Le
decime del 1375
Nel contesto
della politica fiscale di papa Gregorio XI un personaggio acquisisce contorni di
rilievo e diviene memorabile nell’ambito nostro, cioè della microstoria
racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel. Originario della diocesi di
Mende, in Francia, fu uno dei valenti agenti dell’amministrazione finanziaria
della Santa Sede sotto i pontificati di Urbano V e di Gregorio XI. Si distinse
come collettore in Germania (1366-1367) e quindi nella Penisola Iberica
(1368-1371). A questo punto il suo destino si lega a quello della Sicilia ed
investe a Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del 1375. La sua carriera in
Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i
suoi compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri
contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi. Vi
troviamo Racalmuto.
Bertrand du
Mazel era “archidiaconus Tarantone in
ecclesia Ilerdensi, cappellanus pontificis” (Reg. Vat. 268, f. 67) cioè a
dire un diacono maggiore che aveva l’amministrazione dei beni di taluni settori
della chiesa (canonica, etc.). Oggi il titolo è meramente onorifico e viene
attribuito ad un componente capitolare delle cattedrali. Du Mazel , come tutti i
collettori, dovette tenere un registro delle sue operazioni per sottometterle al
controllo dei chierici della Camera apostolica. Pare che si stato un uomo
preciso e motodico: conservo una copia della sua corrispondenza. Una parte di
tale corrispondenza riguardava, pernostra fortuna, la Sicilia e risulta
custodita in Vaticano. Ciò si deve al fatto che per il diritto di spoglio tutte
le carte di Bertrand du Mazel dovettero essere versate in blocco alla Camera
apostolica alla morte del proprietario.
Du Mazel curò
un carteggio con le autorità siciliane dell’epoca nella sua qualità di
collettore del sussidio riscosso dal popolo siciliano. Inoltre conservò i
documenti contabili tra cui quietanze, conti dei sotto-collettori, minute e
bella copia dei conti. Nel Reg. Av. 192, fol. 414-419v, abbiamo la minuta
autografa, cancellata e corretta, del conto del sussidio raccolto dal popolo
siciliano.
La visita in
Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca nel quadro degli eventi sopra
abbozzato. In particolare occorre tener
presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV di
Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida del
papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV
accettava la signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli si impegnava
a pagare un censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmette alla Santa Sede
questo canone. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare giuramento di
fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi che godeva
prima del Vespro del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto che gravava
nell’isola da lunghi anni.
L’accordo si
rendeva necessario per le ristrettezze finanzierie pontificie a seguito della
lotta contro i Visconti di cui abbiamo detto. Si è anche visto come i “sussidi
caritativi” chiesti al clero di molti paesi fossero risultati fallimentari.. In
Sicilia la percezione di tale sussidio fu decisa prima della ratifica della
pace, nel dicembre del 1372; la promessa di abolire l’interdetto è uno strumento
di pressione fiscale. Vengono chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono
madalità di esazione contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per i
riottosi. Le bolle del dicembre del 1372, chiedendo un aiuto per la lotta contro
i nemici della Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse dato “prima
dell’abolizione dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo.In virtù di una
clausola apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano esigere da chi si
voleva liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento di rispettare la
pace e d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto
pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in
imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa
riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero
si parla ancora più esplicitamente di
“subsidio auctoritate apostolica imposito” . E ci siamo dilungati
proprio perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del nostro
paese.
Illuminato
Peri chiarisce gli aspetti storici di
siffatta atipica tassazione pontificia. «La esazione fu affidata a collettori
pontifici, e fu convenuto che 1/3 sarebbe andato alle finanze regie. Nella forma
Federico IV si presentò mediatore fra popolazione e autorità ecclesiale. Tanto
che l’atto del maggio del 1374, con il quale egli fissò la misura della
sovvenzione, fu dichiarato “moderatio regia”. Con tale atto si cercò di sedare
le reazioni piuttosto violente suscitate dalla prima richiesta (“rumori,
rivolte, novità, assembramenti e molte indicibili e turpi parole contro la
chiesa romana e noi”, sintetizzava il collettore Bertrand du Mazel). Il sussidio
fu ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alla condizioni
economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate
(“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna
località metà delle famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra
le benestanti: se le condizioni economiche fossero omogenee, sarebbe stata
distribuzione equa. Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono
nell’isola infiniti” e le “miserabili persone” che non era prefigurato fossero.»
<!--[if !supportFootnotes]-->[1]<!--[endif]-->
Intensa è la
fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a destra e a manca per spingere i
notabili siciliani ad accedere alle nuove istanze impositive della Santa Sede.
Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed università a recarsi presso “Federico
d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo convincano a fare pace con “la regina
di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli inviti sono mandati a Calascibetta,
Licata, Agrigento e Sciacca (reg. Vat.
268, f. 295-297).
Sempre da
Avignone, il 1° ottobre del 1372, si officia Guglielmo affinché interponga
“partes suas consolidationi Agrigentinae civitatis efficaciter et, cum
consummata fuerit, Francisco de Aragonia impendat obedientiam et reverentiam,
sicut decet.” (Reg. Vat. 268, f. 298
v.° 299 v.°). Si ripristini ad Agrigento la fedeltà a Francesco
d’Aragona, che risultava infranta.
Vediamo questo
diploma: «Al nostro diletto figlio, nobiluomo Guglielmo di Peralta, conte di
Caltabellotta della diocesi di Agrigento, salute. Ed al magnifico diletto figlio, nobiluomo Giovanni Chiaramonte, signorotto (domicellus) della diocesi di Agrigento,
nonché ad Emmanuele Doria, signorotto (domicellus) della diocesi di Mazara, a
Manfredi Chiaramonte, (domicellus) della diocesi di Siracusa, a
Benvenutode Graffeo, signore di Partanna della diocesi di Mazara.» Il pontefice
mostra di conoscere molto bene la mappa del potere feudale in quel frangente
storico, come dimostra il dosaggio dei titoli nobiliari nella missiva di cui
abbiamo citato l’indirizzario.
Ma particolare
attenzione viene rivolta a Giovanni Chiaramonte che ancora nel 1372 è vivente e
domina sull’intera provincia agrigentina, Racalmuto compreso (il papa ignora i
Del Carretto, argomento ex silentio,
quanto si vuole, ma pur sempre circostanza rivelatrice). Sottolineamo questa
lettera del 20 gennaio 1372: «a Giovanni
Chiaramonte per i suoi buoni offici tra la Regina di Sicilia e Federico
d'Aragona - secondo il tenore delle lettere per Nicolò de Messana, Pietro d'Agrigento custodi delle
custodie di Messina e di Agrigento dell' O.F.M.» (Reg. Vat. 268, f. 247). In ben sei lettere
papali a Giovanni Chiaramonte, questi viene chiamato “domicellus panormitanus”. Nello stesso
periodo sono sette le missive papali a Manfredi Chiaramonte. I due sono dunque
personaggi di rilievo sino alle soglie del 1374. Il 6 febbraio 1372, per il papa
avignonese Giovanni Chiaramonte è cresciuto d’importanza: viene chiamato
“domicello dell’isola di Sicilia”. In
appendice citami altri diplomi vaticani ad ulteriore esemplificazione
dell’importanza rivestita dai due Chiaramonte, succedutisi nella signoria di
Racalmuto in quel torno di tempo tra il 1371 ed il
1375.
Il 9 febbraio
1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella sua qualità anche di ammiraglio di
Sicilia ordina ai suoi ufficiali di percepire nelle sue terre il denaro del
sussidio dovuto alla Chiesa e di consegnare il frutto della loro raccolta al
collettore apostolico che subito toglierà l’interdetto. Il precedente 18
novembre 1374, Menfredi è a Mussomeli nel suo castello che ora si denomena dal
suo nome “Manfreda”: là si redige un processo verbale che attesta che egli,
ammiraglio del regno di Trinacria, presentandosi davanti al re Federico III gli
ha prestato fedeltà e devoto omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi
natali, si era dunque quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che
accompagnava il re, Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare
il trattato di pace, come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una
bolla d’oro e finché il re l’osserva lui stesso. Egli ha promesso di fare
versare il sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle su terre di
Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia,
Montechiaro, Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina,
Castronovo, Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri,
Cefalà, Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di
Capobianco, Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire
delle proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande.
Le proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro
estensione. Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse
comprendono buona parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa,
Modica, Spaccaforno, Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di
Agrigento e di Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro,
Camastra, Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S.
Stefano, Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le proprietà della
regione di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» <!--[if !supportFootnotes]-->[2]<!--[endif]--> Il processo
verbale è stato redatto su domanda del re e del nunzio apostolico nella casa
dove risiede il re da Francesco da Treviso, notaio apostolico e imperiale
«presentibus reverendo padre Rostagno abbate monasterii Sancti Severini Majoris
de Neapoli et nobilibus et circumspectis viris Jacobo Pictingna de Messana
milite, Georgio Graffeo de Mazaria, Bonaccursio Maynerii de Florencia, Manfredo
de la Habita de Panormo, Raynerio de Senis, Reynerio Pictngna de Messana et
aliis.» [Copia di Bertrand du Mazel: Reg. Av. 192. Fol.
4.]
