La controversa questione del beneficio del Crocifisso.
Nell’intricata
controversia giudiziaria del beneficio del Crocifisso di Racalmuto, i Savatteri
vi entrano prepotentemente per due volte: nella prima, è attore il sac.
Giuseppe Savatteri e Brutto, a ridosso dell’Ottocento; nella seconda un
patetico personaggio: Giuseppe Savatteri, sposato con una Matrona. Siamo
nell’ultimo quarto del secolo scorso. In entrambi i casi i Savatteri finirono
soccombenti e gabbati. Ma procediamo con ordine.
La vicenda del beneficio del
Crocifisso è lunga, tortuosa ed
intrigante ed ha dato adito ad almeno un paio di complicate vertenze
giudiziarie. Leggiamo nella bolla che si tratta dei
seguenti beni:
in oppido praedicto reperiatur Ecclesia Sancti Antonij jam diruta cum
Immagine SS.mi Crucifixi quae detinet salmas tres et tumulos quatuor terrarum
in pheudo Mentae Status Racalmuti cum onere proprietatis unciae 1.6. aliam
clausuram terrarum salmae unius tumulorum quatuordecem et quarti unius cum
dimidio in dicto Statu et pheudo Racalmuti et contrata di Garozza cum onere
proprietatis unciae 1.6.7.3. et tarinorum viginti quatuor Conventui Sancti
Francisci de Assisia dictae Terrae.
Negli atti giudiziari
dell’arciprete Tirone avverso i coniugi Giuseppe Savatteri e Concetta Matrona abbiamo la
ricostruzione della provenienza di tali beni. Come risulta da un atto del 3
settembre 1659, la Confraternita del SS. Crocifisso di Racalmuto aveva diritto ad un
canone di proprietà «primitivo veluti jus
pheudi et proprietatis su terre della Menta e Culmitella».
Trattavasi, in base a quel che si desume da altri atti, di un fondo di quattro
salme e tumoli sei di terre ubicate nel feudo Menta, contrada Fico Amara, detta
- secondo l’arc. Tirone - «in quei tempi Mercanti». Del resto aggiunge l’arciprete che «il nome di contrada fico
amara e Mercanti andiede in disuso. Questa contrada prese nome di SS.
Crocifisso.»
Non essendo stato pagato
tale canone per più di un triennio, ed essendo state le suddette terre
abbandonate, la confraternita del SS. Crocifisso esperì il diritto domenicale
di avocazione del fondo per distruzione di migliorie, mancata corresponsione
del canone ed abbandono delle terre dell’enfiteuta che era tal Giaimo Lo Brutto. Essa, pertanto, fu immessa nel pieno possesso delle cennate
terre della Menta secondo il rito del tempo con atto notarile
del 3 settembre 1659, redatto innanzi a
quattro testimoni.
Gli atti giudiziari tacciono
sulle vicende che intercorsero tra il 1659 ed il 1767, un intervallo di tempo
in cui si colloca la dotazione dell’Oratorio Filippino. Intanto non so su che
cosa basi l’arc. Tirone il ruolo sostenuto dalla Confraternita del SS.
Crocifisso. Di questa conosco il vago accenno contenuto nell’elenco
della Giuliana della Curia Vescovile - voce Racalmuto, pag. 205 - che riguarda la «conferma della Conf.ta del SS.
Crocifisso - reg.tro 1669-70, pag. 488».
Ma qualche chiarimento lo troviamo in quest’atto del 10 ottobre 1648 del
notaio Michelangelo Morreale. Trattasi della «recognitio pro Archiconfraternitate SS.mi
Crucifixi contra Donnam Vittoriam del Carretto e Morreale». In esso
la Del Carretto (del ramo collaterale dei locali conti) si obbliga di
corrispondere al «Rev. D. Joseph Thodaro
.. uti procuratori venerabilis Archiconfraternitatis SS.mi Crucifixi fundatae
in Ecclesia Sancti Antonii huius terrae Racalmuti .. uncias quinque red. ann.
cens. et red.bus dictae Archiconfraternitatis cession. nomine Petri Piamontesio
et alijs nominibus in scripturis debitas, et anno quolibet solvendas supra loco
qui olim erat dicti quondam de Monteleone vigore contractus
emphiteuci celebrati in actis notarij Nicolai Monteleone die XXIIIJ Maij XII
ind. 1584 et contractus solutionis donationis et assignationis in actis not. Simonis de Arnone die 31 aug.
1605 et aliorum contractum in eis
calendatorum.» inoltre «supradicta Donna Victoria .. solvere promisit .. seque
sollemniter obligavit et obligat eidem de Thodaro dicto nomine pro se et pro successoribus
in dicta Archiconfraternitate in perpetuum uncias centum quatraginta una p.g.
tempore annorum decem in decem equalibus solutionibus et partitis anno quolibet
facere numerando et cursuro a die date literarum Civitatis Agrigenti ... Et
sunt uncias 141 in totalem complimentum omnium censuum decursorum annorum
retropreteritorum enumerandorum ab anno 1608 usque et per annum presentem
inclusive , ratione d. unc. quinque anno dictae Archiconfraternitate debitae
super dicta vinea.»
Quell’arcicofraternita era
dunque operante dentro la chiesa di S. Antonio e siamo nel 1648. Ne è
procuratore il sac. d. Giuseppe Todaro che muore il 7 maggio 1650.[1]Successivamente
alla morte del sacerdote Todaro, si rinviene l’atto del 3 settembre 1659 di cui
sopra; dopo dell’arciconfraternita si perdono le tracce e tutto fa pensare che
si sia estinta: si spiega forse così perché in un primo tempo i benefici di
quel sodalizio finirono all’Oratorio di S. Filippo Neri, per volere del Vescovo
Rini.
Nel 1767 il vescovo Lucchesi
Palli si ritrova vacanti quei beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li
assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione di un successivo
beneficiario, il sac. Don Calogero Matrona, fatta il 15 giugno 1870, è particolarmente vivace ed
intrigante.
«Con Bolla di erezione in
titolo dell’8 luglio 1767 - vi si legge fra l’altro - da Monsignor Lucchesi fu
eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre
di Racalmuto un beneficio semplice
in adjutorium Parochi di libera
collazione da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le
obbligazioni di coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di
celebrare in diverse solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta
Messe, costituendosi in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella
Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso
Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la
prima volta il beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso
in persona di un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio
1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac.
Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di
Girgenti dispensandolo
dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a
sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le
obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale
elezione, come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal
Sac. Don Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo
Brutto di Racalmuto impugnavasi la
fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva
lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in
dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal
Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata
Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra
quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del
suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un
orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di
pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati
fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di
giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi
e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati
a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco
solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il
pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria
autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di
possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il
3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi,
conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi
efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione,
pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio
anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi
questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi
nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici
persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma
Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore
Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con
l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra
persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo
l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei
fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi
pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il
Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti
della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale,
il cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi
biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto
il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione
pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e
desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto
che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la
validità delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato
il beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista
della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del
beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò
accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché
conobbe la verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire
anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è
l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con
decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa
Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella
minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo
della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali
sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii
[...]»
Al beneficiale don Ignazio
Cavallaro succede il nipote
(figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico
Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò
contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con
cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in proposito si
respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di
una bolla di collazione nel 1902
(cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è
accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Racalmuto nel Settecento secondo il Vaticano.
Presso l’archivio segreto vaticano
sono ora consultabili le relazioni che ogni triennio i vescovi dovevano
rassegnare sullo stato della loro diocesi.
Di tanto in tanto affiorano note storiche sulle vicende laiche delle
località diocesane. Racalmuto vi appare spesso, sia pure con annotazioni
rutinarie. Per il Settecento abbiamo questi dati:
Il vescovo Ramirez, nella relazione
datata 15 febbraio 1703 che produce “pro triennio trigesimo nono”[2], così descrive Racalmuto:
«Recalmutum: Item Archipresbiter
gerit ibidem curam animarum, atque Sacerdotes in Ecclesia Matrice quotidie
dicunt horas canonicas. Adestque Monasterium Monalium et quatuor Conventus
Religiosorum. Ecclesiae 16, Sacerdotes quadraginta, Clerici 36. Animae 5.012.»
