RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli
Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu
inglobato dai berberi. Identica sorte per l’agglomerato – se vi fu – nel
ripiano di Gargilata a ridosso del costone di fra Diego. Di congetture se ne possono formulare tante,
di verità storiche solo flebili barlumi.
Che cosa ne
fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti
per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà
dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove,
oppure, come a Gargilata, finire per convivere.
E che può
dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma
noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel
tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo
lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di
eclissamento della religione cattolica o di sua sopravvivenza, come di un
fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna,
se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Consolidatasi
la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior
parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano
soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si
era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd
ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni
amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e
cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani
erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali
convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio
del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di
religione e di culto.
Quanti
erano i berberi e quanti i dhimmi a
Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli
infedeli (i dhimmi) che per avventura
avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere
la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria
quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi
le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo
neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che
sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un
arabista del calibro di Rizzitano ([1])
per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto per le vicende
arabe racalmutesi.
«In
entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità
dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e
ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di
Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini
che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano
temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora
concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore
centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e
mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle
posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione
amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che
elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui
prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione
con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia,
e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in
Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti
scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici venuti
in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti erano
proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo
apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre
sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero
all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo vii, quando l’Islàm iniziò la conquista
del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben
noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli
arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e
capacità soprattutto nel settore agricolo.
«Per quanto
concerneva invece i dhimmi, questi
erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini
commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale
che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante;
oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi
erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del
principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi
musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di
conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più
dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è
chiaro che erano i dhimmi a dovere
«pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto
sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto
al nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto
da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il
compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde
evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari,
avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel
nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([2])»
Non è
questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e
Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per
tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono -
scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di
Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di
malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò
guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30
dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le
méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso
dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi
arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a
Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio)
distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e
desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha
l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese
morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata.
Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la
dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai
«Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari
ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran
in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che
possa riferirsi alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva
un apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano
abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? E al limite – perché
no? – al sito di Gargilata, ove affirano ceramiche arabe, secondo quello che il
Palumbo mi mostrava nell’estate del ’99? Ma tanto solo per rendere avvertiti
della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si
sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che
era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese
dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma
furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie
diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il
governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità
e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il
propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il
nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940
riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame.
Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma
anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate
del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica
dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe
inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme
dell’investitura califfale - protrattosi per circa un secolo (dal 948 sino al
1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo
congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato
di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno al 1065 si
determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le
famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e
Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania
s’indussero ad appoggiare i contrattacchi
cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia
toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth
fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento
ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel
1087. Si può anche ipotizzare che a
Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire
in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorrere” –
poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale
nome.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché
un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha
tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo
Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli
eventi nella sua Storia dei Musulmani di
Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel
passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso,
investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni
normanni.
«Il
cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto
Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta
all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí
primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza
di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti
con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra
schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo
nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027)
indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla
Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in
quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm;
portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze
vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben
risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il
quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie
e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città,
batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque
luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di
torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in
breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl,([3]) Bifara,
Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; ([4]) di
talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso
ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la
Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome
e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita
caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando,
così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli
accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([5])
E’ agevole intravedere nel racconto
dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al
riguardo una mera traduzione dal latino ([6]). Credo che Chamuth abbia avuto un
qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi
su questo personaggio. Costui, caduto in
un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa
cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus
efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam
consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con
moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla
quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far
fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri
e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in
presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere
i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi
l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una
sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli
gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma,
gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella,
secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono termini
che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanza, arroganza
del potere. Sono la lingua degli uomini
del potere che parlano forestiero ma si
servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro congrega. E vicendevolmente
si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei matrimoni, amichevolmente ed
in termini di accondiscendente familiarità, ma a danno e scorno degli altri,
degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i nomi dell'impotenza, della
rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai giorni nostri. E
l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si aggrumavano
al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni cinquanta. Sono,
infatti, godibili talune magistrali pagine di
'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61 e per quel che riguarda
l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio
dalla libertà araba allo stato servile, alle dipendenze di vescovi esattori,
santi per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa
e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è
documentabile se non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana
ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo
sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del
secolo scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un
governatore di Rahal-Almut a nome Aabd-Aluhar,
servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto
nell'anno 998; di una popolazione di
2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcivescovo Du
Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel
nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte
quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico
Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per
il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di
Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in
quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui
'dsimmi’, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino, ma di
ascendenze racalmutesi, Picone.
