Nell’Agosto del 1282 Pietro
d’Aragona sbarca in Sicilia con quel misto di albagia spagnola e di «avara
povertà di Catalogna»: a Racalmuto - come detto - giunge la prima stangata
fiscale datata “Palermo 10 settembre”; il nuovo re esige subito che si paghi
per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto
la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola inviando al
nostro periferico casale un resoconto delle sue recenti imprese. Siamo sicuri
che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava nulla di sapere:
«Doc.
X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. [1]
Re Pietro dopo aver enumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uomini tutti di
Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di
Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per
terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea,
eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci,
vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti
i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lancieri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22
Settembre al più tardi.
«Simili
lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume Salso.»
«[......]
Item et infra fuit scriptum eodem modo videlicet.
«
[...] [2]
Burgio, Sacca, Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo,
Calatanixerio, Rahalmut [corsivo
ns.], Mulotea, Sutera, Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto
Angilo, Raya, Busaxemo [Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»
Nel
successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato - unitamente ad
altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe approntare altri
quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da Messina il giorno
26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai giudici ed a tutti
gli uomini Rakalmuti. Perché mai
questa resipiscenza? Evidentemente, la base imponibile che era stata calcolata
a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi
tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una
tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20
fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla guerra
che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro
l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti
racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380
(calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile
consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta,
bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e
quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri:
una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una
maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione
stimata di circa 456.
Re
Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si rivolge ai
racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto aspettato suo
arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che quindi
potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus.
«Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti
burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia iuramenta” della debita fedeltà e dell’omaggio al re.
Nomini i suoi “sindici” e si inviino davanti al cospetto della “celsitudine”
regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché
annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri, arcieri, uomini armati di tutto punto, di
scudi o di altri tipi d’armatura e «vengano presso di noi Re Pietro in quel di
Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo
mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disubbidisce, incapperà nella
nostra reale indignazione.»
Non
v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei siciliani del
1282 dinanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i letterati, ci
risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento. Neppure Tommasi
di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra farne accenno
sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia, appena
“descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte
della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara
povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a
volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.» [3]
E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che davvero avvenne,
per quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto
“narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.
Chi
spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni furono
prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma pericolo per la vita
e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per strade
impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?
C’è
da pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa al suo
della campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà tradotto la
missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si era autoproclamato Baiulo
e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il farmacista-medico - che lo
affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano di giumente - avranno
dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella lontano Randazzo. Con la
ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del 7 agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto:
1282-1300 ca.
Ne
siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un
ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di
una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la
cosa si risolse in una intenzione, non potuta in alcun modo realizzarsi. Anche
la notizia (secentesca) di una assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone
Doria, è frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili ragioni cronologiche.
Una
signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una
qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza
Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del
XIV secolo.
Nessuna
fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto -
preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti
dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite,
denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico
Musca , comes Mohac, si rinviene tra
i diplomi di Pietro I.[4]
Su tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca
scrive:
«....[PAG. 4] entrati che
furono gli Aragonesi nel governo di
questo Regno, appare in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che fu Governatore della Valle di Noto sotto il
Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero
di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .
«Essendo stato anch'egli uno de'
quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux;
così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos
- egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad
monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte
bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum
reciperet.» Ma se sia stato costui
discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovato, o forse da altro modo
comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però,
ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo
dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi
successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè
Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non
meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di
Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato
ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli
seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»
[5]
Esplosa
la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito
soggetto, agli appetiti tassaioli del
sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i
notabili racalmutesi dell’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A
presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici
eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di
Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici
dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che
incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri,
Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La
Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero
a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna,
quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che,
comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor
oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche
suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si
disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Interlocutoria
ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti
dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli
imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per
intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene
nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis
Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo. [6]
Il 17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i
luoghi di sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro” (vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo:
segno che le terre ed i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de
Ferro, milite giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare maestri giurati di sua fiducia: il re,
da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi
intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti
e Baroni, elezione che si era riservata»[7].
Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo
di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni:
manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare
quegli abitanti nel possesso dei loro beni. [8]
Occorre
pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con
decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che
le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso
siano corrisposte ai regi tesorieri.»[9]. Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con
provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non
risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto. [10]
Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da
Messina, il 15 novembre 1282, s’ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del
Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di
sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni
per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Salto,
la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni,
circa alla promessa del sussidio.»[11]
Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze
fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui
luoghi, il versamento dalle Università al di là del Salso.»[12]
Racalmuto risulta tassato per 15 once, [13] preceduto da:
Licata: unc.
