L’AVVENTO DEL XVII SECOLO
Un approdo «felice».
In un dei suoi radi
empiti di laudativo campanilismo, Leonardo Sciascia esalta l’esordio racalmutese
del calamitoso secolo XVII: «un piccolo paese “lontano e solo”, come sperduto
nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti, … dall’oscurità dei secoli emerge,
nella prima metà del XVII, a una vita che Amérigo Castro direbbe “narrabile”,
da “descrivibile” che appena e soltanto era, grazie alla simultanea presenza di
un prete che vuole una chiesa “bella” e vi profonde il suo denaro, di un
pittore, di un medico illustre, di un teologo; e di un eretico.» [1]
Crediamo che abbia qui irrisoria rilevanza la particolarità
che i documenti disponibili non avvalorino quell’apologo del prete in vena di
sperperi per un’avvenente chiesa-madre con ammiccante altare dedito alla
redenta peccatrice dei Vangeli, la Maddalena; l’eretico “dal tenace concetto”;
il secentesco medico che “luminare” lo fu più per avere dimestichezza con
Plinio e Cluverio che per genialità curativa. Ed il teologo unito al pittore –
che pure si doveva celebrare – senza orpello alcuno, privo di aggettivi
qualificativi, non pare rivestino esemplarità per lo scrittore di Racalmuto.
Più preso da filosofico elucubrare, cerebralmente
s’interpella su profondi, quanto alieni, umani misteri: «per quale
“determinazione” di elementi biologici, ambientali, economici; per quale
concorso e assortimento di circostanze; per quale più o meno casuale
convergere, incrociarsi e assommarsi di
avvenimenti esterni ed interni, che si appartengono alla grande storia ed alla
minima; per quali ragioni, insomma, viene a prodursi una fioritura d’ingegni,
un fervore di pensiero e di opere, resta – nonostante tutte le indagini e le
analisi che se ne possono fare – un mistero come di natura, in quel che la
natura ha ancora, e avrà sempre, di misterioso. Viene da pensare a
Guicciardini: “Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmità,
di caso, di violenzia ed in modi infiniti, è sottoposta la vita di un uomo,
quante cose concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona; non è cosa
di che io mi meravigli più che vedere un uomo vecchio, uno fertile”. E ancor
più meraviglioso il vedere – per il felice concorrere di tante cose, a volte
impercettibile ai vicini e meglio visibile ai lontani – una “ricolta” di
ingegni negli stessi anni, nello stesso luogo: come appunto nella Firenze di
Guicciardini.» [2]
A riparazione del nostro ardire, per tanti forse irriverente,
al grande scrittore siamo grati per averci dato la vera chiave di lettura della
storia minima – microstoria – di Racalmuto. Astrette in un paio di pagine sono,
infatti, godibili le sue riflessioni
terminali (1984 ([3]) su tutta
la storia del paese ribattezzato Regalpetra.
Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora
vitale', che si amplifica forse una sola volta – - nei primi decenni del XVII
secolo, appunto – mentre quella che si registra è «per secoli, vita appena
'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte
della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara
povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a
volte accresciute angherie che ogni nuova angheria apportava.»
Sull'altipiano
solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era
una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla
fame come erba alle rocce'. Promana quasi un monito a non indugiare sulle
araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi scriviamo ugualmente
sui del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli
archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da
Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti,
diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul
vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e
riserbi.
L'avvicendarsi
dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con topiche, errori,
guazzabugli: correggerli alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore
dovrebbe pure rivestirlo. Incappiamo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli:
consentiamo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo
dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla:
è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
* * *
Sui del Carretto di Racalmuto è reperibile
una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo
Sciascia (vedansi Le parrocchie di
Regalpetra e Morte dell'inquisitore),
scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella
signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino
alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana.
Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o
pasticciate.
La comunità ecclesiale di Racalmuto nei primi anni del
Seicento.
Il
nuovo secolo, il XVII, si apre a Racalmuto con un vuoto: non c’è ancora il
nuovo arciprete. Questi viene solo dopo alcuni mesi e si tratta di
Andrea d’Argomento.