I gravami, le violenze, le
soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di
Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire
quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito
di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno,
o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare
echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il
ricordo di quel nome antico. Solo il Racel
del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni
funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di
vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma
le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli
occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e
saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per
durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.
Michele Amari non
ebbe in simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega
il toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende
spunto dal Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive
l'A. a pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso
d'ogni banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché
Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il
martirio, né i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà.
Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad
abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di
parole che conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi
cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia,
senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo,
accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò
guari che il Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di
Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi
fatti montar in sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta
altra gente potè, quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di
Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli
accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la
quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a
suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi
del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal
Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de'
Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso
di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in
terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente
visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.»
Di quei cento
lancieri al seguito di Ruggero per la consunzione di una resa proditoria e
vile, quanti erano stati prima a Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare
terrore, violenza e morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il
Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era, probabilmente, una
guarnigione di berberi sognatori e disattenti; non erano eroici guerrieri e
comunque erano pochi. Piombarono i cento lancieri di Ruggero da Girgenti, li
soppressero e si sparsero per il casale e per le campagne a razziare e
violentare. I lancieri erano soprattutto predoni.
L'Amari è aspro, come
si è detto, nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna
pur capire avendo “famiglia”: moglie e figli erano, infatti, in mano dei
torbidi normanni. Il Malaterra, monaco benedettino, impantana ancor più la sua
non chiara prosa per mettere un velo pudico sulle insane voglie dei predatori
suoi compaesani. Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua
eccellente prigioniera. E noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo
dell'iniziativa del Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del
resto si era già macchiato di molte ignominie, specie in gioventù.
Quando, però, si
tratta di cose militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi
soldati del Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono
a dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed
attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e
sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze
musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le
cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.
Eppure il Malaterra
resta sempre cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri
nell'opera citata. I tanti episodi cruciali della conquista della Sicilia da
parte delle orde normanne, tra i quali quelli relativi all'assalto della
fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno una sola fonte storica che è la cronaca
del Malaterra. Questo monaco non sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti
negli anni, è onorato ospite della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei
fregi regali, anche se non dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi
vichinghi. Ascolta, il monaco, le fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte.
Vantano ora i galloni di generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti,
hanno possedimenti in Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali,
dell’avventuriera giovinezza.
Il Malaterra ode
nefandezze che gli ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona
cultura ecclesiastica. Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo
ed ama moraleggiare chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari
irridere a Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del
Malaterra. Il giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della
cronaca del benedettino.
Per fare terra
bruciata attorno al nostro Chamuth,
tocca ad 11 castelli l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggero.
Alla nostra Racalmuto è dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni,
come ai citati e sicuri Platani, Naro, Guastanella, Sutera, Bifara,
Caltanissetta e Licata o agli incerti Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuth si
arrese, non ci sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un
flaccido uomo d'armi. E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande
demerito.
Per gli storici
arabi, le città di Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno
arabo al crollo di Girgenti e Castrogiovanni
ci convince molto di più delle ingenuità narrative del Malaterra o
delle note prevenute dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima
portato desolazioni nelle terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento
ed Enna, avevano poi tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
* * *
Il
passaggio sotto i normanni a noi non ci esalta. Restiamo filoarabi, anche se
non con l’l’oltranzismo di Sciascia [7].
Siamo, in ogni caso, affascinati dai versi di Ibn Hamdis ([8])
Pianse, invero, Ibn con accenti davvero toccanti, specie se in noi tardi arabi
scorre nelle vene quel sangue berbero, come dire nord africano:
«Ho
riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla
malattia mortale, fastidiosa.
«Che?
Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue
moschee in chiese,
«dove
i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e
sera?
«O Sicilia, o nobili
città, vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli
possenti.
[1]) Umberto Rizzitano, Gli
Arabi di Sicilia, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso, UTET 1983, Vol.
III, pagg. 384 e ss.
[2])
«Khafagia ibn Sufyàn era indubbiamente una personalità di primo piano; si era
già distinto in Ifrìqiya all’epoca della rivolta dei giùnd, dando prova di grande fedeltà alla dinastia aghlabita.
Quando arrivò in Sicilia non mancava quindi né di esperienza né di prestigio
personale. Il primo anno della sua permanenza a Palermo lo trascorse, secondo
Ibn al-Athìr, più che in operazioni militari proprio nel delicato compito di
ristabilire ordine e disciplina fra gli elementi musulmani, e di armonizzare
conquistatori e conquistati: condizioni indispensabili alla ripresa delle operazioni
militari. Cfr. Ibn al-Athìr, Al-Kàmil, pag. 312. Cfr. anche SMS, I,
482.
