
un'evidente distorsione di un passo dell'opera storica del Fazello. [47]
Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto
[48]:
Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da re Ruggero l'investitura
di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri
"oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio
Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo
su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno in tal
modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende avventurose di quella
famiglia.
Non
è questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci pare di avere fornito
elementi sufficienti per comprovare la validità dei nostri convincimenti in
ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei Malconvenant e dei Barresi
con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere se possa parlarsi della
signoria degli Abrignano.
Il
solito Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina questa successione:
«Alla morte del conte Ruggiero Normanno, sia
perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta, sia perché fosse
caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini ed uffici.
Ciò che è indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il gran re
Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli
Abrignano [Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli
Abrignano però non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto,
fu per breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E
tanto è davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come
“indubitato”, diviene subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe
essere consentita - “non sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò a
definire quella del Martorana “una buona storia del paese”. [49]
Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49) non ha dubbi che «nella cronaca dei
re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero II concesse la baronia di Racalmuto
ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad Abbo Barresi dopo. Della
concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il Minutolo, altri la omettono e
riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.» Evidentemente, né Tinebra
Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto il Minutolo, diversamente
non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano letto soltanto Vito Amico che
nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo Memor. Prior. Messan. Lib. 8
attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla famiglia di Abrignano, dato poscia
a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel Villabianca: « e la tenne [Racalmuto]
pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente ci dispiace che
nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro stimato amico. [50]
Egli sintetizza: «La famiglia Albrignano - Decaduta la famiglia Malconvenant,
Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto agli Albrignano o Alvignano nel
1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle storia o, se vi fu, ebbe a durare
pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia di Racalmuto era già nelle mani dei
Barresi.» Un evidente sunto, con quella aggiunta della data che vorrebbe essere
una precisazione e diviene invece una colpevole topica.
Il
Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina
che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran priorato” [51]
: raccolse le dichiarazioni dei vari suoi confratelli sulle loro ascendenze
nobili. Essere nobili era indispensabile se si voleva essere ammessi fra quei
frati cavalieri. Fra D. Alberto Fardella di Trapani nell’anno 1633 asserisce -
in buona fede o fraudolentemente, non sappiamo - che un suo antenato era:
«Hernrico Abrignano dei Signori di Recalmuto, nobile di Trapani, e Regio
Giustiziero, e Capitano» nell’anno 1395. La falsità era talmente evidente da
non doversi dare alcun credito al mendace frate, ma il Minutolo non se ne
accorge ed incappa in una smentita a se stesso, quando trascrive l’albero
genealogico dell’altro confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo del Carretto, di
Giorgenti, 1617”, il quale, in coincidenza della pretesa signoria di Racalmuto
da parte di Enrico Abrignano nell’anno 1395, colloca , correttamente, al posto
dell’Abrignano, il proprio antenato, il celebre barone Matteo del Carretto. Ma
già un altro dei due monaci della famiglia Fardella (fra D. Martino Fardella di
Trapani 1629) si era limitato a dichiarare quell’identico antenato come
semplice nobile di Trapani («Enrico Abrignano Nobile di Trapani»).
Gli
Abrignano con Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse una qualche
parente di Matteo Del Carretto andò sposa al “mercante” Enrico Abrignano,
attorno al 1391.
Quanto
ai Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero abbiano avuto il dominio di
Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se il padre Aprile, scrivendo
in epoca moderna, era propenso alla tesi affermativa. Si disse che Abbo Barresi
I o Senior ebbe concesse dopo il 1130 dal re Ruggero il Normanno vari feudi,
Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a Matteo; da Matteo a Giovanni, la
successione in quei domini feudali. Il San Martino Spucches resta sconcertato
dalla contraddittorietà delle notizie fornite dal Villabianca. Si limita allora
a questa secca elencazione: «Il
Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo
Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200).
Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico II concesse, dopo il
1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio di Giovanni (di Matteo
di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio Matteo: al quale successe
Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi visse sotto Re Giacomo di
Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo divenuto Re di
Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo
momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad
elencare i Baroni di Racalmuto con numero progressivo.» [52]
Ma, così facendo, l’esimio araldista, allunga la teoria delle successioni,
ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si passerebbe ad Abbo II iunior che avrebbe avuto dall’imperatore
Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a quell’epoca, ancora da fondare); da
Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo III, cui sarebbe subentrato Giovanni
Barresi che è personaggio storico distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro
signore di Pietraperzia, Naso e Capo d’Orlando.
Scettici sulle signorie
pre-Vespro dei Barresi, non possiamo escludere che, con la restaurazione
feudale di re Pietro, Giovanni Barresi possa essersi impossessato di Racalmuto,
stante la latitanza di Federico Musca, cui invero sarebbe spettata la
titolarità della baronia racalmutese. Con il passaggio tra le fila di re
Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra al proprio fratello, Federico
III, che era stato proclamato re di Sicilia nella ben nota crisi di fine secolo
XIII – poté essersi pur verificata la perdita da parte di Giovanni Barresi del
recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli altri suoi possedimenti
siciliani, finiti sotto confisca.
L’Amari,
nella sua guerra del Vespro siciliano, accenna ad un diploma del 28 dicembre
1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo II d’Angiò, ove Racalmuto
e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto. [53]
Ovviamente si trattò di promesse dell’angioino che non ebbero seguito alcuno.
Ma quella promessa sa di sonora smentita della tesi che vorrebbe feudatario di
Racalmuto Giovanni Barresi: questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure
sotto la bandiera di Giacomo d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò
arrivasse al punto di confiscare il feudo ad un amico per prometterlo ad un
altro amico. Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse
ancora la concessione a Pietro Negrello di Belmonte e che si pensasse di girare ora il feudo al
milite alleato Pietro di Monte Aguto.
* * *
Nell’Agosto del 1282 Pietro
d’Aragona sbarca in Sicilia con quel misto di albagia spagnola e di «avara
povertà di Catalogna»: a Racalmuto - come detto - giunge la prima stangata
fiscale datata “Palermo 10 settembre”; il nuovo re esige subito che si paghi
per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto
la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola inviando al
nostro periferico casale un resoconto delle sue recenti imprese. Siamo sicuri
che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava nulla di sapere:
«Doc.
X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. [54]
Re Pietro dopo aver enumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uomini tutti di
Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di
Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per
terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea,
eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci,
vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti
i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lancieri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22
Settembre al più tardi.
«Simili
lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume Salso.»
«[......]
Item et infra fuit scriptum eodem modo videlicet.
«
[...] [55]
Burgio, Sacca, Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo,
Calatanixerio, Rahalmut [corsivo
ns.], Mulotea, Sutera, Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto
Angilo, Raya, Busaxemo [Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»
Nel
successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato - unitamente ad
altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe approntare altri
quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da Messina il giorno
26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai giudici ed a tutti
gli uomini Rakalmuti. Perché mai
questa resipiscenza? Evidentemente, la base imponibile che era stata calcolata
a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi
tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una
tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20
fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla guerra
che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro
l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti
racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380
(calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile
consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta,
bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e
quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri:
una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una
maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione
stimata di circa 456.
Re
Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si rivolge ai
racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto aspettato suo
arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che quindi
potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus.
«Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti
burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia iuramenta” della debita fedeltà e dell’omaggio al re.
Nomini i suoi “sindici” e si inviino davanti al cospetto della “celsitudine”
regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché
annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri, arcieri, uomini armati di tutto punto, di
scudi o di altri tipi d’armatura e «vengano presso di noi Re Pietro in quel di
Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo
mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disubbidisce, incapperà nella
nostra reale indignazione.»
Non
v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei siciliani del
1282 dinanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i letterati, ci
risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento. Neppure Tommasi
di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra farne accenno
sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia, appena
“descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte
della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara
povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a
volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.» [56]
E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che davvero avvenne,
per quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto
“narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.
Chi
spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni furono
prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma pericolo per la vita
e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per strade
impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?
C’è
da pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa al suo
della campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà tradotto la
missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si era autoproclamato Baiulo
e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il farmacista-medico - che lo
affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano di giumente - avranno
dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella lontano Randazzo. Con la
ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del 7 agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto:
1282-1300 ca.
Ne
siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un
ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di
una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la
cosa si risolse in una intenzione, non potuta in alcun modo realizzarsi. Anche
la notizia (secentesca) di una assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone
Doria, è frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili ragioni cronologiche.
Una
signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una
qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza
Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del
XIV secolo.
Nessuna
fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto -
preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti
dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite,
denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico
Musca , comes Mohac, si rinviene tra
i diplomi di Pietro I.[57]
Su tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca
scrive:
«....[PAG. 4] entrati che
furono gli Aragonesi nel governo di
questo Regno, appare in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che fu Governatore della Valle di Noto sotto il
Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero
di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .
«Essendo stato anch'egli uno de'
quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux;
così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos
- egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad
monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte
bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum
reciperet.» Ma se sia stato costui
discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovato, o forse da altro modo
comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però,
ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo
dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi
successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè
Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non
meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di
Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato
ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli
seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»
[58]
Esplosa
la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito
soggetto, agli appetiti tassaioli del
sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i
notabili racalmutesi dell’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A
presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici
eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di
Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici
dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che
incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri,
Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La
Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero
a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna,
quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che,
comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor
oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche
suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si
disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Interlocutoria
ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti
dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli
imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per
intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene
nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis
Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo. [59]
Il 17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i
luoghi di sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro” (vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo:
segno che le terre ed i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de
Ferro, milite giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare maestri giurati di sua fiducia: il re,
da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi
intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti
e Baroni, elezione che si era riservata»[60].
Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo
di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni:
manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare
quegli abitanti nel possesso dei loro beni. [61]
Occorre
pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con
decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che
le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso
siano corrisposte ai regi tesorieri.»[62]. Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con
provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non
risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto. [63]
Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da
Messina, il 15 novembre 1282, s’ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del
Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di
sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni
per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Salto,
la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni,
circa alla promessa del sussidio.»[64]
Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze
fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui
luoghi, il versamento dalle Università al di là del Salso.»[65]
Racalmuto risulta tassato per 15 once, [66] preceduto da:
Licata: unc.
238;
Delia unc. 3;
Naro unc. 166;
Calatarapetta
(sic) Mons maior unc. 6;
Tusa unc.
2;
Misiliusiphus unc. 4;
Sciacca unc. 250;
Calatabellottum unc. 122;
Agrigentum unc.
380.
Il
successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad
armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per
una cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari,
nella sua storia del Vespro, ne fa quasi un diuturno resoconto. Ancor oggi è
viva la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei
tempi nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce,
capovolgendo un indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla
Sicilia una nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha
voglia di essere originale su quello snodo della storia siciliana: una
improvvisa e scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si
innesta una vorace conquista di un rappresentante dell’ «avara povertà di
Catalogna».
Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche,
che si ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo,
Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il
nostro paese da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero.
Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica -
quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore
dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi,
re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte
nel 1713 per una faccenda di tasse su alcuni rotoli di ceci del vescovo di
Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa
conoscenza.
Racalmuto,
decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì
cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non
immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la
politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che
corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il
10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore
Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse
qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a
comprendere le ragioni che spingevano i due potenti fratelli (Federico e
Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche
papali, in loco non se ne intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero
colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti
ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di propinare nelle loro
infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano
lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva
l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si
riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi
immigrati e con fertili nozze.
Nel
1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di
riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 -
arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri per quelle due precorse
annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei
prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di
Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect.
n.° 161 f. 96 abbiamo:
«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae
de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
In
altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di
Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del
foglio n.° 97 ( 97v):
«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro
officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro
utraque tt. ix.»
Il
che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo
ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì.
Racalmuto non viene segnato come castrum
anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto,
la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba
pontificio.
Coteste
ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a
Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e
non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di
S. Maria, ed è chiamato a corrispondere un’oncia per le decime di due
anni (1308 e 1310); l’altro, è il “prete”
Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove
tarì in relazione all’ufficio
sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo
neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S.
Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna
è mero arbitrio. Il “presbiter” Angelo
de Montecaveoso [67] ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di
Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che
dovevano essere di poco più di un terzo rispetto alle ricche prebende di chi
era titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto
diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).
La
chiesa di Santa Maria era talmente ricca, dunque, da non potersi ritenere
soltanto un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o
di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da
qui poté nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo
a partire dalla fine del secolo XIV. Ma poté trattarsi anche di un convento,
forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per
l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato
a causa dell’endemico stato di guerra.
Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei
suoi Capibrevi dei
BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber
Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211».
II Pirri descrive il
Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che
congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna
concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo
Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un
convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti
lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle
fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono
quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune,
secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana
cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol.
II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211
-Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter Agrigentum et
Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum] existens de
suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S.
Benedetto in termini del tutto critici. Non sappiamo
quanto di valido ci sia nel pregevole lavoro di padre Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo di
Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti
dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro
tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di
abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non
poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da
Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci
dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là
dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo
noi, in piazza Castello, in quarterio
Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani
spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che
gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo
in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a
Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da
studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale [68]. A Casalvecchio, già alla fine del XIII
secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in
pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
«Antica è
l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla
peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si
trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio.
Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile,
si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. » [69]
I dati che possiamo ricavare dalle tavole delle collette
pontificie del 1308-1310 non consentono fondate ipotesi su un grande sviluppo
demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le
altre località che riusciamo a desumere (Agrigento, Butera, Caltabellotta,
Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo
Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa
rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte
papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì non erano poi pesi intollerabili, ma pur
sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva
dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si
sconoscevano persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino
per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di
Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a
quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella
sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
Denominazione
|
Unciae
|
Tarini
|
Granae
|
Summa
| |||
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per
le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
|
261
|
4
|
8
|
261,4,8
| |||
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per
le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
|
87
|
22
|
10
|
87,22,10
| |||
Differenze
|
173
|
11
|
18
|
173,11,18
| |||
Differenza
in percentuale
|
|
|
|
197,58%
| |||
Per
due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il doppio di quanto
corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per un quinquennio.
Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310; indirettamente nel 1280.
Allora, collettori per Agrigento furono il canonico agrigentino Pasquale ed il
notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese, il francescano Marco
d’Assisi, [70] ebbe
dal collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non
sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato
dell’intera diocesi di Agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci
direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo.
In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto
l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia
subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei
vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28
gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu
una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il
Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al
partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla
cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276.
Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostituto Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al
23 agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23
agosto 1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10
dicembre 1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti
rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio
in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da
Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato
dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a
lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile
e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei
primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria,
oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal presule
agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco
(presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un
balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue
decime o primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli
obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo.
L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo
gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio
dell’avara povertà di Catalogna.
FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA
CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
I
Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIV. Federico
Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto
costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio del
Trecento, l’attuale fortezza, forse una, forse tutte e due le torri oggi
esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero
preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal
lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete
ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte.
Sono ad ogni modo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese.
Forse
risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure,
ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da costei sposare - lui
vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di
Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIV. Forse
davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto
Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la
pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato in un libro
secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e
mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande
storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi
oscuri esordi della signoria dei Del Carretto su Racalmuto, quel che di certo
abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi
risalire al 1400 - che solo negli anni ’novanta del trascorso millennio chi
scrive ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di
Palermo per un’ostica ma illuminante lettura.
Ma in quell’investitura, scopo, intento,
occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito
la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta
particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel
vantare ascendenze altisonanti: difficile credere a quanto vi si afferma nei
confronti di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto; traluce invece
una realtà ove si scorge la rapacità di codesti esattori delle imposte dei
Martino, quei Martino che risultano più che altro gli avventurieri dell’ “avara
povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIV
secolo.
A noi -
racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via
discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella
oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso
Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto
maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Noi abbiamo
speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la
documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed
originale - la documentazione dei processi d’investitura - venne riprodotta in
un CD-ROM interattivo cui si rinvia. Carta canta e villan dorme: non si può
fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del
Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un
inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxororicidi
a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con
i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in
“alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove
innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e
Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo
sciasciano.
Un quadro -
ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente
complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a
Racalmuto sotto il dominio, consueto per l’epoca, dei baroni del Carretto:
costoro verso la fine del Cinquecento - dopo un paio di secoli di egemonia (a
dire il vero spesso illuminata) - hanno voglia di farsi attribuire un’arma
ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto; mancano però
l’obiettivo cui particolarmente tenevano: quello di riconoscere il titolo di
marchese che in esordio della loro signoria su Racalmuto avevano
contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto
sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri
ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che abbiamo
pubblicato ne spazza via ogni briciola di attendibilità. E quel che si scrive su data e struttura del
castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera
sulle origini storiche del Castelluccio.
Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III d’Aragona -
veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello
Giacomo, succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva
ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potentati dell’Isola fino
alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.
Federico III poté detenere il regno di Sicilia per un
quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a
concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un
lungo periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale
baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso
Denis Mack Smith smitizza: «in realtà, - scrive lo storico inglese [71]-
interessi egoistici prevalsero in questa
guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica,
inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattuali e puntuali. Non
crediamo, ad esempio, che se ne ebbero solo distruzioni: anzi, sviluppo
demografico, lavori pubblici per fortificazioni, profitti da
commercializzazioni del grano, necessario al vettovagliamento delle parti in
guerra, sembrano i connotati affioranti da questo travaglio della storia
locale.
Federico III conclude nel 1302 una “pace di compromesso”: gli
bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di Sicilia: un cedimento
di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò. La guerra ricominciò
nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.
Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo intervallo
di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di innalzare
nell’attuale piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di torri
difensive, apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non
convince molto: le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di
là a venire.
Il dotto Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo; si
limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto, centro
fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico Chiaramonte, a
cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a otto miglia il
villaggio di Canicattini.» [72]
Dal passo si evince che lo storico di Sciacca comunque non
aveva dubbi sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico Claramontano”. Ma chi
fosse codesto Federico non è poi del tutto chiaro, potendo anche essere
Federico Chiaramonte I, il capostipite della famiglia, nel qual caso la
datazione della fondazione del Castello retrocederebbe e di molto.
Da dove abbia tratto
la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio per
abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini
circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di
investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di
Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si
sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili infeudamenti da parte dei
Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso
(capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a
farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di
irrefrenabile visionarietà.
Se poi diamo credito al San Martino de Spucches, proprio in
coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe fatto
erigere il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un abbaglio:
c’è confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. [73]
Per il San Martino, dunque, «IL FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara,
territorio di Naro, da non confondersi con l'altro sito in territorio di
Girgenti, sul quale sorse poi la terra di Gibellina, eretta a Marchesato.
Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo vi costruì la fortezza; in
ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte;
questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a giugno 1392 sotto il suo palazzo,
detto lo STERI, ebbe tagliata la
testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione in cui si dibatte
il peraltro avveduto araldista. Con franchezza, dobbiamo ammettere che nulla di
certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a partire dalla fine del
secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.
Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono
facondi nell’enfiare le rare ed incerte notizie degli storici secentisti che
hanno scritto sulle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua
erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in
encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli,
quello che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del Monte.