Vigilavano dunque su una popolazione
di appena 5.012 anime ben 40 sacerdoti coadiuvati da 36 chierici, oltre a
quattro conventi di cui qui non viene detto l’organico. La notizia sciasciana
sugli ottanta preti può essere l’eco di questi riferimenti vaticani.
Nelle città – precisa il vescovo – in
cui si dice «quod animarum curam gerit archipresbiter” bosogna intendere che
questi è beneficiario perpetuo ed ha per lo meno la congrua. Racalmuto, come si
è visto, aveva un arciprete così beneficiato. La successiva relazione del 1713
ci consente questi riferimenti: Racalmuto: viene incluso tra gli oppida; le ecclesiae sono 15; 4 i
conventi; c’è il solito monasterium
monalium; 44 i sacerdotes in sacris;
21 clerici e 5.027 anime. [3] l’oppidum continua a venire designato erroneamente Recalmutum. Ignoriamo quale chiesa sia
nel frattempo sparita.
Avutosi l’interdetto del
1713 le relazioni si diradano. Vi è l’eco dei trambusti politici e religiosi in
quel torno di tempo. Passiamo quindi a quella del 15 settembre 1728 ove di
specifico per Racalmuto non riscontriamo alcunché.
Il Vescovo ci
fa però sapere che a Racalmuto, come altrove in diocesi, «egli vigila con somma
cura affinché la Domenica e nelle altre feste comandate il popolo ascolti i
salutari ammonimenti ed apprenda quanto è necessario alla salute dell’anima.
Dopo pranzo, nei giorni festivi il sacrestano, al suono di una campanella, gira
per i viottoli a chiamare i fanciulli; li conduce quindi in chiesa ove il
parroco, coadiuvato da chierici, insegna i rudimenti della fede in vernacolo.
Il vescovo in persona si era premurato di far tradurre e pubblicare in
siciliano la “dottrina del cardinale Berllarmino.” Ne ha mandato copia ad ogni
parroco «et in visitatione de hoc specialiter» ebbe ad inquisire. » Non si
lamenta il vescovo: il popolo risponde bene ai precetti della chiesa: «est
docilis, et pius; de fidei rebus catholicè credit; hanc S. Sedem et Christi
Vicarium summa et singulari veneratione prosequitur» Qualche nota dolente: « de
decimis autem et primitiis non be sentit; plbs vero communiter est blasphemiis
assuata, quem pravae consuetudinis abusum,nec confessariorum nec praedicatorum
exclamationes, nec episcoporum paenae aliquando inflictae abolere potuerunt.»
Pio e devoto quanto si vuole, il popolino il malvezzo della bestemmia ce
l’aveva radicato e non erano bastevoli neppure le sanzioni vescovili ad
emendarlo. Altrove come a Racalmuto.
Anche se
cambia il vescovo, non cambia taglio e genericità la successiva relazione che è
datata 6 aprile 1736. Racalmuto vi è assente in termini di dettaglio. Rientra
nelle note generali che sono del tutto eguali a quelle che abbiamo prima
citate. E così pure quella successiva dello stesso vescovo Lorenzo Gioeni,
anche se ora bisogna rispondere rigidamente ad un nutrito questionario.
Scarna anche la relazione
del 1748 del medesimo Gioeni, ma alcune note di costume la rendono
particolarmente interessante. Per esperienza il vescovo sa che i negozianti di
frumento, per smodata avidità di lucro, sogliono spesso all’inizio dell’inverno
nascondere partite di grano per vendere dopo a caro prezzo. Donde il popolo
versa in più dura indigenza. Erano, poi, tempi calamitosi: pestilenza e
sterilità si erano abbattute sull’intera Italia (mala quibus tota Italia afficitur[4]). Ma
il sesso è il chiodo fisso del presule: «saepe in Dioecesi evenit ut disculi
juvenes puella virgines sub spe matrimonii seducentes, carnaliter cum eis
conversentur: exinde vero vel alterius mulieris amore capti, vel majoris dotis
intuitu, dum coram meam Curiam conventi super promissione matrimonij stuproque
illato causa exagitur, Parochum vel de nocte, vel aliis furtive conveniunt, ac
coram eo testibusque a se conductis, cum altera clandestinè contrahunt per
evrba de presenti, cum maximo deceptae mulieris paeiudicio, honestarum
familiarum dedecore, ac episcopalis auctoritatis contemptu.» Scene davvero
manzoniane! Era il 28 agosto 1748.
Dal Gioeni a Lucchesi Palli:
è di quest’ultimo la relazione datata 6 gennaio 1765.
Il Lucchesi Palli si era
recato personalmente a Palermo per discutere un’annosa controversa con il Regio
Fisco: «completam victoriam obtinui.[5]» Si
trattava di canonicati: forse uno riguardava quello delle rendite racalmutesi di
S. Agata (beneficium simplex Sanctae Agatae dictum [6]).
Questione intricata quella che periodicamente ritorna: la competenza del
Tribunale Apostolico della Legazia. «Nullum est oppidum – scrive il vescovo –
pagusque nullus, in quo Commissarius Sancti Officii cum eius Magistro notario,
et saepe cum uno vel duobus librorum revisoribus non existat: et in aliquibus
etiam consultores et qualificatores electi reperiuntur.» Naturalmente anche a
Racalmuto. V’è quindi un salto trentacinquennale nelle relazioni ad limina che non avviene solo ad
Agrigento: gli eventi finali del Settecento coinvolsero anche la chiesa. La
prima relazione disponibile è del primo ottobre 1800 ed è firmata da Saverio
Granata. E’ un resoconto dei benefici ecclesiastici. Racalmuto vi appare (cfr.
f. 619) in quanto in esso «horae canonicae quotidie in choro persolvuntur et ex
Massa Sacrae Distributionis, sic dictae Choro interessentes stipendium
percipiunt..» Il vescovo assicura di avere visitato le località; «cantum
gregorianum juxta Graduale et Antiphonarium praescripsi; eorum memini,
militantis Ecclesiae psalmodiam caelestem Beatorum Spirituum concentum ante
Thorum Dei emulari, et ob id non perturbate, non cursim, sed gravi cum pausa
horas canonicas recitare debere, ut intuentes aedificent.» Aveva ragione quel
presule ad esigere dai mansionari racalmutesi un contegno greve e solenne
durante il canto delle ore canoniche. Un canto che era bene (e sarebbe bene)
che avvenisse secondo il più rigido cerimoniale, quello del Graduale e
dell’Antifonario. Non ne abbiamo tanta nostalgia.
Il succedersi dei vescovi ad
Agrigento non è indifferente per la storia (o microstoria) di racalmuto: quei
presuli avevano tanto e tale potere sul nostro centro abitato da determinarne
il corso umano, civile oltre che religioso, ovviamente. Un non meglio precisato
“capitano giustiziere di Racalmuto” si
associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di
Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo
mano armata. [7] Sono le ore dodici del 28
agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di
alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista
Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale
dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in
questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur
sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana, ed il nostro paese in
questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha contorni più
emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la questione ad
un moggio di lenticchie o di legumi come
ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di
ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il
fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da
vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i
ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si
precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto
di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in
vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della
Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma
dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò,
vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era
stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il
governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il
loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché
l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati …
[…] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero
pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di
Lipari si collega l’interdetto agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa
inviava ai vescovi dell’isola una lettera nella quale si confermava la
scomunica ai catapani di Lipari e si ordinava di affiggere copia di detta
lettera in tutte le chiese della Sicilia. Ramirez vi si attenne senza attendere
l’autorizzazione del re, che era di diritto legato apostolico. Il viceré
Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente agli vescovi fedeli a Roma – e lo
costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano d’armi di Racalmuto, come si è
visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica personale.
Un non meglio precisato
“capitano giustiziere di Racalmuto” si
associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di
Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo
mano armata. [8] Sono le ore dodici del 28
agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di
alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi
ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale
dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in
questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur
sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana, ed il nostro paese in
questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha contorni più
emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la questione ad
un moggio di lenticchie o di legumi come
ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di
ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il
fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da
vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i
ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si
precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto
di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in
vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della
Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma dell’avvertimento
non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò, vollero restituire il
maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era stata consumata, il
diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il governatore e i giurati
di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il loro torto … [..] Degli
acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché l’autorità degli acatapani
emanava da quella del governatore e dei giurati … […] Monsignore voleva
soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero pubblicamente in
torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di
Lipari si collega l’interdetto agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa
inviava ai vescovi dell’isola una lettera nella quale si confermava la
scomunica ai catapani di Lipari e si ordinava di affiggere copia di detta
lettera in tutte le chiese della Sicilia. Ramirez vi si attenne senza attendere
l’autorizzazione del re, che era di diritto legato apostolico. Il viceré
Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse
ad abbandonare l’isola. Il capitano d’armi di Racalmuto, come si è visto,
cooperò e si prese la sua brava scomunica personale.