[3]) Su tale toponimo RAHL
abbiamo appuntato tutta la nostra attenzione ritenendo che potesse essere
quello del nostro paese. AMARI riduce in RAHL un RACEL che trovavasi nel manoscritto
malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e pubblicato a
Saragozza nel 1578. Quel manoscritto è andato perduto. La pubblicazione che
resta ancora l'edizione principe fu recepita nella colossale opera di Ludovico
Antonio MURATORI RERUM ITALICARUM SCRIPTORES nel vol. V con il sintetico titolo
HISTORIA SICULA, Gaufredi MALATERRAE. Il Muratori dà la lezione RACEL e in
calce annota RASEL-BISAR ad indicazione di altre lezioni da lui tenute
presenti. L'Amari non si produce in ulteriori ricerche paleografiche: distingue
RACEL da BIFAR; per lui arabista, RACEL equivale a RAHL [casale]; si confessa
incapace di individuare un RAHL nelle pertinenze agrigentine, che ne sono
piene. Il PICONE segue la pista dell'AMARI e nelle sue MEMORIE (cfr. pag. 401)
reputa incompleto il toponimo e segna RAHAL..., distinguendolo comunque da
BIFAR, una località piuttosto nota tra Campobello di Licata e Licata. Si sa che
la raccolta di 'scriptores rerum italicarum' è stata, a cavallo di secolo,
oggetto di pregevolissime riedizioni con interventi di personalità della
cultura del calibro del CARDUCCI. Il testo del monaco benedettino dell'XI
secolo ha avuto nel 1927 una diligentissima riedizione con una illuminante
introduzione da parte di Ernesto PONTIERI. Questi venne in Sicilia; trovò altri
codici (A=Cod. X. A 16 della Biblioteca Nazionale di Palermo; B=Cod.II.F 12
della Società Siciliana per la storia patria; C=Cod. 97 della Biblioteca
universitaria di Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca comunale di Palermo)
che, comunque, mutili e scorretti e pur sempre derivanti dalla fonte
dell'edizione principe del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il PONTIERI
adottò la lezione RASELBIFAR, legando insieme Racel e Bifar, e in nota fornì la
versione della Biblioteca universitaria di Catania (C): RACEL GIFAR. Nel 1937,
Carlo Alfonso NALLINO, nel integrare le note della STORIA DEI MUSULMANI DI
SICILIA di M. AMARI controbatteva al PONTIERI e reinterpretava il passo
malaterrano con questa dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177 op.
cit.]: «In realtà i castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra
(Saragozza 1578), e le prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno
'Ravel, Bifara', come se si trattasse di due luoghi diversi; ció ingannó
V.D'Amico, Diz. topogr. trad. Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del
1757-1760), che nel vol. I, pag. 143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di
RACEL (dal solo Malaterra), e quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente
all'attenzione del Diz. stesso, I, p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL
BIFARA' (evidentemente nell'uso locale siciliano). Il traduttore Dimarzo, I p.
144, n. 1, osserva che Bifara ' è un sottocomune aggregato a Campobello di
Licata ..., in provincia di Girgenti (Agrigento) ..., circondario di Ravanusa'.
Campobello dista 50 Km. da Girgenti (Agrigento) e 9 da Ravanusa. E. Pontieri,
ultimo editore del Malaterra (1928), trovò nei mss. anche le varianti
Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la prima nel testo (p. 88) e
nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo componente e rahl (racel,
racal, ragal), come ben vide l'A.» [cfr. pag. 178 op. cit.] Quel che sorprende in entrambi quest'ultimi
due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali conquistati da
Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la premessa del
MALATERRA che parla di ben undici castelli agrigentini presi all'arabo
CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come si vede
un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere apparso
pedante e tedioso. Ma è l'unico probabile appiglio ad una fonte storica delle
origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica, vien però da domandarsi
se è proprio importante trovare un antico toponimo da assegnare alla storia della
nostra terra.
[4]) A completamento del
discorso sui toponimi svolto nella precedente nota, riportiamo il commento
dell'AMARI nella sua STORIA (pag. 177, n. 1): «I nomi delle castella prese
nella provincia di Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun
evidente errore del testo. Rimane dubbio il suo Racel, che ho trascritto sicuramente
in Rahl (stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella
appellazione generica, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi
Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il Remise (variante
Remunisse) del testo, poiché MICOLUFA sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone
da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra nel suo libro 'La
conquista di Sicilia' recentemente uscito alla luce (Collezione d'opere
inedite e rare, Bologna 1865, in -8), dà otto soli nomi degli undici, dicendo
non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un ms. della stessa opera,
appartenente alla Bibliothèque de l'Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette
soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catalanixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo
'e li altri, aggiunge, non so chi si fusseru e non si canuxirianu, ect.).