[74]
«Decaduta la famiglia
Barrese - scrive il frate di Lucca Sicula - e devoluto Racalmuto al Regio Fisco fu
concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso. Federico secondo di questo
nome terzogenito di Federico primo Chiaramonte fabricò il magnifico Castello
tutt'ora in gran parte esistente. Onde si rifiuta l'opinione d'alcuni che
pretendono il Castello costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri
confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino
all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone
Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia.»
Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è ben
poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della
emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei
secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto
arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla
crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del
‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero.
Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente al presnto dominio dei
Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto Giovanni
Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del lucchese
sono accettabili, purché meglio chiariti.
Quando, come, in che misura i Chiaramonte si impossessano di
Racalmuto?
Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona, si è
detto che Racalmuto venne alla corte di Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto
e siamo nel 1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva
poche probabilità di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a
giungere in loco. La famiglia
agrigentina dei Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre
alquanto periferiche: Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio (ma
non è certo) e poté benissimo munirlo di una fortezza; il fratello cadetto
Federico II si dichiarò padrone del casale e dell’agro circostante, non
mancando di ergervi l’attuale Castello, sia pure nella sua embrionalità
costituita dalle due torri cilindriche. Costruire torri cilindriche in quel
tempo era divenuta ardua impresa per il diradamento delle maestranze
fredericiane. Ed allora? Un interrogativo che può dissolvere la fondatezza
della congettura che siamo stati per raffigurare. Solo i futuri scavi
archeologici potranno chiarire il mistero: un mistero che si aggrava se i
ritrovamenti di ossame e di ceramiche sotto gli interstizi tra le due torri
dovessero significare presenze abitative o necropoli medievoli antecedenti al
XIV secolo. Le ossa non sembrano invero umane; i cocci sono angusti per
configurazioni significative.
La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da
Illuminato Peri [75] e
noi ci accodiamo in tutta umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto
gli Aragonesi, mancò un controllo inibente da parte della monarchia, e le
concessioni si moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si
allargarono; e fu proprio allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei
Chiaramonte. Prima, per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento,
e particolarmente nelle vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la
grossa proprietà.»
Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni di
valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi.
Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta
può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del
nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da
Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali
che la avrebbero contraddistinta; sul suo valore atto a «infrenare l’orgoglio dei re e costringerli
ad umiliazioni.»
Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che nei
primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza
Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges [76]
che testualmente così la raffigura:
« Da questo nobile
matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque Costanza
unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del Carretto;
Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il contratto
matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à
11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno, come riferisce
Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel
suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre
10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro
di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam
universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem
Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae
Constantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate substituo,
ita tamen, quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque liberis
statim anno impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem
Mohac, et Ioannem de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et integre
revertatur.
2. Venne
Costanza per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona
dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del
Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di
Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in
Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del
Carretto possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte d'Antonino
suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore della sua
gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente detto,
Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che
nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo
di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3.
Isabella; moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero
Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di
Raimondo Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel
quinto luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la
7. & ultima si fù Genebra.
3. Costanza, restando la seconda volta Vedova, finalmente
si morì in Giorgenti, havendo prima fatto il suo testamento, e publicato il 28
marzo 1350 nominando suoi esecutori testamentari il suo primogenito Manfredi,
il vescovo Ottaviano Delabro ed il priore del convento di S. Domenico.»
Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte ebbe la
disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per la
testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro si
specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro il
riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza
Chiaramonte. [77] Si
tratta dell’atto transattivo in cui Gerardo cede al fratello Matteo del
Carretto, a titolo oneroso:
«omnia iura
omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas
perentorias, tacita, civiles et expressas,
que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et
habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice
domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam
domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris,
quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et
eciam quocumque alio iure competente
domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia
Racalmuti ut primogenito magnificorum
quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et
casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et
Ruviceto Siguliana terminis, cum onere
iuris canonicorum civitatis Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate
Agrigenti iuxta hospitium magnifici
Aloysii de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu
Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris
vacuis vineis, et toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris
quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et
censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum spectantiis in
omnibus et singulis bonis stabilibus,
castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus.»
Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado vende e avendone il potere di vendita concede e per
tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al magnifico ed egregio
don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello, presente e compratore,
che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori, in perpetuo, tutti i
diritti e tutte le azioni reali e personali, universali, dirette, miste,
perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto don Gerardo,
come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di successione o
ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché per diritto
ereditario riveniente dal quondam
magnifico signore don Giacomino [Jacobinus] del Carretto, suo fratello,
così pure per diritto di successione ed eredità riveniente da quondam magnifico Matteo Doria ed anche
per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo per qualsiasi
ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come primogenito dei defunti suoi
magnifici genitori ed erede di suo fratello Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale,
nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli,
Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con
i gravami verso i canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un
tale palazzo esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico
Luigi di Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S.
Matteo ed ai casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte
orientale, e prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini.
Del pari, viene venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto
nella contrada di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero
distretto ove scorre il fiume della detta città nella parte orientale e
confinante con la via pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso
gravano gli oneri che ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il
predetto atto si estende a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi
esistenti nella città di Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su
tutti e singoli beni stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e
burgensatici ovunque esistenti nell’intero Regno di Sicilia.»
E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di
Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio
del Carretto - che Costanza ebbe dal
primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del
Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì
che a Matteo del Carretto giungono anche i beni dello zio paterno Matteo Doria,
figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.
Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda feudale
di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano estranei
alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve periodo in cui
la baronia sembra in mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così? Purtroppo, un
documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di meglio esplicare -
revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre racalmutesi furono
di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici, mentre l’egemonia
feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del XIV secolo.
Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina procurò con la sua
strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura? anche qui un
mistero.
E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di
Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che
all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattutto la figura femminile
di Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli -
Manfredi, Giovanni il Vecchio, Federico
II - ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di
Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il signore di Racalmuto al
tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re
Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella
contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di
Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto
della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la
concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra
sua dimora che si chiamò Steri
(l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di
Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo.
Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.
Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca Palizzi.
Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che assediava
Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella difesa di
Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di Calabria.
Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di Palermo. Il Picone [78]
ci assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio case
palagi castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il suo
casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi,
colla chiesa nostra, e ne riceveva in corrispettivo il casale Mussaro, col suo fortilizio coi casamenti,
e i terreni che lo cingevano, perché la chiesa non bastava a mantenerlo e
custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni nelle vicinanze della
città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca (Ruolo n.° 23) che i
nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una serie di falsi, propinati
ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni Chiaramonte su Racalmuto.
Quest’ultimo muore nel 1339.
Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca direttamente:
signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311, lasciando erede la
figlia Costanza.
Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita la
contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321; sposa
Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene
ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui
ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta:
aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la
moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare
in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il
Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al
nemico, partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane.
Muore frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337
dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara.
Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo.
Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in
loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero
degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro
razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza
eredi maschi.
L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte travolge
l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro politico
di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico
III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone -
hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o
al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.
Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino
Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento
di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi
receve l’investitura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo
(1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi di sorta per
articolare una qualsiasi risposta. Nel 1351 Manfredi II diviene vicario
generale del Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353, lasciando
erede il figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di Aragona).
Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la contea di
Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339 partecipa con il
fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re Pietro II.
Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e diviene
governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla conquista
di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere
Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa
con il nipote Simone alla sollevazione di Messina contro Matteo Polizzi.
Concorre alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni
a danno dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei
Chiaramonte, conti di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV.
Possiamo solo congetturare che Racalmuto
- stante anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta
titolari della baronia - sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei
Chiaramonte. Federico III sale ancora nella scala degli onori pubblici
divenendo nel 1361 Pretore di Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano
Giustiziere di Palermo. Muore nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.
Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia Aragona,
costituisce una parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di potere
di quella schiatta trecentesca siciliana.
Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la sollevazione di Messina del
1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e della sua famiglia, voluta da
Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati. Nel 1353 eredita i titoli
ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa. Trovatosi a capo della
fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento sulla fazione dei
Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il re di Napoli, in
nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa Palermo. Chiede a Luigi
d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re Federico IV che lo stesso
Luigi teneva prigioniera a Reggio. Non venendo accolta la sua richiesta, pare
che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato propinato il veleno. Muore
senza lasciare successori legittimi nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte
sembra non avere neppure lambito Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta
di questo turbolento personaggio.
Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani.
Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello
di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo.
Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S. Giovanni e
Misilmeri. Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.
E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di Federico III:
sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di Modica, la
signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro Giustiziere del
regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città ed il castello
di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli succede nel contado
di Modica Manfredi III.
E’ costui un personaggio
centrale, di grande spicco a mezzo del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che
compravano che il vero padrone di Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte
appunto, avendo in subordine i Del Carretto o avendoli estromessi, non
sappiamo. Figlio naturale di Giovanni II (secondo La Lumia, Villabianca e
Pipitone Federico), sposa in prime nozze Margherita Passaneto e poi Eufeminia
Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e Siracura. Partecipa alla congiura
contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358 chiede aiuti al re di Napoli
contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente, nel 1364 si riconcilia con
il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli Angioini , all’obbedienza di
Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene onorato della carica di Grande
Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di Mistretta, la signoria di
Malta, della città di Terranova, di Cefalà. Fu padrone delle terre di Vicari,
Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella, Carini e Comiso, Naro e Delia,
oltre ad altri feudi intorno a Messima. Manfredi III si trasferisce nel 1365 da
Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino Giovanni III il contado di
Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e Misilmeri. Ma in quell’anno è
divenuto tanto potente da impedire al re Federico IV di sbarcare in Palermo per
l’incoronazione ufficiale. Nel 1375 può conciliarsi con il Re e gli viene
concessa la signoria di Castronuovo con Mussomeli, che da lui prende il nome di
Manfreda. Nel 1377, alla morte di Matteo, viene investito dal Sovrano della
contea di Modica, comprendente vari feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari
che governarono la Sicilia durante la minore età della regina Maria. Conquista
nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene investito dal papa Urbano VI del titolo di
Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la figlia Costanza in sposa al re Ladislao di
Napoli, che però la ripudia dopo la rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391 lasciando
eredi delle sue sostanze le figlie. Per un bastardo, il destino ebbe in serbo
una sequela di ascese da capogiro. Con
chi non fu concepito in legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca
l’acme: ma subito dopo fu il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle
cose di Sicilia della casa regnante ispana, per il gioco della politica a
dimensioni divenute sovranazionali. E Racalmuto tornerà nell’alveo di una
dimessa baronia delcarrettiana.
Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte di
dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte
comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale
Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza
la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel
1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno dopo
(1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato
dinanzi allo Steri il 1° giugno dello
stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima
parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più
conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare
sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino e, dopo la morte di Andrea, si rifugia con aderenti e
amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più
a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed
ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i Del
Carretto ad avere peso sull’umano vivere locale; forse una intermittente
incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il
potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello
sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che
investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime
e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza
Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi
dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse
trattato di benefattori.
Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura dei
Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di
grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti
notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica
di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una
dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una
provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha
l’attenzione del Chronicon Siculum
(CVIII) e del Villani (XI, 108). [79]
Nel novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella
napoletana che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débâcle. Il cronista
coevo ci racconta che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno
di essi sfuggì, se non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta
vollero rilasciare e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni
Chiaramonte (di cui abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando
d’Aragona fratello naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del
defunto re Pietro d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo, Vincenzo
Manuele da Trapani. E, per quello che a noi più preme, Matteo Doria. Questi per
adempiere all’impegno contratto per il riacquisto della libertà dovette vendere
la tenuta di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500 onze. [80]
Matteo Doria era figlio di Brancaleone Doria e di Costanza Chiaramone, proprio
quella che aveva avuto per marito di primo letto Antonio del Carretto con cui
aveva generato il nostro Antonio II del Carretto. Questi e Matteo Doria erano
dunque fratelli sia pure soltanto uterini. Matteo Doria aveva per fratello
germano Manfredo (ribelle a Federico III, ma reintegrato nei beni; esule e poi
stabilitosi ad Agrigento) e le tante sorelle: Isabella, Marchisia, Leonora,
Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte fu dunque donna molto feconda: tre
figli maschi da due diversi mariti e ben cinque figlie femmine (per quello che
se ne sa). Nelle tante doti che dovette fare rientrò mai Racalmuto? Davvero
venne assegnato in esclusiva ad Antonio II del Carretto? Ed il riafflusso dei
beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti di cognome Del Carretto annetteva anche la nostra baronia? Misteri
del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado di dipanare. L’Inveges va
invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo, faccia pure.
Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare che
Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il De
Gregorio [81] ci
pare in definitiva piuttosto perplesso. Ai fini della nostra storia, i Doria
non ci paiono, comunque, di particolare rilievo, ragion per cui non abbiamo
dedicato molte ricerche su tale ceppo di mercanti e navigatori genovesi,
approdati ad Agrigento che fu provvida pedana per una fortuna feudale che li fa
assurgere a cospicui rappresentanti della nobiltà sicula trecentesca.
Dalle brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei Del
Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del
Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica
figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere,
sulla base degli agiografici loro storici alla Inveges o alla Giordano, ogni
effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio
Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla
morte di Matteo Doria, il titolo pervenne ai carretteschi. E ad investigare
sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna
fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone
Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose
enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto -
andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio Antonio II
Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte dell’investitura di
Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate
che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni
dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito
per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla
circostanza di un Antonio II Del
Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di
navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del
marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza
fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di
codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti. A Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263. [82]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli:
«marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso
nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora
le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina
dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene
intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche
Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel
1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà.
Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro
figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’
quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da
atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del
Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come
Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe
in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il primo cui si accredita la
baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce
qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre
molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre Racalmuto
nel 1344 per atto del Notar Rogieri
d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie
dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di
permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto ad un certo punto vuole
codesto Antonio del Carretto emigrato a Genova, come detto. Là si sarebbe
arriccchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto
(forse attorno al 1370). Questo il passo del citato atto ove possiamo cogliere
siffatti dati biografici di Antonio II del Carretto. «Infine il predetto don Gerardo promise, sotto il vincolo del
giuramento, di inviare da Genova in Sicilia
tutti i privilegi, le scritture e i rogiti relativi ai beni venduti come
sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto, che rimasero presso lo stesso
don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam don Antonio del Carretto, suo
padre, che ebbe a morire in potere e presso il detto don Gerardo, per
consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto ipoteca ed obbligazione
di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli, mobili e stabili,
posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente quelle tenute date ed
assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione della detta vendita.»
GIBILLINI
Feudo,
Racalmuto, lo fu parzialmente: dalla diplomatistica emerge come il feudo di Gibillini sia cosa
ben diversa dalla contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio
degradante tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non
soltanto la contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva
neppure parte di quella terra feudale, almeno integralmente.
Il
primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ;[83]
il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:
«Il Re concede al
milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu
[feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore,
insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente
perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei
nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il
Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come
sopra.»
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere
possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte.
Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a
cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il
fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in
potestatem et iurisdictionem incidere
catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei
catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio
presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge
sull’apporto dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non
contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si
rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re
Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a
Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in
Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della
setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani - [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia
e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.[84]
Prosegue Giunta [85]
«queste premesse spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il
quale accanto a 100 cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da
carico, si presentò “con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra
vittuaglia”, sì da ottenere festose
accoglienze da parte dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché
il rapido dilagare della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala,
Enna “e molte altre terre e castella”». Tra le quali possiamo includere
tranquillamente Racalmuto e Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un
paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV,
detto il Semplice riuscì a
riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio
tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto
nell’opera del San Martino de Spucches .[86]
Secondo l’araldista il feudo di Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di
Naro, da non confondersi con l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina,
appartenne, “per antico possesso” alla famiglia Chiaramonte. Srabbe stato
Manfredi Chiaramonte [87]
a costruirvi la fortezza, quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu
Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di
sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo
Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario, iure francorum, con obbligo di servizio militare
e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392
(registrato in Cancelleria nel libro
1392 a foglio 221) [88];
col secondo diploma, dato ad Alcamo, il 4 aprile 1392 e registrato in
Cancelleria nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei
sovrani, ebbe concessi tutti i beni stabili e feudali, senza vassalli,
posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale
Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo
di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra,
vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica, il Moncada fu deferito come reo di
alto tradimento, avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza
16 novembre 1397 fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati
tutti i beni. Morì di dolore nel 1398.
Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa
della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo
di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.[89]
Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio,
forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de Marinis che ne acquisì
l’investitura il 1° aprile 1493 more
francorum, [90]
per passare quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511
per la morte del padre e come suo
primogenito. [91] Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di
Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa dalle figlie Giovanna e Maria il
22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede
Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con
investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro
Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f.
271).
Maria
De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26 dicembre 1568, per donazione e
refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella (Ufficio del Protonotaro, XII
Indiz. f.479) .
Beatrice
De Marino e Sances de Luna s'investì di
due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la morte di Alonso de Sanchez suo
marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta Giovanna suddetta, M.sa di Favara
(Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f. 15); peraltro v’è pure
un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a favore di Carlo di Aragona de Marinis, P.pe di Castelvetrano,
figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII Indiz., f.160); un’altra
investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a favore di Maria de Marinis per
la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria, III Indiz. , f. 491); dopo non ci
sono investiture a favore dei Moncada.
Diego
Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615, per donazione fattagli da
Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui le due quote furono vendute da Beatrice
suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da Palermo il 5 dicembre 1608
(Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu quindi una reinvestitura in
data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo III e successione al trono
di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22, f. 283 retro).
Subentra
- sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con investitura del 28 febbraio
1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo padre (Cancelleria ,
libro del 1624-25, f. 214); viene quindi reinvestito il 29 agosto 1666
per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (Conservatoria, libro
Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina
morì a Naro il 24 novembre 1667
come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di S. Nicolò.
Diego
Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di Luigi suddetto, s'investì
dei due terzi il 7 ottobre 1668
(Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f. 89).
Luigi
Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9 settembre 1686 dei due terzi, per la morte e quale figlio
primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1686-89, f. 17).
Diego
Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come primogenito e, per la morte di
Luigi Gerardo suddetto, nonché come
rinunziatario dell'usufrutto da parte di Giulia Massa, sua madre, agli
atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di Palermo, del 1° ottobre 1738
(Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).
Giulio
Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il 3 dicembre 1787, come
primogenito e per la morte di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest.
1787-89, f. 25).
Diego
Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di Gibellini il 15 luglio
1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio suddetto (Conservatoria
vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non
ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.
Ma
a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino de Spucches, da qui,
non segue bene le vicende feudali di Gibillini.
Comunque nel successivo volume IX - quadro 1454, pag. 221 - intesta:
“onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463,
foglio 204” ed indi rettifica:
«Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di
Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come
figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA
(Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).
1. - Quindi vendette agli atti di
Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI,
pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi
sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini;
e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto
Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero
compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re
a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal
feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro
Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).
2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO
s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D.
Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile
1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo
non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di
Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»
·
* *
Le
vaghe fonti storiche sembrano dunque assegnare l’erezione del Castelluccio a
Manfredi Chiaramonte: la data sarebbe quella del primo decennio del XIV secolo,
la stessa del Castello eretto entro il paese. Manfredi era il fratello di
Federico II Chiaramonte, ritenuto l’artefice “di lu Cannuni”. Perché due
fratelli abbiano deciso di erigere due castelli diversi in territori così
contigui, resta un mistero. Forse la tradizione - tramandataci dal Fazello e
dall’Inveges - è fallace. Quello che è certo che sia il feudo di Gibillini (da
Sant’Anna al Castelluccio sino alla contrada dell’attuale miniera di
Gibillini), sia il feudo di Racalmuto (da Quattrofinaiti al confine con Grotte;
dalla Montagna al Giudeo sino alla Difisa) erano possedimenti della potente
famiglia chiaramontana, e tali sostanzialmente rimasero sino al loro tracollo,
alla fine del XIV secolo, allorché il duca di Montblanc ebbe modo di tagliar la
testa ad Andrea di Chiaramonte. Il feudo di Gibillini passa alla famiglia
Moncada, ma per breve tempo, e quindi alle scialbe case baronali dei Marino,
prima, e Giardina, poi. Passa, quindi, ai Tulumello per mano di un prete e ciò ad onta di tutte
le prerogative del feudalesimo siciliano. La cosa, del resto, finì nei
tribunali per una lunga vicenda giudiziaria – questa volta, tutta ottocentesca
– che rimase impressa nella memoria dei racalmutesi, ostile e beffarda verso i
nuovi nobili racalmutesi, provenienti da una famiglia digabelloti sino al tardo
Settecento. Più vindice che ragionato il gran
dispitto che Sciascia dispensa, qua e là, a codesti baroni di nuovo conio,
come prima abbiamo avuto modo di scrivere. Oggi i rampolli dei Tulumello – che
discendono sia da questa casata sia da quella ostile dei Matrona, per felici
matrimoni– meritano ogni rispetto. E noi non vorremmo davvero qui maculare
l’amicizia che a loro ci lega.
[2] )
Archivio di Stato di Agrigento - Convento de’Minori sotto Titolo di S.
Francesco d’Assisi - Inventario n.° 46 fascicolo n.° 531 - “Libro vestiario”
[3]) NICOLO' TINEBRA MARTORANA
- RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI . ASSESSORATO AI BENI CULTURALI DEL COMUNE DI
RACALMUTO 1982. A pag. 36 si può leggere questa rivelatrice nota: «Codice diplomatico arabo - Torino 3°, p. 1, f - Si dubita però della
autenticità di quel Codice, perché il suo autore è stato condannato per
falsità».
[4]) Nel
licenziare l'opera del Tinebra, Sciascia sembra più interessato ai valori
letterari del libro di quel ventenne studente in medicina che alle risultanze
della ricerca storica. Il Tinebra Martorana avrebbe, secondo Leonardo Sciascia
(cfr. pag. 8), cercato «.. di non
ignorare tutto quello che, in opere di storia generale e locale, riguardasse
Racalmuto: ma sentiva fortemente la tentazione dell'accensione visionaria,
fantastica. Ne è spia di questa tentazione alla visionarietà, alla fantasia, il
suo non resistere al piacere di riportare
un documento falso pur sapendo che è falso: ed è la letteradel governatore
arabo di Racalmuto (Rahal-Almut) all'Emiro di Palermo, fabbricata, come tutto
il codice che la contiene, dal famoso Giuseppe Vella: un personaggio di cui ho
raccontato ascesa e caduta nel Consiglio
d'Egitto. E voglio confessare che anch'io non mi sono privato del piacere
di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle
Parrocche di Regalpetra. Solo che Tinebra Martorana, facendo storia, aveva
minore libertà di quanto io ne avessi, e perciò quella sua strana, per un libro
di stora, nota : "Si dubita però
dell'autenticità di quel Codice, perché il suo autore è stato condannato per
falsità". Altro che dubitare: se ne era , nel 1897, certissimi.»
[5])
Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici
italiani - UTET 1990. Racalmuto - vi si legge - "deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e
221) 'sosta, casale' del Mudd <latino modium 'Moggio' ". "Paisi di
lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli
Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino
Monte Formaggio di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema
che suonasse simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi.
[7])
Cfr. CARLO ALBERTO GARUFI, 'PATTI AGRARI E COMUNI FEUDALI DI NUOVA
FONDAZIONE IN SICILIA' in ARCHIVIO
STORICO SICILIANO, anno 1947, parte II dell'articolo, pag. 34.
[8]) ARCHIVIO
STORICO SICILIANO - 1880: Memorie Originali - Vincenzo di Giovanni: Il
Monastero di S. Maria la Gàdera poi
Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e
segg.
[10]) Cfr. Prefazione in
NICOLO' TINEBRA MARTORANA - RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI . ASSESSORATO AI
BENI CULTURALI DEL COMUNE DI RACALMUTO 1982,
pag. 9.
[12]) Denis Mack SMITH,
Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza Bari 1973, vol. I pag. 21.
Questo libro e il suo autore furono cari a Leonardo SCIASCIA. La gelosia degli
storici siciliani fu persino patetica. Ecco, ad esempio, casa pubblica Santi
CORRENTI a pag. 29 della sua Storia di Sicilia come storia del popolo
siciliano, Longanesi Milano 1982 «...a lodare il Mack Smith per il suo 'stile
provocatorio' rimase il solo Leonardo Sciascia, che però si rifece
clamorosamente, facendo decretare al suo amico inglese gli onori del trionfo,
in una speciale manifestazione organizzata a Palermo il 6 aprile 1970, niente meno che al palazzo dei Normanni:
onore mai concesso a nessuno storico, e assolutamente sproporzionato al merito
dell'opera (e il primo a stupirsene fu lo stesso Mack Smith).» Secondo il
Correnti, anche Francesco Brancato, Giuseppe Giarrizzo, Gaetano Falzone,
Francesco Giunta, ed altri, avrebbero storto la bocca di fronte alla storia
siciliana dell'inglese Smith. La quale, invece, è oggi universalmente
cosiderata un classico, come tante altre opere dello storico inglese.
[13] ) Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, Mondatori Milano 1979, p. 12. E potremmo
citare “Occhio di Capra” ove l’arabismo scasciano plana addirittura nell’onirico.
[14]) EDRISI, Sollazzo
per chi si diletta di girare il mondo,
libro I, pag. 94 in Biblioteca Arabo-Sicula, a cura di Michele Amari,
Roma 1880.
[15]) «Un
problema complesso e contraddittorio», le cui fonti sono giunte a noi in copie
del XVII e XVIII secolo. S. Tramontana,
La monarchia normanna e sveva, op.
cit. pag. 543.
[17])
Secondo i BOLLANDISTI [ACTA SANCTORUM BOLLANDISTORUM,
collegerunt ac digesserunt Joannes
BULLANDUS, Godefridus HENSCHENIUS, Societatis Jesu Theologi - "De
S. GERLANDO - Episcopo Agrigentino in Sicilia", addì 25 febbraio, tomo III, Antuerpiae, apud
Iacobum Meursium, 1658 p. 590 ss.] -
autori secondo il COLLURA [op.cit.
p. XI] della "migliore dissertazione su S. Gerlando" - il
primo vescovo di Agrigento post saraceno
potè essere consacrato
dallo stesso pontefice Urbano II nello stesso anno in cui questi salì
al soglio pontificio (12 marzo 1088). Ma è congettura che viene
avanzata solo sulla base di un'asserzione
del PIRRO che vuole Gerlando consacrato da Urbano II
"ex pontificio diplomate". L'assegnazione dei confini diocesani da parte di Ruggero è però del
successivo 1093. Al 1092, il COLLURA - sulla base anche del primo documento capitolare di Agrigento - fa
risalire l'inizio dell'episcopato di Gerlando. Peraltro, un documento - Libellus, c. 18B - afferma: «complens
duodecim annis beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino vicesimo quinto die mensis februarii [1104]».
Il conto con il 1092 dunque torna. Ed il primo documento dell'archivio di Agrigento porta la data
appunto del 1092. [Puntuali, come sempre, le notizie e le note critiche in
proposito del Collura, op. cit., p. XI e
p. 3]. Il PICONE parla del 1090 [op. cit. p. 823], ma incidentalmente e senza alcun supporto
critico.
[18]) «Ego Rugerius ... in conquisita Sicilia
episcopales ecclesias ordinavi, quarum una est Agrigentina Ecclesia, cuius episcopus vocatur GERLANDUS , cui in
parochiam assigno quicquid intra fines
subscriptos continetur, [ ... ], videlicet, a loco ubi oritur flumen de
subtus Corilionem, usque desuper petram de Zineth, et inde tenditur
per divisiones Iatinae et
Cephalae, et deinde ad divisiones Bichare; inde vero usque
ad flumen Salsum, quod est divisio Panormi et Therme, et ab ore
huius fluminis, ubi cadit in mare,
protenditur haec parochia de iuxta
mare usque ad flumen Tortum, et ab hoc, ab inde ubi oritur, tenditur ad
Pira de
subtus Petram Heliae, atque inde ad altum montem, qui est supra Pira;
inde autem ad flumen Salsum ubi iungitur
cum flumine Petra Helie, et ex
hoc flumine sicut ipsum descendit ad Limpiadum, qui locus dividit Agrigentum et Butheriam; atque inde per maritimum usque
ad flumen de Belith, quod est divisio Mazariae, et aduch tenditur sicut hoc flumen currit usque de subtus Corilionem
, ubi incepit divisio, exceptis Bichara et Corilione et Termis.»
Questo documento è pubblicato sub 2) dal Collura, ["Le più antiche carte
...", op. cit. p. 7-18], ed è sottoposto ad una esegesi molto accurata.
