La svolta del 1374
Si accredita autorevolmente la tesi di un Mafredi
Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate combinazioni, si
venisse a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [1]
Non sembra potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi
Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo;
dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di
Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari,
Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo,
Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in
documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il
nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con
certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia
nel senso allora corrente di gravissima epidemia». [2]
Già vi era stata un’invasione di lacuste che provocò forti danni nell’Isola.
Racalmuto ne fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni
si ebbero per un ritorno dei focolai epidemici di una ventina d’anni dopo.
Operava frattanto la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e
bigotte seminavano il panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in
quel tempo erano emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era
facile additare una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte
era propenso a credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di quei tragici
eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto
questo è però documentato. Un fatto eclatante viene inventato di sana pianta:
un massiccio trasferimento della residua, falcidiata popolazione da
Casalvecchio all’attuale sito. Già, subito dopo la conquista di Garibaldi, il
locale sindaco - pensiamo a Michelangelo Alaimo - faceva scrivere ad un dotto
professore del Continente: «…Racalmuto
…fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo
primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama
Casalvecchio. …. Questo borgo fu sotto il dominio della famiglia Chiaramonte,
passò quindi in feudo della famiglia Requisenz, principi di Pantelleria.
(Alcune delle surriferite notizie debbonsi alla cortesia dell'on. Sindaco di
questo Comune).» [3]
L’apice della visionarietà si ha naturalmente nel Messana, [4]
secondo il quale: «A Racalmuto le cose andavano bene, la
popolazione cresceva, sempre attorno al castello. Vista insufficiente la
cappella del Palazzo che nei primi tempi dopo il 1355 fu aperta al culto dei
pochi superstiti alla calamità, si costruì la chiesa dedicata a S. Antonio
Abate, eletto patrono del paese, alla periferia del nuovo centro abitato, verso
l'odierno cortile Manzoni. Intanto gli anni passavano, e al barone Antonio Del
Carretto erano succeduti i figli Gerardo e Matteo. La baronia di Racalmuto con
altri possedimenti era toccata a Matteo, a Gerardo invece Siculiana col resto dei feudi. I due
germani non rimasero estranei agli avvenimenti politico militari del regno.
Essi seguirono, come aveva fatto il padre, i loro parenti, i Chiaramonti, anche
perché questi avanzavano rivendicazioni sulla baronia, tutte le volte che non
vedevano i Del Carretto al loro fianco con entusiasmo e dedizione. Negli anni
di grazia tra il 1374 ed il 1377 in più luoghi storici infatti Racalmuto è
annoverata fra i beni chiaramontani. E' chiaro che i Del Carretto erano i
signori di Racalmuto negli affari interni, ma tanto legati e dipendenti dai Chiaramonti
che all'esterno apparivano come valvassori dei potentissimi parenti. Gerardo e
Matteo, alla caduta di Andrea Chiaramonti, che avevano seguito nell'assedio di
Palermo, riuscirono a sfuggire all'ira di Martino e ricoverarono all'interno. » In questa pagina del
Messana c’è del vero, ma tanto da rettificare, almeno se si dà in qualche modo
credito alla lezione da noi sopra esposta.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed il
1375 ebbero indubbiamente a coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è
possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo
vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360.
L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I,
il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può
solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con
9 galeee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galeee) che aveva
scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV
si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento:
nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci
da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di
nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1362-1363 si registra una
recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si
riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si
può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Ma quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per
certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il concordato con il
papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile interdetto. La corte pontificia, ancora ad Avignone,
versava in ristrettezze economiche: se la Sicilia si mostrava disponibile ad
una tassazione straordinaria aveva possibilità di una rimozione del gravame
papale. Fu così che si fece strada la soluzione della controversia con il papa:
bastava assicurare il pagamento di un sussidio il cui peso sarebbe finito
direttamente sulle vessate popolazioni dell’Isola, compreso Racalmuto
naturalmente.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi
eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un
nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII
era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a
Limoges nel 1329; morirà a Roma
nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia
ponendo fine alla cosiddetta "cattività avignonese". La fine del suo
pontificato fu contraddistinta dalla rivolta generale delle province italiane.
Nel 1375 e nel 1376, nel momento in cui Firenze ingaggiava contro la Santa Sede
la guerra degli «8 santi», novanta citta e castelli dello Stato pontificio si
sollevavano contro gli ufficiali apostolici e demolivano le fortezze edificate
antecedentemente dal cardinale Albornoz. La rivolta può venire considerata
causa del definitivo tracollo del papato francese in Italia, che non riesce più
a percepire i sussidi straordinari imposti dal 1370 al 1375 nei domini della
Santa Sede.
Negli ultimi anni della loro dominazione in Italia, i papi
avignonesi ricorsero molto spesso alla generosità dei loro sudditi con
richiesta di sussidi straordinari, tanto da trasformarsi in imposte ordinarie.
Quanto al consenso dei parlamenti, divenuto alla lunga puramente formale, a
partire dal 1374 esso tendeva a sparire del tutto. Dal 1369 al 1371 si trascina
la guerra di Perugia e diviene controversa l’esazione dei sussidi della Tuscia
in favore del patrimonio della Santa Sede. [5]
Scoppia quindi la guerra milanese ed insorgono difficoltà per l’acquisizione
dei sussidi relativi agli anni 1372-1373. L’Italia conosce, nel 1374 e nel
1375, la devastazione della peste e della fame. L’epidemia di peste bubbonica
affiorata a Genova nel 1372 si diffonde a poco a poco per il resto d’Italia, e
nel 1374 raggiunge la Francia meridionale. Una grande siccità imperversò alla
fine del 1373. Dopo, nel successivo aprile, cominciarono piogge torrenziali e
protratte che rovinarono la mietitura e provocarono la carestia. Un coacervo
dunque di circostanze per le quali Gregorio XI si vide costretto a sollecitare
un nuovo aiuto economico da parte dei sudditi italiani per sostenere la guerra
che continuava, più furibonda e più rovinosa che mai, contro il signore di
Milano.
