Fra Sebastiano d’Alaimo
Semplice
frate nel 1593 ricevette sicuramente gli ordini sacerdotali. Nella visita del
1608 viene autorizzato alle confessioni per sei mesi:
Frater
Sebastianus de Alaimo ordinis S.ti Francisci Convent. ad sex menses
Risulta
dai Rolli di S. Maria quale teste in un atto del 28 ottobre 1597. Null’altro ci
è dato di sapere su questo francescano, sicuramente racalmutese.
Il Convento del Carmine.
Per
il Pirro questo convento è nobile ed antico ed ai suoi tempi (1540) contava 10
religiosi con 108 onze di reddito. Ne era stato solerte priore per 46 anni il
racalmutese fra Paolo Fanara. La lapide del suo sepolcro fornisce questi dati
biografici:
Paolo
Fanara innalzò, accrebbe e decorò, dotandolo d’immagini, questo tempio; curò
l’edificazione del convento con somma operosità. Visse 71 anni e nell’anno
della salvezza 1621, dopo 41 anni di priorato, morì nella pace sel Signore.
Fra
Paolo Fanara nacque dunque nel 1550; nel 1575 diviene priore del cenobio
carmelitano di cui è fondatore a Racalmuto. Il convento viene edificato accanto
alla chiesa periferica del Carmelo, che stando ai documenti disponibili sorgeva
invero da tempo, a dir poco dal 1540.
La
chiesa, invero, sembra in costruzione al tempo della morte del barone Giovanni
del Carretto che così ne accenna nel suo testamento:
Item praefatus Dominus Testator dixit
expendisse unceas centum triginta in emptione lignaminum et tabularum facta per Magistrum Paulum Monreale, et per
Magistrum Jacobum de Valenti, de quibus dominus Testator consequutus fuit
nonnullas tabulas, et lignamina; voluit propterea, et mandavit quod debeat
fieri computum per dictum spectabilem D. Hieronymum heredem particularem, et
faciendo bonas uncias viginti septem solutas Ecclesiae Sanctae Mariae de Jesu, et uncias undecim solutas pro
raubis; de residuo tabularum et lignaminum compleri
debeat tectum Ecclesiae Sanctae Mariae di lu Carminu dictae Terrae Racalmuti,
et voluit quod debeat expendere unceas
quindecim in pecunia in dicto tecto, et ita voluit, et mandavit, et hoc infra
terminum annorum trium.
Nel
1560, dunque, la chiesa di Santa Maria del Carmelo era a buon punto e doveva
soltanto completarsi il tetto, cosa che andava fatta entro tre anni. Non è
attendibile quindi quel che dice l’avello del p. Fanara, quanto alla chiesa.
Certo dopo il 1575 fra Paolo non mancò di farvi fare opere murarie e migliorie
ed a ciò è da pensare che si riferisca l’iscrizione della lapide.
I carmelitani racalmutesi del secolo XVI
Nel
rivelo del 1593, questo era l’orrganico del cenobio carmelitano racalmutese:
1
|
1593
|
PAULO
|
FANARA
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
RUBERTO
|
COSTA
|
PADRE
|
3
|
1593
|
SALVATORE
|
RICCIO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
FRA
|
5
|
1593
|
ANGELO
|
CASUCHIO
|
FRA
|
6
|
1593
|
GEREMIA
|
RUSSO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPI
|
RAGUSA
|
FRA
|
8
|
1593
|
ZACCARIA
|
RICCIO
|
FRA
|
Fra Paolo Fanara
Nella
visita del Bonincontro del 1608 il priore del carmelo è ricardato fugacemente
come confessore approvatoed indicato semplicemente come “fra Paulo di Racalmuto padre giardiano del
Carmine”.
Fra
Paolo fu molto attivo anche nelle faccende sociali. Lo incontriamo in un
documento del 1614[1]
in cui si briga per consentire una “fera franca” in occasione della
festività della Madonna del Carmine.
