RACALMUTO AGLI ESORDI DELL’EPOCA
MODERNA
La venuta della Madonna del Monte
Il secolo
XVI si illumina subito con la saga della “venuta di la Beddi Matri di lu Munti”. Gli storici tradizionali sono sicuri del
fatto loro: era il mese di maggio del 1503. [1]
Eugenio Gioene, «arrivato al poggetto, ove sorge attualmente la Chiesa di Maria
del Monte, e che allora era una prominenza isolata, per dar riposo alla sua
gente, si trattenne al margine d’una fonte che allora vi esisteva. […] Ercole
del Carretto, signore di Racalmuto, ove allora faceva la sua dimora, si portò
anche lui a vedere la bella Immagine di Maria. [..] Concesso il Gioene alla sua
gente onesto riposo, ordinò ripigliare il viaggio. Fa aggiogare i bovi al
carro, si comanda la partenza, ma il carro non si muove. Si pungono, si
sforzano i bovi, ma non si ottiene farli progredire d’un passo. Si spinge il
carro, ma il carro è immobile né vi ha forza capace a rimuoverlo. Con un
prodigio degno di Maria le ruote del carro s’internano quasi a metà sotterra,
tutti gli sforzi per rimuovere la statua riescono vani; la volontà di Maria
sensibilmente si conosce, un grido universale di gioja annunzia la beata sorte
di Racalmuto, e il Gioene si rassegna a cedere il Simulacro, poiché non ha
forza di ripigliarlo. Così restò l’Immagine di Racalmuto, e dal monte ove si
fermò cominciò a chiamarsi Maria del
Monte.» Così il padre Caruselli nel 1856, con evidenti sbavature storiche e
toponomastiche.
Era
comunque, quella, una saga radicata nella mente e nel cuore dei racalmutesi. Un
secolo prima, nel 1760, il gentiluomo D. Francesco Vinci consegnava alla futura
memoria queste note: «Nella città di
Castronovo v’era in quel tempo il nobile Eugenio corrotto d’ippocondria. Gli
ordinarono li medici di fare un giro per divertirsi, e superare detto fitalo
ippocondrico. In fatti si chiamò alcuni parenti suoi di Palermo e di
Castrogiovanni, s'unirono con la servitù al numero di 70, si noleggiarono un
bastimento, passarono a girare l’Africa, giunsero nella Libia regno di Barca.
Mentre riposavano in un poggetto sotto una pietra, viddero in detta pietra una
forma di porta, ed avendola aperta, trovarono una Immagine della Vergine
Santissima col Bambino nella mano sinistra di marmo bianco.»
Ignoriamo
la parte del racconto del Vinci relativa al rinvenimento della statua in
Africa; al trasposto, via mare, sino in
Sicilia, con approdo a Punta Bianca; al giro improbabile sino a Racalmuto per
raggiungere Castronuovo. Ma da qui, ecco la ripresa dell’antica versione di don
Francesco Vinci: «Impegnati i bovi, e dando
la caccia per trasportare detto Simulacro, li due d’innanzi s’inginocchiarono,
e li quattro di dietro per parte d’andare verso le Grotte, per poi portarsi a
Passo Fonduto, si portavano indietro, ed il carro colla sudetta Immagine si
sprofondò, quanto non poterono più sollevarlo con tutte le forze umane. Vedendo
questo portento Eugenio disse al Conte, e popolo di Racalmuto, che la lasciava
in detta terra.»
Il buon
padre francescano «lettore e predicatore Minore Osservante» ci assicura che il
miracolo ebbe il placet di Santa Romana Chiesa già prima del 1856: «S’aggiunga
– scrive [2]
- finalmente come prova irrefutabile l’annuenza della Chiesa. Nell’officio che
si recita per la Madonna del Monte nella sesta lezione del secondo notturno vi
sono registrate le seguenti parole, che valgono a coronare quanto di più
arrischiato potrà sembrare d’aversi esposto nella storia della Madonna: Racalmuti in Sicilia ab antiquo tempore
marmoreum, et prodigiosumexstat magnifico in templo Deiparae de Monte
Simulacrum, quod prout constans traditio testatur, dum a littore Agrigentino ad
veteram civitatem Castronovi transferretur, Racalmutum super rusticum carrum
veniens, adhibitis etiam multis bovum jugis a loco, ubi custodes eum
firmaverunt, ut aliquid cibi caparent, mero portento nullo modo dimoveri
potuit..»
E fu un
Decreto che ebbe l’approvazione della Sacra Congregazione dei Riti, presso il
Quirinale, cardinale referente Giuseppe Ugolini, con tanto di avvocato D.