Dalla lettera
circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375
riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa
ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il casale è evidentemente
assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e
ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas ha un suo governo locale che
fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a degli ufficiali
subalterni ed ha una popolazione che costituiisce un soggetto giuridico (universi homines). Rientra tra le terrae nostrae, cioè di Manfredi. Se
dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto sarebbe
dovuta essere terra di Antonio II del Carretto: il diploma in esame smentisce in
pieno.
«Cum zo sia cosa ki - soggiunge il conte
di Chiaramonte con un siciliano cancelleresco che ha il suo fascino - a nuy sia debitu procurari vostru beneficiu
et universali saluti, cossì di l’anima comu di lu corpu, idcirco vi significamu
ki pir tali ki vuy putissivu aviri lu divinu officiu et la celebracioni di li
missi, sì comu ànnu la plu parti di li altri terri di quistu Regnu, et maxime
per consideracioni di la malvasa epithimia ki vay discurrendu per diversi terri
et loki, in presencia di lu R[e]... prestamu et fichimu juramentu di observari
la pachi facta per lu signur Re comu [illu] ... observirà et hannu juratu li
altri baruni, et lu simili avimu factu fari a la universitati di Palermu et di
Girgenti; per la quali concordia esti commisu a lu venerabili misser Bertrandu,
capellanu et nunciu apostolicu et collecturi deputatu per nostru signuri lu papa
di lu subsidiu impostu per la relaxioni di lu interdictu, ki pagandu vuy chauna
universitati oy locu la taxa imposita et consueta, comu ànnu pagatu li altri
terri di lu predictu Regnu, ipsu per la auctoritati a ssì commissa relassi lu
dictu interdictu et restituiscavi lu divinu officio et la celebracioni di li
missi, ut predicitur; et impirò vulimu et comandamu ki vuy, officiali predicti,
ordinati tri boni homini un chascuna terra et locu predicti ki aianu a recogliri
la dicta munita, et ki incontinenti si pagi a lu dictu collecturi perkì puzati
consiquiri tanta gratia et beneficiu supradictu. Et pirkì siati plu certi di la
supradicta nostra voluntati, fachimu fari quista nostra patenti lictera,
sigillata di lu nostru sigillu consuetu, cum li nomi di li terri et loki
infrascripti. Datum in castro nostro
Cacabi, VIIII° Februarii XII indictionis [rectius: XIII indictionis =
1375].
«Nomina
terrarum et locorum sunt hec, videlicet:
Spackafurnu -
Naru - lu Mucharu - Sanctu Stephanu - la Petra
d’Amicu
Sicli
- la Delia - li Glubellini - Perizi - Calatrasi
Modica -
la Favara - Sutera - lu Palazu Adrianu - lu
Misilendinu
Ragusa
- Monticlaru - Manfreda - Cacabu -
Camarana
Claromonti -
la Licata - Camastra
- Chifalà - Petra
Russu
Odorillu
- Rachalmutu -
Castrunovu - Misilmeri - ____Ç____
Terranova
- Guastanella - Bibona - la turri di Capublancu - Et cetera
Copia di B. du
Mazel: Reg. Av. Fol. 431-431v.»
Ancora una
volta le singole università dievono dunque nominare tre probiviri (tri boni homini) i quali devono
assolvere il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli abitanti (nelle
diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano stati i
prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino la
ficcante tassazione.
L’elenco delle
università ha una sua logica: Racalmuto si trova in mezzo ad un itinerario che,
partendo da Gela (Terranova) punta su Naro, da qui a Delia e da lì si torna a
Favara (ammesso che si tratti dell’attuale Favara e non di un centro nel
nisseno); da Favara a Palma di Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul
nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più
di 2 km. A Nord di Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una
località vicina: Gibillini (Glubellini) che non può essere Gibellina
(come si ostinano a dire anche storici di alto livello) ma che potrebbe essere
davvero il nostro Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se è così, la
storia del paese di arricchisce di unaltro importante tassello. Da Gibillini si
va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito dopo tocca a
Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo Adriano. E’ quindi
la volta di Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il nostro interesse per
la dislocazione trecentesca dei paesi diviene nullo.
Fin qui si è
trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo delle tasse vere. L’arcidiacono
du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire dai primi di marzo del 1375.
Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo);
il 18 dello stesso mese può togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo
Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a
Guastanella.
Lo stesso
giorno è la volta di Racalmuto. Dal
nostro paese si passa a Castronovo (8 aprile 1375). La raccolta del sussidio
s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione dell’interdetto che
incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione, lontana da Agrigento. Per
noi ha particolare rilievo ovviamento Racalmuto.