Il papa difese ad oltranza
il vescovo Ramirez. Pervenne al papa una lettera che vogliamo qui riportare,
ove i fatti hanno una versione che è pur di parte ma che hanno una buona
attendibilità. «Ha pervenuto non senza doglianze alla nostra notizia e di
questo Tribunale dell’apostolica legazia e regia monarchia – a scrivere è il
dottore in utroque D. Francesco Miranda e Gayarre, de consilio sacrae catholicae majestatis – che essendo stato il
reverendissimo arcivescovo di Girgenti don Francesco Ramirez intimato d’ordine
di S.E. a partirsi da quella diocesi e da questo fedelissimo regno, per li
giusti motivi che mossero l’animo di S.E. concernenti al real prestigio e
pubblico bene e quiete del regno, valendosi con matura riflessione et evidente
giustizia della potestà economica contro il nomato prelato, quello, abusandosi
del titolo specioso di consigliere di S.M. (che la divina guardi) e del proprio
giuramento di fedeltà e d’osservare le prerogative regie e del regno, facendosi
scudo, benché ideato, d’essere lesa la libertà ecclesiastica, e d’aver patito
violenze dal capitano Ochoa, dottor don Giovanni Battista Guzzardo, chierico don
Pompeo Grugno, Ettore Antinori, ed altre persone generalmente, specialmente e
individualmente nominati, passò a scomunicarli; e supponendo che l’esercizio di
tal potestà economica fosse enorme delitto, passò ad interdire la cattedrale e
tutte le chiese della diocesi, mostrandosi poco buon genio verso il real
servizio e la potestà economica di S.E. Per la totale elevazione del quale
interdetto, per l’evidente nullità ed altre reazioni, e per aprirsi le chiese
con la continuazione de’ divini offici ed amministrazione di sacramenti, si
stan spedendo, per via del Tribunale gli ordini opportuni. Ma per adesso
riflettendo che la riferita censura fulminata contro le persone, così come in
specie riferite, ha processo, ex abrupto, de facto, nullo iuris ordine servato,
contro la forma de’ sacri canoni, concili ecumenici, con pubblico scandalo,
evidente perturbazione dei popoli, ed impedimento al corso della giustizia ed
esercizio della potestà economica, ed in esecuzione di supposta potestà
concessagli dalla Corte Romana, non esecuta né presentata nel regno, in grave
pregiudizio delle regalie e prerogative del regio exequatur, secondo si prescrive dai più reali dispacci de’
serenissimi monarchi, fondati in evidenti ragioni, avvalorati da antichissima
ed immemorabile osservanza, mai interrotta nel lungo corso di più secoli, non
solo in questo fedelissimo regno, ma anche per tutto il mondo cattolico, come
uniforme al diritto delle genti, alli sacri canoni, concili universali, e
concordie con la Santa Sede; ed accrescendosi i motivi di suddetta nullità ed
insussistenza dalli notabili eccessi ed evidenti aggravi: resta la suddetta
censura, come sopra fulminata, assolutamente nulla ed ingiusta, da tenersi
solamente da chi la fulminò, non avendo né tampoco precesso le solite e
necessarie munizioni, né tampoco la citazione ad dicendum causam quae, secondo precettò la stessa Verità increata.» [9]
Ma quella lettera irritò
ancor di più il pontefice che definisce «plurimae atquae vere acerbissimae» le
notizie che gli giungono dalla Sicilia. Quella missiva viene così stroncata:
«Declarantur nulla litterae, edictum et praeceptum a Tribunali monarchiae
Siciliae contra censuras ab episcopo Agrigentino in sui expulsores declaratas
et interdictum cui subiecta fuit dioecesis Agrigentina, cum illarum damnatione
et horum confirnatione ac poenis in contravenientes.» Ora il capitano d’armi
racalmutese è ben servito: è il papa in persona a scomunicarlo. Altrettanto per
tutto il popolo di Racalmuto. Una sepoltura in chiesa non è più consentita. A meno
che …(a meno che non riescano i raggiri di cui abbiamo detto).
Sciascia, spirito laico, non
se ne dà pena più di tanto. Nella Controversia
ironizza: «ingastone … Era
inevitabile che nascesse il contrabbando dei sacramenti e che andasse su di
prezzo come il pane in tempo di carestia. perlongo L’altro giorno un mio vicino di casa, orefice
di mestiere, era in punto di olio santo. Ha chiesto un prete buono: cioè non
scomunicato. I figli non sono riusciti a trovarglielo, sono tornati portandosi
dietro don Mamiliano Cozzo, che tra gli scomunicati direi che è il più
conosciuto. Il moribondo, vedendolo, ha trovato la forza di gridare che non
voleva da lui l’estrema unzione. I figli e i vicini sono riusciti a convincerlo
a prendersi l’olio da don Mamiliano. E sapete con quale ragione? Che era meglio
di niente. ingastone Proprio così …A Girgenti, a una donna cui stavano battezzando il nipote,
ho domandato se sapeva che il prete officiante era uno scomunicato. Lo so, mi
ha risposto: ma quando tornano quelli buoni lo faremo ribattezzare. E il bello
è che sanno benissimo quanto siano stati cattivi i preti che chiamano buoni.»
Noi non crediamo che la
faccenda dell’interdetto sia stata presa così alla leggera: credo, comunque,
che i preti se ne siano rimasti al loro posto, a battezzare, a confessare, a
perdonare in nome di Dio, a confortare con l’estrema unzione. Quanto a
seppellire, bastava in piccolo espediente ed anche la chiesa veniva aperta al
feretro. Ma il dramma rimaneva tutto, .. ancor oggi imperdonabile, a nostro
avviso.
Mons. De Gregorio – colto e
prudente – ci pare particolarmente circospetto. Scrive: «Il 28 agosto 1713 il
vescovo fu costretto ad allontanarsi da Agrigento […] Cominciò allora un periodo assai turbolento
in cui clero e popolo si divisero tra favorevoli e sfavorevoli all’interdetto:
tra scomuniche minacce, carceri, esili, confische e vessazioni, scorsero sei anni di
insicurezza e disordine sino al 1719 quando l’interdetto venne tolto. Durante
questo periodo l’ordine del vescovo fu generalmente osservato, ma per le
violenze e le imposizioni delle autorità civili, non solo in Agrigento ma in
diocesi, le chiese furono aperte con la forza e i sacerdoti, in gran parte
provenienti da altre diocesi, vi celebrarono le sacre funzioni. Ma in genere,
sia il clero che il popolo, furono contrari alla violazione dell’interdetto.» E
francamente l’insigne monsignore ci pare imbarazzato e piuttosto ondivago. [10]
A Racalmuto la bufera non
sembra comunque essere soffiata con asprezza; l’arciprete racalmutese dr. D. Fabrizio
Signorino aveva a cuore le sorto delle anime dei suoi compaesani e vigilò con
prudenza e seppe mantenersi in bilico. Da quello che emerge dagli archivi
torinesi il nostro paese è del tutto defilato. Stralciamo queste notizie che
precisano se non altro i contorni di quella inquietante vicenda.
Da Palermo V. Amedeo
scriveva l’8 novembre 1713 al De St. Thomas sulle vicende agrigentine non
mancando di “rimirare” «come un riflesso e sequela delle Vostre operazioni il
riavedimento seguito in Girgenti, ove le cose sono altresì restituite nella
primiera calma, toltone la sola renitenza de’ PP. Capuccini, rispetto alla
quale si stanno qui prendendo le opportune misure.» [11] Ma
il 5 dicembre 1713 il re deve inviare D. Tommaso Loredano ad Agrigento, giudice
della R. Gran Corte, in quanto occorre «metter il dovuto freno a que’
inconvenienti ch’ancor succedono in Girgenti.» Vi giravano padri cappuccini per
assolvere dall’interdetto. Alcuni di loro furono arrestati “come nel caso di
Cammarata”, giusta quel che si legge in una nota dell’8 aprile 1714.
