domenica 14 settembre 2014

arriva la civiltà araba a Racalmuto

ARRIVA LA CIVILTA’ ARABA
 
Con gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né vestigia archeologiche, né testimonianze scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è, appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che di arabo Racalmuto non ha nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi - a partire dal nome del paese - o l’etimologie arabe dei vari lemmi della parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione saracena o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni  arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi di meri vaneggiamenti, di fole senza fondamento, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti ribellistici degli sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva 1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore di Rahal-Almut, AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([1]) Ma l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la «tentazione  dell’accensione visionaria, fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso». E del resto lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra.» E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo  (v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, ribadisce, come abbiamo visto quella diceria. Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto va asserendo Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto ebbe a sostenere Tinebra Martorana (v. pagg. 33 e segg.). Comprensibile, quindi, se ancor oggi su Internet, compulsando i siti a carico della collettività, siamo tenuti a credere:
 
 Nell'827 d.C. sulle rovine di Casalvecchio, i saraceni che avevano conquistato gran parte della Sicilia, edificarono Rahal-Maut. Sotto il dominio arabo Racalmuto progredì rapidamente, s'intensificò l'agricoltura mentre le miniere di zolfo e le saline diedero un impulso maggiore al commercio della città. Nel 1038 Racalmuto fu conquistata dal generale bizantino Maniace e nel forte di Minsciar (l'attuale Castelluccio), sventolò per quattro anni la bandiera di Costantinopoli.
 
Se quanto abbiamo sinora dibattuto ha una qualche attendibilità, queste chiose di pretesa storia locale rasentano stadi di demente visionarietà – ben diversa da quella romantica, alla Sciascia – e attestano solo lo sperpero del pubblico denaro. Il generale Maniace che sta a fare sventolare il vessillo bizantino al Castelluccio (la cui esistenza in quel tempo si dà per certa, ed il cui toponomo è mutuato dall’Edrisi di oltre un secolo dopo), dovrebbe destare beffardo sorriso, se il parto letterario non fosse a carico del contribuente: le miniere di zolfo e le saline – attive e proficue dall’IX al XI secolo, non ci vien detto in quale landa racalmutese – sono presenze che sconvolgono ogni attuale conoscenza storica.
 
Sciascia, purtroppo, è drastico nell’assegnare il toponimo Rahal-Maut al locale Ottocento arabo: ne lima scaramanticamente la portata funerea; il richiamo agli inferi, sotteso al “Paese dei morti”, si stempera nel più attendibile “paese distrutto dalla peste”. Invero Racalmuto ebbe consuetudine con le epidemie: «a peste fame et bello, libera nos Domine» era litania cantilenata nei millenni, con accoramento, con atavico terrore contadino. Erano davvero malanni con cui si doveva avere familiarità.
 
I nostri excursus storici sono contrappuntati di desolazioni endemiche. Peste nel IV secolo, peste nel 1355, morte e sgomento per peste dal 1374 al 1375, tentativo di sfruttare l’epidemia del 1576 per pietire qualche sgravio fiscale; famigerata fu quella del 1624 ove si prodigò il medico racalmutese Marco Antonio Alaimo; contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo;  e fu iattura per tanti versi: da quella economica a quella sociale; da quella dell’umano vivere a quella del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; d. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; un temendo cataclisma era stato il colera del 1837. Un fraticello del Convento di S. Francesco ci ha lasciato questa agghiacciante testimonianza [2]: «Nell’anno 1837: mese di agosto vi fù il colera e in questa di Racalmuto morirono circa mille persone e furono sepolte nella sepoltura di Santo Alberto al Carmine, all’Anima Santa del Caliato, in Santa Maria di Gesù e porzione in San Francesco; Monte San Giuseppe e in altre chiese, cioè persone particolari; poi nella nostra sepoltura grande vi è sepolto il paroco don Antonino Grillo, che morì a 25 agosto 1827 ed altre persone riguardevoli.» Alla fine del XIX secolo altra morìa endemica, e per sovrappiù la “spagnola” nel 1919.
 