Pietro Minetti. Era l’11 settembre 1847. Il 20 giugno 1848, la Curia vescovile
detronizzò Santa Rosalia e «stante il sopradetto decreto .. Maria SS. Sotto
titolo del Monte è riconosciuta come
patrona Principale della Comune di Racalmuto» e pertanto ordinava che «nella
seconda domenica di Maggio in ogni anno si celebri la S. Messa, e si reciti
l’Officio, …. tanto dal Clero Secolare, che Regolare di detta Comune di
Racalmuto con l’ottava sotto doppio rito di prima classe. – Dominicus M.
Episcopus; Can. Fr. Di Stefano Cancell.»
Del resto,
ai vescovi di Agrigento, l’eccezionale stato di grazia del Simulacro del Monte
era noto da tempo: ciò viene attestato sin dalle visite pastorali del 1686. Ma
il pio - e devotissimo alla Madonan del
Monte - padre Morreale osò, come leggesi in un testo pubblicato nel 1986[3],
ristabilire razionalmente la verità storica. Apriti cielo! Persino lo scettico
e dissacrante Sciascia ha da ridire. «La Chiesa – ironizza in suo scritto [4]
- che tanto ha faticato per costruire una leggenda, ora la demolisce: il padre
Girolamo Morreale, gesuita, racalmutese, si è fatto apostolo della verità
storica, ha sottoposto la leggenda a serrata critica. E c’è da fare una
considerazione: che questo nuovo corso delle cose, per cui la Chiesa cattolica
fa scendere dagli altari santi che vi aveva posto e demolisce leggende che con
accurata giustapposizione, lentamente, per secoli aveva creato; questo nuovo
corso Voltaire proprio se lo è perso. Chissà quanto ne sarebbe stato contento,
che divertitissime e divertenti pagine avrebbe scritto … su tutti quei santi
destituiti di santità mancando, come si dice in burocrazia per la
corresponsione di pensioni, di un certificato di esistenza in vita, quella loro
vita che i fedeli per secoli hanno creduto conclusa nel martirio o nell’ascesi.
Forse anche la vicenda della Madonna del Monte lo avrebbe interessato: dei
racalmutesi cui vien sottratta la credenza in quell’antico miracolo, primo
anello di una catena di miracoli che ho visto allungarsi fino dagli anni della
mia infanzia.» Lo Scrittore fa quindi proprio l’invito di un napoletano «… a
invischiarsene del decreto che dà [S. Gennaro] per inesistente, che non ci sia
più leggenda, che non ci siano più il miracolo e i miracoli, non nuoce per
nulla alla festa: che c’è ancora.»
Oddio, ci
siamo impantanati in un ginepraio. Vediamo di tornare al nostro orticello ..
microstorico.
Riprendiamo,
così, lo sviluppo genealogico dei del Carretto, dando qualche cenno proprio su
quell’Ercole della venuta della Madonna del Monte.
ERCOLE DEL CARRETTO
E
subito dopo Giovanni, abbiamo Ercole del
Carretto, quello che la saga della Madonna del Monte vorrebbe fosse “conte”. Il
Barberi annota su di lui:
«Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole
del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del
quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella
terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once
700.»
Il Baronio
quasi non lo cita: un accenno trasversale, come si fosse trattato di un
riflesso sbiadito del gran fulgore che era stato il padre.
Il Barberi
ebbe a conoscerlo giacché è proprio sotto Ercole del Carretto che visita
Racalmuto come lascia intravedere il passaggio: al presente si possiede quella terra per lo
stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
Settecento once di reddito - a meno che non
trattisi di esagerazioni fiscali alla stregua delle mirabolanti cifre dei
moderni accertamenti degli agenti tributari - sono un’enormità. Sia quel che
sia, Racalmuto dunque in esordio del ‘500 - e proprio sotto Ercole del Carretto
- ha un salto quantitativo, un sussulto verso il grande centro. Nostri
precedenti studi ([5])
hanno messo in evidenza questo significativo passaggio demografico e sociale.
Dal rivelo del 1505 (un paio d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una
popolazione aggirabile sui 1600 abitanti: un secolo prima (nel 1404) erano poco
più di 750. Certo, la baronia dei del Carretto non era stata molto felice e
varie strozzature demografiche e sociali si erano verificate. Le abbiamo notate
in quello studio, ma tutto sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti.
E qui ritorniamo sulla leggenda
della Madonna del Monte, per qualche ulteriore puntualizzazione d’indole
storica.