Veniamo a sapere [12] che
«due stampe sono divalgate a Roma: l’una che contiene un Brebe del Papa,
diretto al Capitolo della Cattedrale di Girgenti: e l’altra che consiste in una
scrittura intitolata «Lettera di disinganno per gl’Ecclesiastici delle Diocesi
di Catania e di Girgenti». La data del Breve si è de’ 10 del mese scorso [marzo
1714] e la sua sostanza si riduce a dolersi che [taluni] canonici riconoschino
per Vicario Generale il Canonico Formica [per cui si ordina] sotto pena di
scomunica a sé riservata di più riputare
il canonico Formica per Vicario […] e l’altra scrittura intitolata il disinganno … potrebbe probabilmente
essere quella del Padre Pisani Gesuita.».
In una sorta di libertà
vigilata restano a termine il canonico Rini e l’arciprete di Bivona. E’ datata
11 maggio questa missiva al De St. Thomas: «Vedrà V.S. come a Canicattì si
fusse trovato affisso il consaputo Editto del Papa per l’osservanza
dell’Interdetto, in seguito a cui si fussero colà chiuse le Chiese; sopra di
che mi commanda S.M. di scrivere in di Lui nome, a V.S. che ove si trovino
effettivamente chiuse le Chiese in Canicattì, ed altri luoghi … Ella vi proveda a tenore de’ precedenti
ordini di S. M. con mandarvi dei Religiosi ben affetti tanto Secolari, che
Regolari per far riaprire ed ufficiare dette Chiese.»
Fuggito il Ramirez, non
senza prima avere comminato furtivamente l’interdetto sopra rappresentato, la
sede resta per lungo tempo vacante. Il
Ramirez muore – per così dire, esule – il 27 agosto 1715, ma la sede
agrigentina viene raggiunta da un presule riconosciuto da Roma solo il 24
settembre 1723. Il nuovo vescovo è Anselmo della Penna (Peña): quello che fa
tradurre il catechismo in siciliano ed esige che siano educati i fanciulli inculcando
loro le nozioni rudimentali della fede in perfetto dialetto siciliano. Quel
testo andrebbe recuperato per studi linguistici di portata anche sociologica.
Il Mongitore – integrando
il Pirri - ci ragguaglia sulla sede
vacante con queste laconiche notizie: durante la sede vacante la Chiesa non fu
guidata da alcun Vicario. Ma liberata la diocesi dall’interdetto nel 1719, il
Capitolo della Cattedrale elesse Vicario generale Giuseppe Pancucci agrigentino
U.I.D., canonico della stessa cattedrale e Tesoriere.
Quel che in quella sede
viene precisato su La Peña è così traducibile: «Anselmo della Penna, ispano,
nato in una località denominata Rabaderia della diocesi auriense in Galizia nel
1655, apparteneva all’ordine di S. Benedetto ed era laureato in Sacra Teologia.
Fu elogiato prefetto dell’ordine ed abbate generale della congregazione
benedettina di Spagna. Fu eletto vescono di Crotone il 2 febbraio 1715. A
quattro anni della nomina di Carlo VI Imperatore a re di Sicilia, fu il La
Penna trasferito a capo della chiesa agrigentina con bolla pontificia di
Innocenzo XIII del 5 ottobre 1723, registrata in Palermo il 9 novembre del
medesimo anno. Prestò giuramento solenne nelle mani dell’arcivescovo
palermitano F.D. Giuseppe Gasch l’11 novembre 1723 in forza di breve
apostolico. Elesse suo Vicario generale l’ U.I.D. Antonino Zavarrone,
protonotario apostolico. Resse la diocesi spinto da zelo pastorale e si
distinse per la carità verso i poveri. Nell’anno 1729, allorché ebbe
un’impennata il prezzo del frumento in Sicilia, egli a poco prezzo distribuì ai
poveri una gran quantità di grano. Affetto da una grave febbre mentre visitava
Caltanissetta, aggravandosi il male, volle che fosse trasportato nella città di
Agrigento, dopo essere stato munito dei conforti religiosi; qui, ottuagenario,
cessò di vivere il 4 agosto 1729.» [13]
Succede Lorenzo Gioeni ed
Incardona, nobile palermitano, su presentazione di Carlo VI. Investito con
bolla pontificia di Clemente XII dell’11 dicembre 1730, trascritta in Palermo
il 5 gennaio 1731, rifulse – per il Mongitore [14]- per
doti d’animo e per virtù. Sotto di lui viene redatto un volume di tutti i
benefici e cappellanie della cattedrale di Agrigento e della diocesi. Per il
Picone, «fu uno di quegli uomini che, a buon diritto, posono addomandarsi
rigeneratori di una città, ed egli fe’ rifiorirla nella pubblica istruzione,
nel pubblico costume, e nel commercio.» [15] Il che sarà vero per Agrigento, ma dubitiamo
fortemente che valga per Racalmuto. Nelle due visite pastorali che fece a
Racalmuto nel 1737 e nel 1748 ci pare oltremodo fiscale; piuttosto duro e
bigotto, fu, se bene leggiamo, persino critico verso il nostro padre Elia Lauricella. Il padre Morreale
ovviamente non è d’accordo e forse ha ragione lui.
Succede Andrea Lucchesi
Palli (dal 25 luglio 1755 al 4 ottobre 1768). Nobile dei principi di
Campofranco, fondò la celebre omonima biblioteca che interessò Pirandello e fu
oggetto di qualche spunto letterario anche per Sciascia.
Dal 20 novembre 1769 al 23
maggio 1775 è la volta del nobile Antonio Lanza della celebre famiglia di
Mussomeli, cui era appartenuta Melchiorra Lanza la moglie dell’ultimo conte del
Carretto. Teatino, resta immortalato, e non tanto gradevolmente, dalla sapida
penna del viaggiatore inglese Brydone. «Appartiene – scrisse tra l’altro
l’inglese – a una delle prime famiglie dell’isola ed è fratello del principe di
…. È un omettino onesto e una persona piacevole, e questo è ciò che conta. Non
ha ancora quarant’anni, ed è fuori del comune che abbia raggiunto una simile
carica così giovane, essendo questo il vescovado più ricco del regno. E’ un
buon letterato, profondamente erudito sia cose antiche che di cose moderne, ed
è altrettanto intelligente che colto. […] Tra i commensali abbiamo trovato
parecchi massoni, che ci fecero festa apprendendo che eravamo loro confratelli.
» Quel vescovo, durato invero poco, non ebbe tempo (o voglia) per rassegnare
alcuna relatio ad limina al papa.
Dopo, per dieci anni, dal 15
aprile 1776 al 31 luglio del 1786, regge la diocesi Antonio Colonna Branciforti,
di cui sappiamo ben poco (e forse, al di là del suo altisonante casato, passò
del tutto inosservato). Il Picone annota: al magnanimo Lucchesi …« succedevano Lanza e Branciforti, i quali
nel periodo di loro vescovado nulla fecero che ne ridesti la memoria. » Per un
paio di anni abbiamo quindi la sede vacante.
E’ la volta dell’agrigentino
Antonio Cavalieri che non dura più di un biennio (dal 15 settembre 1788 al 10
dicembre 1791). Sempre il Picone: «succedeva il nostro concittadino … che tentò
di rendersi benemerito della patria, ma la morte il prevenne nei suoi disegni.
Egli il 14 gennaio 1789 dirigeva al re un memoriale per lo quale chiedeva che
gli si concedesse a titolo di vendita, o di enfiteusi il conventino dei
Riformati (già da tre anni abolito) e la piccola selva annessavi, onde egli potesse piantarvi un orto botanico di
erbe medicinali pei poveri. Egli aveva già indotto un valente botanico di
Palermo a venire in questa, gli aveva assegnato un convenevole stipendio, e
disegnava condurvi una vena d’acqua per l’irrigazione delle piante.»
Il 1° giugno 1795 accede al
soglio episcopale Saverio Granata, il suo magistero durò sino al 29 aprile del
1817. E’ dunque un prelato che si proietta nel secolo successivo, in un’altra
epoca, davvero.
IL CLERO RACALMUTESE NEL
SETTECENTO.
Parlare delle cose di chiesa
non è poi cosa diversa dal vivere civile in tempi – come ancora è il Settecento
– ove il sacro ed il profano non ha linee di demarcazione ben distinte. Il
cosiddetto spirito laico è prodotto di colture recentissime. Certo in Francia
fu storia diversa. Facile citare il Voltaire. Ma noi siamo a Racalmuto e quello
che di laico vi poteva essere non andava al di là di qualche espressione
blasfema, cui il popolino pare indulgesse, nonostante le pene che la curia
vescovile s’industriava di infliggere. Ancora, alla fine del secolo, il noto
canonico Mantione, quando ancora era arciprete, segnalava al Caracciolo coloro
che si astenevano dal precetto pasquale. Ed il laicissimo Viceré, che ancora
rappresentava il re quale titolare dell’Apostolica Legazia sanciva richiami,
più o meno convinti.
Parlare dunque di preti a
Racalmuto nel settecento è in definitiva parlare della componente più vistosa e
più intricante della classe dirigente locale. E a ben vedere anche di quella
economica.
Ecco perché ci avvaliamo di
una rubrica stretta ed alta che l’arciprete Puma conserva ancora gelosamente in
Matrice per seguire l’elenco degli ecclesiastici che finirono i loro giorni nel
Settecento. «LIBER in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum,
nec non Diaconorum et Subdiaconorum et Clericorum huius terrae Racalmuti, jam
ex hac vita discessorum a pluribus ab hinc annis fere immerorabilibus, opere
R.di Sac. D. Paulini Falletta hon anno 1636 pro quarum animarum suffragio semel
in mense in feria secundae hebdomadae ad cantandam missam omnes Sac.es,
Diaconi, Subdiaconi et Clerici se obbligaverunt convenire, ut in actis Notari Panfilis Sferrazza
Racalmuti sub die 26 Martii 1638» reca come intestazione il registro, che non
si ferma al 1636 ma prosegue sino al sac. Don Gaetano Chiarelli, di cui ha
steso convinte note biografiche l’attuale arciprete, p. Puma.
Nel Settecento furono 161
gli ecclesiastici racalmutesi che qui cessarono di vivere. Per la maggior
parte, solo data di nascita e di morte, per qualcuno solo la data di morte e
l’indicazione degli anni; per taluni – i privilegiati – note biografiche più
dense. Il secco annotare si stempera un po’ con D. Pietro Signorino (n° 139),
con il chierico Giuseppe Nalbone ( n° 279), con D. Antonino Picone Chiodo per
essere esplicito – ma non troppo – con p. D. Giuseppe Elia Lauricella e
divenire persino prolisso con D. Nicolò Figliola e D. Stefano Campanella: le
ragioni economiche fanno aggio su quelle della santità.
In appendice forniamo una
lunga sfilza di sacerdoti, ecclesiastici e suore di Racalmuto nel Settecento.
Sono ricavabili n° 118 famiglie che vantano un religioso nel proprio casato;
per ordine alfabetico abbiamo:
ALAIMO
|
ALESSI
|
ALFANO
|
ALFIERI
|
ALGOZINI
|
AMATO
|
AMELLA
|
AMICO
|
AMICO
E MATINA
|
AMICO
E MORREALE
|
ARNONE
|
ARRIGO
|
AVARELLO
|
BAERI
|
BARONE
|
BARTOLOTTA
|
BELLAVIA
|
BIONDI
|
BIUNDO
|
BORZELLINO
|
BRUTTO
|
BUSUITO
|
CACCIATORE
|
CAMPANELLA
|
CARAMELLA
|
CARINI
|
CARLINO
|
CARRETTI
|
CASTROGIOVANNI
|
CASUCCI
|
CAVALLARO
|
CHIODO
|
CIMINO
|
CINO
|
CONTI
|
CRINO'
|
CURRETTI
|
CURTO
|
DE
MARIA
|
DI
BENEDETTO
|
DI
CARO
|
DI
MARIA
|
DI
NARO
|
FARRAUTO
|
FIGLIOLA
|
FRANCO
|
FUCA'
|
GAGLIANO
|
GAMBUTO
|
GATTUSO
|
GIUDICE
|
GRILLO
|
GRILLO
E BRUTTO
|
GUADAGNINO
|
LA
LICATA
|
LA
LOMIA CALCERANO
|
LA
LUMIA
|
LA
MATINA
|
LA
MENDOLA
|
LA
ROSA
|
LAUDICO
|
LAURICELLA
|
LO
BRUTTO
|
MACALUSO
|
MAIDA
|
MANTIA
|
MANTIONE
|
MARRANCA
|
MARTORANA
|
MATRONA
|
MATTINA
E MARIA
|
MATTINA
ED AGRO'
|
MERCANTE
|
MILANO
|
MONTAGNA
|
MONTICCIOLI
|
MORREALE
|
MULE'
|
NALBONE
|
PANTALONE
|
PERRIERA
|
PETRUZZELLA
|
PICATAGGI
|
PICONE
|
PIRRERA
|
PISTONE
|
POMO
|
PROVENZANO
|
PUMA
PAGLIARELLO
|
PUMO
|
RAO
|
RASPINI
|
RENDA
|
RESTIVO
PANTALONE
|
RIZZO
|
ROCCELLA
|
SALEMI
|
SALVO
|
SALVO
SINTINELLA
|
SASSI
|
SAVATTERI
|
SAVATTERI
E BRUTTO
|
SCIBETTA
|
SCIBETTA
ALFANO
|
SCIBETTA
E FRANCO
|
SCIBETTA
E MENDOLA
|
SCIME'
|
SFERRAZZA
|
SIGNORINO
|
SPAGNOLO
|
SPINOLA
|
SURCI
|
TIRONE
|
TORRETTA
|
TROISI
|
TULUMELLO
|
VINCI
|
L’elenco del LIBER (come
d’ora in poi chiameremo quel registro con la lunga intestazione in latino sopra
riportata) esordisce con d. Vincenzo Casucci (n° 154) Collegiale. Obiit 4 Augusti 1701 di anni 41. Il 18
dicembre è la volta di d. Calogero Pumo di 90 anni. L’autore del LIBER muore il
21 agosto 1705 all’età di 75 anni. Don Vincenzo Castrogiovanni (+ 28 agosto
1706) era “predicatore e Collegiale). Collegiale era pure Davide Corso (+ 3
luglio 1707): anzi, insieme con don Vincenzo Castrogiovanni, era stato tra i
primi mansionari all’atto della costituzione della communia il 13 gennaio 1690.
Don Michelangelo Romano (24 ottobre 1711) fu beneficiale di S. Nicolò. Altro
collegiale fu d. Gaetano Cirami (+ 2 febbraio 1712). Don Giambattista Baera (+
15 ottobre 1714) e d. Francesco Savatteri (8 settembre 1712) risultano entrambi
“collegiali”.
Don Pietro Casucci (+ 7
dicembre 1713), collegiale della prima ora, trova sepoltura in Matrice “ex
obbligazione” ad onta dell’interdetto. Aveva solo 55 anni. D. Santo d’Acquista
(+ 15 ottobre 1714), il primo dei 12 mansionari del 1690, viene tumulato come
il Casucci, in Matrice “ex obligatione” facendosi eccezione all’interdetto del
Ramirez. D. Francesco La Mattina era
stato canonico della cattedrale. D. Giuseppe Provinzano (+ 21 settembre 1729)
abbate predicatore, Vicario e collegiale. Don Lorenzo Farrauto (+ 7 novembre
1729) cappellano, collegiale.
Il dr. Don Fabrizio
Signorino (+ 15 settembre 1729) era stato arciprete e collegiale. A quanto pare
non si era molto curato dell’interdetto. Suo Vicario: dr. Don Giuseppe Lo
Brutto (+ 10 dicembre 1728) che ovviamente era stato anche collegiale, insieme
con d. Calogero Cavallaro (+12 gennaio 1730) e con d. Antonino d’Amico (+ 5
giugno 1732). Non solo collegiale ma anche fidecommissario della chiesa di S.
Michele era stato d. Francesco Pistone (+ 26 dicembre 1733).
L’arciprete dr. Don Filippo
Algozini di Prizzi muore a Racalmuto il 20 ottobre 1735 all’età di 50 anni. Suo
un rapporto dettagliatissimo sulla Matrice, datato 1731. L’economo vicario d.