«Ill.mo Signor Conte di questa terra. Fra Paulo
Fanara priore del Convento del Carmine di questa terra, dice a V.S. Ill.ma che
per devotione et decoro della festività della Madonna del Carmine quali viene
alla terza domenica di giugnetto [luglio] resti servita V.S. Ill.ma concedere
ché ogn’anno per otto giorni cioe quattro inanti detta festa et quattro poi, si
possa inanti detto convento farci la fera franca di quella di Santa Margarita
la quale si transportao in lo conventu di Santa Maria di Giesu per lo decoro
della detta festa et della terra di V.S. Ill.ma ché li sarà gratia particolare
ultra il merito che per tal causa haverà ut altissimus etc. - Racalmuti Die XX°
octobris XIII^ ind. 1614.»[2]
Nel
1596 lo incontriamo come teste in un paio di atti della confraternita di S.
Maria di Gesù. Non spesso, ma qualche volta assiste pure alla celebrazione del
matrimonio di qualche racalmutese in vista.
Fra Salvatore Riccio di
Racalmuto
Dalla
solita visita del 1608 sappiamo che èsacerdote ed è autorizzato alle
confessioni per sei mesi:
Frater
Salvator Riccius Carmelitanus ad sex menses.
A
dire la verità abbiamo dubbi sulla correttezza della grafia del cognome. Se
Racalmutese, ebbe forse a chiamarsi fra Salvatore Rizzo.
Fra Zaccaria Riccio
Anche
in questo caso, il cognome è forse da correggere in Rizzo. Un chierico a nome
Zaccaria Rizzo è presente in vari atti di battesimo ed in atti di trascrizione
matrimoniali della Matrice dal 1598 in
poi. Costui è anche citato nella nota visita del 1608:
cl:
Zaccaria Rizzo an. 25 cons. ad p. t. die 19 decembris 1597 alias vocatus
Leonardus
Tratterebbesi
di un racalmutese nato nel 1581 come da seguente atto di battesimo:
5
|
9
|
1581
|
Rizzo
|
Leonardo
|
Martino
|
Norella
|
Ma
resta pur sempre da appurare se v’è identità fra il fraticello carmelitano ed
il chierico che s’incontra negli atti della matrice e della curia vescovile di
Agrigento.
Fra Angelo Casuccio
Nel
1608 lo ritroviamo fra i confessori:
P.
Angelo Casuchia
Stando
al Liber in quo .. sarebbe morto il 4
febbraio 1636 (c. 2 n.° 45). Certo sorge il dubbio che tra il frate carmelitano
del 1593 ed il sacerdote che del 1608 vi
sia identità di persona. Noi siamo per la tesi affermativa e pensiamo ad una
secolarizzazione del giovane fraticello del Carmine. Il Casuccio che s’incontra
in Matrice è chierico tra il 1598 ed il 1600 e figura come diacono in un atto
di battesimo del 30 agosto 1600. Il 12 gennaio 1601 è già stato, comunque,
ordinato sacerdote.
Fra Francesco Sferrazza
Analogo
dubbio sorge per questo fraticello, visto che negli atti della Matrice figura
un omonimo che però viene indicato nel Liber (c. 2 n.° 38) come don Francesco
Sferrazza Fasciotta (ma rectius Falciotta).
A
quest’ultimo di certo si riferiscono gli atti della visita del 1608, ove è
reiteramente citato. Vengono forniti alcuni dati anagrafici:
D.
Franciscus Sferrazza an. 27 cons. ad sacerd. die 17 decembris 1605 Panorm ...
quas dixit amisisse
Costui
era già protagonista a quell’epoca, come emerge dai seguenti passi di quella
relazione episcopale a proposito di S. Giuliano:
Sequitur
Cappella transfigurationis S.mi Dni Nostri Iesu Xristi, quae fuit constructa a
Don Francisco Sferrazza propriis expensis. et adhuc non est completa. Altare
d.e Cappellae est decenter ornatum super quo est Scena trasfigurationis
praedictae cum multis imaginibus aliorum sanctorum, est bene depicta et
pulchra, est dotata uncias duas redditus relictus a q. Antonino praedicti de
Sferrazza pro celebratione unius missae qualibet hebdomada quae celebratur a
Cappellano Ecclesiae
Habet
etiam dicta Cappella incias X pro maritaggio inius orfanae consanguineae,
pariter relictus iure legati a d.o Antonino Sferrazza.
Da
altri elementi risulta che trattasi di un membro dell’importante famiglia degli
Sferrazza Falciotta. Sembrerebbe quindi che si debba escludere l’identità con
l’umile fraticello del Carmelo. D. Francesco Sferrazza Falciotta fu peraltro
anche Commissario del Tribunale del S. Officio e morì il 7 maggio 1630.