 
Se Sciascia, dunque, si concede la licenza storica di fari derivare il toponimo del apese da un’impressionante peste, ha le sue brave ragioni letterarie. E come tali, finiamo per accettarle e rispettarle. Ma non sono verità storiche né narrabili né adombrabili.
Il toponimo si diffonde in Sicilia nel 1178 e riguarda una località, che, sia chiaro, nulla ha a che fare con Racalmuto e che riguarda addirittura la lontana Polizzi Generosa.
Racalmuto si affaccia alla storia documentata con un plateale falso, quello confezionato dal celebre abate Vella, di cui al Consiglio d'Egitto del grande Sciascia . Quell'ingegnoso falsario propina a Mons. Airoldi questa pagina su Racalmuto, che, a nostro avviso, non era a quel tempo neppure sorto:
«O mio Padrone Grande assai, il servo della sua grandezza con la faccia per terra le bacia le mani e le dice che l'Emir di Giurgenta mi ha ordinato che avessi a numerare la popolazione di Rahal-Almut e dopo dovessi scrivere alla sua Grandezza una lettera e mandarla a Palermo. Ho numerato tutti ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502 figliuole. Tutti questi fanciulli sia Musulmani che Cristiani sono sotto i 15 anni. Onde con la faccia per terra le bacio le mani e mi sottoscrivo così:
Il Governatore di Rahal-Almut: AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell'Emir
ELIHIR DI SICILIA.
24 del mese Regina (gennaio) 385 di Maometto (che corrisponde all'anno 998 dell'era cristiana)».
 
L'Abate Vella, evidentemente, era a conoscenza delle particolari attenzioni che mons. Airoldi dedicava in quel tempo alle rilevazioni statistiche della Sicilia Araba. Cercò, così, di assecondarlo. Resta, però, il fatto che il monsignore - fattosi avveduto dopo le note vicende giudiziarie del suo protetto - espurgò dai sui appunti di statistica demografica quell'accenno alla popolazione araba di Racalmuto. Di Rahal-Almut non troviamo infatti alcun cenno nelle serie demografiche dell'Airoldi pubblicate, nell'Ottocento, dal Ferrara, il noto economista siciliano.
 
Non così, invece, il nostro Tinebra Martorana che riporta integralmente la ghiotta pagina di pretesa storia locale. A dire il vero egli avverte, sia pure in nota[3] e con qualche astuzia linguistica, che trattasi di un falso. Ma forse ebbe a pensare che anche i falsi un qualche fondamento storico ce l'hanno pur sempre, e tanto valeva richiamarli. Si dava, purtroppo, il caso che nella circostanza il falso era totalmente falso ed anziché fornire un qualche lume, finiva con il far sviare del tutto dalla ricostruzione storica di un periodo racalmutese fra i più oscuri (e più chiacchierati, forse appunto perché oscuri).
 
Leonardo Sciascia sembra aver dato credito, in un primo momento, al falso dell'abate Vella e nelle Parrocchie di Regalpetra, Racalmuto  figura esistente sin dal 998 «.. anno .. dell'era cristiana [in cui] il governatore arabo di Regalpetra scriveva all'emiro di Palermo  "ho numerato tutti ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502 figliuole"» . Ma, già nella Morte dell'Inquisitore, l'abbaglio viene emendato ed il dato demografico scartato. Al tempo poi della elaborazione del magistrale "Il Consiglio d'Egitto" lo scrittore conosce intus et in cute il grande imbroglio dell'intraprendente abate maltese. Rimembra il lapsus delle "Parrocchie" ed in fondo in fondo gliene dispiace. Si spiega così l’acre rimbrotto[4] che rivolge al suo - tutto sommato - apprezzato Tinebra Martorana, che suona un po’ falso, visto che la ripubblicazione delle "Memorie" del Tinebra l'aveva voluta proprio Sciascia.
 
Chi scrive, dal canto suo, è propenso a ritenere che bisogna risalire al tardo 1271 per avere il primo documento certo dell'esistenza storica di Racalmuto. Tutto quello che precede è frutto o di fantasia o di imbroglio - letterario o storico, poco importa - o di campanilismo visionario. Tutta la faccenda dell'etimo arabo di Racalmuto si tinge di bizzarria intellettualistica. Iniziarono certi araldisti del Seicento e da ultimo ci si è messo pure uno specialista di assoluto valore, il Pellegrini[5], che propina un Racalmuto equivalente a "Paese del Moggio".
 