Francesco Torretta decede il 7 settembre 1744. Per don Pietro Signorino (+ 11
aprile 1747) il LIBER annota: “Beneficiale dell’Itria – Fondatore della chiesa
del Monte”. Aveva 70 anni .
Veniamo a sapere che d.
Girolamo Grillo (+ 23 febbraio 1745) era “commissario del S. Officio”. Muore a
soli 27 anni. D. Francesco Sferrazza (+ 10 ottobre 1753) fu arciprete di
Castrofilippo. In risalto d. Francesco Di Maria (+ 9 marzo 1754), in quanto
“fondatore della chiesa di S. Pasquale”. A 66 anni muore d. Orazio Bartolotta
(+ 13 luglio 1745) Il dr. Diego di Franco (+ 30 ottobre 1755) aveva avuto un
canonicato nella Cattedrale di Agrigento. Don Gaspare Casucci (+ 26 gennaio
1757) era stato collegiale, beneficiale di S. Antonio. Muore il 27 gennaio 1757
l’arciprete dr. D. Antonio Scaglione. Beneficiale era stato anche d. Vincenzo
Casucci (+ novembre 1757). Anche don Melchiorre Grillo (+ 30 dicembre 1759) era
stato commissario del S. Officio; in più “economo fidecommisso della chiesa del
Monte e collegiale”. Altro commissario del S. Officio: d. Orazio Bartolotta (+
11 luglio 1761): “era di Montedoro”. Muore il vicario foraneo dr. D. Giuseppe
Grillo (+ 17 dicembre 1764). Il chierico Giuseppe Narbone (+ 30 marzo 1766)
viene “ritrovato morto in un palmento dello Zaccanello” Aveva 19 anni.
Beneficiale di S. Nicolò era stato d. Giuseppe d’Agrò (+ 29 agosto 1768). D.
Antonino Picone Chiodo (+ 19 maggio 1771) “morì ammazzato con un colpo di
fucile”; aveva 42 anni.P. d. Angelo Maria Baera, morì d’apoplessia il 28
novembre del 1778. Ed è ora la volta di Padre Elia.
N° 283. P. D. Giuseppe Elia Lauricella - «Collegiale, Maestro di Spirito nel Seminario
di Girgenti, Missionario, Predicatore e confessore di diversi monasteri e
Collegi di Maria, promotore zelante per la recita del SS. Rosario in ogni 21
ora nelle piazze e nelle strade, a tutti caro, e stimato per lo spirito di Dio,
e pochi mesi pria di morire, curò la fondazione di questo Collegio di Maria, fu
Curato di Comitini, ed altri paesi della Diocesi, morì in fama di santità in
Canicattì con pianto universale, e nella Chiesa degli Agonizzanti sta sepolto
il di lui cadavere e fu nel giorno 8 Novembre 1780 – d’anni 73» P.S. Traslato
al santuario di racalmuto il 16.1.1966. A.Puma.
All’età di 85 anni muore il
detentore dei libri della matrice D. Antonino Mantione (+ 21 novembre 1781),
aveva 85 anni. All’età di 74 anni muore d. Benedetto Nalbone (+ 16 marzo 1783).
Quanto a d. Nicolò Figliola, ne scriviamo altrove, come per l’arciprete D.
Stefano Campanella. Risulta vicario foraneo e “uomo di governo” D. Alberto
Avarello (+ 28 ottobre 1787). Il collegiale d. Pasquale Fucà muore a 73 anni il
24 agosto 1797. E’ l’ultimo della lista, per quanto riguarda il secolo XVIII.
Considerazioni conclusive sul Settecento Racalmutese.
Il Settecento si chiude con
quattro protagonisti, tutti sacerdoti, dotati di una personalità spiccata;
costoro furono sicuramente fra loro confliggenti e lasciarono solchi indelebili
nel corso della locale vita paesana. Essi sono : don Nicolò Tulumello, don Francesco Busuito, don Giuseppe Savatteri
e Brutto, nonché l’arciprete – non ancora canonico - don
Gaetano Mantione.
Su don Nicolò Tulumello, con
le sue poco pie voglie di acquisire indebiti titoli nobiliari, abbiamo già
detto. Su don Giuseppe Savatteri, altrettanto enon vanno neppure obliate le
stilettate inferte da Leonardo Sciascia. Don Francesco Busuito – veniamo a
sapere dal LIBER – fu “consultore del Sant’Ufficio”, fino a quando non venne
soppresso. C’era materia per dileggi sciasciani, ma il sacerdote la passò
liscia, per non conoscenza dei fatti, pensiamo.
Era imparentato con don
Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono un ramo di quella
famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel LIBER, mentre al
Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al Busuito
l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza dell’arciprete
Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco Busuito – vi si
legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista, Consultore del
Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto Monsignor Gioeni
alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente. – Maestro di
Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore, Rettore del
Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS. Crocefisso, Economo
– obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se tutti questi elogi siano
dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o non era una scelta di campo
dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito e tutto avverso al
Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco di quegli intrighi si
hanno persino nel 1870 in una memoria difensiva del sacerdote don Calogero
Matrona. Anche in quella sede è detto che nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si
ritrova vacanti alcuni beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li
assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don
Calogero Matrona, divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse, è particolarmente
vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in
titolo dell’8 luglio 1767 - scrive fra l’altro il Matrona - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella
Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre
di Racalmuto un beneficio semplice
in adjutorium Parochi di libera collazione
da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di
coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse
solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi
in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna
destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale.
Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il
beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di
un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10
luglio 1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il
Sac. Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di
Girgenti dispensandolo
dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a
sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le
obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale
elezione, come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal
Sac. Don Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo
Brutto di Racalmuto impugnavasi la
fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva
lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in
dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal
Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata
Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra
quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del
suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un
orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di
pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati
fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di
giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi
e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati
a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco
solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il
pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria
autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di
possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il
3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi,
conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi
efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione,
pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio
anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi
questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi
nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase
il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor
Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo
sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie
sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte
del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri,
dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta
evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a
lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione
del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle
più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del
Savatteri.
«Morto però il Beneficiale,
il cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi
biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto
il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione
pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e
desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto
che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la
validità delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato
il beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista
della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del
beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò
accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché
conobbe la verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire
anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è
l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con
decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa
Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella
minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo
della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali
sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii
[...]»
Al beneficiale don Ignazio
Cavallaro succede il nipote
(figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico
Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò
contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con
cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in proposito si
respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di
una bolla di collazione nel 1902
(cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è
accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Il canonico Mantione è
personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo coltissimo ma
sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del Gattopardo.
Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di Santa Rosalia.
V’è tutta una documentazione all’arcivio vescovile di Agrigento ove si parla
della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene
l’autorizzazione avenderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti
Grillo;a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare –
quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una imperdonabile colpa del canonico Mantione. Per mera grettezza
economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di
Racalmuto andasse
irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà
stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è
servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)»,
ma aveva un rilievo ed una sacralità
superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era
uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era da quattro anni arciprete di Racalmuto, con
prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o
rafforzare un muro erano accessibilissimi. E’ un comportamento – quello
dell’arciprete del tempo – che mi appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la
dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella
gli riverbera una poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, quella
era un’antichissima chiesetta risalente, a seconda delle varie versioni , al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208
(Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del
1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine). Nel 1628, ad opera della
Confraternita delle Anime del Purgatorio venne riadatta, o edificata (o
riedificata); resistette sino
al 3 giugno 1793 quando fu ceduta,
appunto, al sac. Salvadore Grillo; e ciò per un baratto: un altare con statua
alla Matrice per una chiesa da ridurre a stalla.
Santa Rosalia non ha più
casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento. Nell’epoca del
romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del Monte di cui
credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga era stata
inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don Francesco
Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone
nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità
ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso
dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente
eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli
recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla
testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed
ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’
«aura romantica ed un tantino melodrammatica».
[1] Francesco Lo Brutto aromatario
Scrivevo
qualche mese fa:
Non sono disponibili dati anagrafici
su Francesco Lo Brutto. Riteniamo che fosse molto più anziano del sac. Santo
Agrò e gli sia premorto, ragion per cui non può avere sostenuto le spese di
miglioria della nuova matrice, specie quella a tre navate che sappiamo operante
solo dopo il 1662. Nella numerazione delle anime del 1660, il nominativo non
figura per nulla e quindi era deceduto da tempo.