Intorno i nomi non si trovano nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi
vegga il Dizionario Topografico dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine
della 'Carte comparée de la Sicile, [1859], Notice'.»
[5]) Michele AMARI -
STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA, Catania 1937, Vol. III, parte prima, pagg.
174, ss. Nel trascrivere il CHAMUTH del MALATERRA in HAMMUD, l'AMARI annota
[nota 1 di pag. 175]: «la h, sesta lettera dell'alfabeto arabico, fu resa per
lo piú, sino ad uno o due secoli addietro, con le lettere latine ch; e il d,
ottava lettera, piú spesso con una t che con una d. L'anonimo ha HAMUS [cioè
ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic. pag. 855]. Sapendosi dalla storia che
Chamuth, fatto cristiano con tutta la famiglia, rimase sotto il dominio del
conquistatore, possiamo ben identificare il casato con quello di Ruggiero
HAMUTUS, già proprietario di certi beni che Federico II concedea nel 1216 alla
chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 142) e dell'Ibn
Hammud, ricchissimo signore che Ibn GUBAYR vide in Sicilia nel 1185. Questo
nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote del regolo di Castrogiovanni.
Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abû al Qâsim, sembra anco il
Bucassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne' primordi del regno di
Guglielmo il Buono....». Ancor oggi, alcune nobili famiglie siciliane vantano
discendenze da quel ceppo Hammûdita. Trattasi dei nobili NICASIO di BURGIO.
Impietoso l'Amari contro il libello di Nicasio Burgio, conte palatino XXIII
intitolato «La discendenza di Achmet ultimo potente ammira fra i Saraceni
dominanti in Sicilia, rappresentato in questo medesimo luogo dalla chiarissima
famiglia Burgio», pubblicato a Trapani nel 1786. Indulgente il NALLINO che
nella stessa nota si dilunga accogliendo le precisazione di una nobildonna di
quella famiglia. Costei segnala che i primogeniti della casata Burgio
continuano a chiamarsi ACHMET, ( ad. es. ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO,
principe di Aragona e di Villafiorita, di Palermo). Per quel che ci riguarda,
un'ipotesi potrebbe avere qualche fondamento. Tra i beni del citato Ruggiero
HAMUTUS poteva esserci qualche signoria sul diruto castello di Racalmuto, un
tempo appartenuto al nonno, o bisnonno, CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che
lascia il tempo che trova.
[6]) Trascriviamo qui per eventuali cultori delle
fonti l'intero passo latino della cronaca del Malaterra: «Comes ergo Rogerius,
omnes potentiores Siciliae a se debellatos gaudens, et nemine, excepto CHAMUTO,
seperstite, ad hoc assidua deliberatione intendit, ut ipso circumveniendo
debellato, omnem sibi de caetero Siciliam subdat. Unde, exercitu admoto, ipso
apud Castrum-Joannis immorante, uxorem eius ac liberos apud Agrigentinam urbem
obsessum vadit, anno Dominicae Incarnationis millesimo octogesimo sexto
[l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis, quam undique exercitu vallans,
diutina oppressione lacessivit; studioque machinamentis ad urbem capiendam
apparatis, tandem vicesimaquinta die Julii viribus exahusta, imminentibus hostibus,
patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est captione. Comes itaque,
pro libitu suo positus, uxorem Chamuti, omni dehonestatione prohibita, suis
custodiendam deliberata, sciens Chamutum sibi facilius reconciliari, si eam
absque dehonestatione cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo
ordinans, castello firmissimo munit, vallo girat, turribus et propugnaculis ad
defensionem aptat, finitima castra incursionibus lacessens ad deditionem cogit.
Unde et usque ad undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt
nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Rasel, Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua
interpretatum, resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.» [Le lezioni
dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi volesse averne
completa conoscenza, deve consultare
l'edizione del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss. A parte RASEL, che ovviamente abbiamo seguito
con puntigliosa attenzione, per il resto abbiamo scelto alquanto liberamente,
intendendo privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai
toponimi di Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, Bifara, Milocca (?!), Naro, Caltanissetta,
Licata e Ravanusa.
[7] ) Ci
appare cerebrale questo passo: «la mia residenza qui, quella residenza che di
molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi» Leonardo Sciascia, Occhio di Capra, Adelphi Milano 1990, p. 13.
[8]) Ibn
Hamdis: poeta arabo, nato a Siracusa
verso il 1053 e morto in Africa nel 1133. Vedi Michele
Amari, Biblioteca Arabo-Sicula - Torino 1880 - pagg. 312 e ss.
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