E nel primo documento disponibile - quello appunto del 1271, che si conservava negli archivi angioini di Napoli - Racalmuto viene trascritto, quanto correttamente non si sa , come RACHAL CHAMUT. A questa trascrizione qui ci si aggancia per affermare che se un senso ha il toponimo "Racalmuto" questo non può allontanarsi di molto dal significato di "Fortezza di Chamuth". Come voleva il padre Parisi, e come affermava lo storico Garufi.
Il più antico documento ove viene menzionata una località denominata Rahal-kamuth risale – come si disse – al 1178: stilato in greco, fu pubblicato nel 1868 dal grande paleologo siciliano Salvatore Cusa. [6] 
Vi si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un fondo sito in   RAHALHAMMUT, per il prezzo di 50 ta­rì. A venderlo, nel settembre di quell'anno, fu tale Pietro di Ni­cola Gudelo, insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola. Il toponimo  Rachal Chammoùt  ((((((rakal kammou/t) figura naturalmente scritto in greco e la vendita del terreno viene fatta al monastero di S. Maria di Gadera, sito nei pressi di Polizzi Generosa.
 
Il rimarchevole diploma  del 1178  ha suscitato un particolare interesse in Garufi, un grande storico cui fa ricorso Sciascia nella Morte dell’inquisitore, il quale sembra opinare che il toponimo sia da riferire a Racalmuto, e così argomenta: [7] «soggiungo che l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i  g a i t i  testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».    
L'autorevole storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non raccolse la tesi su Racalmuto Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici come il Bresc o arabisti come il Pellegrini (come si è visto prima). Noi abbiamo tentato di confrontare questo documento con una sua copia in latino riportata e studiata dal Di Giovanni[8], e francamente siamo rimasti molto dubbiosi sulla fondatezza della tesi del Garufi.
Non si riferisca pure a Racalmuto, il documento, tuttavia, illumina sui processi di colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E tanto potrebbe giovare all'ipotesi di un insediamento benedettino a Racalmuto, come vorrebbe ad esempio il Pirri.[9] Sinora, La storia di Racalmuto resta purtroppo vincolata all'opera giovanile di Tinebra Martorana. I tanti tentativi posteriori non hanno per il momento, a dir poco, avuto presa sull'intellettuale collettivo del paese. Molto ha contribuito Sciascia nel rendere incorrodibile quel libretto di storia locale: il substrato che ne ha fatto per i lavori a dichiarato sfondo racalmutese (Le Parrocchie di Regapetra e Morte dell'Inquisitore) lega il nome del al dire del Tinebra, sublimato dal paradigma letterario sciasciano; la splendida prefazione scritta nel 1982 diffonde un'autorevolezza spropositata sulla fatica giovanile di quel medico racalmutese. Parole, come queste, risuoneranno magiche ed imperative in tempi futuri anche non prossimi: «Il libro [quello del Tinebra Martorana], per i racalmutesi, per me racalmutese, va bene così com'è: col gusto e col sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l'autore, con l'aura romantica ed un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro l'acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»[10]
 
 
 
 
I Normanni a Racalmuto
 
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi  due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristianesimo.
Ma chi erano questi normanni?
Il giudizio storico moderno resta ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal giogo infede­le hanno avuto il possente encomio della letteratura confessionale. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Rugge­ro ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indif­ferenza, patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche spregiudicato religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa ortodossa.» ([11])
L'Amari, si è visto, parteggia per gli arabi ed avversa i norman­ni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per la poderosa personalità di Ruggero II.  Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith nella sua Storia della Sicilia Medievale e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mer­canti, rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i cristiani greci dell'Italia meridionale; e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici». Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata edificata una famosa dina­stia». ([12])
 