Del resto trattasi del diploma fondamentale della Chiesa agrigentina normanna. Noto al Fazello, fu
ripreso dal Pirro [I, p. 695 A-B] e se ne occuparono STARABBA, LA MANTIA,
GARUFI, PICONE, RUSSO, BERNARDO, FULCI, PUNTURO, SALVIOLI, WINKELMANN,
LAURICELLA, KEHR, CASPAR [v. Collura, op.
cit., p. 7]. Il documento edito dal Collura viene considerato "una
copia incompleta della seconda metà del
XII secolo. Altre copie, ma tardive, dell'intero diploma si conservano in
Palermo, Archivio di Stato, in 'Prelatiae
Regni', I, codice n. 54, CC.109A-110A [I], redatta il 10
febbraio 1509, ed in 'Liber
Regiae Monarchiae Regni Siciliae', I, codice n. 56, cc. 49A-51A [L],
redatta il 3 gennaio 1555 (apografo del
1770; l'originale è conservato nell'Archivio di Stato di Torino)"
[op. cit. p. 7].
Il FAZELLO, il religioso di Sciacca nato nel
1498 e morto nel 1570, fu il primo a scrivere su questo documento [Tommaso FAZELLO, "Storia di
Sicilia, Deghe due", Palermo 1830, tomo II p. 86]. I padri bollandisti si
avvalsero dell'opera del Fazello, ma
ancor di più di quella del Pirro, per la loro dissertazione sul documento
e su S. Gerlando [cfr. Acta Sanctorum Bollandistorum, op. cit., p. 590 e
ss.]. Anche il Picone [op. cit. appendice I] riporta il testo con
note critiche, ma copia pedissequamente dal Pirro. Il quale [ Sicilia
sacra, t. I, p. 695 e 696], non ha sottomano i documenti originali di
Agrigento e si avvale di corrispondenti locali.
Considerano autentico il
documento WINKELMANN, LAURICELLA, KEBER, CASPAR, GARUFI, JORDAN e SCADUTO; sono
per la falsità: BERNARDO, FULCI, STARABBA, PUNTURO e SALVIOLI.
Nell'opera del Netino può
leggersi, anche, la Bolla di papa Urbano II di ratifica, del 10 ottobre del 1098.
Il Pirro
utilizzò il diploma agrigentino, donde tutti gli altri editori tra cui
il MANSI, il CARUSO,
il PICONE, il RUSSO e il PUNTURO [Collura, op. cit., p. 21]. Nel 1960 il
documento viene edito criticamente dal Collura [op. cit. doc. n. 5, p. 21-24],
secondo il quale "nel complesso il testo della bolla è sincero".
[19] ) I
REGISTRI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA - VOL. VIII - A CURA DI JOLANDA DONSI' GENTILE -(Ricostruiti
da Riccardo FILANGIERI con la collaborazione degli Archivisti Napoletani) vol.
VIII 1271-1272 Napoli 1957
[20]
) Reg. 1271.A, f. 246. Fonti: De Lellis
l.c. Dal Secreto Sicilie - cfr. op. cit. pag. 65 La località viene nell'indice,
a pag. 333, riferita a Racalmuto (veramente
sta scritto: Racalnuto). Per De Lellis l.c. bisogna intendere: Carlo De
Lellis, Notamenta ex registris Caroli I. Trattasi di un manoscritto. Il
documento trovavasi già pubblicato in una analoga opera: REGESTA CHARTARUM
ITALIAE - 'GLI ATTI PERDUTI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA' - transunti da Carlo de
LELLIS, pubblicato sotto la direzione di Riccardo Filangieri, a cura del R.
Istituto Storico per il Medio Evo - Roma 1939 - Vol. I a cura di Bianca
Mazzoleni - Il testo palesa molte difformità, sia pure solo formali. [v. pag.
55]
967 - Petro Negrello de
Bellomonte militi, exequtoria concessionis casalium in pertinenciis Agrigenti,
videlicet Rachalgididi, casale Rachalchamut et Sabuchetti et casale Brissane,
nec non domus in qua habitat Fredericus Musca proditor; que casalia Rachalgididi,
Rachalchamut et Sabuchetti et dicta domus fuerunt Frederici et casale Brissane
devolvit per obitum sine liberis quondam
Iordani de Ceva. - (f. 246)
Vi appunta la sua attenzione ( ma con
qualche inesattezza): Illuminato PERI: Uomini, città e campagne in Sicilia dall'XI
al XIII secolo - Laterza, Bari 1978. Nella nota n. 6 al cap. XXI (cfr. pag. 331
e 332) riduce in questi termini l'assegnazione di Racalmuto: La nuova lotteria feudale dai Reg. ang. (e cioè: I Registri della Cancelleria
angioina, ricostruiti da R. Filangieri di Candida e dagli Archivisti
napoletani, Napoli 1950 sgg. - cfr. pag. 294) .......RAHLHAMUD e altri casali
già di Federico Mosca e Giovanni de Ceva ( VIII, pag. 65, a Pietro Nigrel de
Bellomonte) ...
La nota riguarda il seguente passo di
pag. 266: «Erano espressione, nell'insieme, e con maggiore evidenza i secondi,
del movimento nella cerchia dei feudatari di Sicilia verificatosi sotto Carlo
d'Angiò: una lotteria che toccò
intiere terre e casali; ma che, se non mise in circolo una feudalità irriguardosa per ambizioni fondate
su reale potenza, non creò neppure un solido aggangio alla dinastia. Anche
perchè i nuovi signori non foruno accompagnati da un seguito che avesse presa
sul tessuto demico o valesse quanto meno a contenere prevenzioni e
risentimenti, nostalgie seppur strane e aspettative magari vaghe ...»
[22] )
Michele Amari - La guerra del Vespro siciliano - Milano 1886 - vol. I - cap. IX
pag. 339 e pag. 340. Cfr. in particolare la nora sub 1) di pag. 339 che bene
inquadra la questione del diploma del 30 dicembre 1282, base della narrazione
dei fatti che vedono tra i protagonisti appunto il nostro Federico Mosca,
indicato come conte di Modica.
[23] )
Illuminato Peri - La Sicilia dopo il Vespro - Uomini, città e campagne
1282/1376 - Bari 1981, pag. 31.
[28] )
Nell'inventario dei Registri Angioini compilato nel 1568 al n.12 leggiamo: «Item
uno altro registro di carta ut supra intitulato Registrum Regis Caroli I° anni
1271, comincia 'Scriptum est Bayulis' e finisce 'ultimo augusti XV indictionis'
di carte n. 248.» Cfr. pag. 248:
PROVISIONES SEQUENTES DIRIGUNTUR SECRETIS SICILIAE. - Cfr. pag. 250 : N. 966
Petro Negrello de Bellomonte ... etc.
c.s. Pietro, Conte di Montescaglioso,
Camerario del Regno, BEAUMONT (de) o BELMONTE ( cfr. pag vol. VIII 127, 128,
145, 173, 187, 191, 199 etc.) NEGRELLO PETRO DE BEAUMONT (cfr. pag. 65 e
182). Cfr. pag. 145 (n. 246) - Mandatum
pro mutuo unc. C cum Petro de
BELLOMONTE, Montis Caveosi et Albe Comite, Regni Siciliae Camerario. Reg. 1272, XV ind. f. LXVIII, t) De Lellis
l.c. n. 580.
[29] )
Léon Cadier - L’amministrazione della Sicilia angioina, a cura di Francesco
Giunta - Flaccovio editore Palermo, 1974 -
[30] )
Sul sipario non è poca la letteratura sinora accumulata. Citiamo a caso:
Gaetano Restivo: quel sipario abbandonato, in Malgradotutto, novembre 1993, f.
2MT; Aldo Scimé: Perché rinasca, in Malgradotutto, settembre 1994, f. 3MT;
Leonardo Sciascia su l’Espresso (1978?) citato dallo Scimé;
[34] ) Ci
riferiamo al documento VIII che Giuseppe Silvestri pubblicò nel 1882 tra i
“Documenti per servire alla storia di Sicilia” - Prima Serie - Diplomatica -
vol. V - Palermo 1882 - “De rebus regni Siciliae” (9 settembre 1282-26 agosto
1283). Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona d’Aragona -
Documento VIII - pag. 8 (Palermo 10 settembre 1282, ind. XI) - «....
universitati RACALBUTI. Archeorum XV».
[35] )
Illuminato Peri - Uomini, città, e campagne in Sicilia, dall’XI al XII secolo -
Bari 1978, pag. 12.
[37])
Come ebbi a scriverti a pag. 5 e seguenti del mio precedente malloppo si tratta
del seguente passo della Notitia contenuta a pag. 697 della Sicilia Sacra del
Pirri: «XIV. Warinus, sive Guarinus
eiusdem coenobii monacus ... in episcopatu Agrigenti, Dragoni successit an.
sal. 1105. uti ipsemet memoriae prodidit in quondam privilegio. Anno incarnationis dominicae 1108
praesulatus mei anno IV. Rogerii junioris consulatus, forte comitatus, anno III.
Robertus Malconvenant cum Giliberto consanguineo suo milite perfecis in praedio
suo sub honore S. Virginis Margaritae templum, illudque multis auxit praediis.
ac Gilibertus clericali tonsura decoratus illa bona in praebendam Canonicatus
Ecclesiae Agrigentinae dedit, dummodo tres libras incensi anno quolibet 15.
augusti in festo S. Mariae persolveret. De hoc Roberto Malconvenant domino
praedii, quod nunc est oppidum Rayalbuti [sottolineatura nostra,
n.d.r.], atque eius filio Guillelmo
Malconvenant Magistro Justiciario Magn. R. C. ....
[38]) Gli
altri due accenni del Collura alla nostra chiesa di S. Margherita sono: a)
Documento n. 27 [pag. 63-65] e b) Libellus
(c 16 A [rectius c.17 a], n.d.r.]), pag. 304.