Se
fra Francesco Sferrazza, carmelitano nel 1593, fu persona diversa, come sembra,
nulla sappiamo all’infuori di quella citazione del rivelo.
Fra Giuseppe d’Antinoro
Dalle
brume documentali dell’archivio parrocchiale dell’ultimo scorcio del ‘500
affiorano alcune figure di religiosi racalmutesi o, comunque, operanti a
Racalmuto: uno di questi è fra Giuseppe d’Antinoro, sicuramente un carmelitano,
che l’11 settembre 1584 è presente nel matrimonio insolitamente celebrato nella
chiesa del Carmine. Per questa inusuale celebrazione era occorso il benestare
del vescovo agrigentino. Il matrimonio era avvenuto tra certo La Licata Paolo
di Paolo e La Matina Antonella di Pietro e di Vincenza. Benedisse le nozze
l’arc. Romano. Ne furono testimoni il noto fra Paolo Fanara ed il citato fra
Giuseppe d’Antinoro. Ne trascriviamo qui l’atto che si conserva nella matrice.
11 9 1584 La Licata Paolo di Paolo e di Angela con La Matina Antonella
di Petro e di Vincenza.= Sacerdote benedicente:Romano Michele arciprete. Testi:
Fanara r. fra Paolo ed D'Antinoro frate Gioseppe. Nota: foro benedetti nella
chiesa del Carmine ex concessione Ill.mi et rev.mi n. Epi. Agrigentini
Due religiosi di fine secolo:
fra Antonino Amato;
fra Pasquale Di Liberto
gli
atti di matrimonio di fine secolo restituiscono alla memoria questi due monaci,
di cui però s’ignora tutto: dall’ordine d’appartenenza ad un qualsiasi altro
dato biografico. Quel che conosciamo è tutto contenuto in queste annotazioni
d’archivio:
1 9 1588 Gibbardo Berto
Vincenzo con Savarino Francesca di Joanne Benedice le nozze: Amato frati Antonino. Testi: Todisco
Pietro e Rotulo Pietro
30 9 1596 Mendola (la)
Leonardo di Angilo e Paolina con Aucello Antonella di Paolo e Minichella.
Benedice le nozze: Spalletta don Nardo. Testi: Mulioto Giuseppe e Di Liberto frati Pasquali.
Nella
visita del 1608 è invero ricordato un francescano a none fra Antonino Amato:
che si tratti dello stesso monaco del 1588, non abbiamo elementi per
affermarlo. Questi comunque non figura nel rivelo del 1593. Nella relazione
episcopale del 1608 è indicato in questo stringato modo:
Notamento
di confessori di S.to Francisci: il p.re
guardiano - fra. Antonio di Amato.
Chiese, quartieri e facoltà nel
rivelo del 1593
I
ponderosi volumi del rivelo del 1593 non possono essere tutti minuziosamente
setacciati, se non da una squadra di studiosi e con rilevanti mezzi economici.
Dobbiamo quindi accontentarci di alcuni sommari cenni.
A
quell’epoca la terra di Racalmuto era idealmente segnata da un sistema di assi
cartesiani in cui l’ascissa era una linea ideale che dalla Guardia andava al
Padre Eterno e l’ordinata (che all’atto pratico era una sequela di strade
tortuose) partiva dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel mezzo vi era di
sicuro la chiesa di Santa Rosalia (sicuramente in prossimità dell’attuale
Collegio, ma a quale punto non sembra che si possa individuare con certezza).
In tale sistema la parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere di S.
Margaritella; quella di sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di
nord-est era la Fontana ed infine il quartiere del Monte occupava la sezione di
nord-ovest.
All’interno
vi erano località di spicco che negli atti ufficiali servivano per
l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione di Santa Rosalia che in
effetti risultava inglobato prevalentemente nel quartiere di San Giuliano ma
una minima parte debordava in quello di S. Margaritella. Santa Rosalia - che talora
veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna o S. Rosaria, non si capisce bene se per
errata trascrizione o per omonimia popolare o per la presenza nella chiesa di
qualche altra immagine della celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava tanti
personaggi cospicui. Esclusivo appare anche il rione di S. Agata.
La comunità ecclesiale di Racalmuto nei primi anni del
Seicento.
Il nuovo secolo, il XVII,
si apre a Racalmuto con un vuoto: non c’è ancora il nuovo arciprete. Questi
viene solo dopo alcuni mesi e si tratta di
Andrea d’Argomento.