Era persino
sorto un clima messianico per cui era potuta allignare la saga della Madonna
del Monte. Sciascia è caustico: «correva l’anno 1503, ed era signore di
Regalpetra Ercole del Carretto ... C’è poi da dire che la statua è della scuola
dei Gagini, e appare molto improbabile sia finita in Africa; ma di più di ogni
altra è inquietante la considerazione sulla scelta della Madonna tra il Gioeni
e il del Carretto, tra i castronovesi e i regalpetresi; inquietante come
l’apparizione dell’immagine di Cristo su una parete al professor Pende, perché
proprio al professore, perché al del Carretto,
perché tra i regalpetresi la Madonna ha voluto fermarsi, la popolazione
di Castronovo essendo in egual misura fatta di uomini onesti e di delinquenti,
di intelligenti e di imbecilli.» ([6])
Ma è proprio lui che poi negli Amici della
Noce se la prende con l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi occhi di
avere cercato un po’ di luce (storica) su questa saga cui tutti i racalmutesi
siamo legati.
Ma
neppure, a ben vedere, riusciamo a concordare del tutto con il valente padre
gesuita sui motivi che avrebbero spinto gli odiati Requisenz ad inventarsi la
leggenda della Madonna del Monte «per fare apparire i Conti del passato, ma
intenzionalmente quelli del presente, quali grandi benefattori del paese: così
il barone Ercole del Carretto, e con lui tutta la sua famiglia, cominciò ad
essere presentato nella leggenda come insigne benefattore del culto della
Vergine del Monte, costruttore della sua prima chiesa nel 1503.» ([7])
Osta se non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di Racalmuto il 28
gennaio 1771 ed a quella data la saga
era ben salda nei cuori e nella fede dei racalmutesi, come dimostra l’ex voto
che si ammira al Monte. Precedente era anche lo scritto di Francesco Vinci,
pubblicato, come si detto, nel 1760 e così pure quello di Nicolò Salvo. Ma
soprattutto appare dirimente il fatto che già nel 1686 la curia vescovile di
Agrigento considerava “miracolosissima imago” (immagine molto miracolosa)
quella che si venerava nella chiesa di S. Maria del Monte di Racalmuto. ([8]) Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel
chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante
delicatezza religiosa. Ci limitiamo a pensare che Ercole del Carretto ebbe
davvero a costruire la prima chiesa del Monte (di una precedente chiesetta
intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun documento probante) ed ebbe a
corredarla facendo venire da Palermo una statua di marmo. Fu evento memorabile:
quella Vergine marmorea, così somigliante alle giovani madri di Racalmuto,
brevilinee e rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi
dei contadini locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu semplice
e coinvolgente. Già nel 1608, stando ad una visita pastorale, quel simulacro
era maestosamente eretto sull’altare maggiore della Chiesa del Monte: il
vescovo - recita il resoconto - “Visitavit altare maius super quo est imago
marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata”.
Tratti
anagrafici di Ercole del Carretto
Scarne
sono le notizie che abbiamo su Ercole del Carretto. Non sappiamo quando nasce:
la morte cade invece nel gennaio del 1517. Sposò tal Marchisa di cui ignoriamo
il casato.
Dal
processo d’investitura del figlio Giovanni III possiamo abbozzare questi altri
dati: fu “signore e barone della terra di Racalmuto e tenne e possedette quella
terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con tutti i suoi
diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le volte che gli
piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e proventi della baronia
di Racalmuto quale vero signore e padrone”. “Tenne il figlio Giovanni come
figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo trattava e come tale lo
reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato dagli altri.”. “In
qualità di signore e padrone della predetta terra e padre del signor Giovanni,
piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della terra di Racalmuto nel
mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere redatto solenne testamento
per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della città di Agrigento il 16 del
predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire suo erede universale il detto
magnifico signore Giovanni”.
Nel suo
processo d’investitura si legge che: a
«Johanni de Carrectis» successe «quondam magnificus Hercules, unicus filius
legitimus et naturalis.» ([9])
Crediamo
che il noto giurista operante a Racalmuto, Artale de Tudisco, fosse già al
servizio di Ercole del Carretto. Altro notabile del suo entourage
fu il nobile Alonso de Calderone che così testimonia: «stando ipsu testimonio como uno degli domestichi di lo quondam
magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayalmuto, vidia dicto magnifico regiri
et governari la dicta terra et in quella permutari li officiali et rescotirisi
et fachendosi rescotirj li renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri
et patruni et canuxi lo dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto quondam signuri
Erculi lu Garrecto a lu quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et
reputava per figlio unico et primo genito et da tucti accussi era tenuto,
trattato et reputato; lu quali dicto quondam magnifico Herculi baruni fu mortu
in lo castello di dicta terra et lo presenti lo vitti sepelliri et secondo
intisi dicto magnifico Herculi innanti sua morti fichi testamento.»