*   *   *
Che cosa ne è stato della Sicilia musulmana? di Racalmuto sarace­na? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti arabo-siculi.» ([13])
*   *   *
Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo, sembrò sottrarsi  sia  al fenomeno  normanno del feudalesimo sia a quello  accentratore  e demaniale  dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò qualche tempo dopo.  Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti  all'agricoltura ed  abili nelle colture arboree e negli ortaggi.  Per quello che diremo dopo, il nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati.» ([14])
Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità. ([15])
 
 Del resto in Sicilia, mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad operare.  La religione cristiana di rito latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
 
Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni.  Si rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture ecclesiastiche.  Le sole in grado di  coordinare  le manifestazioni di pratiche religiose e quindi di vita  quotidiana della gente e di riconfermare e rendere operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che affidava un ruolo di  protagonista  agli Altavilla  e  rappresentava  un dato  strutturale  della  società normanna.» ([16])
Ruggero non ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa latino.  Le preoccupazioni politiche erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di fiducia, allogeni,  chiamati  dalla natia Normandia,  fu  - ripetiamo - il  taglio adottato  da  Ruggero nella instaurazione della Chiesa  di  Roma nelle  terre  della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovadi di Troina, Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero.  Dubitiamo persino che ebbe notizia  di  essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata al  vescovo  francese Gerlando. Nell'anno 1092, [17] dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna, giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando.  I confini della diocesi sarebbero stati definiti  da  Ruggero  in persona. Il documento, in latino ([18]), può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene chiamato  GERLANDO. Assegno alla sua giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di Corleone fin su Pietra  di  Zineth [Pietralonga];  indi  sino ai confini di Iatina [Iato]  e  Cefala [Cefaladiana]  e quindi ai limiti di Vicari; indi fino  al  fiume Salso,  che  costituisce il discrimine tra Palermo e  Termine,  e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa diocesi  lungo  il mare sino al fiume Torto; e da  qui,  da  dove sorge,  si  estende verso Pira, sotto Petralia;  quindi  sino  al monte  alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso, nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia  e da questo punto i confini della diocesi seguono  il  corso del fiume Salso sino a Limpiade (Licata). Questa località divide Agrigento  da  Butera.  Lungo la costa i  confini  della  diocesi corrono dal Licata sino al fiume Belice, che costituisce i confini  con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia  la delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»
 
Se  il lettore è stato paziente nel seguire il zig zag dei  confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al  di  qua  del Salso,  venne in quella bolla assegnato a GERLANDO, un  vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne  descritto dalla pur tardiva storiografia  secondo  il consunto steriotipo di uomo  di  nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto.   Tale  versione risale al secentesco Pirro ed il Picone la  riecheggia con questi tratti descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato  in  Besansone, città della Borgogna,  di  copiosa  dottrina fornito,  eruditissimo nelle chiesastiche discipline ed  eloquentissimo,  trasse alla fede gran numero di Ebrei e  di  Musulmani.[p. 454]»
 I padri bollandisti ci appaiono più  circospetti. In base alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono  che Gerlando fosse il gran cappellano del  conte  Ruggero, carica  che  fu  di GEROLDO, e quanto al resto  si  rifanno  alle postume  storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che riguardano il  vescovo  Gerlando, sono postumi e  secondo  l'ultima  critica paleografica del COLLURA risalgono per lo meno alla seconda  metà del  sec. XII. Quattro tra i primi sei più antichi documenti  della Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e  sulla sua esistenza storica non sembra lecito  nutrire  dubbi.
Il  personaggio non  è dunque inventato e questo è già molto.   E il  vescovo  ebbe subito fama di santità, come può  arguirsi  dal Libellus  custodito nell’Archivio Capitolare ove si  parla dell'anima  benedetta del beato Gerlando che,  discioltasi  dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da  secoli arabo  e solo arabo. Forse residuava un uso del greco  nei  ceppi antichi più tenaci.  Questo vescovo borgognone che chissà  quale  lingua parlava (pensiamo a quella natìa di Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, e, di certo, per lui,  incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi  furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.   
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo normanno in  mezzo ai saraceni dell'agrigentino un nucleo di  verità  deve pur esservi: forse Gerlando ebbe qualche successo nello stabilire un  certo  colloquio con i potentati locali di lingua  araba.  In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati  poliglotti  che poterono stabilire alcuni contatti, specie di  natura diplomatica e notarile. Di certo Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio  Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24  dicembre 1092) - una falsificazione  in  forma originale, secondo il Collura  -  accenna  a nobilati  francesi già presenti in Agrigento, a  concanonici  che officiano  in una chiesa dedicata a S. Maria, a parenti  francesi da  beneficiare con diciassette villani, due paia di buoi  ed  un cavallo.  Su  tutto  vigila il vescovo Gerlando,  mandato  da  un Rogerius  che  ci avrebbe redento da 'demonicis ...  ritibus'  da riti  demoniaci (che pure era la grande religione di Allah).   Emerge il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale,  invero, Petrus Maurituniacus). Vi  è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con una gamma  greca nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente, a  colpirci, è il richiamo allo  strumento  giuridico  del privilegium che  viene firmato in presenza di testi e davanti  ad un vero e proprio notaio 'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il suo consiglio viene giudicato 'justus'.  Francesi, notai, prebende  ecclesiastiche, canonici,  vescovi probi ed assennati, ma anche interessati  alle cose  terrene,  tutto  il mondo  della  burocrazia  ecclesiastica romana  vi traspare, ed era passato appena un  quinquennio  dalla conquista  normanna sui saraceni, che ora sono, come si è visto,  villani, schiavi ed oggetto di pii legati.
 