Il Documento sub a) non ci
è di molto aiuto per la nostra ricostruzione: esso si limita ad includere in
uno scarno elenco [pag. 65] la "Ecclesia Sancte Margarite virginis, incensi
libras. III". Per il Collura non vi sarebbero dubbi: si tratta per lui
del beneficio dei nostri due documenti nn. 8 e 9 sopra riportati [cfr. nota n.
2 di pag. 65 del Collura]. L'elenco si intitola CENSUUM INDICULUS e viene datato prima del 1177. Quell'accenno
all'onere delle tre libbre d'incenso sembra dargli ragione.
Molto più complesso è il
discorso sul documento sub b). Il riferimento è al «Libellus de successione
pontificum agrigenti et institutione prebendarum et aliarum Ecclesiarum
dyocesis, sicut ex relatione cognovimus precedentium seniorum et ipsi
inspeximus in eodem statu». Il Collura data questo la stesura di questo Libellus nel "1250 o comunque, giacché il documento più
recente (n. 74) è del 1252, non più tardi del 1260" [pag. XXII]. Il passo
che ci interessa è il seguente: «Sancta
Margarita [e qui il Collura annota: "S. Margherita Belice (cfr. docc.
nn. 8-9), n.d.r.] beneficium cuius est terra sua et burgenses
in spiritualibus et temporalibus cum platea et mercedibus». Al riguardo non
son proprio certo che il Collura abbia ragione. Il precedente passo recita: «Quatuordecim
debet habere Ecclesia Agrigentina et non amplius. Subsequencia fuerunt
beneficia: ..» e segue l'elenco dei benefici tra i quali quello citato di
Santa Margherita. Non si può quindi escludere che prima del 1250 vi sia stata
una generale ristrutturazione di tutti i benefici canonicali della curia
Agrigentina (prima infatti di parla di una prebenda «insituta de camera pro auctoritate legis») e in quel frangente si
attribuì ad un canonicato (che sappiamo dal Pirri essere stato nel XVII secolo
il XVIII°) il beneficio di Racalmuto, denominato più o meno appropriatamente di
Santa Margherita nel ricordo o falsando il vetusto beneficio del Malcovenant,
che peraltro si riferiva a S. Margherita Belice. Un'astuzia curiale non è poi
tanto impensabile ed inconsueta.
[41] ) Addirittura elogiativo
asserendo il grande scrittore che «il libro, per i racalmutesi, per me
racalmutese, va bene così com'è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu
scritto e degli anni che aveva l'autore, con l'aura romantica e un tantino
melodrammatica che vi trascorre» (op. cit. pag. 9).
[43]) In
effetti si ignora l'anno della morte del Vescovo Guarino o Warino che
addirittura potrebbe essere avvenuta attorno al 1128 (Cfr. Collura P. , Le più
antiche carte..., op. cit. pag. XII)
[45]) Vito Maria Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi
secundi pars altera, Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma
pos. 1.24.C. 19/24] In proposito, il passo in latino di pag. 115 è il seguente:
« ... Barresiis subinde datum [Racalmuto,
cioè]; Joannes subinde eiusdem familiae ad Andegavensium partes deficiens, secum opida sibi subdita
traxit, Petrapretiam, Nasum, Rahalmutum et alia.» Gioacchino Di Marzo ne fece questa traduzione:
« .... dato poscia a' Barresi; poichè
Giovanni della medesima famiglia
essendosi ribellato in pro delle parti angioine, seco trasse i soggetti paesi
Pietraperzia, Naso, Racalmuto ed altri.»
[46]) F.
M. Emanueli e Gaetani - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore [copia
anastatica dell'edizione Palermo 1759 - Parte II, libro IV, pag. 199 e segg.
Invero, l'A. sembra voglia far ricadere la colpa al padre Aprile. Noi, a dire
il vero, non abbiamo avuto modo di consultare l'opera di questo storico
siciliano che scrisse nel 1725. Disponiamo solo di una bibliografia del Bresc
ovè è così segnato: Francesco Aprile, Della
cronologia universale della Sicilia, Palerme, 1725, XXIV-808 p. [centré sur
Caltagirone]. Vedi Henri Bresc: Un monde méditerranéen - économie et société
en Sicile - 1300-1450 - Palermo 1986, pag. 48. Ad altri studiosi
quindi il compito ed il gusto di correggerci ed eventualmente integrarci.
[47])
Anche se non l'artefice primo della fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese,
il Villabianca è responsabile degli abbagli storici degli ereduti di Racalmuto
- a cominciare dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio
indigeno, dunque, ma pur sempre autore principe del racconto della 'venuta'
della Madonna del Monte. Questi a pag. 2 del suo libretto Maria Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, testualmente
annota: «L'ultimo di questa dinastia fu Giovanni Barrese, il quale al riferire del padre Aprile (Cron. Sic. cap. 1 f. 164)
[corsivo ns.] si rese indegno del dono, oscurando col più turpe tradimento la
fede siciliana. Nella guerra tra Carlo d'Angiò Conte di Provenza e Manfredi lo
Svevo Re legittimo del regno di Sicilia e Napoli fu il primo che vilmente
desertò le bandiere del suo Re, e passò al partito Angioino acquistandosi il
nefando nome di traditore della patria e del suo Re, una marca indelebile di
eterna infamia, e la perdita totale di tutti i beni, giusto e ben dovuto premio
dei traditori. Ma l'infamia a chi tocca: il vespere Siciliano manifestò al
mondo il valore dei figli di Sicilia, e la lor fedeltà ai legittimi Sovrani.»
La frase che abbiamo riportato in corsivo svela la totale sudditanza del p.
Caruselli dal Villabianca (a parte la diversa pagina: 164 al posto di 144,
evidentemente un mero errore). Ecco infatti cosa aveva scritto il celebre
autore della Sicilia Nobile a pag.
199 e ss. - parte seconda, libro IV: Racalmuto «credesi indi concessa dal Rè
Ruggieri Normanno figlio del liberatore testè accennato ad ABBO BARRESE in
consuso con quelle Terre, che sotto l'aggettivo di pleraque oppida per conto di
esso Barrese numera FALZELLO nella sua Stor. di Sic. dec. 2. lib. 9. cap. 9 f.
184 avvegnachè sullo spirare del secolo decimoterzo stava ella in potere di
Giovanni BARRESE, il quale al riferire
del Padre APRILE Cron. Sic. f. 144 c. 1 [corsivo nostro] fu il primo tra i
Baroni del nostro Regno, che nelle guerre fatte dall'armi dei Collegati
Angioini in quest'Isola passasse al loro partito col suo vassallaggio
consistente nelle Terre di PIETRAPERZIA, NASO, RAGALMUTO, CAPO D'ORLANDO, E
MONTEMAURO, terra oggi disfatta, situata in quel monte, che si alza fra la
Città di Piazza e 'l MAZZARINO presso il fiume Braeme. Sicchè dichiarato
fellone esso Giovanni, cadde Tal Baronia nelle mani del Reg. Fisco.» (Vedasi:
F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore
[Copia anastatica dell'edizione Palermo 1759] - RAGALMUTO - [pag. 199 e ss.
Parte II Libro IV).
Il padre Caruselli
sicuramente non consultò il p. Aprile, come noi del resto. Ma fu abbaglio suo
personale quello di credere che Giovanni Barrese sia stato privato delle sue
terre per aver tradito Manfredi a favore di Carlo d'Angiò, grosso modo tra il
giugno del 1265 ed il febbraio del 1266. Le turbolenze di Giovanni BARRESE
avvennero invece nella contesa tra i due fratelli Federico III e Giacomo II
d'Aragona e cioè tra il 1298 ed il 1302, circa vent'anni dopo il Vespro
siciliano: Illuminato Peri (vedasi La
Sicilia dopo il Vespro - uomini, città e campagne 1282/1376 - Laterza Bari
1982, pag. 39) data la dissidenza di quel nobile attorno al 1299 (ed era solo
signore di Pietraperzia, Naso e Capo d'Orlando, come da pag. 39 e nota 44). Il
padre Caruselli non era ovviamente ferrato nella storia medievale della
Sicilia, e l'intrigo degli eventi lo giustifica. Ma quell'accenno ai Vespri
Siciliani ebbe grande fortuna. Il Tinebra Martorana, con la sua «aura romantica
e un tantino melodrammatica», per dirla alla Sciascia, vi si buttò a capofitto
vergando il capitolo IV su Racalmuto e la famiglia Barrese (pag. 58 ed. 1982).
Eugenio Napoleone Messana diviene incontenibile - da pag. 54 a pag. 58 - nella
sua storia su Racalmuto (ed. 1969). Purtroppo anche il valido padre Calogero
Salvo cade nella trappola, in ispecie a pag. 25 del suo Ecco tua Madre - Racalmuto 1994.
Non si lascia ingannare, invece, da quell'ambiguo parlare di un
passaggio "ad Andegavensium partes" dell'Amico l'avv. Francesco San
Martino De Spucches: Egli bene inquadra la congiuntura storica: «Questi
[Giovanni Barrese] - scrive a pag. 181 del quadro 783, op. cit. - visse sotto Re Giacomo d'Aragona e seguì il
suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo, divenuto Re di Sicilia, dichiarò
esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo momento comincia una
storia certa e noi cominciamo da questo momento ad elencare i baroni di
Racalmuto con numero progressivo...»
[48]) F.
TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC
PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS -
Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes
Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad
Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca
Nazionale - manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia)
pag. 592 - De rebus .. posterioris decadis liber nonus - cap. Nonum
Hic genus suum ad Abbum Barresium, cuius pater ex proceribus, qui cum
Rogerio Normanno ad propulsandos
Sarracenos in Siciliam venerunt, unus fuit, ut Rogerij Regis diplomate
constat, hoc ordine refert. Ex Abbo, qui Petrapretiam, Nasum, Caput Orlandi,
Castaniam, et pleraque alia oppidula à Rogerio Rege adeptus est, Matthaeus.