All’inizio del 1375, la Camera apostolica non incontra
difficoltà soltanto in alcune province dell’Italia centrale. La carenza contributiva
si estende alla Cristianità intera. Salvo forse la Francia, la percezione
dell’obolo è un totale fallimento nel reame di Napoli e, specialmente, in
Sicilia. L’Inghilterra si era sollevata contro le pretese di Gregorio XI. Il
clero di Castiglia e di Lione e quello del Portogallo rifiutava ogni aiuto. Il
papa fu allora costretto a revocare le vecchie tasse e dichiarare che si
accontentava di somme relativamente modeste (qui 20.000 e là 25.000 fiorini).
Nella stessa Italia, gli ecclesiastici fanno orecchi da mercante e rifiutano di
consegnare al collettore Luca, vescovo di Narni, i contributi che pure avevano
promesso. I mercenari non sono pagati e, per calmarli, Gregorio XI deve
conferire terre della Chiesa ai loro capi.
La guerra milanese è frattanto prossima a concludersi. Il 4
giugno 1375, la tregua con i Visconti è conclusa. Lungi dal riassettare una
situazione fortemente compromessa, la fine delle ostilità aggrava le tensioni.
I mercenari, privi del loro soldo, sono lì lì per costituirsi in compagnia e
rifarsi con i saccheggi. Non basta, certo, un’ipotetica retribuzione a
frenarli. Solo degli espedienti possono salvare provvisoriamente la Camera
apostolica. Gregorio XI si fa prestare
somme enormi.
L’incapacità del papato di procurarsi il denaro necessario al
finanziamento della guerra contro Bernabò Visconti è il segno del fallimento
finale della fiscalità avignonese. Questo fallimento deborda dai limiti dello
Stato pontificio e si estende a tutta la Cristianità, come mostra il rifiuto
pressoché generale di pagare i “sussidi della carità” sollecitati da Gregorio
XI nel 1373.
Per un sussidio di carità può però la Sicilia togliersi da
dosso l’interdetto, conseguenza del Vespro: lo può l’intera Sicilia ed è
perdonata; lo può Manfredi Chiaramonte e tutte le sue terre sono
perdonate; lo può Racalmuto ed il 29
marzo 1375 viene solennemente assolto, con un cospicuo “sussidio della carità”
, di una colpa mai commessa.
Storici di acuto intelletto scrivono che «c’è un elemento
comune del mondo moderno che è stato considerato come il fondamento del suo
processo evolutivo, nelle forme di stato e Chiesa, costumi, vita e letteratura.
Per produrlo le nazioni occidentali dovettero formare quasi un unico stato
spirituale e temporale insieme.» [6]
Ma ciò per un breve momento. Sorgono quindi le lingue nazionali; si sfalda il
precedente mondo monolitico e «un passo dopo l’altro, l’idioma della Chiesa si
ritirò dinanzi all’impellanze delle varie lingue delle varie nazioni.» L’universalità perse terreno; l’elemento ecclesiastico
che aveva sopraffatto le nazionalità entra in crisi; i popoli si mettono in
cammino lungo percorsi nuovi, in
incessante trasformazione, e sempre più accentuatamente distinti e separati. La
potenza dei papi era assurta ad altissimi livelli in un mondo coeso. Ma ecco
che nuovi momenti cominciano ad eroderla. Furono i francesi che opposero la
prima decisa resistenza alle pretese dei papi. Si opposero, in concordia
nazionale, alla bolla di condanna di Bonifacio VIII; tutti i corpi di quel
popolo espressero il loro consesso agli atti del re Filippo il Bello.
Seguirono i tedeschi. L’Inghilterra non rimase estranea per
lungo tempo a questo movimento; quando Edoardo III non volle più pagare il
tributo al quale i re suoi predecessori si erano impegnati, ebbe l’assenso del
suo parlamento. Il re prese allora misure per prevenire altri attacchi della
potenza papale.
Una nazione dopo l’altra si rende autonoma; le pubbliche autorità rigettano le idee di
sudditanza ad una autorità superiore, sia pure a quella del papa. Anche la
borghesia si discosta dall’umile sottomissione ai papi. E gli interventi di
costoro vengono respinti dai principi e dai corpi statali.
Il papato cade allora in una situazione di debolezza e di
imbarazzo che rese possibile ai laici, che sinora avevano cercato di
difendersi, di passare al contrattacco. Si ebbe addirittura lo scisma. I papi
poterono essere deposti per volontà delle nazioni. Il nuovo eletto doveva
adattarsi a stabilire concordati con i singoli stati.
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’
questo un momento cruciale della crisi che abbiamo fugacemente additata. Ed in
questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In
cambio di un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto,
frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche per il
modesto, gramo paesetto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola - scrivemmo
una volta in pieno disaccordo con Sciascia.
[1] ) G.
Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti - Palermo
1891, pag. 14.
[2] )
Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[3] ) DIZIONARIO
COROGRAFICO DELL'ITALIA a cura
del prof. Amato AMATI - Milano
(Vallardi) - (1869) - vol. VI pagg. 712-713.
[4] ) Eugenio
Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Atec -
Canicattì - Giugno 1969. pag. 77.
[5] )
Jean Glénisson: les origines de la revolte de l’état pontifical en 1375, in
Rivista di Storia della Chiesa in Italia, Anno V . n. 2 1951, pag. 147 e segg.
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