Questo nuovo arciprete di
Racalmuto è comunque esaminatore sinodale ad Agrigento, ed è dottore in utroque iure; giunge nel marzo del 1600,
il giorno della festività di San Tommaso dottore della chiesa, prende possesso
della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se forse anche lui preferisce la
più centrale chiesa suffraganea della Nunziata. Questo pozzo di scienza immigra
a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte della Sicilia. Forestiero, di
sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le novelle costituzioni
tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si trasferisce o viene
mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo ritroviamo annotato qua e
là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del 1601 rimangono
rivelatrici annotazioni come “detti fra
Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete; all’arciprete;
palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che trattarsi del
regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri termini la
quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di chiesa, 5 tarì
e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le “glorie”, i bambini).
Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture avvengono “a lo Carmino” (ed
ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo Fanara, di cui abbiamo fornito
cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu)
- e vi viene tumulato un pargoletto della racalmutesissima famiglia Mulé, ed a
S. Giuliano (accompagnata da tutto il clero vi è sepolta una tale Angela
Turano, ceppo poi emigrato da Racalmuto). Sia però chiaro che non abbiamo
elementi di sorta per sospettare di questo arciprete dottore in utroque. Crediamo, anzi, che sia
stato bene accetto e rispettato: un “signore arciprete”, dice il chiosatore
dell’archivio parrocchiale.
Dopo il 1602 sino al 10
gennaio 1606, l’Horozco ha traversie giudiziarie, contese con Roma, deve
vedersela con il conterraneo - ma non per questo meno ostile - vescovo di
Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato dai nobili, è costretto a
fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di obbrobri giudiziari per il
tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi, canonico percettore della
prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la Sacra Congregazione dei
Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i canonici cammaratesi don
Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera, e don Raimondo Vitali: il
primo era accusato di pederastia; il secondo di relazione peccaminosa con la
vecchia madre del primo.
La diocesi sbanda e così
Racalmuto. Certe carenze d’archivio parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo
vescovo Vincenzo Bonincontro, che si insedia il 25 giugno 1607 e durerà a lungo
sino al 27 maggio 1622, dovette mettersi di buzzo buono per riordinare la sua
turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18
giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si porta a Racalmuto per la
sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione minuziosa, ricca di
riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e misfatti, tale da
rappresentare una preziosissima fonte per la storia di Racalmuto, e non solo
quella religiosa.
L’anno
successivo, il Bonincontro ritorna a Racalmuto e completa la vista..
Il
Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva essere anomala sotto il
profilo del codice canonico del tempo. Il figlio legittimato - era stato
concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto Giovanni IV del Carretto -
don Vincenzo del Carretto si era insediato nella chiesa di S. Giuliano,
elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse stato consacrato
sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene dall’indagare. Il
potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non consente insolenze
del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione di San Giuliano
hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola: ratifica il
fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti approssimativamente uguali:
la bisettrice parte dal Carmino ed
arriva a la Funtana lungo un percosso
che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo riusciti a tratteggiare con
sicurezza. Non passava di certo per la discesa Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni pressoché impraticabile, ma
lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la chiesa di Santa Rosalia,
posta al centro del paese, ma dalla parte di S. Giuliano, per irrompere nella
parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte
a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete; quella a nord-ovest, in
mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene assegnata al giovane - è
appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro d’Asaro, don Paolino
d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è già affermato ed una
sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta - viene apprezzata, come
abbiamo visto, in occasione della visita a Santa Margherita, la chiesa
congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S.
Margaritae depictum in tila manu
pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del vescovo).
Giovanni
IV del Carretto, familiare del Santo Ufficio, ma per interessi e per sottrarsi
a tribunali laici molto meno accomodanti, non dovette essere molto religioso.
Quel figlio legittimato che faceva il prete nel suo lontano feudo di Racalmuto
doveva apparirgli come un povero diavolo che si arrabattava per superare le
umiliazioni del suo essere stato concepito in toro non benedetto. Gli echi
della vita religiosa della sede della sua contea gli saranno pervenuti, ma
molto affievoliti, lasciandolo nella totale indifferenza. Non vi è documento
che comprovi la sua presenza, anche saltuaria, a Racalmuto. Ma appena
seppellito quel truculento conte, il figlioletto deve raggiungere la lontana
dimora di Racalmuto, così diversa dai fasti di Palermo.