238;
Delia unc. 3;
Naro unc. 166;
Calatarapetta
(sic) Mons maior unc. 6;
Tusa unc.
2;
Misiliusiphus unc. 4;
Sciacca unc. 250;
Calatabellottum unc. 122;
Agrigentum unc.
380.
Il
successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad
armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per
una cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari,
nella sua storia del Vespro, ne fa quasi un diuturno resoconto. Ancor oggi è
viva la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei
tempi nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce,
capovolgendo un indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla
Sicilia una nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha
voglia di essere originale su quello snodo della storia siciliana: una
improvvisa e scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si
innesta una vorace conquista di un rappresentante dell’ «avara povertà di
Catalogna».
Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche,
che si ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo,
Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il
nostro paese da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero.
Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica -
quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore
dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi,
re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte
nel 1713 per una faccenda di tasse su alcuni rotoli di ceci del vescovo di
Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa
conoscenza.
Racalmuto,
decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì
cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non
immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la
politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che
corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il
10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore
Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse
qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a
comprendere le ragioni che spingevano i due potenti fratelli (Federico e
Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche
papali, in loco non se ne intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero
colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti
ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di propinare nelle loro
infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano
lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva
l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si
riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi
immigrati e con fertili nozze.
Nel
1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di
riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 -
arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri per quelle due precorse
annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei
prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di
Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect.
n.° 161 f. 96 abbiamo:
«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae
de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
In
altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di
Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del
foglio n.° 97 ( 97v):
«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro
officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro
utraque tt. ix.»
Il
che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo
ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì.
Racalmuto non viene segnato come castrum
anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto,
la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba
pontificio.
Coteste
ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a
Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e
non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di
S. Maria, ed è chiamato a corrispondere un’oncia per le decime di due
anni (1308 e 1310); l’altro, è il “prete”
Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove
tarì in relazione all’ufficio
sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo
neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S.
Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna
è mero arbitrio. Il “presbiter” Angelo
de Montecaveoso [14] ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di
Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che
dovevano essere di poco più di un terzo rispetto alle ricche prebende di chi
era titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto
diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).
La
chiesa di Santa Maria era talmente ricca, dunque, da non potersi ritenere
soltanto un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o
di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da
qui poté nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo
a partire dalla fine del secolo XIV. Ma poté trattarsi anche di un convento,
forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per
l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato
a causa dell’endemico stato di guerra.
Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei
suoi Capibrevi dei
BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber
Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211».
II Pirri descrive il
Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che
congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna
concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo
Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un
convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti
lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle
fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono
quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune,
secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana
cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol.
II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211
-Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter Agrigentum et
Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum] existens de
suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S.
Benedetto in termini del tutto critici. Non sappiamo
quanto di valido ci sia nel pregevole lavoro di padre Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo di
Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti
dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro
tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di
abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non
poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da
Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci
dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là
dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo
noi, in piazza Castello, in quarterio
Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani
spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che
gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo
in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a
Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da
studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale [15]. A Casalvecchio, già alla fine del XIII
secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in
pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
«Antica è
l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla
peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si
trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio.
Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile,
si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. » [16]
I dati che possiamo ricavare dalle tavole delle collette
pontificie del 1308-1310 non consentono fondate ipotesi su un grande sviluppo
demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le
altre località che riusciamo a desumere (Agrigento, Butera, Caltabellotta,
Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo
Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa
rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte
papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì non erano poi pesi intollerabili, ma pur
sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva
dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si
sconoscevano persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino
per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di
Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a
quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella
sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
Denominazione
|
Unciae
|
Tarini
|
Granae
|
Summa
|
|||
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per
le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
|
261
|
4
|
8
|
261,4,8
|
|||
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per
le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
|
87
|
22
|
10
|
87,22,10
|
|||
Differenze
|
173
|
11
|
18
|
173,11,18
|
|||
Differenza
in percentuale
|
|
|
|
197,58%
|
|||
Per
due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il doppio di quanto
corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per un quinquennio.
Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310; indirettamente nel 1280.
Allora, collettori per Agrigento furono il canonico agrigentino Pasquale ed il
notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese, il francescano Marco
d’Assisi, [17] ebbe
dal collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non
sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato
dell’intera diocesi di Agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci
direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo.
In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto
l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia
subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei
vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28
gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu
una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il
Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al
partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla
cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276.
Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostituto Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al
23 agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23
agosto 1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10
dicembre 1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti
rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio
in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da
Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato
dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a
lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile
e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei
primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria,
oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal presule
agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco
(presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un
balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue
decime o primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli
obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo.
L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo
gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio
dell’avara povertà di Catalogna.
FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA
CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
I
Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIV. Federico
Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto
costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio del
Trecento, l’attuale fortezza, forse una, forse tutte e due le torri oggi
esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero
preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal
lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete
ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte.
Sono ad ogni modo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese.
Forse
risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure,
ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da costei sposare - lui
vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di
Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIV. Forse
davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto
Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la
pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato in un libro
secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e
mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande
storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi
oscuri esordi della signoria dei Del Carretto su Racalmuto, quel che di certo
abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi
risalire al 1400 - che solo negli anni ’novanta del trascorso millennio chi
scrive ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di
Palermo per un’ostica ma illuminante lettura.
Ma in quell’investitura, scopo, intento,
occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito
la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta
particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel
vantare ascendenze altisonanti: difficile credere a quanto vi si afferma nei
confronti di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto; traluce invece
una realtà ove si scorge la rapacità di codesti esattori delle imposte dei
Martino, quei Martino che risultano più che altro gli avventurieri dell’ “avara
povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIV
secolo.
A noi -
racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via
discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella
oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso
Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto
maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Noi abbiamo
speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la
documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed
originale - la documentazione dei processi d’investitura - venne riprodotta in
un CD-ROM interattivo cui si rinvia. Carta canta e villan dorme: non si può
fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del
Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un
inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxororicidi
a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con
i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in
“alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove
innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e
Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo
sciasciano.
Un quadro -
ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente
complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a
Racalmuto sotto il dominio, consueto per l’epoca, dei baroni del Carretto:
costoro verso la fine del Cinquecento - dopo un paio di secoli di egemonia (a
dire il vero spesso illuminata) - hanno voglia di farsi attribuire un’arma
ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto; mancano però
l’obiettivo cui particolarmente tenevano: quello di riconoscere il titolo di
marchese che in esordio della loro signoria su Racalmuto avevano
contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto
sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri
ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che abbiamo
pubblicato ne spazza via ogni briciola di attendibilità. E quel che si scrive su data e struttura del
castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera
sulle origini storiche del Castelluccio.
[1] )
Cfr. l’opera precedentemente citata del Silvestri, Vol. V Palermo 1882, pag. 9
e segg.
[2] ) cfr. ibidem pag. 12.
[3] )
Leonardo Sciascia, presentazione della mostra di Pietro d’Asaro, Racalmuto
1984, pag. 20.
[4] ) cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di
Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 -
pag. 687.
a
) [Vedensi le Allegazioni del Dottor don Emanuele lo Giudice fog. 8. e 96. fatte
a favore del Principe della Riccia per l'esecuzione della Chiaramontana
reintegrazione stampate in Palermo 1755. f. 96].
[5] )
Francesco M. Emanuele e Gaetani, marchese di Villa Bianca - DELLA SICILIA NOBILE - Palermo 1759 - Parte Seconda - lib. IV,
pag. 4 e segg.
[6] )
Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V 1882, cit. doc. XXI p. 24.
[7] )
cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII.
[14] )
Montescaglioso (Matera), comune: 9900
ab., a 352 m s.m. Centro agricolo tra la valle del fiume Bradano e la gravina
di Matera. Anticamente si chiamava
Severiana. La contessa Emma vi fondò verso la fine del XII secolo un monastero
intitolato a San Michele. L’imperatore Federico II lo dotò nel 1222
[15] )
Girolamo M. Morreale, S.J. - Maria SS. Del Monte di Racalmuto, Racalmuto 1986,
pag. 23 ove, tra l’altro, leggesi: «La distanza tra Casalvecchio (Racalmuto) e
la Chiesa di S. Margherita, circa tre chilometri, fa pensare che a Casalvecchio
ci fossero altre chiese officiate da Sacerdoti.»
[16] )
DIZIONARIO COREOGRAFICO DELL'ITALIA a cura
del prof. Amato AMATI - Milano (Vallardi) - (1869) voce: Racalmuto.
[17] ) Su
tale collettore pontificio vedi la comunicazione di M.H. Laurent O.P.: I
vescovi di Sicilia e la decima pontificia del 1274-1280, in Rivista di Storia
della Chiesa in Italia, anno V n. 1 - gennaio aprile 1951, pag. 75 e segg. Lo
studio serve anche per notizie sui vescovi agrigentini dell’epoca e per
rettifiche di errori del lavoro di P. Sella: Rationes decimarum Italiae ...
Sicilia [= Studi e testi, 112], Bibl. Vaticana 1944. Gli spunti critici vengono
rispresi dal Collura (Le più antiche carte ...], libro dal quale traiamo le
note sui vescovi agrigentini che soprintenderono alla tassazione ecclesiastica
di Racalmuto a cavallo dei secoli XIII e XIV.
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