Questo
nuovo arciprete di Racalmuto è comunque esaminatore sinodale ad Agrigento, ed è
dottore in utroque iure; giunge nel
marzo del 1600, il giorno della festività di San Tommaso dottore della chiesa,
prende possesso della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se forse anche
lui preferisce la più centrale chiesa suffraganea della Nunziata. Questo pozzo
di scienza immigra a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte della Sicilia.
Forestiero, di sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le novelle
costituzioni tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si
trasferisce o viene mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo
ritroviamo annotato qua e là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del
1601 rimangono rivelatrici annotazioni come “detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete;
all’arciprete; palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che
trattarsi del regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri
termini la quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di
chiesa, 5 tarì e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le
“glorie”, i bambini). Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture
avvengono “a lo Carmino” (ed ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo
Fanara, di cui abbiamo fornito cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu) - e vi viene tumulato un
pargoletto della racalmutesissima famiglia Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata
da tutto il clero vi è sepolta una tale Angela Turano, ceppo poi emigrato da
Racalmuto). Sia però chiaro che non abbiamo elementi di sorta per sospettare di
questo arciprete dottore in utroque.
Crediamo, anzi, che sia stato bene accetto e rispettato: un “signore
arciprete”, dice il chiosatore dell’archivio parrocchiale.
Dopo
il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie giudiziarie, contese
con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per questo meno ostile -
vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato dai nobili, è
costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di obbrobri
giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi, canonico
percettore della prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la Sacra
Congregazione dei Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i canonici
cammaratesi don Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera, e don
Raimondo Vitali: il primo era accusato di pederastia; il secondo di relazione
peccaminosa con la vecchia madre del primo.
La
diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio parrocchiale ne sono
un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si insedia il 25 giugno
1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette mettersi di buzzo buono
per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18 giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si
porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione
minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e
misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte per la storia di
Racalmuto, e non solo quella religiosa.
L’anno successivo, il Bonincontro ritorna a Racalmuto e
completa la vista..
Il Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva
essere anomala sotto il profilo del codice canonico del tempo. Il figlio
legittimato - era stato concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto
Giovanni IV del Carretto - don Vincenzo del Carretto si era insediato nella
chiesa di S. Giuliano, elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse
stato consacrato sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene
dall’indagare. Il potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non
consente insolenze del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione
di San Giuliano hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola:
ratifica il fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti
approssimativamente uguali: la bisettrice parte dal Carmino ed arriva a la
Funtana lungo un percosso che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo
riusciti a tratteggiare con sicurezza. Non passava di certo per la discesa
Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni
pressoché impraticabile, ma lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la
chiesa di Santa Rosalia, posta al centro del paese, ma dalla parte di S. Giuliano,
per irrompere nella parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete;
quella a nord-ovest, in mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene
assegnata al giovane - è appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro
d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è
già affermato ed una sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta -
viene apprezzata, come abbiamo visto, in occasione della visita a Santa Margherita,
la chiesa congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S.
Margaritae depictum in tila manu
pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del vescovo).
Giovanni IV
del Carretto, familiare del Santo Ufficio, ma per interessi e per sottrarsi a
tribunali laici molto meno accomodanti, non dovette essere molto religioso.
Quel figlio legittimato che faceva il prete nel suo lontano feudo di Racalmuto
doveva apparirgli come un povero diavolo che si arrabattava per superare le
umiliazioni del suo essere stato concepito in toro non benedetto. Gli echi
della vita religiosa della sede della sua contea gli saranno pervenuti, ma
molto affievoliti, lasciandolo nella totale indifferenza. Non vi è documento
che comprovi la sua presenza, anche saltuaria, a Racalmuto. Ma appena
seppellito quel truculento conte, il figlioletto deve raggiungere la lontana
dimora di Racalmuto, così diversa dai fasti di Palermo.
GIROLAMO II DEL CARRETTO
«Nella
chiesa del Carmine c’è un massiccio sarcofago di granito, due pantere
rincagnate che lo sorreggono. Vi riposa “l’ill.mo don Girolamo del Carretto,
conte di questa terra di Regalpetra, che morì ucciso da un servo a casa sua, il
6 maggio 1622.» Così esordisce Sciascia nelle sue “parrocchie di Regalpetra”.
Con tali ricordi inizia la folgorante carriera letteraria del più grande figlio
di Racalmuto
A Leonardo
Sciascia, Girolamo II del Carretto portò dunque fortuna, lui che nella vita ne
ebbe ben poca; lui che da morto resta ancora vituperato, e non proprio a
ragione.