GLI ARCIPRETI DI
RACALMUTO SOTTO GIROLAMO II DEL CARRETTO
Don
Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o volle essere) per poco
tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale Pietro Cinquemani ,
originario, forse, di Mussomeli. ([3]) Secondo il prof. Giuseppe Nalbone,
costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro paese:
1613 PIETRO
CINQUEMANI RETTORE e poi
nel 1614 ARCIPRETE
Viene
annotato, nel Liber in quo a f. 1,
n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce
lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don
Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna
Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don
Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta
il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo
adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti
memorabili a Racalmuto, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto
del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80
cavalieri a Palermo a prenderle, in una con
una bolla che si conserva in Matrice; torna a nuovo splendore la
chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese.
* * *
Ma
ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice Girolamo II del
Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte
violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce sotto le grinfie
del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva benevolenza del
vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale di Racalmuto.
Non ci sembra un prete molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma
come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo
II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice
del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà.
Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della
minuscola chiesa dell’Itria, può far sospettare ancor di più, ma può farlo
assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo
del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte,
deve vedersela con le procedure della successione comitale, e non è agevole.
Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne
ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una
sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è
del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del
28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e
potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono.
Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile
sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del
suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di
Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto
battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo
figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona
conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et
excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna
Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre:
fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno
matrimoniale è inderogabile.
Girolamo
II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque
nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto cartiglio del
sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando
il giovane conte era quasi ventenne e la
splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne
(nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena
di 4 anni - Dorothea aetatis annorum
quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del
Carretto e la questione del terraggiolo
Don
Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante
questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato sopra: vi ritorniamo
per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una
trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di
terre nello stato e fuori dello stato di Racalmuto in una rendita perpetua di
un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti,
possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad
un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7%
potevano fruttare 2.380 scudi,
sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non
sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento.
Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che
non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa)
furono ben lieti di raccogliere quei profughi
che non vollero essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero
capitale, si tentò allora di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma
annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro
suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati
nel 1580, di cui abbiamo già detto. Altro che frate Evodio o Odio che dir si
voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è
pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito
rispetto della verità, senza un anticlericale spumeggiare.
In una memoria
del 1738 [4], quando lo stato di Racalmuto era
stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e
del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora
nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere
dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella
misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di
secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione
del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che
aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento
per ogni salma di terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la
riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre
700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva
nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per
salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso
la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San
Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a
coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è
faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino
per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data
importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi
contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con
l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San
Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura
fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo
significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte,
sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso
la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti
peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto.
Le note sciasciane
stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei
documenti rende incontrovertibili.
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno
prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era
il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si
continua a scrivere).
Trattasi del povero
fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di
finire in un convento che già nel 1667 ([5]) si tentava di scardinare, almeno in
quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul
rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con
ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di
mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto,
sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si
attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della
locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo:
nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni
indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione
della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo
tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico
anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi
il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi
astrologici del Padre Matranga ([6]).
Lo si vuole ad ogni costo
di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si
trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche
del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si
dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna
gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’
attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere
all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di colpe
dello spirito (bestemmiatore ereticale,
dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego ..
eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie
svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli
ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo
‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un
individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le
campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia
ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal
Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di questi tempi
bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul
vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva, finito all’indice
nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119
al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e
prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ([7]) Da un contesto di canonici
libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico
cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia
della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della
giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa
da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla
Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono
molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro
ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più,
et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e
quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e
laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei
sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino,
e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che
sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([8]).
Alla luce di queste
considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra
doversi dare una risposta del tutto opposta a quella data dallo scrittore.
Un contemporaneo ebbe,
pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi
notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato
al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far
diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a
Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol
far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra
le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti
spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per
l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto
Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro
di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto
comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli
specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto
cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con
tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto
avere quel libro che fra Diego scrisse di
sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille
ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua
mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel
cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto
più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe
stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma
Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne -
non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il
diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era
all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma
ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di
campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal
convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo
scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco
giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado
di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene
conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a
“scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti
del processo di beatificazione del contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si
rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La
Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne
dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa
di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in
briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di
santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio
di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita.