Disponiamo di
un paio di annotazioni che riguardano il nostro paese e che naturalmente svelano
tratti storici diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto
Vaticano ci degna della sua attenzione al foglio 249 con questa
nota:
«Item eadem die fuit amotum interdictum in
casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI que
ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del pari lo
stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di Racalmuto
della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte di paglia;
queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e 27 tarì.» Ad
essere precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze 7 e tarì 27 (anziché 27)
dato che così andava ripartita:
|
|
quota
individuale
|
totale in
tarì
|
pari ad
onze
|
e
tarì
|
numero
fuochi
|
136
|
|
238
|
onze
7
|
tarì
28
|
ceto medio
(1/4)
|
34
|
2
tarì
|
68
|
|
|
benestanti
(1/4)
|
34
|
3
tarì
|
102
|
|
|
poveri
(1/2)
|
68
|
1
tarì
|
68
|
|
|
Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque
una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni nucleo
familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i preti
(tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che dipersi per
le campagne non era possibile includerli nel censimento; un venti per cento,
come abbiamo calcolato per l’analoga tassazione del Vespro. Nel 1375 Racalmuto
contava dunque circa 650 abitanti.
Come si è visto
le case erano di paglia: segno di grande indigenza. Eppure i racalmutesi o per
solerzia degli scherani pontifici o per vero timore di Dio (e della peste)
furono solerti e puntuali nel dare il sussidio caritativo al papa. Non così in
altre zone della Sicilia, come ebbe a lamentarsi quello straniero di Francia,
Bertrando du Mazel.
Le carte del du
Mazel non vanno minimamente confuse con rilievi censuari. Abbiamo solo muneri
simboli da cui possiamo dedurre solo qualche ipotesi di lavoro di carattere
demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a Racalmuto vi erano davvero 136
case con tetto a paglia; che 34 di queste (1/4) erano abitate da benestanti in
grado di corrispondere la tassa pontificia in misura massima (3 tarì a fuoco);
che altre 34 appartenevano a ceti medi (tassati per 2 tarì a famiglia); la metà
(n.° 68) ospitava famiglie di dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di
corrispondere il minimo (1 tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della
tassazione induttiva, per stima aprioristica. Certamente in misura più limitata
dovette essere la densità delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella
del ceto medio; ancor più vasta quella della classe che oggi chiameremmo
operaia. E poi i tanti religiosi (tassati a parte, come rivelano le stesse carte
del du Mazel), i “miserabili” (nullatenenti e non imponibili per le legge o per
dato di fatto), gli irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone
inaccessabili o nei contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli
armenti vivevano in stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni
reperibilità impositiva. Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano
davvero a Racalmuto nel 1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi
avvallamenti sotto le grotte dell’ordierno Calvario Vecchio) raccoglieva non
meno di 600 abitanti, che tutto considerato non si può andare oltre il numero di
mille abitanti (ricchi e poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti
e “miserabili”). Una popolazione già falcidiata dalle tante ondate della
ricorrente peste trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con
l’avvento dalla Catalogna del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come
vedremo.
Racalmuto alla fine del Trecento
L’ultimo quarto
di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che
spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico
siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana
racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hano ora un tale contiguità da
rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito
storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende
indispensabile.
Il 27 luglio
1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese
coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte
avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i supoi predecessori - Scrive
il D’Alessandro <!--[if !supportFootnotes]-->[3]<!--[endif]--> - e certo
molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che
affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva
desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla
passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una
aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli
disponenva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale
sin’allora erogate e confermate: un “impeto di giusto dispetto” come poi fu
detto, ma che poco prima di morire annullava con un
codicillo.»
Il regno passa
alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul
serio - ma solo pro forma visto che è
Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è
per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e
chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori
baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo
Peralta.
La vita
riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In
effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i
cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per
Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi
Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché
storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia
intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a curare i nuovi loro
affarri in seno a compagnie marittime.
Racalmuto scade
però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e
la giustizia, l’economia e la vita sociale.» <!--[if !supportFootnotes]-->[4]<!--[endif]--> Solo che il
signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del
Carretto.
La tregua cessa
con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III
Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal
castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi
III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le
trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non
lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla
alla monarchia iberica.
Rientrava in
scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di
Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in
contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva
l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito
Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di Bar.
Il re pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar copo alle
pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino
con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della
Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In
tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte
aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono
i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di
Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le
nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389 moriva
Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per l’Infante
Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra
l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e
consociativi.
Morto anche
Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un periodo
di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto
l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e
l’opposizione della Chiesa di Rma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante
Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al
trono.
Nel 1389, allo
scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si
adoperò subito per iltrasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva
frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc,
anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare
un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento del figlio sul
trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non sembravano atte a
finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a
Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale della storia
di Sicilia.
Si giunge così
al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio
di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su
altri nobili di Sicilia - punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX
(1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli
scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche
nella periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al
giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e
coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione
ai Martini.» <!--[if !supportFootnotes]-->[5]<!--[endif]-->
Nel frattempo
Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli
impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed
entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la
denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla
Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di
inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il
cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo
era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati
rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico
racalmutese.
Nel 1392 gli
spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo
Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori:
anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in
soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma
Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel
Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo,
resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle
azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze,
grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea
Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi
nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco
dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria
di Racalmuto e dà inizio al lungo
periodo della sua baronià vera e storicamente
documentata.
Si
dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio
1391 quando si era celebrato il convegno di Castronono in cui si era giurata
fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto
né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il
Chiramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed
ecco alcuni convenuti inziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del
quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima
isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era
del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio
Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» <!--[if !supportFootnotes]-->[6]<!--[endif]--> Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccrediatare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era
lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per
“necessità” finge di credere la nuova triade regale di
Palermo.
Ancora
nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di
mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente
ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la
spedizione militare aragonese.
Gli eventi
precitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana
presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi
entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio
Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare
l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea
II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a
Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo
ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il
giovane. Il duca si irritiva a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3
aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il
Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed
ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a
Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte si
asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare
omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme
all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo
palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i
sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li
faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando
viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il
celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed
avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle
passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava
definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e la
regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma
c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le
prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati
smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino,
con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca dai
nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro feudale: la
corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono
fornire carte e prove per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto
... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò
abrogate le clausole del tratto del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato,
ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di
legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di
sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò
due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare
tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee
convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il
parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti
nevralgini e perché applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di
Catalogna.
Martino I
rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo
divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare
l’amministrazione della Sicilia fini nei più minuti aspetti. Questa sudditanza
attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di
sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un
infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo
che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una
insurrezione in Sardegna.» <!--[if !supportFootnotes]-->[7]<!--[endif]--> Martino il
giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione
insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di
Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente
riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare
che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di
minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o
di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese.
Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata
direttamente dalla Spagna.» <!--[if !supportFootnotes]-->[8]<!--[endif]-->
Note e
dettagli sull’avvento dei Del Carretto
Il grandissimo
storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai
Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita
<!--[if !supportFootnotes]-->[9]<!--[endif]-->:
Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el
Rey dio su senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in
gratissimo a las mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre,
y se confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de
Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el
Conde murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo
rigorosamente contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al
Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este
tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de
Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de
don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se
criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues
en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno. Sirvio tambien
al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de Carreto
Marques de Sahona: y haziendose la guerra
muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio en el
Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia del
Rey ...
Per il Surita,
dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al servizio del
re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo
desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, senza dubbio, ma abbiamo il
dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie quella
del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci svelano il
fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come marchese
di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più
che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da fare in un primo
tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre Gerardo che si mette a
guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di
Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non rirolvibile
allo stato delle attuali conoscenze.
Una
documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del Carretto sono,
comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei
Martino diviene intrensigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle
prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu
vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello
che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di
Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo
formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e
l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il
castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogatvi cui non siamo
in grado di dare risposte certe.
<!--[if !supportFootnotes]-->
<!--[endif]-->
<!--[endif]-->
<!--[if !supportFootnotes]-->[1]<!--[endif]--> ) I.
Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
<!--[if !supportFootnotes]-->[2]<!--[endif]--> ) J.
Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di Sicilia
(1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246 e
ss.
<!--[if !supportFootnotes]-->[3]<!--[endif]--> )
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 107.
<!--[if !supportFootnotes]-->[4]<!--[endif]-->)
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
<!--[if !supportFootnotes]-->[5]<!--[endif]--> )
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
<!--[if !supportFootnotes]-->[6]<!--[endif]--> )
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121. Continua il D’Alessandro: «ascoltati
gli emissari, i quali “latius narraverunt”, il duca rispondeva che “super
praedictis providebimus et providere curamus taliter quod gratias et alia quae
per dictos nuncios a nobis postulata fuerunt celerem sortientur effectum et
proinde vos, et alii nostri servitores, dante Deo, merito
contentari.»
<!--[if !supportFootnotes]-->[7]<!--[endif]--> ) Denis
Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag.
115.
<!--[if !supportFootnotes]-->[8]<!--[endif]--> ) Denis
Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag.
116.
<!--[if !supportFootnotes]-->[9]<!--[endif]--> ) ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
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