Il
famigerato padre, dopo una moglie sterile di Cerami, dopo un’amante prolifica,
ebbe a sposare, di là negli anni, la nobile Margherita Tagliavia-Aragona
attorno al 1596. Un solo figlio da questo matrimonio, appunto Girolamo II,
battezzato in Palermo il 28 ottobre 1597.
Giovanni
IV del Carretto lasciò il figlioletto
(l’unico legittimo) di appena nove anni. Il ragazzino non riuscirà mai più a
togliersi di dosso l’anatema e l’ingiuria (cocu)
di cui lo gratifica a distanza di oltre tre secoli anche Sciascia. Girolamo II
del Carretto viene raccolto fanciulletto a Palermo e portato nel suo castello
di Racalmuto, affidato alle cure (chissà se affettuose) del fratellastro, il
neo arciprete di Racalmuto don Vincenzo del Carretto.
Non
resistiamo neppure alla tentazione di spettegolare con Sciascia (op. cit. pag.
16): «Il conte [Girolamo II del Carretto] stava affacciato al balcone alto tra
le due torri guardando le povere case ammucchiate [invero non poteva, perché da
lì le case non si vedono, n.d.r.] ai piedi del castello quando il servo Antonio
di Vita “facendoglisi da presso, l’assassinò con un colpo d’armi da fuoco”. Era
un sicario, un servo che si vendicava: o il suo gesto scaturiva da una più
segreta e sospettata vicenda? Donna Beatrice, vedova del conte, perdonò al
servo Di Vita, e lo nascose, affermando con più che cristiano buonsenso che “la
morte del servo non ritorna in vita il padrone”. Comunque la sera di quel 6
maggio 1622, i regalpetresi certo
mangiarono con la salvietta, come i contadini dicono per esprimere solenne
soddisfazione; appunto in casi come questi lo dicono, quando violenta morte
rovescia il loro nemico, o l’usuraio, o l’uomo investito di ingiusta autorità.»
E
nella Morte dell’Inquisitore (pag.
180): «Che un fondo di verità sia in questa tradizione, riteniamo confermato
dall’epilogo stesso del racconto popolare, che dice il servo di Vita averla
fatta franca grazie a donna Beatrice, ventitreenne vedova del conte: la quale
non solo perdonò al di Vita, fermamente dicendo a chi voleva fare vendetta che la morte del servo non ritorna in vita
il padrone, ma lo liberò e lo nascose. Ora chiaramente traluce ed arride,
in questo epilogo, l’allusione a un conte del Carretto cornuto e scoppettato...».
Purtroppo
ci divertiamo meno, quando sacrilegamente lo scrittore prosegue: «ma questa
viene ad essere una specie di causa secondaria della sua fine, principale
restando quella del priore. Insomma: se non ci fossero stati elementi reali a
indicare il priore degli agostiniani come mandante, volentieri il popolo
avrebbe mosso il racconto dalle corna del conte. Il priore non era certamente
uno stinco di santo: ma quel colpo di scoppetta il conte lo riceveva consacrato
da un paese intero. Una memoria della fine del ’600 (oggi introvabile, [ma ora
trovata dal Nalbone, n.d.r.], autore di una buona storia del paese) dice della
vessatoria pressione fiscale esercitata dal del Carretto, e da don Girolamo II
in modo particolarmente crudele e brigantesco. Il terraggio ed il terraggiolo,
che erano canoni e tasse enfiteutiche, venivano applicati con pesantezza ed
arbitrio...»
E’
ora disponibile una documentazione - quella del Fondo Palagonia - che restituisce alla verità la faccenda del terraggio e del terraggiolo pretesi dai del Carretto. Crediamo che queste non siano
tasse enfiteutiche o che sia inesatto definirle così. Erano diritti feudali
spettanti al baronaggio siciliano e legati al semplice fatto che contadini
abitassero nella terra del barone:
dovevano al feudatario (di solito al suo arrendatario o esattore delle imposte
cui queste venivano concesse in soggiogazione) una certa misura di frumento per
ogni salma di terra coltivata nel feudo (terraggio)
ed un’altra (di solito doppia) per quella coltivata fuori dal feudo (terraggiolo). A preti e conventi
racalmutesi codesti gravami feudali non andavano giù ed essi fecero cause
memorabile (e secolari) per sottrarsi e sottrarre agli odiati terraggio e terraggiolo. La spuntarono,
come si disse, solo il 27 settembre 1787.