Una
recentissima consultazione del Rollo Primo del Suffragio apre qualche spiraglio
sulla identità di questo speziale del seicento tramandatoci dal Pirri. Ai fogli
72 e seguenti abbiamo la cronistoria di un legato di don Gaspare Lo Brutto alla
Confraternita del Santissimo Suffragio delle Anime dei defunti fondata nella
Matrice. La lettura degli atti ci consente di stabilire che il sacerdote è
figlio di Antonino Lo Brutto e che l’aromatario Francesco Lo Brutto era un suo
fratello. Gli atti risalgono al 20 ottobre 1616 ed al 3 ottobre 1617.
Da qui è
piuttosto agevole risalire al nucleo familiare secondo quel che emerge dal
Rivelo del 1593. Non vi dovrebbero essere dubbi che il “fuoco” in questione sia
il seguente:
LO BRUTTO ANTONINO
|
CAPO DI CASA DI ANNI 48 – CONSTANZA SUA MUGLERI - VINCENZO SUO
FIGLIO DI ANNI 18 - GIAIMO SUO FIGLIO DI ANNI 17 – FRANCESCO SUO FIGLIO DI 15
- JOSEPPI SUO FIGLIO DI ANNI 10 - GASPARO SUO FIGLIO DI ANNI 5 - ANTONELLA
SUA FIGLIA - NORELLA SUA FIGLIA
|
L’aromatario del Pirri
dunque nacque a Racalmuto attorno al 1578 da Antonino e Costanza Lo Brutto. I
suoi fratelli, oltre al sacerdote che morì molto giovane (il 4 ottobre 1617
secondo il Liber c. 2 n.° 31), furono Vincenzo (nato attorno al 1575), Giaimo
(nato attorno al 1576) e Giuseppe (nato il 19.1.1585); le sue sorelle:
Antonella (nata il 26.9. 1581) e Norella.
Quest’ultima si sposò con un fratello di
Pietro d’Asaro:
23 10 1622 D'ASARO
BARTOLO di GIOVANNI q.am e di GIOVANNA
con LO BRUTTO Leonora di Antonino q.am e di Constanza. Testi: Curto cl.
Panphilo e Sferrazza Mariano. Sacerdote: Sanfilippo don Gioseppe Trattasi del fratello del Pittore . Bartolo
era nato il 10.12.1597.
Don Gaspare Lo Brutto morì
dunque all’età di 29 anni come dal seguente atto e fu sepolto a S. Giuliano:
4
|
10
|
1617
|
Lo Brutto
|
don Gasparo
|
S. Giuliano
|
Per lo clero
|
Gratis
|
Ecco
come è ricordato nella visita del 1608:
cl:
Gasparo Brutto an: 20 cons. ad duos p. min. ord. die 19 maij 1606 Panormi
Un
giorno prima di morire fa testamento e dispone il seguente legato in favore
della Cappella del Suffragio delle Anime del Santissimo Purgatorio fondata
nella Matrice chiesa:
Est sciendum qualiter iner alia
capitula donationis mortis causa condite per condam don Gasparem Lo Brutto in
actis meis infrascripti sub die iij octobris prime ind. 1617 extat capitulum
pro ut infra:
Item dictus donans donavit et donat
legavit et legat Confraternitati SS.mi Suffragij Animarum SS.mi Purgatorij
fundate in Hac Terra Raclmuti tt.os viginti quatuor redditus de summa
supradictarum unciarum trium anno quolibet debitarum per dittum Don Antoninum
Capoblanco ad effetum celebrandi missas viginti quatuor de requie pro animas
defunctorum anno quolibet in perpetuum scilicet: missas duodecim in quolibet
nono die mensis novembris cuiuslibet anni et missas duodecim hoc est in die
lune cuiuslibet mensis unam missam in perpetuum quoniam sic voluit et non
aliter.
Ex actis meis
not. Natalis Castrojoanne Racalmuti.
Il 20
ottobre del 1616 don Antonino Capobianco era ancora chierico. Egli è costretto
a sistemare una intricata vicenda giudiziaria proprio con don Gaspare Lo
Brutto. Questi è però già infermo e manda al suo posto proprio l’aromatario
ricordato dal Pirri, Francesco Lo Brutto appunto. Il resoconto trovasi
nell’atto del Rollo del Suffragio (f. 72)
Die xx octobris XV ind.
1616
Notum
facimus et testamur quod Franciscus Lo Brutto Aromatarius huius terre Racalmuti
tamquam commissariatus D. Gasparis Lo Brutto eius fratris a quo dixit habere
tale specialem mandatum ... sponte quo supra nomine pro heredibus et
successoribus dicti D. Gasparis in perpetuum vendidit et alienavit .. clerico Antonino Capoblanco eiusdem terre
Racalmuti ... unam vineam de aratro arboratam cum eius clausura in duabus
partibus cum suis puntalibus domo torculari limitibus maragmatis gessi et alijs
in ea existentibus sitam et positam in feudo predicto Racalmuti et in contrata
Garamolis secus vineam Hyeronimi Capoblanco ex una et secus aliam vineam dicti
clerici Antonini emptoris et secus vineam heredum quondam Nicolai Capoblanco
minoris et secus vineam Antonini Curto Bartholi et alios confines; et eademmet
bona quae possidebat Nicolaus Capoblanco maiori, dictoque don Gaspari uti
ultimo emptori et plus offerenti predicta bona liberata per primum et secundum
decretum et actum possessionis inclusive redactum penes acta curie dicte Terre
Racalmuti diebus etc. banniata et subastata ad instantiam quondam Antonini Lo
Brutto et pro ut melius est expressatum et declaratum in dictis decretis
superius calendatis ad quae in omnibus et per omnia plena habeatur relatio et
me refero et non aliter nec alio modo.
Totam
dictam vineam cum omnibus supradictis etc. subiectam dictam vineam cum
arboribus ... cum eius solito onere census proprietatis et directi dominii
debiti et anno quolibet solvendi ill.i Comiti dicte Terre Racalmuti a quo ill.e
proprietario prefati contrahentes ad invicem proprio eorum nomine licentiam
auctoritatem et consensum reservaverunt et reservant cum debita et solita
protestatione mediante
Et hoc
pro pretio unc. triginta quatuor p.g. de pacto et accordio inter eos absque
estimatione ... de quibusquidem unc. 34 quoad uncijs quatuor dictus clericus
Antonius dare realiter et cum effectu solvere promisit et promittit dicto d.
Gaspari absenti ..
Et pro
alijs uncis triginta ad complementum dictarum unc. 34 dictus clericus
Antonius vendidit et subiugavit dicto d. Gaspari Lo Brutto uncias tres
redditus censuales et rendales .. super dicta vinea
Item in
et super quamdam aliam vineam sitam et positam in dicta contratasecus
supradictam vineam et secus dictam vineam Antonini Curto de bartolo et secus
vineam dictorum heredum quondam Nicolai Capoblanco
Item in
et super duabus domibus terraneis existentibus in dicta terra et in quarterio
Fontis secus domos heredum quondam Vincentij Mannisi ex una et secus domos
dicti Hieronimi Capoblanco ex altera
Testes Franciscus Manueli D. Michael Barberi et Joannes
Franciscus Pistone
Ex actis meis not. Simonis de Arnone.
In actis
curie juratorum ..Grillus mag. not. Franciscus
Anche
don Antonino Capobianco ebbe breve vita. Crediamo che sia una delle
innumerevoli vittime della peste del 1624. Già il 22 novembre 1626 risulta
deceduto. Naturalmente la cappella del suffragio si fa parte diligente nella
riscossione del legato. Tocca al solerte don Santo d’Agrò, nella sua veste di
deputato della Cappella del Suffragio delle anime del santissimo Purgatorio,
fondata nella chiesa Maggiore, di sollecitare gli eredi, come dalla seguente
carta notarile (Rollo Suffragio f. 75):
Die XXII
novembris X ind. 1626
Fuit per
me notarum infrascriptum ad instantiam don Sancti de Agrò deputati Capelle
Suffragij animarum S.mi Purgatorij fundate in maiori ecclesia huius terre
Racalmuti ... intimatum et notificatum Vincentio et Vito Capoblanco fratribus
heredibus universalibus quondam don Antonini Capoblanco Sacerdotis olim eorum
fratris presentibus et audientibus contractum de summa illarum unc. trium
redditus annualium per ipsos de Capoblanco dicto nomine debitarum anno quolibet
heredibus quondam don Gasparis Lo Brutto subiugantium per dittum quondam don
Antoninum dicto quondam don Gaspari vigore huiusmodi contractus subjugationis
facti in actis not. Simonis de Arnone die XX octobris XV ind. 1616, habeant et
debeant anno quolibet solvere dicte Capelle Suffragij eiusque deputatis tt. 24 redditus e sunt pro alijs dette
Cappelle legatis per dittum quondam don Gasparem in eius donatione causa mortis
fatte in attis meis not. infr. die iij octobris p. ind. 1617 et nemini alteri
solvere sub pena anno quolibet .... unde
Testes Antonius Curto martini et Franciscus Curto Joseph
Ex actis
meis not. Natalis Castrojoanne.