Testimoniò
anche certo Francesco Maganero come intimo del defunto barone, così come il
“nobile” Andrea de Milazzo. Personaggi egualmente di risalto furono i “nobili”
Antonino Palumbo, Alfonso de Silvestro e Gaspare Sabia.
Il cennato
processo include anche uno stralcio del testamento di Ercole del Carretto che
qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino:
«E’ da
sapere come fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile Ercole
del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome
del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel
mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello del
magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime
volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché
capo e principio di ogni testamento fu ed è l’istituzione dell’erede
universale, così il detto magnifico e spettabile signor Ercole, testatore,
istituì, fece ed ordinò suo erede universale il magnifico e spettabile signor
D. Giovanni del Carretto, suo figlio legittimo e naturale, nato e procreato da
lui e dalla quondam magnifica e spettabile donna Marchisa del Carretto, un
tempo prima moglie dell’illustre e spettabile testatore sopraddetto.
«E tale
eredità si estende sopra tutti i beni suoi, mobili e stabili, presenti e
futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in ordine a tutti i debitori ovunque
esistenti e meglio individuabili e designati, e principalmente nella baronia,
nei feudi e nei territori di Racalmuto, con tutti i suoi diritti, redditi,
emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta baronia a giusto titolo
spettanti e pertinenti, secondo la serie
ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con
l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei suoi privilegi.
«Dagli atti
miei, notaio Antonino Quaglia agrigentino.
«26 marzo -
VI^ Ind. - 1518.»
Il
testamento ci svela come Ercole del Carretto abbia sposato in prime nozze la
citata Marchisa madre del primogenito Giovanni III. Ercole poté avere contratto
altre nozze ma non ne sappiamo nulla.
Paolo del Carretto
Di quale
madre fosse, ad esempio il terribile Paolo del Carretto, non è dato sapere.
Abbiamo un inghippo che non è facile districare. Alcuni testi dichiarano
Giovanni III del Carretto figlio unico di Ercole (vedi testimonianza del
Tudisco così come del Calderone), ma nel testamento del Quaglia questo aspetto
viene glissato. Supposizioni se ne possono fare tante, ma il dubbio resta. Ed
allora va creduta la rutilante storia che il Di Giovanni ci fornisce, oltre un
secolo dopo, nella rinomata Palermo
restaurata? Siamo propensi ad avvalorare l’ipotesi affermativa. Va qui
allora ricordato che nel 1630 circa quello strano personaggio che fu il
cavaliere Di Giovanni scrisse per sé
secentesche memorie che oggi sono una miniera di notizie. Discendente per via
laterale dai del Carretto e addirittura dal padre di Ercole del Carretto - almeno
a suo dire - confezionò un racconto truculento in cui non è facile distinguere
il loglio dal grano. Investe la Racalmuto dei primi del ‘Cinquecento e noi non
possiamo esimerci dal reiterare quel racconto, quanto bizzarro ed inventato Dio
solo sa.
«Nel tempo che fu Lotrecco [Lautrec] a Napoli
successe in Sicilia lo caso di Barresi, il qual si nota dopo quel di Sciacca. E
fu il predetto caso, che essendo nella città di Castronovo D. Paolo Carretto,
mio avo paterno, uomo di gran valore, e avendo differenza con uno di casa
Barresi, gli diede il Carretto uno schiaffo; onde ne successe fra loro
gravissima inimicizia, in modo che la città si ridusse a parte.
Un giorno volle il Carretto andar a
visitare suo fratello D. Ercole, signor di Racalmuto, e vi andò con 25 cavalli.
Ma saputo ciò per le spie da’ nemici, lo assaltâro alla piana di santo Pietro.
Vide egli da lungi venire i nemici; e potendosi salvare nella chiesa di santo
Pietro, gli parve viltà, e si risolse piuttosto morire, che far gesto di sé
indegno. Si venne tra loro alle mani; ché animosamente il Carretto investì, e
ne morsero dall’una e dall’altra parte.
Ma il Carretto, investendo il suo nemico,
era con un pugnale a levargli la vita, avendolo preso per il petto, quando uno
de’ compagni con una saetta lo percosse in fronte e lo mandò morto a terra.
Satisfatti perciò i nemici, attesero a
salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco [Lautrec] a servire Sua Maestà,
perché erano due fratelli; e gli successe in una giornata di adoperarsi
valorosamente sotto la condotta del conte Borrello, figlio del viceré, perché
mantennero un ponte tutti e due, tanto quanto gli arrivasse il soccorso; dal
che si evitò gran danno, che poteva succedere agl’Imperiali.