[1]) Nicolò Tinebra Martorana: Racalmuto - memorie e tradizioni - Palermo 1982, pp.  35 e ss.
[2] ) Archivio di Stato di Agrigento - Convento de’Minori sotto Titolo di S. Francesco d’Assisi - Inventario n.° 46 fascicolo n.° 531 - “Libro vestiario”
[3]) NICOLO' TINEBRA MARTORANA - RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI . ASSESSORATO AI BENI CULTURALI DEL COMUNE DI RACALMUTO 1982. A pag. 36 si può leggere questa rivelatrice nota: «Codice diplomatico arabo - Torino  3°, p. 1, f - Si dubita però della autenticità di quel Codice, perché il suo autore è stato condannato per falsità».
[4]) Nel licenziare l'opera del Tinebra, Sciascia sembra più interessato ai valori letterari del libro di quel ventenne studente in medicina che alle risultanze della ricerca storica. Il Tinebra Martorana avrebbe, secondo Leonardo Sciascia (cfr. pag. 8), cercato  «.. di non ignorare tutto quello che, in opere di storia generale e locale, riguardasse Racalmuto: ma sentiva fortemente la tentazione dell'accensione visionaria, fantastica. Ne è spia di questa tentazione alla visionarietà, alla fantasia, il suo non resistere  al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso: ed è la letteradel governatore arabo di Racalmuto (Rahal-Almut) all'Emiro di Palermo, fabbricata, come tutto il codice che la contiene, dal famoso Giuseppe Vella: un personaggio di cui ho raccontato ascesa e caduta nel Consiglio d'Egitto. E voglio confessare che anch'io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocche di Regalpetra. Solo che Tinebra Martorana, facendo storia, aveva minore libertà di quanto io ne avessi, e perciò quella sua strana, per un libro di stora, nota : "Si dubita però dell'autenticità di quel Codice, perché il suo autore è stato condannato per falsità". Altro che dubitare: se ne era , nel 1897, certissimi.»
[5]) Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici italiani - UTET 1990. Racalmuto - vi si legge - "deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale' del Mudd <latino modium 'Moggio' ". "Paisi di lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino Monte Formaggio di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suonasse simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi.
[6] ) Salvatore Cusa,  I di­plomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo 1868, pag. 657-658 e pag. 729.
[7]) Cfr.  CARLO ALBERTO GARUFI, 'PATTI AGRARI E COMUNI FEU­DALI DI NUOVA FONDAZIONE IN SICILIA' in ARCHIVIO STORICO SICILIANO, anno 1947, parte II dell'articolo,  pag. 34.
[8]) ARCHIVIO STORICO SICILIANO - 1880: Memorie Originali - Vincenzo di Giovanni: Il Monastero di S. Maria la Gàdera  poi Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e segg.
[9]) Il compianto padre Calogero Salvo ha invero demolito da ultimo una siffatta ipotesi.
[10]) Cfr. Prefazione in NICOLO' TINEBRA MARTORANA - RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI . ASSESSORATO AI BENI CULTURALI DEL COMUNE DI RACALMUTO 1982,  pag. 9.
[11]) Benedetto Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari 1947, 9^ ed. pag. 71.
[12]) Denis Mack SMITH, Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza Bari 1973, vol. I pag. 21. Questo libro e il suo autore furono cari a Leonardo SCIASCIA. La gelosia degli storici siciliani fu persino pateti­ca. Ecco, ad esempio, casa pubblica Santi CORRENTI a pag. 29 della sua Storia di Sicilia come storia del popolo siciliano, Longanesi Milano 1982 «...a lodare il Mack Smith per il suo 'stile provocatorio' rimase il solo Leonardo Sciascia, che però si rifece clamorosamente, facendo decretare al suo amico inglese gli onori del trionfo, in una speciale manifestazione organizzata a Palermo il 6 aprile 1970,  niente meno che al palazzo dei Normanni: onore mai concesso a nessuno storico, e assolutamente sproporzionato al merito dell'o­pera (e il primo a stupirsene fu lo stesso Mack Smith).» Secondo il Correnti, anche Francesco Brancato, Giuseppe Giarrizzo, Gaetano Falzone, Francesco Giunta, ed altri, avrebbero storto la bocca di fronte alla storia siciliana dell'inglese Smith. La quale, invece, è oggi universalmente cosiderata un classico, come tante altre opere dello storico inglese.
 