[51] )
MEMORIE DEL GRAN PRIORATO DI MESSINA - RACCOLTE DA FRA DON ANDREA MINUTOLO dei
baroni del Casale di Callari, e feudi di Boccarrato - Cavaliero Gerosolimitano
1699 - dedicate all'illustrissimo Eccellentissimo Signo mio Padrone
Colendissimo il Signor Fra D. Giovanni Di Giovanni de Principi di Tre Castagni
; Gran Priore di Messina, e già di Barletta, Capitan Generale della Squadra
Gerosolimitana, e Condottiero di quella di N.S. Innocenzo xij nel 1692-1693. In
Messina - Nella stamperia camerale di Vincenzo d'Amico 1699 - Con licenza de'
Superiori.
[52])
Avv. Francesco San Martino de Spucches - La storia dei feudi e dei titoli
nobiliari di Sicilia, dalla loro origine ai nostri giorni (1925) - vol. VI,
Palermo 1929, pag. 181 e segg.
[57] ) cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di
Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 -
pag. 687.
a ) [Vedensi
le Allegazioni del Dottor don Emanuele
lo Giudice fog. 8. e 96. fatte a favore del Principe della Riccia per
l'esecuzione della Chiaramontana reintegrazione stampate in Palermo 1755. f.
96].
[58] )
Francesco M. Emanuele e Gaetani, marchese di Villa Bianca - DELLA SICILIA NOBILE - Palermo 1759 - Parte Seconda - lib. IV,
pag. 4 e segg.
[67] )
Montescaglioso (Matera), comune: 9900
ab., a 352 m s.m. Centro agricolo tra la valle del fiume Bradano e la gravina
di Matera. Anticamente si chiamava
Severiana. La contessa Emma vi fondò verso la fine del XII secolo un monastero
intitolato a San Michele. L’imperatore Federico II lo dotò nel 1222
[68] )
Girolamo M. Morreale, S.J. - Maria SS. Del Monte di Racalmuto, Racalmuto 1986,
pag. 23 ove, tra l’altro, leggesi: «La distanza tra Casalvecchio (Racalmuto) e
la Chiesa di S. Margherita, circa tre chilometri, fa pensare che a Casalvecchio
ci fossero altre chiese officiate da Sacerdoti.»
[69] )
DIZIONARIO COREOGRAFICO DELL'ITALIA a cura
del prof. Amato AMATI - Milano (Vallardi) - (1869) voce: Racalmuto.
[70] ) Su
tale collettore pontificio vedi la comunicazione di M.H. Laurent O.P.: I
vescovi di Sicilia e la decima pontificia del 1274-1280, in Rivista di Storia
della Chiesa in Italia, anno V n. 1 - gennaio aprile 1951, pag. 75 e segg. Lo
studio serve anche per notizie sui vescovi agrigentini dell’epoca e per
rettifiche di errori del lavoro di P. Sella: Rationes decimarum Italiae ...
Sicilia [= Studi e testi, 112], Bibl. Vaticana 1944. Gli spunti critici vengono
rispresi dal Collura (Le più antiche carte ...], libro dal quale traiamo le
note sui vescovi agrigentini che soprintenderono alla tassazione ecclesiastica
di Racalmuto a cavallo dei secoli XIII e XIV.
[72] )
Tommaso Fazello - Storia di Sicilia - Presentazione di Massimo Ganci -
Introduzione, traduzione e note di Antonino De Rosalia e Gianfranco Nuzzo -
Vol. I - 1990, Regione Siciliana - Assessorato Beni culturali - pag. 482.
L’originale recita in latino: « Ad duo hinc p.m. Rayhalmutum sarracenicum
oppidum [pag. 231] occurrit: ubi arx est à Frederico olim Claromontano erecta,
quam Gibilina arx ad 4.p.m. excipit. Et deinde 8.p.m. Cannicatinis pagus....» da
F. TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRADICATORUM
- DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT
TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS Panormi ex postrema Fazelli authoris
recognitione. Typis excudebant, Ioannes Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara,
in Guzecta via, quae ducis ad Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini
M.D.LX. mense iunio. Il testo latino distoglie da azzardate ipotesi sulla
fortezza “saracena” che la non felice traduzione del passo potrebbe
solleticare.
[73] )
Non c’è ombra di dubbio che il Fazello parlando di un castello costruito da
Manfredi Chiaramonte in Gibillina, intende riferisrsi alla località del
trapanese. «da Misilindini ... verso ponente è lunge tre miglia Saladonne, e
poi dopo un miglio si trova Gibellina castello, dove è una fortezza fatta da
Manfredi di Chiaramonte,» secondo la vetusta traduzione del P.M. Remigio
Fiorentino (Della Storia di Sicilia ... volume primo, pag. 625). E l’Amico (op. cit. pag. 267) sembra alquanto
perplesso ma in definitiva si capisce bene che parla della Gibellina trapanese:
«Et paulo infra Sala Donnae et M. postea pass. Gibellina, ubi arx a Manfredo
Clamonte erecta adhuc extat.» Non sappiamo perché il T.C.I. nella sua guida
della Sicilia del 1968 attribuisca invece il castello a Enrico Ventimiglia, che
l’avrebbe edificato nella 2a metà del ’300 (pag. 241). Del pari si
attribuisce il castelluccio racalmutese ad Abbo Barresi: «a 5 km. si sale a d.
sul monte, ove si trovano avanzi notevoli di una fortezza del Chiaramonte, del
sec. XIV, ma fondata nel ‘200 da Abba (sic) Barresi.»
[74] ) P.
Bonaventura Caruselli, minore osservante di Lucca, Maria Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, pag. 18.
[75] )
Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e del commercio nel Medio
Evo - Girgenti porto del sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo -
Studi in onore di A. Fanfani I - Milano 1962 - pag. 598.
[76] ) A.
Inveges - La Cartagine Siciliana, Palermo 1651, pag. 228-9. Le psotume notizie
dell’Inveges sono comunque da accogliere con le pinze. Anche i diplomi citati
possono essere dei colossali falsi. Il Peri mette sull’avviso quando scrive
(vedi op.cit. prima, pag. 607 n. 43) «La natura del libro dell’Inveges lascia
dubitare che la sospetta falsificazione ebbe fini araldico-celebrativi
piuttosto che giuridico patrimoniali.» Il sospetto, il Peri ce l’ha per il
documento di dotazione del monastero di S. Spirito da parte della madre di
Federico II Chiaramonte, Marchisia Prefolio. L’illustre storico, quel documento
segnato dall’Inveges con tanti elementi indicativi, non riuscì a trovarlo né
nei citati archivi del vescovado e del capitolo di Agrigento e neppure tra le
pergamene del monastero di Casamari, «che, a stare al testo del doc., ne
avrebbe ricevuto copia.»
[77] )
ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni
1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181 -
[79] ) Chronicon Siculum = Anonimy Chronicon
Siculum ab anno DCCCXX usque ad MCCCXXVIII (...) et ad annum usque MCCCXLIII, in Bibliotheca, II, pp. 107-267. Giovanni,
Matteo, [Filippo] Villani, Cronica,
ed. di Firenze 1823-1825 (Margheri), in 8 voll.
[80] )
A.S.P., Notai, I, 117 - Bartolomeo de Bononia, (ff. 71r-73r dell’8.6.1345, 105r-106r
del 13.5.1345 e atti allegati non registrati).
[81] ) Domenico De Gregorio - Cammarata, Agrigento 1886, pag. 127. Il
colto studioso annota: «il Fazello parla di Manfredi: “venne intanto il re
Ludovico a Camerata al governo della quale era Manfredi Doria il quale era
stato fatto anche ammiraglio, essendosi estinta la contumacia di Ottobon suo
fratello” [Fazello o.c. p.475]». Sottolinea le opposte tesi degli altri storici
di Cammarata e, dubbioso, soggiunge «forse la cosa potrebbe risolversi
ricorrendo all’uso di nominare dei governatori in nome del vero signore, forse
allora Manfredi era governatore e castellano di Cammarata a nome del fratello
Corrado.» Per la genealogia dei Doria, noi abbiamo seguito - acriticamente - il
Picone.
[82] ) G.
A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola -
Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[83] )
DOCUMENTI PER SERVIRE ALLA STORIA DI SICILIA - SERIE DIPLOMATICA VOL. VIIII
(NOVE) - PALERMO 1885 - CODICE DIPLOMATICO DI FEDERICO III DI ARAGONA RE DI
SICILIA (1355-1377) - DI GIUSEPPE
COSENTINO. VOL. I - PAG. 451-452. DOCUMENTO DCLVII (657) - CEFALU', 21
aprile 1358. ind. XI.
[86])
Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli
nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929
- vol.
IV - Quadro 435 - pag. 80.
[88] )
con tale privilegio furono concessi i
seguenti beni confiscati ad Andrea Chiaramonte cioé: la contea di Malta e di
Gozzo col titolo di Marchese e l'isola di Lipari, la città di Naro, di Mineo e
di Sutera, la terra di Delia, di Mussumeli, Manfredi, Gibillina, Favara,
Misilmeri, e la Rocca di Mongellino
(PIRRI, Sicilia Sacra, f. 757 - APRILE,
Cronaca Sicula, f. 200 - INVEGES, Cartagine Siciliana, libro 2°, cap. 6,
f. 300);
[91] )
Conservatoria, libro INVEST. , 1495-1511, f. 1182; fu poi reinvestito il 20
gennaio 1417 per il passaggio della Corona (UFFICIO PROTONOTARO DEL REGNO,
PROCESSI INVESTITURE, 1560-61).
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