Del che fattosene relazione a Sua Maestà,
spedita la guerra, fûro i predetti due fratelli indultati in vita, e fûro fatti
capitani d’armi per il regno.
Sentì gravemente il successo D. Giovanni
Carretto, nepote del predetto D. Paolo; e più per vedersi i nemici, in quel
momento favoriti, stargli innante gli occhi, e perché era di gran valore e
chimera, procurò quello, che non avea procurato il padre D. Ercole.
In quel tempo era nella città di Naro
Enrico Giacchetto, uomo valorosissimo e potente, consobrino di mia ava paterna,
il quale, per avere inimicizia con il barone di Camastra, anco della città di
Naro, manteneva a sue spese cento cavalli, ordinariamente di gente scelta e
valorosa, con li quali faceva allo
spesso gesti eroici e singolari. Di costui ne temeva tutto il regno.
D. Giovanni del Carretto, figlio del
predetto D. Ercole, si fé chiamare il predetto Enrico, che gli era amicissimo,
a cui conferì il suo pensiero, e lo richiese che si volesse adoperare per lui
in satisfarlo di quell’oltraggio.
Gli promise buona opera Enrico; e perché
si sentiva che i Barresi si volevano levar le mogli e le case da Castronovo, e
portarsele alla città di Termine, li appostò Enrico con quaranta cavalli, e,
venendo quelli a passare per il fundaco delle Fiaccate, per quel cammino
assaltò i predetti fratelli con molta compagnia. I quali non prima si videro
Enrico addosso, che sbigottiti si posero a fuggire, e furono finalmente giunti,
presi ed uccisi.
E se ne presero le teste, che furono
portate al predetto D. Giovanni, il quale, benché prevedesse gran travagli di
giustizia, ne fu pure assai satisfatto e contento; tanto si estimava l’onore in
quei tempi.
N’ebbe al fine gran travagli: ma col tempo
ne riuscì con vittoria, grandissimo onore e reputazione.»
“Più
solidità e più stabilità” Eugenio Napoleone Messana (op. cit. pag. 95) pensa
che possa avere il suo congetturare sulla genesi della saga della Madonna del
Monte, quale trasfigurazione dei fatti sopra narrati. Francamente non ce la
sentiamo di seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è visto, che Paolo del
Carretto fosse racalmutese e fosse davvero fratello del barone Ercole.
Probabile invece che una volta conosciuta la
tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del Carretto, nelle prime decadi del
Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la sublimazione della vetusta e pia
memoria della “venuta” di quella adoratissima
immagine marmorea della Madonna del Monte.
Il canto popolare che la
prof.ssa Isabella Martorana ha saputo recuperare dalla viva voce delle locali
vecchiette non è coevo certo alla venuta della Madonna del Monte, ma ha insiti
spunti storici che sia pure postumi meglio rispecchiano la genesi della saga.
Venuta da Trapani - più verosimile che si fosse parlato di Punta Piccola - ,
“intranno a Racarmuto pi la via/ vonzi ristari cca la gran Signura”, sono
scisti con qualche valenza storica. Ma visto che “a lu conti cci arrivà
mmasciata”, il riferimento è decisamente postumo, databile dopo il declinare
del XVI secolo. Il carme dialettale, bello esteticamente, lascia nelle brume
anch’esso l’origine della pia tradizione del miracoloso evento della Madonna
del Monte che sceglie la sua dimora nel nostro paese, in cima alla panoramica
altura della omonima chiesa.
GIOVANNI III DEL CARRETTO
Figura
centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe
portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del
padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia
feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco - di
cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.
Giovanni
III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato della committenza di un
delitto contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta il suo lontano pronipote
Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti
disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo - un uomo religiosissimo,
al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo
notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo
Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva indulgenza verso gli eccessivi
empiti di sperperatrice religiosità del suo assistito in punto di morte,
abbiamo voglia di pensare noi.
Il
Baronio ce lo descrive ovviamente in termini esageratamente elogiativi.
Traducendo dal latino, per quello storico di casa del Carretto: «da Ercole si
ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo
V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di tal che, sia per la
propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i
Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso
Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e 76)
Processo d’investitura di Giovanni del Carretto, ultimo barone di Racalmuto
Sul
citato Giovanni fornisce lumi il processo n.
1175: ([10])
abbiamo avuto già modo di citarlo. Siccome lo riteniamo basilare per la storia
racalmutese del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo, quando occorre, dal
latino.