* * *
Giaimo
Lo Brutto morì pure giovanissimo, appena ventiquattrenne, ed era ancora
scapolo: non può quindi essere quello del noto processo dei Savatteri che
rivendivano il beneficio del Crocifisso in quanto eredi del nobile Giaimo Lo
Brutto:
1
|
9
|
1600
|
Lo Brutto
|
Giaimo
|
Antonino
|
Carmino
|
per lo clero
|
La madre
fu al contrario piuttosto longeva: morì nel 1636 e venen sepolta nella chiesa
che il figlio aromatario avrebbe abbellita:
27
|
6
|
1636
|
Lo Brutto
|
Costanza
|
m. del q.m
Antonino
|
Matrice
|
sepulta in
questa magior eclesia.
|
Su
Leonora (Norella) Lo Brutto, sposatasi con Bartolo d’Asaro, possiamo piluccare
qualche dato: Nel 1636 era già vedova. Le amministra i beni il pittore Piero
d’Asaro che li include nel suo rivelo come sue “gravezze”. Dichiara il 25
novembre 1636 nel documento intestato:
Rivelo
che il Cl. Don Pietro d'Asaro, clerico coniugato di questa terra di Racalmuto
presenta con giuramento nell'officio del signor D. Giacomo Agliata capitano d'arme
del Regno nella nuova numerazione delle anime, e facultà in virtù di bando
d'ordine di d. sig. cap.no d'arme in detta terra a 25 novembre Va ind. 1636
tra le
altre, la seguente “gravezza”:
Gravezze
mobili
Deve
onze ducento a Leonora d'Asaro di detta terra relicta dal q.m Bartholo d'Asaro
per causa et compenso delle sue doti assegnatele per testamento di d.o q.m
Bartholo in notaio Simone d'Arnone di detta terra di
onze....................................200
Ella
morì a 74 anni nel 1663 come dal seguente atto:
8
|
2
|
1663
|
D'Asaro
|
Leonora
|
74
|
Uxor q.
Bartholomei
|
Matrice
|
presente
clero
|
Agro'
Libertino
|
MANSIONARI
1690
[DALL’ARCHIVIO
VESCOVILE DI AGRIGENTO - REGISTRI VESCOVI 1689-1690 - F. 898 E SS.]
“Racalmuto
- Concessione di insegne corali pei 12 mansionarii”
Nos frater don Xaverius Maria Rhini
ex ord. min. reg. observantiae Sancti Principis nostri Francisci Dei et Sanctae
Apostolicae sedis gratia Agrigentinus Regiusque Comitus etc:
Dilecto in Cristo filio Ill.ri Domino
nostro D. Hieronimo del Carretto principi comiti terrae Racalmuti huius nostrae
agrigentinae dioecesis et salutem in Domino et nostram episcopalem
benedictionem.
Perillustres hae imperialis familiae,
et antiquissimae nobilitatis genus, multiplica servitia, quae ad suorum
perillustrium Antenatorum imitationem, invictissimo nostro Catholico
Hispaniarum Regi in muneribus militaris campi ad bellum in revolutionibus
Civitatis Messanae, et in bello regio Galliae evidenti cum tuae vitae periculo
in fonte inimicorum tuis maximis dispensiis manutendo societates militum
siculorum, alemannorum et calabriensium, et vicarij generalis prius in civitate
neti, et postea in hac Civitate Agrigenti, eamque repartimentis toto d. belli
et revolutionum tempore contra Gallos ad singularem benefitium, et huius regni
hi tamen prestiti, et in diem prestare non curans (?), quorum intuitu à
predicto invictissimo Rege pias (?) ceteras mercedes habuisti munus Pretoris
predictae Siciliae regni et clavem auream uti illius eques; aliaque innumera
laudabilia merita nobis satis superque
cognita nos inducunt, ut te specialibus favoribus, et gratiis prosequamur.
Praemissa igitur prae oculis habentes in exequtione provisionis de ordine
nostro factae in domo tuae suppicationis, tenore pretium Bullarum perpetuo
valiturum concedimus facultatem, Reverendissimum Archipresbyterum et duodecim
Mansionarios, et Chorales distributionarios à nobis eligendos, et qui pro
tempore erunt in Sacra distributione de numero duodecim iam ex nostra facultate
erecta et fundata pro divini cultus incremento, et Sanctissimi Purgatorii
anumarum suffragio, per alias nostras Bullas expeditas sub die 12 Januarii
currentis posse deferre capuccium sive Almutium sericum, quò ad rev.m
Archipresyiterum et Vicarium nigri, et subtus rubri colorum, et quò ad alios
nigri, et subtus violacii colorum..
Mandantes etc. ....
die 13 januarii 1690
Officiati
Santo
d’Acquista terrae Racalmuti (ex 12 coristi);
don
Antonio de Amico;
don
David Corso;
don
Vincentio Casuccio Racalmuti;
don
Francesco Pistone;
don
Nicolao Carnazza;
don
Filippo Cino;
don
Giovanni Sferrazza;
don
Francesco Savatteri;
don
Pietro Casuccio;
don
Vincenzo Castrogiovanni;
don
Santo la Matina.
don
Caetanus Cirami (in casu vacationis
mansionarium);
don
Fabritio Signorino (de suprannumerariis);
don Stefanus
Faija (soprannumerario della sacra
distribuzione);
don
Calogero Cavallaro ( ‘’ ‘’ ‘’
‘’ );
don Pietro d’Agrò ( ‘’ ‘’ ‘’
‘’ ).
[1])
Secondo l’elenco della Matrice sarebbe invero deceduto il 7 aprile 1650 a 52
anni (cfr. col. 3 n.° 62). Si rilevano però due inesattezze. Nessun dubbio sulla
data di morte può sorgere stante il seguente atto della Matrice:
7
|
5
|
1650
|
Todaro
|
Giuseppe Sacerdote
|
sepolto nella chiesa di
S. Maria del Monte
|
gratis
|
Sull’età del Sacerdote Todaro è da precisare che era già
chierico nel 1598 come risulta del tuo elenco:
4
|
1598
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
CHIERICO
|
12
|
1600
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
CHIERICO
|
9
|
1632
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
4
|
1634
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
e nella visita del 1608 è
già sacerdote abilitato alle confessioni. Sono portato a pensare che il sacerdote
sia morto settantenne e questo potrebbe essere il suo atto di battesimo:
26
|
12
|
1580
|
Todaro
|
Joseppi
|
Vincenzo Mastro
|
Violanti
|
[2] )
Archivio Segreto Vaticano – Relationes ad limina –Agrigentum – 16A – f. 349.
[3] ) ibidem. F. 401
[4] ) ibidem,
f. 499v.
[5] ) ibidem, f. 578v.
[6] ) ibidem,
f. 579.
[7] ) Giuseppe Picone, Memorie Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 551.
[8] ) Giuseppe Picone, Memorie Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 551.
[9] )
Bullarium romanum –An. C. 1713 – Torino 1871, p. 590a.
[10] ) Domenico De Gregorio, Cammarata, Agrigento 1986, p. 305.
[11] ) Il
Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno MDCCXIII
al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della Maestà del re
d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 44-45.
[12] ) ibidem, p. 55
[13] ) Rocco Pirri, Sicilia Sacra, Tomus Primus, Palermo 1733, p. 727.
[14] ) ibidem, p. 727.
[15] ) Giuseppe Picone, Memorie Storiche Agrigentine, Agrigento 1982. P. 574.
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