Invero
il Tinebra Martorana ebbe tra le mani le carte feudali del terraggio e del terraggiolo:
gliele misero a disposizione i suoi protettori i Tulumello, già baroni e
maggiorenti del paese. Quel che il giovane vi capì è riportato fideisticamente
da Sciascia e cioè:
Oltre
alle numerose tasse e donativi e
imposizioni feudali, che gravavano sui poveri vassalli di Regalpetra, i suoi
signori erano soliti esigere, sin dal secolo XV, due tasse dette del terraggio e del terraggiolo dagli abitanti delle campagne e dai borgesi. Questi
balzelli i del Carretto solevano esigere non solo da coloro che seminavano
terre nel loro stato, benché le possedessero come enfiteuti, e ne pagassero
l'annuale censo, ma anche da coloro che coltivassero terre non appartenenti
alla contea, ma che avessero loro abitazioni in Regalpetra. Ne avveniva dunque,
che questi ultimi ne dovevano pagare il censo, il terraggio e il terraggiolo a
quel signore a cui s'appartenevano le terre, ed inoltre il terraggio e il
terraggiolo ai signori del nostro comune... Già i borgesi di Regalpetra, forti
nei loro diritti, avevano intentata una lite contro quel signore feudale per
ottenere l'abolizione delle tasse arbitrarie. Il conte si adoperò presso alcuni
di essi, e finalmente si venne all'accordo, che i vassalli di Regalpetra
dovevano pagargli scudi trentaquattromila, e sarebbero stati in perpetuo liberi
da quei balzelli. Per autorizzazione del regio Tribunale, si riunirono allora
in consiglio i borgesi di Regalpetra, con facoltà di imporre al paese tutte le
tasse necessarie alla prelevazione di
quella ingente somma. Le tasse furono imposte, e ogni cosa andava per la buona
via. Ma, allorché i regalpetresi credevano redenta, pretio sanguinis, la loro libertà, ecco don Girolamo del Carretto
getta nella bilancia la spada di Brenno
... e trasgredendo ogni accordo, calpestando ogni promessa e giuramento,
continua ad esigere il terraggio e il
terraggiolo, e s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse».
Sciascia
commenta: «Il documento riassunto dal Tinebra dice che appunto durante la
signoria di Girolamo II i borgesi di
Racalmuto, che già avevano mosso ricorso per l'abolizione delle tasse
arbitrarie, subirono gravissimo inganno: ché il conte simulò condiscendenza, si
disse disposto ad abolire quei balzelli per sempre; ma dietro versamento di una
grossa somma, esattamente trentaquattromila scudi. L'entità della somma, però,
a noi fa pensare che non si trattasse di un riscatto da certe tasse, ma del
definitivo riscatto del comune dal dominio baronale; del passaggio da terra
baronale a terra demaniale, reale.»
La
ricostruzione sciasciana non ci convince molto. Un fatto singolare si
verificava frattanto a Racalmuto. Era diventato arciprete un illegittimo, sia
pure figlio di Giovanni IV del Carretto. Era quel don Vincenzo del Carretto su
cui si è già avuto modo di fornire
taluni ragguagli. Anche lui venne colpito dalla violenta morte del padre (5
di maggio 1608) e così aveva raccolto il
fratellastro novenne Girolamo II che per diritto ereditario era divenuto
novello conte di Racalmuto (la legge contemplava il maggiorascato, e sarebbe
toccato quindi a don Vincenzo essere conte, ma escludeva i figli illegittimi.
Non sappiamo come abbia accolta quell’infamante esclusione, quello scorno a la faccia di lu munnu).