«N.°
1175 - In Palermo nell’ufficio del
Protonotaro del Regno di Sicilia, sotto la data del 28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
«Memoriale esibito e presentato nell’Ufficio
del Protonotaro del Regno di Sicilia, dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore
del magnifico signore don Giovanni del Carretto, figlio primogenito, legittimo
e naturale, unico ed universale erede del quondam magnifico Ercole del
Carretto, un tempo signore e barone della terra di Racalmuto (Rayalmuti), che
teneva e possedeva la detta terra di Racalmuto con il suo castello e
fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze a seguito della morte del
prefato quondam magnifico Ercole, suo padre.
E tanto per prendere l’investitura della detta baronia
con i suoi diritti e pertinenze sia per la morte del signor nostro Re
Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle maestà
cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi,
quant’anche per la morte del prefato quondam magnifico Ercole del Carretto,
suo padre.
«Innanzitutto, si afferma che il detto quondam
magnifico Ercole del Carretto, padre del detto magnifico don Giovanni, al tempo
della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e possedette la terra di Racalmuto, con il suo castello e
fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando tutti gli
ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico barone
Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e proventi
da vero signore e padrone.
«Del pari, si testimonia che il prefato magnifico
signore Giovanni del Carretto fu ed è figlio primogenito, legittimo e naturale
del detto quondam magnifico Ercole e come tale e per tale lo teneva, trattava e
reputava, così come era dagli altri tenuto, trattato e reputato.
«Del pari, si afferma che il detto quondam
magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della detta terra e
padre del detto magnifico signor Giovanni del Carretto, quando piacque al
Signore, morì e defunse nel castello della predetta terra di Racalmuto, sotto
la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517, lasciando superstite e successore
in detta baronia il detto magnifico quondam Giovanni del Carretto, dello stesso
quondam magnifico Ercole figlio unico, legittimo e naturale, ed avendo prima
redatto testamento solenne in mano del notaio Antonio Quaglia del città di
Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto mese di gennaio, testamento nel
quale venne istituito suo universale erede il detto magnifico signor Giovanni.
«Del pari, si afferma che, morto e defunto il detto
magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del Carretto, quale figlio
legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole, e come successore
legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo procuratore, prese e conseguì l’attuale, reale e corporale possesso della
detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi
diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e
nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in
data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
«Del pari, si afferma che in questo regno di Sicilia
fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re Ferdinando, di
gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno di vita cadde nel mese di
gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima ed a lui successe in tutti
i suoi dominî e regni la serenissima
Regina donna Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché il cattolico ed
invittissimo Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio primogenito e
naturale. Così fu ed è la verità.
«Del pari, si afferma che al fine di prestare il
debito giuramento e l’omaggio della dovuta
fedeltà e del vassallaggio, nonché di ottenere l’investitura della
predetta terra e castello, con tutti i suoi diritti e pertinenze - tanto per la
morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del proprio
padre - seriamente creò ed istituì suo procuratore il magnifico illustre Artale
de Tudisco, come risulta dalla procura agli atti dell’egregio notaio Giovanni
de Malta, in data 26 del presente mese di gennaio VII^ Ind. 1519.
«Testi
ricevuti ed esaminati nell’ufficio del Protonotaro del Regno a richiesta ed
istanza del magnifico don Giovanni del Carretto, figlio legittimo e naturale
del quondam magnifico don Giovanni del Carretto, al fine di prendere
l’investitura della baronia di Racalmuto, tanto per la morte del Re Ferdinando,
di gloriosa memoria, quanto per la morte del magnifico Ercole del Carretto, suo
padre e signore di detta terra.
[...]
«E’ da
sapere come fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile Ercole
del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome
del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel
mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello del
magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime
volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
[ ...]
«A tutti e
singoli i chiamati ad ispezionare seriamente, vedere e leggere il presente atto
pubblico, sia evidente e noto che esso fu redatto da me notaio, con i testimoni infrascritti, presso il castello della terra e baronia di
Racalmuto nel Regno di Sicilia.
« Si è
costituito il magnifico signor Cesare del Carretto quale procuratore del magnifico e spettabile signor don
Giovanni del Carretto, signore e barone della predetta terra e baronia di
Racalmuto, figlio primogenito, legittimo e naturale del magnifico e spettabile quondam signor Ercole del
Carretto, morto di recente nella detta terra e dipartitosi da questa vita
adempiendo tutte le formalità necessarie per conferire alle sue ultime volontà
la totale validità.
«Peraltro,
con pubblico strumento redatto in carta membrana, sono state espletate le
conseguenti formalità in modo solenne
presso la città di Napoli il primo marzo VI^ indizione 1518 per mano del nobile
ed egregio Bartolo Carloni della stessa città di Napoli, abilitato notaio per
tutto il regno di Napoli .
«Di tal che
è stato preso, recepito e tenuto - così
come si prende, si recepisce e si tiene - il naturale, reale e corporale
possesso della predetta terra e baronia di Racalmuto per tatto e tocco delle
chiavi del castello della stessa terra e baronia, nonché della porta e del
cantone dello stesso castello, aprendo e
chiudendo, entrando ed uscendo dal castello ad
libitum senza l’opposizione di alcuno.
«Se ne
attesta quindi il possesso con tutti i singoli relativi diritti e pertinenze. E
se ne redige atto in segno di vera presa del possesso naturale, reale e
corporale della predetta terra e baronia, con tutti i singoli suoi diritti e
pertinenze, acquisendone l’integrità dello stato della stessa terra e baronia
sotto il profilo del dominio, quale configuratosi con le sue spettanze e
pertinenze giusta la forma, la serie ed il contenuto dei privilegi della
ripetuta baronia.
«E
continuando nella presa di possesso, fattane l’acquisizione, il procuratore
mutò e depose nella detta terra gli ufficiali; in essa quindi nominò altri
ufficiali e cioè: innanzitutto istituì e nominò capitano della medesima terra
Nardu lu Nobili; giudice il nobile Scipione lu Carretto; giudice ordinario e militare, il magnifico
signore don Paolo de Mistrectis.
«Del pari,
nominò Giurati: Enrico lu Nobili; Pietro d’Acquisto, Vito Taibi e Andrea Gulpi.
Come Castellano del predetto castello fu chiamato il magnifico signore don
Giovanni Benigno de Tudisco; come Segreto,
il magnifico Silvestro de Urso; come Maestro Notaro il magnifico Gilberto
de Tudisco.
«E per
segno di quanto precede, il predetto procuratore - a tal ultimo titolo - fece
redigere il presente atto pubblico da valere per ogni luogo e tempo.
«Testi: il
magnifico Matteo del Carretto, il magnifico Jo: Artale Tudisco, il magnifico
Teseo de Torres ed il nobile Giacomo de Alletto.
«Dai miei
atti, notaro Antonino Quaglia agrigentino»
«26 gennaio
VII^ Ind. 1519
«Il
magnifico don Giovanni del Carretto, barone e signore della terra di Racalmuto,
presente innanzi a noi, spontaneamente - con
ogni miglior modo e forma con cui più preclarmente può essere detto e
fatto - costituì, scelse, creò e solennemente nominò come suo vero ed
indubitato procuratore, attore, nunzio speciale il magnifico Giovanni Artale
Todisco.
«Questi,
presente ed accettando l’onere della infrascritta procura del tutto
volontariamente, compare a nome e per conto
e parte del predetto magnifico costituente dinanzi l’ill. signor
Viceré per prendere l’investitura della
terra e baronia con relativo castello di Racalmuto, nell’integrità del suo
stato e nella pienezza dei suoi diritti e pertinenze, sia per la morte di Re
Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle invittissime
cattoliche maestà, la regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri
invittissimi, e sia per la morte del quondam magnifico Ercole del Carretto, il
di lui padre.
«Al
contempo, il procuratore, in nome e per parte del predetto magnifico mandante,
si presenta per prestare il giuramento e rendere l’omaggio di debita fedeltà e
vassallaggio nelle mani dell’illustre e potente signore viceré, nonché per
svolgere quant’altro occorra per prendere la predetta investitura, non mancando
il detto magnifico mandante di obbligarsi
sotto vincolo di ipoteca etc. Così
giurò etc.
« Testi:
nobile Pietro Pasta e magnifico Vito Paladello.»
Da questo
processo, che - pur nella sua contorsione - è il meno complesso dei processi
d’investitura dei del Carretto, emergono alcuni istituti molto peculiari del
diritto feudale della nostra terra di Racalmuto:
1. Diritto dei
baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue vescovo
di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi
paladino di un omicida, il chierico
Jacobo Vella.
2. Diritto alla destituzione e nomina di tutte le
cariche, civili e militari, di Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i
Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i Fanara, i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i
Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo possibilità di
farsi apprezzare dagli stravaganti baroni di Racalmuto: ne diventano fiduciari;
spesso si arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono nella
fertile terra del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta
tuttora, ma senza più il ruolo di profittatori del regime.
3. Non emerge ancora un chiaro affermarsi del
diritto al terraggio ed al terraggiolo [prestazioni in natura da
parte dei coltivatori delle terre del barone, nel primo caso, e fuori la
baronia, nel secondo - stando almeno alla volgarizzazione della fine del Settecento].
4. Il mero
e misto imperio dei baroni fa
capolino nel Cinquecento, ma piuttosto tardivamente.
Giovanni
III del Carretto eredita la boronia di Racalmuto qualche tempo prima
dell’iniziale investitura; alla morte del padre Ercole e cioè il 27 gennaio (o
un paio di giorni dopo) del 1517. Il 16 marzo di quell’anno il neo barone manda
come suo procuratore Cesare del Carretto per la formale acquisizione della
baronia. Il relativo atto viene stilato
con rogito del notaio Bartolo Carloni di Napoli in data 1° marzo 1518. Il
successivo 26 gennaio 1518 nomina procuratore il già detto Giovanni Artale
Tudisco per gli adempimenti presso la curia vicereale di Palermo. L’investitura
risulta definita il 31 gennaio del 1519. “Fiat investitura” la nota finale del
processo. In una ricostruzione del 1558 si dice che Giovanni fu costretto
all’investitura “per la morte del cattolico ed invittissimo re Ferdinando di
gloriosa memoria e per la successione delle cattoliche maestà la regina
Giovanna ed il re Carlo”. Adempimenti che comportavano aggravi fiscali in prima
battuta per il barone, ma per ricaduta sui malcapitati nostri compaesani del
‘500. E poi si vuol far credere che i grandi eventi della storia non avessero
incidenza sulla villica popolazione racalmutese!
Secondo processo d’investitura di Giovanni III del Carretto
Ma
non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è costretto a rifare il
giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta un diploma rilasciato a
Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il
2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente
in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia
lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita media di quel tempo.
Ebbe
a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui
sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel
testamento.
Nulla
ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni
III: quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà
fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di
“paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Nel
1375 la terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui si possono attribuire
non più di n.° 500 abitanti, elevabili a
600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du Mazel,
inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in cambio
della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due chiese,
fragili e malandate.
In
piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose erano notevolmente
cambiate a Racalmuto: la popolazione si era enormemente accresciuta.
Abbiamo
pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento racalmutese dati e note sul
censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era barone già da 31 anni - che
sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
|
Ceti paganti
|
ceti esenti
|
evasori
|
totali
|
N.° Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti (fuochi *
3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3.479
|
Dai
1600 del 1505 ai quasi 3500 abitanti del 1548 il salto era stato rimarchevole:
non poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di
Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da
preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche
mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano
stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi
e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio,
Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra
la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere
del Monte o montis comprendente
l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era
tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se
poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo
(o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione
avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa,
Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo
(quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare
balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il
particolare al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte
angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello
ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di
Vita.
Il quadro della vita religiosa
racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un
vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse
per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli
visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva
considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone
non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna
si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In
tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione
dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno
nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello
delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come
associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole
sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo,
dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziarie e
monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a
potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in
affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per
costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento
che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono
corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il
prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano
spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i
preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo
bisogna loro “stuccarici li rini”
beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso
per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti
non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore
laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il
vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del
1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi
sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti
all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno
pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del
vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura
sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro
Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le
visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione
sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in
sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di
allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e
San Giuliano. [11] Tre
anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte
del vescovo in persona, che vi si recò
il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e
viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[12]
Al centro della locale
comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’
originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico
agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però,
se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché
l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono
alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis
Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est
assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo
ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto
l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex
disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario
in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un
tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo
per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam ..
contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte
terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti
et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum
singulo anno”.)
Nella visita del 1540
era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella
misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di
16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La
popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto
lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890
fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di
indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto
elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel
1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di
Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha
decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in
circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni
capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in
statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di
una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime
suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il
fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse
soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie,
l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli
dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e
dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex
administratione cure”).
[4] ) Leonardo Sciascia, Quel che Voltaire si è perso, in Gli amici della Noce, Milano 1997, p. 36-39.
[5] ) Giuseppe Nalbone e
Calogero Taverna, Racalmuto in Microsoft
- dattiloscritto 1995 c/o Biblioteca Comunale di Racalmuto.
[6]) Leonardo Sciascia, Le
parrocchie di Regalpetra - Morte
dell’Inquisitore - Laterza Bari 1982 pag. 82 e pag. 83.
[8] ) Archivio Vescovile di
Agrigento - Registro Vescovi 1686 - f. 785.
[9]) Archivio di Stato di
Palermo - Protonotaro Regno - Investiture - busta 1487 processo n.° 1175 - anno
1518-21 (Foto 13/b del retro infra pubblicata).
[10]) Archivio di Stato di
Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE -
BUSTA 1487 - PROCESSO n.° 1175 - ANNO 1518-21
[12]) Cfr. «LA VISITA
PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» -
tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli
Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982.
Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI
AGRIGENTO - "GIULIANA" -
VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.
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