[13] ) Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, Mondatori Milano 1979, p. 12. E potremmo citare “Occhio di Capra” ove l’arabismo scasciano plana addirittura nell’onirico.
[14])  EDRISI, Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo,  libro I, pag. 94 in Biblioteca Arabo-Sicula, a cura di Michele  Amari,  Roma 1880.
 
[15]) «Un problema complesso e contraddittorio», le cui fonti sono giunte a noi in copie del XVII e XVIII secolo. S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, op. cit. pag. 543.
[16]) S. Tramontana, "La monarchia normanna e sveva", op. cit. pag. 541.
 
[17]) Secondo  i  BOLLANDISTI [ACTA SANCTORUM BOLLANDISTORUM, collegerunt ac  digesserunt  Joannes  BULLANDUS, Godefridus HENSCHENIUS, Societatis Jesu Theologi - "De S. GERLANDO - Episcopo Agrigentino in Sicilia",  addì 25 febbraio, tomo III, Antuerpiae, apud Iacobum Meursium, 1658 p. 590 ss.] -  autori secondo il COLLURA [op.cit.  p. XI] della "migliore dissertazione su S. Gerlando" - il primo vescovo di Agrigento  post saraceno potè  essere  consacrato  dallo stesso pontefice Urbano II nello stesso anno in cui questi  salì  al  soglio pontificio  (12 marzo 1088). Ma è congettura che viene avanzata solo sulla base di un'asserzione  del  PIRRO che  vuole Gerlando consacrato da Urbano II "ex pontificio diplomate". L'assegnazione dei confini  diocesani da parte di Ruggero è però del successivo 1093. Al 1092, il COLLURA - sulla base anche del primo  documento capitolare di Agrigento - fa risalire l'inizio dell'episcopato di Gerlando. Peraltro, un documento -  Libellus, c. 18B - afferma: «complens duodecim annis beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino  vicesimo quinto die mensis februarii [1104]». Il conto con il 1092 dunque torna. Ed il primo documento  dell'archivio di Agrigento porta la data appunto del 1092. [Puntuali, come sempre, le notizie e le note critiche in proposito  del Collura, op. cit., p. XI e p. 3]. Il PICONE parla del 1090 [op. cit. p. 823], ma  incidentalmente e senza alcun supporto critico.  
 