Don Vincenzo diviene comunque il tutore del conte minorenne:
nel 1609 pasticcia quell’infame accordo sul terraggio e terraggiolo che Tinebra
Martorana e Sciascia affibbiano al “vorace e brigantesco don Girolamo II del
Carretto”, all’epoca uno smarrito bambino. Lo desumiamo da un diploma:
Sotto le
quali convenzioni ed accordio detta università ed il conte di detto stato hanno
campato ed osservato per insino all’anno settima indizione prox: pass: 1609,
nel qual tempo detta università, e per essa li suoi deputati eletti per publico
consiglio a quest’effetto, ed il dottor Don Vincenzo del Carretto Balio e
Tutore di detto Don Geronimo, moderno conte allora pupillo, con intervento e
consenso del reverendissimo don Giovanni de Torres Osorio, giudice della Regia
Monarchia protettore sopraintendente di detto pupillo e con la sua promissione
di rato, devennero à novo accordio e transazione in virtù di nuovo consiglio
confirmato per il signor Vicerè e Regio Patrimonio, per il quale promisero
detti deputati à nome di detta università pagare al detto conte don Geronimo
scuti trentaquattromila infra quattro
mesi, e quelli depositarli nella tavola di Palermo per comprarne feghi ò
rendite tuti e sicuri, con l’intervento e consenso di detta Università, con
diversi patti e condizioni in cambio per l’integra soluzione e satisfazione di
detti terraggi e terraggioli dentro e fuora di detta terra e suo territorio, e
per contra detto tutore cessi lite alla detta exazione di detti terraggi, quali
ci relasciò e renunciò, essendoli prima pagata detta somma di scuti
trentaquattromila, promettendo non molestare più detti cittadini ed abitatori
di detta università di detti terraggi e terraggioli come più diffusamente
appare per detto contratto all’atti di notar Geronimo Liozzi [a.v.: Liezi] à 17
luglio settima indizione 1609., confirmato per Sua Eccellenza e Regio
Patrimonio
A porre una qualche attenzione alle date, abbiamo che Die 22 Junii VI Ind.is 1608 Don Vincenzo
viene riconosciuto Arciprete (sia pure a metà con quella specie di mitateri quale appare il vassallo don Paulino d’Asaro); il
successivo 17 luglio si sbilancia nella gestione delle sopraffazioni
feudatarie.
Investigando
i processi d’investitura emerge che don Vincenzo del Carretto esercita questa
funzione tutoria sino al luglio del 1610. Ma da questa data, quando il
bambinello Girolamo II viene d’autorità - pare - fidanzato a Beatrice figlia
bambina del Ventimiglia, il tutore diviene il futuro suocero del conte.
Beatrice del Carretto
Il Tinebra Martorana (pag. 125) vorrebbe Girolamo II sposato
ad una ”certa Beatrice, di cui s’ignora il cognome”. Niente di più falso: di
donna Beatrice sappiamo tanto. Non crediamo che finché si protrasse il breve
legame matrimoniale si sia indotta all’adulterio, come maliziosamente insinua
lo Sciascia. Da vedova, qualche leggerezza può averla commessa (ma noi non lo
diremo dinanzi a voi stelle pudiche.)
Sembra che dopo la morte del conte avvenuta il primo ( e non
il 6) maggio 1622, una rivolta popolare
sia esplosa a Racalmuto: vi sarebbe stato l’assalto al munito castello ed il
popolino rivoltoso abbia fatto man bassa di tutto. La giustizia - che pure era
mera espressione dei del Carretto - non fu in grado di far nulla e così alla
giovane vedova ed a suo cognato, tutore, non rimase nient’altro da fare che
chiedere la comminatoria delle canoniche sanzioni da parte della sede vacante
del vescovado di Agrigento. Ne avesse avuto sentore Leonardo Sciascia, crediamo
che avrebbe più succulentamente imbandita la tavola della “mangiata cu la salvietta” dei racalmutesi nell’estate del 1622.
Poi, con gli anni, il terrore della morte ebbe a
sorprenderlo: si costruì una chiesetta (Itria) tutta per lui e la dotò. I suoi
eredi - nobili - dovettero corrispondere le rendite al cappellano di quel
piccolo santuario perlomeno sino 1902.
GLI
ARCIPRETI DI RACALMUTO SOTTO GIROLAMO II DEL CARRETTO
Don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o
volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale
Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ([4])
Secondo il prof. Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi
arciprete del nostro paese:
1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e
poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber
in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli
atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo
arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le
nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna
Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura,
fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato
avvengono fatti memorabili a Racalmuto, tristi, lieti e rissosi: la famigerata
peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia
e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a
nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del
paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato
dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel
1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni;
finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per
eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete
della importante comunità ecclesiale di
Racalmuto. Non ci sembra un prete molto degno. Non finirà la sua vita da
arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del
padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata
donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per
il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con
l’erezione della minuscola chiesa dell’Itria, può far sospettare ancor di più
come può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e
tutore” dell’illustre conte, vede vedersela con le procedure della successione
comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare.
Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi
di investitura che qui pubblichiamo mostrano una sfilza di rinvii a richiesta
appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra
del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2
settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di
Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio
risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia.
Ha potere e lo dispiega per altre proroghe del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo
II del Carretto.
L’arcigno
marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo.
Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei
Tartari in Palermo:
Die 28
octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don
Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita
del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo;
lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la
ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il
marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due
bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha
appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel
noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque
attorno al 1616, quando il giovane conte
era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del
1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea
aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del
Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi
alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato
sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609,
l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e
circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di
Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione
generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le
annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al
saggio allora corrente del 7% potevano fruttare
2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa
tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però
che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto
mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini
(Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che non vollero essere tartassati. Anziché
l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora di ripartire i soli frutti
pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile
tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai
patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto. Altro che frate Evodio o
Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci
ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta
con il debito rispetto della verità, senza un anticlericale spumeggiare.
In una memoria del 1738 [5],
quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i
Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto
bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano
il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio,
il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia
che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto
si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo.
Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da
quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).
Nel
1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono
da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La
questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta
misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi
fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che
il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i
racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e
Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce
il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il
1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di
Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II
concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del
convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili.
Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un
profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane
conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua
estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di
fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto.
Le
note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale
lettura dei documenti rende incontrovertibili.
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce
fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come
disinvoltamente si continua a scrivere).
Trattasi
del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di
finire in un convento che già nel 1667 ([6])
si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione
vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto
inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non
trova più pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma
sempre mistificazioni.
Lo
si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore
inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri
dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa
nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa
consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo
che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al
1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina
dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta
nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe
potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ([7]).
Lo
si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un
martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i
vagabondaggi ed i ladroneschi del monaco agostiniano: scrive da cane il frate
della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico
frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E
così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non -
quella locuzione matranghesca.
Si
deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate
di colpe dello spirito (bestemmiatore
ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego ..
eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie
svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli
ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo
‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un
individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le
campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia
ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal
Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di
questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle
notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva, finito
all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove
malaccortamente il presule si era
sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni»
risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del
capoluogo agrigentino. ([8])
Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti,
affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale
per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è
personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto
prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene.
Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di
stralciare questo illuminante passo: «Nella
Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono
ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e
chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e
tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare
con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e
disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo
conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più
del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([9]).
Alla
luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo
Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella data dallo
scrittore.
Un
contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di
Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo
talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era
riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello
fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia
quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a
ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle
“sacchette” “un libro scritto di sua mano
con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per
l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto
Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro
di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto
comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli
specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo
scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna.
«Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una
polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali,
ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del
processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus
delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il
Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse
stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra
Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di
passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al
secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal
sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile
traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla
macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito
secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S.
Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del
convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto
appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al
terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere
la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora,
essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in
Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p.
Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al
caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La
Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne
dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa
di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in
briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di
santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio
di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita.
I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di
pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e
proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio
giustiziati sul posto. ([10])
Il
latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai
primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo
scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo.
Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un
brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana)
che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et
viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis,
animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus:
corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea
Communi», come a dire che il “povero
disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato
alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul
patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo
corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in
Matrice, nella fossa comune.” ([11])
Il
Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia,
non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché
datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A
prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del
monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al
Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna
per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione,
diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I
crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi
ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri
come meglio aggrada, resta sempre di
censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per
esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di
quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però,
solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla
sfrenata, libertina.
«Siamo
convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 -
convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben
riuscire a fare di uomo religioso, che
dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di
coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso,
radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo
scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo
allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale
dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca,
ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per
sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo
Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto
Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte
d’Albadalista, e darsi in pasto
all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [12]
E
la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si
dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata.
Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è
blasfemo.
La
mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una
terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai
frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo,
senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse
come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace
concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo.
Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.
Riandando
indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un
giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577;
nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da
presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico,
ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi”
come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia
questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era
invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego
La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il
Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a
quest’atto che va correttamente letto:
Eodem [nello stesso
giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.°
[Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug.
[giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don
Paolino d’Asaro] p./ni [patrini]
iac.° [
illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna]
di Ger.do [Gerlando] di
Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace concetto la presenza a Racalmuto
nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime della
parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza
dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego -
di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso
che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina
ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo
scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e
prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore
di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo
Sciascia. A noi risulta, invece, - come
si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente
assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle
Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è
sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a
Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo
una polisa con il diavolo per
risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla
nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia
irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento
fraticello di Racalmuto.
* * *
L’atto di donazione della contea di
Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto in favore del figlio Giovanni V
del Carretto
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni,
Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi
figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4
luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie
“governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo
preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario
di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le
imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla
nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche
qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara
al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla
trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel
sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto
acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come
quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad
un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti,
vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna
della Catena» (le pretenziose note [13]
di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del
Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero forsennate.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai
gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile -
resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era
stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto
sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito
destinato alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per
ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla
Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.°
d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del
Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro
tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso
a soli venticinque anni.
Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che sembrava
essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese, eccolo
ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice Ventimiglia.
Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come unica erede del
genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano principessa di
Ventimiglia.
Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito,
ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel
grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le
dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue
preferenze.
Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un
qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva
vedova.
I tempi dell’interregno di
Beatrice del Carretto Ventimiglia.
Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane
conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per
compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo
precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di
api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice
dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che
invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli
incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. [14]
La curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo
di Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta
quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe,
stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte
malandrinerie, dall’altro c’è la
piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto
benessere in diffusi strati della popolazione
racalmutese del Seicento.
Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura
l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci
ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello.
Il 3 settembre 1622 [15]
altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo
del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di
donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il diploma vescovile -
contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et
tutrici de li figli et heredi di del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti
di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta
quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana,
lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati,
derubati debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali
grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro
dunque.
Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del
fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non
ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di
un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in
tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del
Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del
1621 sotto la data del primo settembre 1621 [16]
). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al
cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto
seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro
secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice
del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che l’ingombrante
marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di
corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce
l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.
La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni
netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare
al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a
debellare il flagello a Racalmuto.
Il culto di Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal primo
decennio del 1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile
invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino da parte del cardinale
Doria.
In un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922 rinvenibile in
Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che Santa Rosalia sarebbe
nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove documentali le avrebbe avute il
canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per dispetto al vescovo riluttante a
finanziargli la pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto
manoscritto leggesi che «fui il 13
ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere di
leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In quel libro
si parla di antiche iscrizioni e di
chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa
"quella di Rahalmuto,
della quale non appare altro millesimo. che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato
dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di
costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive
lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'.
II mio spirito laico mi spinge ad essere alquanto scettico
sull'attendibilità di tante notizie contenute nel manoscritto: è certo,
comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale
nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto" , stando a quel che si
legge nelle pagine 23, 24, 69, 97, 98,
99 e 101.
Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica
ed accreditata è quella del PIRRI. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia).
Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta
[aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si
poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e
portante una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta per incuria di alcuni, ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata
alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro costituita
una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa ha rendite
per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia sorta in altro
posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608, collocavasi nel
mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che travavasi dalla parte
della parrocchia di S. Giuliano.
Per il prof. Giuseppe Nalbone non vi sono dubbi: «la chiesa
di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno
dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione
dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»
Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un
rudere (ampiamente fotografato) nei
pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che
respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di
via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso
Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da
interpretare l’aggettivo “nuova” usato
dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato
altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che
non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere
venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel
recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di
culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il Prof. Nalbone trova, però,
molte inesattezze nell’opera dell’Acquista.
Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta
ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della
Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna:
tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo
sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a
Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo -
dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non
avevano - grande efficacia.
Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del
1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le
reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano
traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa
Rosalia.
Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la
tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si
fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata
dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e
Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente
vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte
Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata
Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non
aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente
ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xxliis comitissa dictae terre
Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre
Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno
giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene
“quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et
est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è
contenta.
Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione che
nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia,
graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi
figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa
esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed
opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta
festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede
incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché
siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor
Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire
da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto
feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata
contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che
testimonia la sua presenza a Racalmuto.
Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al
diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i
documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota
comprovante i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna
Eumilia del Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra
l’altro: «Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XXlijs ...
concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae
Racalmuti et Principissae XXlijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7
maggio 1636. [17]
[1] ) Leonardo Sciascia, Prolusione alla
mostra di Pietro d’Asaro, in Pietro
d’Asaro «il monocolo di Racalmuto»,
Palermo 1985, p. 19.
[3]) Leonardo Sciascia: Un
pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto - Editoriale
«Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[4]) Giuseppe Sorge -
Mussomeli ... vol. II, pag. 95 vi rinviene una famiglia Cinquemani “di cui le
prime notizie rimontano al 1584.”
Palagonia n.° 709 Anni 1613-1749
[n.° 3] Relationes Burgentium Terrae Racalmuti [f. 141-149]
[6]) Vedasi la nota apposta
nel Libro dei Morti del 1667 presso l’Archivio della Matrice di Racalmuto. Il
26 agosto del 1667 muore il padre fra Giovan Battista FALLETTA degli Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino
della Congregazione di Sicilia all’età di 63 anni. Ad assisterlo è il confratello
P. Salvatore da Racalmuto, agostiniano, un frate in odore di santità, che solo
in questi ultimi tempi si cerca di farlo emergere dalle nebbie di un colpevole
oblio. Per volontà del vescovo agrigentino fra
Ferdinando Sancèz de Cuellar, invero in esecuzione di disposizioni
pontificie, il Convento di S. Giuliano di Racalmuto andava chiuso, per carenza
di uomo e di mezzi. Fra Giovan Battista
Falletta veniva pertanto sepolto nella Chiesa Madre, anziché a S. Giuliano,
dato che, come viene annotato: «stante soppressione conventui Sacre Congregationis per
decretum sub die 26 augusti 1667 ». Ma il
Convento riaprì e sopravvisse per un altro secolo almeno.
[7]) Leggasi quanto elucubrato
in Morte dell’Inquisitore a pag. 182 dell’edizione Laterza 1982. Per inciso, è
tutt’altro che provata la storia del priore agostiniano mandante dell’omicidio
di Girolamo del Carretto, avvenuto il 1° (e non 6) maggio del 1622, ammesso che
di omicidio si sia trattato e non della stroncatura per “un morbo” del
venticinquenne conte di Racalmuto.
[8]) Archivio Segreto Vaticano
- Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi - Anno 1602: positiones D-M.
[10]) ARCHIVIO VATICANO
SEGRETO - SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI - PROCESSI nn. 28; 2169; 2170.
[11]) ARCHIVIO PARROCCHIALE
DELLA MATRICE DI RACALMUTO - LIBER MORTUORUM 1811. Dove fosse quella piazza ove
veniva eretto il patibolo non sappiamo con certezza: tutto però induce a
pensare che si trattasse della parte antistante l’attuale Piazzetta Crispi. Il
toponimo tradizionale del «cuddaro»
sembra comprovarlo. L’attribuzione di quel macabro posto alle male esecuzioni
dell’Inquisizione - come fa Sciascia - puzza alquanto di astioso
anticlericalismo.
[12]) Vincenzo Di Giovanni -
Palermo Restorato - Palermo 1989, libro
quarto, pag. 335. Per un approfondimento si leggano le splendide pagine di C.G.
Garufi: Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia - Palermo,
Sellerio - pp. 255 e 262-263.
[14] ) Archivio Vescovile di
Agrigento - Registri Vescovi 1622-1623 - f. 230r-231 - die 24 januarii 1623.
[15] ) Archivio Vescovile di
Agrigento - Registri Vescovi 1622-1623 - f. 412v - die 3 settembre VII ind.
1622.
[16] )
Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro del Regno - Processi investiture -
busta n.° 1560 - proc. N.° 4074 - anno 1621-
[17]) Archivio di Stato di
Agrigento - Fondo 46 - Vol. 508 - f. 35,
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