I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di
pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e
proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza
indugio giustiziati sul posto. ([9])
Il latrocinio di passo
era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento,
sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del
Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della
Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla
macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora
grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a
Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in
medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone
sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il
“povero disgraziato, confessato e
ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal
Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla
piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento
di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.”
([10])
Il Matranga sostiene che
il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per
questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al
brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la
Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al
Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga.
Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra
Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente
i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi
sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla
‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio
aggrada, resta sempre di censura morale)
e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per
condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di
reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla
sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata,
libertina.
«Siamo convinti, - scrive
Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che
nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione
in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è
del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo
snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento
polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore,
peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non
migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si
faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si
leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel
descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per
sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece
franca da un irridente assassinio. [11]
E la misera storia di fra
Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione
era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure
quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non
ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria francescana,
intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con
esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di
ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice
peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio
della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente
consultato. Ma era lettura ostica.
Riandando indietro nel
tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato
racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata
presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del
consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo,
forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si
direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa
genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece
figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio
l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per
nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina
battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va
correttamente letto:
Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621
quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca
[Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto
[battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo
Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo]
Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni
consolidata credenza sul frate dal tenace
concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda
delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state
tramandate) - e cioè a sei anni di
distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta
l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In
definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina ci appare un fervido
parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi
alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse
palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore di libelli eretici è
ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi
risulta, invece, - come si è detto - che
un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al
precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli
Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante:
va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un
ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un
tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile
eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente
travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
Assistito
dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si
produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto
e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora
raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro
don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà
del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo?
Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato.
Forse sentiva alito di morte sulla nuca.
L’atto
viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto
provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una
schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del
cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine -
quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto
Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La
sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente
prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal
pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le
pretenziose note [12] di coloro che vi scorgono i ritratti
di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati
“promessi sposi”, sono davvero inverosimili.)
Quel
sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si
coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile
visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella
conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del
notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2
aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione
nella contea.
Nel
cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto
la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte
suona così:
[Dal
Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto
fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un
ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro
delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque
anni.
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del
Carretto
A
Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott.
Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6
novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28
febbraio 1637) dura ancor meno. Subito
dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra
Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare
il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il
Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento
della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi
manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e
risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di nome Tommaso.
Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva
di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a
Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la
pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina.
Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639 figura
come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre del
1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il
convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi
aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del
“paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II,
prima; e Giovanni V, dopo.
Don
Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e
confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso
l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue
erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo prete
venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe
la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili
dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per
l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte
ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania
nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare
l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della
Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato
rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in
favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata
dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a
destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue
ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del
testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da
rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana,
procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da
quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel
po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non
manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento
più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani
scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo
qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche
attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché
divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto
alla ricostruzione della storia dei del Carretto di Racalmuto. Non mancherà
tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere
a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di
lui profuso in superfetazioni.
Il 30
agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete,
sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore
dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso
Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35
et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta
terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le
quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella
funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio
administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento
alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da
morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal
punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia.
Religione, clero ed altri aspetti
nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al
Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un
semplice dottore in teologia.
Porta
con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il
racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un
fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia,
come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai
registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese,
ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca
chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua
arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli dell’infelice Giovanni V del Carretto.
La
contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del recupero dei beni
feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi
riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli atti di questa
avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa
essere di supporto morale.
Frattanto
giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28
novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il
latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo
si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in
Matrice: LIBRO
D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di
Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio
per la penna di don Lucio
Sferrazza. Il depositario è il dott. don
Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze,
sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate
dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le
autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo
Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per
mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo
Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene
esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel
contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma
essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo
III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5
novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa
in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava nella
transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del
1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura
potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese
del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come
Racalmuto.
Il
Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:
1664
SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie
Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva
avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli
succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco:
muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo
apostolato.
E’ ora
la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e
costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide
funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di
sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse
stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.
Il
vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno
spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26
maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus
Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664);
e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus
Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17
maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni:
Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il
secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento,
essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento
provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia
ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato
da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo
letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma
anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di
preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento della
confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto
comportamento di alcuni catapani che
avevano tentato di applicare l’imposta
di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene -
del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente
per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia
Apostolica).
Se, un moribondo - ossessionato dalla sola
paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un
confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato
alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in grado
di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri antenati
che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto
(cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava
il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il
vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò
scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del
vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro
Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar
l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da
ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre
Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove
carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e
non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il
clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il
canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio
Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto
retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non
abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e
tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un
interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed
una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli
che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari
privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti
all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i
loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d.
diritto di stola all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in
quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che
era comunque un parlare e scrivere poco ... latino
(nell’accezione sciasciana).
L’arciprete
Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese
“sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S.
Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus
Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari
fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a
Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da
parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne fa nominare i
mansionari.
Contro
la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese
della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura
capitata tra capo e collo; e fu iattura
per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano
vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti
fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso,
il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non
sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la
tassa del macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i
suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et
repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il
tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di
“paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento
degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed
in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e
delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato
convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di
Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo III del
Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli
poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il
torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto
sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli
perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò:
ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto
ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse
non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia
origine.
Girolamo III aveva
contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo
studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a
partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una
figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi
dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto fosse addolorato
l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per
il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la
prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e
BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella
guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo
difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de'
Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron.
f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di
Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di
questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10.
Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211].
Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di
Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di
ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE
del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto
morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di
Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a
fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria
diocesi). Là [13] troviamo un ampio ragguaglio sulla
vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un
quadro di raffronto con quanto emerso dalla
documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM - Cittadina
(oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione
ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio
sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano
quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali
(Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
- dei Carmelitani, con
tre sacerdoti e due laici;
- dei Minori Conventuali,
con tre sacerdoti e un laico;
- dei Minori di Regolare
Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
- dei Riformati di S.
Agostino con tre sacerdoti e due laici;
- una casa addetta ad
ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e
due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi
religiosi, dopo avere accettato di accudire
all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto
ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti
dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per
costringerli a rinunciare ai proventi o
a lasciare i locali del convento.
Sorge un monastero di
monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il
Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.
Oltre alla chiesa
maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con
quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul
vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari
riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è
profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
[1])
Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 506 - f. 1.
[2]) Il
prosieguo del documento è in latino e recita:
«Cons. Ref., eodem, Ad
relationem U.J.D. Francisci la Rizza fuit provisum quod concedatur petitio et
fiat actus in curia juratorum, Joannes Gulielmus secretarius etc.».
Più complesso il seguito
che trascriviamo per gli eventuali cultori della lingua latina in uso nella
curia racalmutese del primo Seicento:
«Die XXI ottobris XIII^ Ind. 1614:
«fuit provisum et mandatum
per Ill.mum Dominum Comitem Don Hyeronimum del Carretto Comitem huius terrae et
Comitatus Racalmuti ad relationem U.J.D. Francisci la Rizza consultoris, vigore
provisionis fattae in dorso memorialis venerabilis fratris Pauli Fanara prioris
venerabilis conventus Sanctae Mariae de Monte Carmelo, eiusdem terrae, sub die
20 praesentis mensis
«quod otto de numero dierum
sexdecim nundinarum quae antiquitus fiebant in hac praeditta terra et in
festivitate Divae Margharitae et postea translatae in festivitate divae Mariae
Jesu, eiusdem terrae solitae fieri in die in die secundo mensis Julij
cuiuslibet anni cum illis franchitijs pro ut hactenus servatum fuerat.
«Intelligantur et sint
concessae ditto venerabili conventui Sanctae Mariae de Monte Carmelo pro ut vi
praesentis actus perpetuo valituri, spectabilis ill.mus Comes per se et suos
etc. tribuit et concessit eidem ven: conventui Virginis de Monte Carmelo
eiusdem terrae nundinas praedittas pro
maiori decoro et devotione festivitatis dittae Beatae Mariae Virginis de Monte
Carmelo celebrandae in dominica tertia cuius libet mensis Julij cuiuslibet anni
in perpetuum fiendas ante eccelsiam et conventum praedittum per dies quatuor ante
et dies quatuor postea dittum festum
«et hoc cum omnibus et
singulis franchitijs et alijs pro ut dittae nundinae gaudunt et sunt exemptae
ab omnibus gabellis ditti ill.mi domini comitis ut supra dittum est et non
aliter.
«Remanentibus tamen de numero
dierum sexdecim nundinarum praedittarum divae Margharitae alijs diebus octo pro
ditta ecclesia et Conventu Sanctae Mariae Jesu eiusdem terrae fiendarum quoque
antea dittam ecclesiam et conventum dittae Sanctae Mariae de Jesu pro ut
hucusque servatum est, in festivitate dittae Beatae Mariae Virginis de Jesu
quae celebratur in die secundo cuiuslibet mensis Julij in perpetuum,
« hoc est pro diebus quatuor
antea et diebus quatuor postea dittam
festivitatem et cum franchitijs et aliis ut supra dittum est e non
aliter nec alio modo etc.
«Unde ut in futurum appareat
fattus est praesens actum in curia juratorum huius terrae praedittae juxta
ordinem et provisionem praeditti ill.mi D. Comitis suis die loco et tempore
valitures etc.
«Unde etc. -
«Ex actis Curiae Juratorum
huius terrae et Comitatus Racalmuti, extratta est praesens copia - Coll. Sal. -
Sanctus Poma, magister notarius.»
[3])
Giuseppe Sorge - Mussomeli ... vol. II, pag. 95 vi rinviene una famiglia
Cinquemani “di cui le prime notizie rimontano al 1584.”
[4] )
Archivio di Stato Palermo
Palagonia n.° 709 Anni 1613-1749
[n.° 3] Relationes Burgentium Terrae Racalmuti [f. 141-149]
[5])
Vedasi la nota apposta nel Libro dei Morti del 1667 presso l’Archivio della
Matrice di Racalmuto. Il 26 agosto del 1667 muore il padre fra Giovan Battista
FALLETTA degli Ordine degli Eremiti di
Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia all’età di 63 anni. Ad assisterlo
è il confratello P. Salvatore da Racalmuto, agostiniano, un frate in odore di
santità, che solo in questi ultimi tempi si cerca di farlo emergere dalle
nebbie di un colpevole oblio. Per volontà del vescovo agrigentino fra Ferdinando Sancèz de Cuellar, invero in
esecuzione di disposizioni pontificie, il Convento di S. Giuliano di Racalmuto
andava chiuso, per carenza di uomo e di mezzi.
Fra Giovan Battista Falletta veniva pertanto sepolto nella Chiesa Madre,
anziché a S. Giuliano, dato che, come viene annotato: «stante soppressione conventui Sacre Congregationis
per decretum sub die 26 augusti 1667 ». Ma
il Convento riaprì e sopravvisse per un altro secolo almeno.
[6])
Leggasi quanto elucubrato in Morte dell’Inquisitore a pag. 182 dell’edizione
Laterza 1982. Per inciso, è tutt’altro che provata la storia del priore
agostiniano mandante dell’omicidio di Girolamo del Carretto, avvenuto il 1° (e
non 6) maggio del 1622, ammesso che di omicidio si sia trattato e non della
stroncatura per “un morbo” del venticinquenne conte di Racalmuto.
[7])
Archivio Segreto Vaticano - Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi - Anno
1602: positiones D-M.
[8]) ASV
- SCVR - anno 1601: positiones G-M.
[9])
ARCHIVIO VATICANO SEGRETO - SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI - PROCESSI nn. 28;
2169; 2170.
[10])
ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO - LIBER MORTUORUM 1811. Dove
fosse quella piazza ove veniva eretto il patibolo non sappiamo con certezza:
tutto però induce a pensare che si trattasse della parte antistante l’attuale
Piazzetta Crispi. Il toponimo tradizionale del «cuddaro» sembra comprovarlo. L’attribuzione di quel macabro posto
alle male esecuzioni dell’Inquisizione - come fa Sciascia - puzza alquanto di
astioso anticlericalismo.
[11])
Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restorato - Palermo 1989, libro quarto, pag. 335. Per un approfondimento
si leggano le splendide pagine di C.G. Garufi: Fatti e personaggi
dell’Inquisizione in Sicilia - Palermo, Sellerio - pp. 255
e 262-263.
[12] )
Cfr. catalogo su Pietro d’Asaro “il Monocolo di Racalmuto - Racalmuto 1985
- pag. 72
[13])
Archivio Segreto Vaticano: Agrigentum, relationes ad limina, B18 - f. 314.
Nessun commento:
Posta un commento