[18])  «Ego Rugerius ... in conquisita Sicilia episcopales ecclesias ordinavi, quarum una est Agrigentina Ecclesia, cuius  episcopus vocatur GERLANDUS , cui in parochiam assigno quicquid intra fines  subscriptos  continetur, [  ... ], videlicet, a loco ubi oritur flumen de subtus Corilionem, usque desuper petram de Zineth, et  inde tenditur  per  divisiones Iatinae et Cephalae, et deinde ad divisiones Bichare; inde vero  usque  ad  flumen Salsum,  quod est divisio Panormi et Therme, et ab ore huius fluminis, ubi cadit in mare,  protenditur  haec parochia  de  iuxta mare usque ad flumen Tortum, et ab hoc, ab inde ubi oritur, tenditur ad Pira  de  subtus Petram Heliae, atque inde ad altum montem, qui est supra Pira; inde autem ad flumen Salsum ubi iungitur  cum flumine  Petra Helie, et ex hoc flumine sicut ipsum descendit ad Limpiadum, qui locus dividit Agrigentum  et Butheriam; atque inde per maritimum usque ad flumen de Belith, quod est divisio Mazariae, et aduch  tenditur sicut  hoc flumen currit usque de subtus Corilionem , ubi incepit divisio, exceptis Bichara et Corilione  et Termis.»
 Questo documento è pubblicato sub 2)  dal Collura, ["Le più antiche carte ...", op. cit. p. 7-18], ed è sottoposto ad una esegesi molto accurata. Del resto trattasi del diploma fondamentale della Chiesa  agrigentina normanna. Noto al Fazello, fu ripreso dal Pirro [I, p. 695 A-B] e se ne occuparono STARABBA, LA MANTIA, GARUFI, PICONE, RUSSO, BERNARDO, FULCI, PUNTURO, SALVIOLI, WINKELMANN, LAURICELLA, KEHR, CASPAR [v. Collura, op.  cit., p. 7]. Il documento edito dal Collura viene considerato "una copia incompleta della seconda  metà del XII secolo. Altre copie, ma tardive, dell'intero diploma si conservano in Palermo, Archivio di Stato, in 'Prelatiae  Regni',  I,  codice n. 54, CC.109A-110A [I], redatta il 10 febbraio 1509, ed  in  'Liber  Regiae Monarchiae Regni Siciliae', I, codice n. 56, cc. 49A-51A [L], redatta il 3 gennaio 1555 (apografo del  1770; l'originale è conservato nell'Archivio di Stato di Torino)" [op. cit. p. 7].
Il  FAZELLO, il religioso di Sciacca nato nel 1498 e morto nel 1570, fu il primo a scrivere su questo  documento [Tommaso FAZELLO, "Storia di Sicilia, Deghe due", Palermo 1830, tomo II p. 86]. I padri bollandisti si avvalsero  dell'opera del Fazello, ma ancor di più di quella del Pirro, per la loro dissertazione sul  documento  e su S. Gerlando [cfr. Acta Sanctorum Bollandistorum, op. cit., p. 590 e ss.]. Anche il  Picone  [op. cit. appendice I] riporta il testo con note critiche, ma copia pedissequamente dal Pirro. Il quale [ Sicilia sacra,  t. I, p. 695 e 696],  non ha sottomano i documenti originali di Agrigento e si avvale di corrispondenti locali.
Considerano autentico il documento WINKELMANN, LAURICELLA, KEBER, CASPAR, GARUFI, JORDAN e SCADUTO; sono per la falsità: BERNARDO, FULCI, STARABBA, PUNTURO e SALVIOLI.
Nell'opera del Netino può leggersi, anche, la Bolla di papa Urbano II di ratifica, del 10  ottobre del 1098.
Il  Pirro  utilizzò il diploma agrigentino, donde tutti gli altri editori tra cui il MANSI,  il  CARUSO,  il PICONE, il RUSSO e il PUNTURO [Collura, op. cit., p. 21]. Nel 1960 il documento viene edito criticamente dal Collura [op. cit. doc. n. 5, p. 21-24], secondo il quale "nel complesso il testo della bolla è sincero".
 

Nessun commento: