Il lugubre fardello di "paese di morti" o "morto" si deve al
profluvio storico dell'avvocato girgentano, [1]Giuseppe
PICONE, che per tutta la seconda metà dell'Ottocento imperversò
nella riesumazione della microstoria locale (anche se non senza meriti, come
oggigiorno gli viene sempre più riconosciuto).
Avventuratosi il PICONE, tardivamente e da autodidatta, nello studio
della lingua araba, egli ritenne suo diritto storpiare il toponimo
"RACALMUTO" in RACHAL-MAUT (
Cfr. Giuseppe PICONE:MEMORIE STORICHE AGRIGENTINE, Agrigento, 1982, riedizione
anastatica della pubbli‑cazione in Girgenti del 1866 resso
Salvatore Montes, pag. 413 e ib. nota n.2)-
Là il termine [1]MAUT[1]
e in caratteri arabi, letto in MAUT e quindi traslato i MORTO, il tutto privo di ogni legittimazione linguistica.
Come dopo meglio
preciseremo, il più antico toponimo di Racalmuto con cui ci siamo imbattuti è [1]RACHALCHAMUT[1] ed appare nei registri
della Corte Angioina di Napoli del 1271 (Reg. 1271 A, f.246 del DE LELLIS).
In vari Diplomi del XIII
secolo abbiamo: [1]RAHALMUT[1] (Cfr.
DOCUMENTI DA SERVIRE ALLA STORIA DI
SICILIA - PRIMA SERIE - DIPLOMATICA a cura di Raffaele STARABBA - PALERMO
1882, pag. 12, [data di riferimento 10 settembre 1282, XI Ind.]) e [1]RAKALMUTO[1] (Cfr. ibidem
p. 364: anno di rif. 1283).
Nei Registri avignonesi del XIV secolo - da noi direttamente
consultati presso l'Archivio segreto del Vaticano - abbiamo: [1]Rachalmoto[1], [1]Rachalmutu[1] e [1]Rachalmuto[1].
Nel XVI secolo, il monaco saccense FAZELLO indica sbrigativamente
il nostro paese con il nome [1]RAJALMUTO[1].
Il PIRRO - ben conosciuto dal PICONE e che scrive nel XVII
secolo – trascrice traducendo in latino “]RAHYALMUTUM”.
Nel DIZIONARIO TOPOGRAFICO DELLA SICILIA[1]
di Vito AMICO e Gioacchino di MARZO, tenuto costantemente sott'occhio dal PICONE,
il toponimo viene riportato in 13 variazioni, a seconda degli autori citati, ma
giammai in qualcosa che potesse in qualche modo giustificare la storpiatura
[1]RACALMAUT[1] necessaria al funambolismo
arabico dell'avv. Picone.
Nelle tardive, ma non troppo, trascrizioni degli amanuensi
parrocchiali della Matrice di Racalmuto, le più antiche delle quali
risalgono agli anni sessanta del 1500, da noi seguite piuttosto attentamente,
il nome di Racalmuto viene spesso storpiato, ma mai in RACALMAUTO
o voce simile. [1]RAYALMOTO[1] (10 gennaio 1583), [1]RAULMUTO[1] (7 gennaio 1585), [1]RECALMUTO[1] (28 ottobre 1585), [1]RAYALMOTO[1] (6 febbraio 1594) sono
voci presenti negli atti di matrimonio di quel tempo. Sia, però, ben chiaro, quando
l'atto è solenne, l'ortografia può essere discutibile, ma il
toponimo è preciso: [1]RACALMUTO[1] (cfr. annotazioni del 16
luglio 1598, quando "pigliau la possessioni don Vito Bellosguardo e
don Antonio d'Amato procuratori di don Lixandro CAPOZZA per
l'arcipretato di [1]Racalmuto[1] come appare per atto
plubico"; o del 14 agosto 1599; oppure del 7 marzo 1600
allorché‚ "di la majori ecclesia di “Racalmuto” pigliau
possissioni don Andria [1]Argumento[1] a li 7 di
marzo XIII ind. 1600".
Il Picone, dicevamo, tradusse dall’arabo molto arbitrariamente come
Racalmuto=PAESE DEI MORTI. Purtroppo, a
corrergli dietro è stato il nostro storico locale, l'ottocentesco [1]Nicolò
TINEBRA-MARTORANA[1]: così [1]RACALMUTO[1] è divenuto da quel dìsinonimo di
"villaggio [1]morto[1], [1]distrutto[1], [1]diroccato[1]" (cfr. pag. 24
dell'edizione racalmutese delle MEMORIE del 1982). Del resto il TINEBRA era,
come storico, succubo dell'avvocato girgentano, come il querulo richiamo
a quella autorità, ricorrente nelle pagine delle
"MEMORIE" del Nostro, sta ad attestare. Il povero TINEBRA,
invero, tentòdi fugare la iellatoria etimologia del PICONE e di suo aggiunse,
ma timidamente, quel pudico "distrutto". Dalla sua aveva uno
studioso del calibro di Vito AMICO, (
[1]AMICO Vito Maria[1]: fu un monaco benedettino,
valente storico e geografo, nato a Catania nel 1697 e ivi morto nel 1762.
Priore di vari conventi, ebbe la cattedra di storia civile presso
l'università di Catania (1743). Dal 1751 fu storiografo regio Carlo III
di Spagna. Le sue opere: [1]CATANIA ILLUSTRATA[1] (4 voll. - 1740- 43); [1]LEXICON TOPOGRAPHICUM
SICULUM[1] (1757-600. Quest'ultima
opera rappresenta il primo dizionario storico della Sicilia e viene tuttora
utilmente consultata nella traduzione di [1]G.
Di MARZO[1] [1]Dizionario
topografico della Sicilia[1], 2 voll. 1855) - [da
"[1]LESSICO UNIVERSALE TRECCANI[1]]..
Secondo Vito Amico, Racalmuto "fra gli arabi vale [1]RAHALMUT[1] casale decaduto o
diruto". Tinebra Martorana poteva,
dunque, omettere la lugubre etimologia del PICONE. Non lo fece, pur conoscendo
il [1]'Lessico topografico
siculo'[1] dell'AMICO (cfr. nota
12 di pag. 24). Solleticava la sua vanità giovanile il potere scrivere a
vent'anni in arabo, sia pure copiando meccanicisticamente due
termini presi in prestito dal PICONE: "Rahal" e "Maut".
Si dà il caso che Leonardo SCIASCIA assegni al libro del Tinebra
l'insorgere presso i racalmutesi “di un
rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero del
passato sulle cose presenti-“ (v. PREFAZIONE, pag. 9).
Alle scuole elementari, la maestra MARTORANA e il 'professore' CAVALLARO
mi insegnarono oltre mezzo secolo fa che Racalmuto significava 'paese di
morti'. Mia madre, mi ripeteva il passo del Tinebra che la sua insegnante
elementare, la maestra MACALUSO, le aveva fatto e 'imparare a memoria'. Ma con
tutto il rispetto che debbo a SCIASCIA e al suo culto per “l'aura
romantica che trascorre nel libretto del TINEBRA,” debbo
dire che quella funerea etimologia ho voglia di ripudiarla in toto; è
davvero stramba, infondata e storicamente insensa.
Se una congettura
è ammessa, allora più attendibile appare l'ipotesi che vorrebbe
l'etimo "RACALMUTO" quale "[1]CASTELLO
DI CHAMUTO. CHAMUTH fu l'ultimo emiro della dominazione araba
del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal
conte Ruggiero il normanno nel 1087. Tutto fa pensare che a Racalmuto
vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'RAHAL' vuol anche dire in
arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza era sotto il dominio di
CHAMUTH. In quel tempo, o dopo nella memoria degli arabi umiliati, essa non
poteva che venire indicata che come la Rocca di CHAMUT, donde - almeno per noi - RACALMUTO.
[Debbo però ora aggiungere che i miei studi e le mie rcerche
posteriori mi hanno, e di molto, allontanato da siffatte pur affascinanti tesi.
La storia è fatta così: non si dice mai l’ultima
parola.] Conosciamo le gesta di CHAMUTH
perché‚ un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo
RUGGIERI, ce ne ha tramandato la
memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco [1]Gaufredo MALATERRA[1]. Michele AMARI non lo ebbe
in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua [1]Storia dei Musulmani di
Sicilia[1] fa solo l'eco al monaco
benedettino. A nostra volta, noi
trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di
storia che, in ogni caso, investe la nostra terra di Racalmuto nel frangente
della sconfitta araba ad opera dei predoni normanni.
® Il cauto
normanno [il conte Ruggieri] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele
AMARI - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta all'impresa di
al-Mahdyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dì primo aprile
del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza di
acquisto; e sì conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con
Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra
schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo
nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì[1]Hammud[1], la quale tenne per poco
il califato di Cordova (1015- 1027) indi i principati di Malaga e di Algeziras
(1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che
un uomo di codesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual
anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre civili che si
travagliarono coi figli di Tamil; portato in alto non da propria virtù, ma dal
nome illustre e dalle pazze vicende dell'anarchia.
Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla
voce che a nostro modo si trascrive Hammùd. Il quale si rannicchiò tra sue rupi
inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti,
e i Normanni circondavano la città , batteano le mura con lor macchine;
tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero
v'acconciò fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi
buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella:
Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera,[1]Rahl[1],
(su tale toponimo [1]RAHL[1]
abbiamo appuntato tutta la nostra attenzione ritenendo che potesse essere quello del nostro
paese. AMARI riduce in RAHL un [1]RACEL[1] che trovavasi nel
manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e
pubblicato a Saragozza nel 1578. Quel manoscritto è andato perduto. La
pubblicazione che resta ancora l'edizione principe fu recepita nella colossale
opera di Ludovico Antonio MURATORI, [1]RERUM ITALICARUM SCRIPTORES[1] nel vol. V con il
sintetico titolo HISTORIA SICULA, Gaufredi MALATERRAE[1].
Il Muratori dà la lezione [1]RACEL[1] e in calce annota [1]RASEL-BIFAR[1] ad indicazione di altre lezioni
da lui tenute presenti. L'Amari non si produce in ulteriori ricerche
paleografiche: distingue RACEL da BIFAR; per lui arabista, RACEL equivale a
RAHL [casale]; si confessa incapace di individuare un RAHL nelle pertinenze
agrigentine, che ne sono piene. Il PICONE segue la pista dell'AMARI e nelle sue
MEMORIE (cfr. pag. 401) reputa incompleto il toponimo e segna [1]RAHAL...[1], distinguendolo comunque
da [1]BIFAR[1], una località piuttosto
nota tra Campobello di Licata e Licata. Si sa che la raccolta di
'scriptores rerum italicarum' è stata, a cavallo di secolo, oggetto di
pregevolissime riedizioni con interventi di personalità della cultura del
calibro del CARDUCCI. Il testo del monaco benedettino dell'XI secolo ha avuto
nel 1927 una diligentissima riedizione con una illuminante introduzione da parte
di Ernesto [1]PONTIERI[1]. Questi venne in Sicilia;
trovò altri codici (A=Cod. X. A 16 della Biblioteca Nazionale di Palermo; B=Cod.II.F
12 della Società Siciliana per la storia patria; C=Cod. 97
della Biblioteca universitaria di Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca
comunale di Palermo) che, comunque, mutili e scorretti e pur sempre derivanti
dalla fonte dell'edizione principe del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il
PONTIERI adottò la lezione [1]RASELFIFAR[1], legando insieme Racel e
Bifar, e in nota fornì la versione della Biblioteca universitaria di
Catania (C): [1]RACEL GIFAR[1]. Nel 1937, Carlo Alfonso
NALLINO, nell’integrare le note della [1]STORIA DEI MUSULMANI DI
SICILIA[1] di M. AMARI controbatteva
al PONTIERI e reinterpretava il passo malaterrano con questa
dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177 op. cit.]: In realtà
i castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra (Saragozza 1578), e
le prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno 'Ravel, Bifara',
come se si trattasse di due luoghi diversi; ciò ingannò V.D'Amico, Diz. topogr.
trad. Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del 1757-1760), che nel
vol. I, pag. 143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di RACEL
(dal solo Malaterra), e quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente
all'attenzione del Diz. stesso, I, p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL
BIFARA' (evidentemente nell'uso locale siciliano). Il traduttore
Dimarzo, I p. 144, n. 1, osserva che Bifara ' è un sottocomune aggregato
a Campobello di Licata , in provincia di Girgenti (Agrigento), circondario
di Ravanusa'. Campobello dista 50 Km. da Girgenti (Agrigento) e 9 da
Ravanusa. E. Pontieri, ultimo editore del Malaterra (1928), trovò nei mss.
anche le varianti Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la prima nel
testo (p. 88) e nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo componente e
[1]rahl[1]
(racel, racal, ragal), come ben vide l'A. [cfr. pag. 178 op. cit.] Quel che sorprende in entrambi quest'ultimi
due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali conquistati da
Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la premessa
del MALATERRA che parla di ben undici castelli agrigentini presi
all'arabo CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come
si vede un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere
apparso pedante e tedioso. Ma è l'unico proba‑bile appiglio ad una fonte
storica delle origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica,
vien però da domandarsi se sia proprio importante trovare un antico
toponimo da assegnare alla storia della nostra terra. [ed ora aggiungiamo che alla luce di atre
nostre ricerche questa è una lezione che abbamo del tutto abbandonata. Noi ne
siam certi, Racalmuto sorde e viene denominata alla fine dell’XII secolo.
Invero il oponimo già esisteva. Era attribuito ad una località di Sottana , ad
un locale convento di Basiliano). Che questi si siano insediatia nache a
Racalmuto, magari presso i convento di an Benedetto e si siano partati dietro
quel toponimo ben documentato dal Cusa? Noi pensiamo di s, ma esta nostra
singola non autorevole congettura. Ai migliori di noi l’ardua sentenza).
Il Malaterra quindi completa l’elenco con Biifara,
Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravaenusa. A completamento del discorso sui toponimi
svolto prima, riportiamo il commento dell'AMARI
nella sua STORIA (pag. 177, n. 1): I nomi delle castella prese nella
provincia di Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun evidente errore
del testo. Rimane dubbio il suo [1]Racel[1], che ho trascritto
sicuramente in Rahl (stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per
determinare quella appellazione generica, il qual nome io non saprei indovinare
tra i moltissimi Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il
Remise (variante Remunisse) del testo, poichè‚ MICOLUFA sorgea presso
Ravanusa. Del resto Simone da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò
Malaterra nel suo libro 'La conquista di Sicilia' recentemente uscito
alla luce (Collezione d'opere inedite e rare, Bologna 1865, in -8),dà otto
soli nomi degli undici, dicendo non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un
ms. della stessa opera, appartenente alla Bibliothéque de l'Arsenal in Parigi
(Ital. N. 68) ne dà sette soltanto: Platani, Musan, Guastanella,
Catalanixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo 'e li altri, aggiunge, non so chi
si fusseru e non si canuxirianu, ect.). Intorno i nomi non si trovano
nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi vegga il Dizionario Topografico
dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine della 'Carteomparée de la Sicile,
[1859], Notice'.
L’Amari così continua la sua storia dei Musulmani: Ruggero “talché occupava tutto il paese
dalla foce del fiume Platani a quella
del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche
aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di
questo nome e parte della finitima di Caltanissetta.
La moglie e i figlioli dell'Hammudita caduti in suo potere, tenne
Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente
avrebbe tirato quel principe agli accordi, con servare la sua
famiglia illesa da tutt'oltraggio.” ( Cfr. Michele [1] AMARI[1] - STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA, Catania 1937, Vol. III,
parte prima, pagg. 174, ss. Nel trascrivere il CHAMUTH del MALATERRA in HAMMUD,
l'AMARI annota [nota 1 di pag. 175]: la [1]h[1], sesta lettera dell'alfabeto
arabico, fu resa per lo più, sino ad uno o due secoli addietro, con
le lettere latine [1]ch[1];
e il [1]d[1],
ottava lettera, più spesso con una [1]t[1]
che con una [1]d[1].
L'anonimo ha HAMUS [cioè ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic. pag. 855].
Sapendosi dalla storia che Chamuth, fatto cristiano con tutta la
famiglia, rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo ben identificare
il casato con quello di Ruggiero HAMUTUS, già proprietario di certi
beni che Federico II concedea nel 1216 alla chiesa di Palermo (Diploma
presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 142) e dell'Ibn Hammud, ricchissimo signore che
Ibn GUBAYR vide in Sicilia nel 1185. Questo nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote
del regolo di Castrogiovanni. Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abù
al Qàsim, sembra anco il Bucassimus, celebre per brighe alla corte di
Palermo, ne' primordi del regno di Guglielmo il Buono. Ancor oggi, alcune
nobili famiglie siciliane vantano discendenze da quel ceppo Hammùdita. Trattasi
dei nobili NICASIO di BURGIO. Impietoso l'Amari contro il libello di
Nicasio Burgio, conte palatino XXIII intitolato “Ladiscendenza
di Achmet” ultimo potente ammiraglio fra i Saraceni dominanti in Sicilia,
rappresentato in questo medesimo luogo dalla chiarissima famiglia Burgio.
pubblicato a Trapani nel 1786. Indulgente il NALLINO che nella stessa nota si
dilunga accogliendo le precisazione di una nobildonna di quella famiglia.
Costei segnala che i primogeniti della casata Burgio continuano a
chiamarsi ACHMET, ( ad. es. ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO, principe di Aragona
e di Villafiorita, di Palermo).
Per quel che ci riguarda, un'ipotesi potrebbe avere qualche fondamento.
Tra i beni del citato Ruggiero HAMUTUS poteva esserci qualche signoria sul
diruto castello di Racalmuto, un tempo appartenuto al nonno, o bisnonno,
CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che lascia il tempo che trova [e che noi
abbiamo del tutto abbandonato come una delle tante cervellotiche congetture che
si continuano a contrabbandare per questo paese che essendo di Sciascia
dovrebbe essere rigoroso nella ricostruzione delle proprie origini.]
Il racconto del
MALATERRA ([1]l*@4pD?3[1]l*@4H 3
Trascriviamo
qui per eventuali
cultori delle fonti l'intero passo latino
della cronaca del
Malaterra: ® Comes ergo Rogerius, omnes
potentiores Siciliae
a se debellatos gaudens, et nemine, excepto
CHAMUTO, seper‑stite,
ad hoc assidua deliberatione intendit, ut
ipso circumveniendo
debellato, omnem sibi de caetero Sici‑liam
subdat.
Unde, exercitu admoto, ipso apud Castrum-Joannis
immorante, uxorem eius ac liberos apud Agri‑gentinam
urbem
obsessum vadit, anno
Dominicae Incarnationis millesimo
octogesimo sexto
[l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis,
quam undique
exercitu vallans, diutina oppressione lacessivit;
studioque machina‑mentis
ad urbem capiendam apparatis, tandem
vicesimaquinta die
Julii viribus exahusta, imminentibus hosti‑
bus,
patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est
captione. Comes itaque, pro libitu suo
positus, uxorem Chamuti,
omni dehonestatione
prohibita, suis custodiendam deliberata,
sciens Chamutum sibi
facilius reconciliari, si eam absque
dehonestatione
cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo
ordinans, castello
firmissimo munit, vallo girat, turribus et
propugnaculis
ad defensionem aptat, finitima castra
incursionibus
lacessens ad deditionem cogit. Unde et usque ad
undecim aevo brevi subjugata sibi alligat,
quorum ista sunt
nomina: Platonum,
Missar, Guastaliella, Sutera, [1]Rasel[1], Bifar,
Muclofe, Naru,
Calatenixet, quod, nostra lingua interpretatum,
resolvitur Castrum
foeminarum, Licata, Remunisce.¯ [Le lezioni
dei nomi sono molte
e spesso fortemente differenziate. Chi
volesse averne
completa conoscenza, deve consultare
l'edizione
del PONTIERI, varie
volte citata, pag. 88 e ss. A parte RASEL,
che ovviamente
abbiamo seguito con puntigliosa attenzione, per
il resto abbiamo
scelto alquanto liberamente, intendendo
privilegiare le
lezioni che maggiormente si avvicinassero ai
toponimi di Platani,
Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto,
Bifara, [1]Milocca[1] (?!), Naro, Caltanissetta,
Licata e Ravanusa.]
.CW12
?[1]4pDl*@)fornisce altri
dettagli sulla sorte 3[1]P(p della
famiglia di CHAMUTO
che credo non abbiano nulla a che spartire
con le vicende del
nostro paese. Caduto in un tranello
dell'astuto Ruggeri,
per salvare moglie e figli, si arrende e si
fa cristiano. ® Chamut
- precisa Malaterra - enim cum uxore et
liberis christianus
efficitur, hoc solo conventioni inperposito,
quod uxor sua, quae sibi
quadam consanguinitatis linea conjunge‑
batur, in posterum
sibi non interdicetur¯ . In altri
termini,
CHAMUTO si fa
cristiano con moglie e figli alla sola condizione
che non gli fosse
tolta la moglie, alla quale peraltro era
legato da vincoli di
parentela. Poi non gli resta che far
fagotto per MILETO
in Calabria. Un indice di come quei rudi
normanni, guer‑rieri
e bigotti, imponessero gi… la conversione
agli arabi vinti. E
qui siano in presenza di quelli nobili.
Quelli ignobili e
contadini - come dovettero essere i paesani
dei castelli agrigen‑tini
conquistati, poterono forse
risparmiarsi l'onta
di una abiura religiosa. Ma restando
musulmani furono
ridotti ad una sorta di schiavit— , tartassata
ed angariata. E tale
sorte pianse‑ro per secoli gli antenati
nostri di Racalmuto.
® DIMMA, GESIA [o GIZIA], AGOSTALE, ALIAMA,
ALGOZIRIO,
JOCULARIA, ANGARIA, CABELLA, SECRETO, BAJULO,
CATAPANO, CENSO,
TERRAGGIO, TERRAGGIOLO etc.¯ , sono termini che
sanno di tasse,
soprusi, discriminazioni, anghe‑rie, iattanze,
arroganza del
potere. Sono la lingua degli uomini del
potere
che parlano forestiero
ma si servono di disponibili figuri
locali, ammessi
nella loro congrega. E si fanno da padrini nei
battesimi, da
compari nei matrimoni, in certa familiarit… a
danno e scorno degli
altri, degli esclusi, del popolino basso e
villano. Sono i nomi
dell'impotenza, della rabbia e dello sfrut‑
tamento perduranti
sino ai giorni nostri. E l'impareggiabile
Sciascia ne coglie
gli umori e i malumori quali si aggrumavano
al CIRCOLO della CONCORDIA
[rectius, UNIONE] negli anni
cinquanta. Chi non
ha letto 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v.
p. 60 e 61 e per
quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo
passaggio dalla libert… araba allo stato servile
alle dipendenze di
vescovi esattori, santi per i fatti loro
eppure vessatori per
il bene delle varie 'mense' della chiesa e
del canonicato
agrigentino, lo si intuisce, lo si pu•
ricostruire ma non Š
documentabile se non con le poche righe del
MALATERRA ([1]l*@4pD‑[1]3[1]l*@4H 3
Sul MALATERRA poche e scarne sono
le notizie. Goffredo
MALATERRA fu dunque un cronista normanno
del esca. XI. Monaco
benedettino a Sanie-Evreul-Ouche, pass•
nell'Italia
meridionale e si stabil in Sicilia. Qui fu
incaricato dal gran
conte RUGGIERO a scrivere la cronaca delle
gesta del Normanno.
Il racconto si estende per quattro libri. La
sua opera Š variamente
intitolata. La riedizione del Pontieri
(Bologna 1927),
sopra ricordata, titola: ® De rebus gestis
Rogerii .....
et Roberti Guiscardi¯ . [V. Enciclopedia
Treccani, o, per
puntuali riferimenti, la prefazione dello
stesso E. PONTIERI].
A corto di notizie,
TINEBRA MARTORANA ricorre alle imposture
dell'Abate VELLA - e
SCIASCIA vi indulge con un benevolo sorriso
p+30 - e alle
frottole di un signorotto della fine del secolo
scorso, Serafino
MESSANA.[v.pag. 40 n.18] Son dunque
fandonie
quelle di un
governatore di RAHAL-ALMUT a nome AABD-ALUHAR,
servo dell'emi‑ro
Elihir, diligente nel censimento del nostro
fantomatico Racal‑muto
nell'anno 998; di una popolazione di 2095
anime [si pensi che
nella seconda met… del XIV il solerte
arcivescovo Du Mazel
contava per la curia papale di Avignone non
più di seicento
anime nel nostro paese, abitanti in gran parte
in case di paglia
'pale‑arum']; e tutte quelle altre amenit… del
capitolo III e
dintorni. Non sapremo mai dove don Serafino
MESSANA abbia preso
l'aire per le bubbole dei due giovani
saraceni messisi a
strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione
del gran conte
Ruggeri, e del seguito che li vuole, dopo avere
inflitto gravi danni
al nemico, notturni fuggitivi alla volta di
Licata. Ma invano,
perchŠ furono l rag‑giunti ed uccisi dallo
stesso gran conte,
nel frattempo imposses‑satosi e divenuto
signore di
Rahal-Maut [v. p. 40]. Nulla di storico in quelle
pagine del
Tinebra-Martorana, salvo le spigola‑ture sulle tasse e
sulla 'dsimmi' prese
dal lavoro dell'avvocato agrigentino
Picone.([1]
Evidente il supino
recepimento di
quanto PICONE scrive
a pag. 405 e ss. sulla 'dsimma' e sulla
'gezia'.
I gravami, le
violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la
paura, l'ignominia
dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi
furono, ma solo
l'immaginazione pu• ricostruire quelle scene di
panico e
distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito
di osannare il
potente, come il Malaterra nei riguardi di
Ruggiero il
Normanno, o erano poeti arabi di altri luoghi che
non ebbero occasione
di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla
devastata Racalmuto.
Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome
antico. Solo il [1]RACEL[1] del Malaterra, incerto e
controverso.
Eppure, furono
giorni funesti: i normanni - cavalieri nordici,
possenti e biondi -
erano famelici di vergini e di prede. La
Racalmuto contadina
poco bottino potŠ farsi levare; ma le
vergini o le giovani
mogli furono di certo ghermite da quei
predatori dagli
occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto
di razze, di figli
nerissimi e saraceni e di figli longilinei e
di vezzoso colore,
ebbe da allora inizio per durare fino ai
nostri giorni,
inevitabilmente.
Michele AMARI non
ebbe in simpatia il nostro CHAMUTH - quello a
cui ci sembra debba
ascriversi il toponimo di Racalmuto - e lo
descrive come
fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Mala‑
terra, ma ne
stravolge senso e giudizi:
[1]l*@4pD® E veramente -
scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia dei
Mussulmani - [1]Ibn Hammud[1] si vedea chiuso d'ogni
banda in
Castrogiovanni;
occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorch‚
Noto e Butera;
potersi differire, non evitar la caduta; n‚ egli
ambiva il martirio,
n‚ i pericoli della guerra, n‚ pure i disagi
della gloriosa
povert… . Ruggiero fattosi un giorno con cento
lance presso la r“ cca,
lo invitava ad abboccamento; egli scendea
volentieri ed
ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che
conducevano a due
proposte: rendere Castrogiovanni e farsi
cristiano. Dubbi•
solo intorno il modo di compiere il tradimento
e l'apostasia, senza
rischio di lasciarci la pelle: alfine,
trovato rimedio a
questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne
p33pP[1] tornava tutto lieto a
Girgenti. N‚ and• guari che il
Normanno con
fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta
di Castrogiovanni;
nascondeasi in luogo appostato gi… con
musulmano; e questi
fatti montar in sella i suoi cavalieri,
traendosi dietro su
per i muli quanta altra gente potŠ , quasi a
tentar impresa di
gran momento, usc di Castrogiovanni, li men•
diritto all'agguato.
E que' fur tutti presi; egli accolto a
braccia aperte.
Allor muovono i Cristiani alla volta della
citt… ; la quale
priva dei difensori pi— forti, si arrende a
parte, e Ruggiero vi
pone a suo modo castello e presidio. Ibn
HAMMUD poi si
battezz• , impetrato da' teologi del Conte di
ritenere la moglie
ch'era sua parente, n‚ gradi permessi dal
Corano, vietati
dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi
sicuro de'
Mussulmani in Sicilia, n‚ volendo che Ruggiero pur
sospet‑tasse di lui
in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e
vile 'Alida chiese
di soggiornare in terra ferma; ebbe da
Ruggiero certi
poderi presso Mileto e quivi lungamente visse
vita irreprensibile,
dice lo storiogra‑fo normanno.¯ [1]4pDl*@
Di quei cento
lancieri al seguito di Ruggiero per la consunzione
di una resa
proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racal‑
muto (la RACEL del
Malaterra) a seminare terrore, violenza e
morte? A RACEL vi
era certo un castello (o entrambi i due
castel‑li: il
Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era
una guarnigione di
arabi sognatori e disattenti; non erano
eroici guerrieri e
comunque erano pochi. Piombarono i cento
lancieri di Ruggiero
da Girgenti, li soppressero e si sparsero
per il casale e per
le campagne a razziare e violentare. I
lancieri erano
soprattutto predoni.
L'Amari Š aspro
nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH.
Ma costui aveva gi…
moglie e figli in mano dei Cristiani a Gir‑
genti. Il Malaterra,
monaco benedettino, intorbidisce ancor pi—
la sua non chiara
prosa per mettere un velo pudico alle insane
voglie dei predatori
suoi compaesani. Costa fatica al Conte Rug‑
gieri non far
violare la sua eccellente prigioniera. E noi qual‑
che dubbio l'abbiamo
sull'effettivo successo dell'iniziativa del
Normanno. I suoi
sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del
resto si era gi…
macchiato di molte ignominie, specie in
giuvent— . Il
suo biografo ufficiale che pure Š chiamato
all'osanna del suo
committente, ne sente tante a corte da
inorridire,
fors'anche per la sua mentalit… claustrale. Ed
allora la sua
settaria cronaca si lascia andare a pesanti
giudizi morali
contro i suoi.
Quando, per• ,
si tratta di cose militari, il candido monaco
crede alle
esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze
del nemico -
naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura;
quelle amiche e
vittoriose si assottigliano contro ogni logica
ed attendibilit… .
L'AMARI, tutto preso dalla simpatia per i
musulma‑ni, sbotta e
sentenzia che nelle cronache del monaco
Malaterra, le cifre
sulle forze musulmane vanno divise per otto
ed, invece, vanno
moltiplicate per otto le cifre che riguardano
le forze normanne,
quando vincono.
Eppure il Malaterra
resta sempre cronista piuttosto attendibile,
come dimostra il
PONTIERI nell'opera citata. I tanti episodi
cruciali della
conquista della Sicilia da parte delle orde nor‑
manne, tra i quali
quelli relativi all'assalto della fortezza di
Racalmuto (o Racel),
hanno una sola fonte storica che Š la
crona‑ca del
Malaterra. Questo monaco non sempre Š stato
testimone oculare.
Ormai avanti negli anni, Š onorato ospite
della corte di p73 Ruggiero il quale ormai si ammanta dei
fregi
regali, anche se non
dismette il suo nomadismo ereditato dagli
avi vichinghi.
Ascolta le fanfaronate dei decrepiti Veterani del
Conte. Vantano ora i
galloni di generali, si fanno chiamare
baroni, si sono
arricchi‑ti, hanno possedimenti in Sicilia, ma
restano i rudi
vandali, incolti ed immorali della loro
avventuriera
giovinezza.
Il Malaterra ode
nefandezze che gli mettono il disagio morale.
E' fervente
cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive,
esalta il Conte;
indulge, per• , al suo moralismo ed ama moraleg‑
giare chiosando gli
eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto
l'AMARI irridere a CHAMUTH. Lo ha fatto alla luce
degli incisi
moraleggianti del Malaterra. Il giudizio sul padre
del toponimo -
almeno secondo noi - di Racalmuto va corretto
leggendo pi—
spassionatamente la cronaca del benedettino.
Questi dice che il
Conte Ruggiero aveva gi… debellato tutti i
potenti di Sicilia,
eccetto Chamuto. La voglia di annientarlo
era tanta ma l'impresa
non era agevole e ci• costituiva un
cruccio per il
Normanno. Ruggiero ne fa un suo pensiero fisso;
sa per• che non
Š sul campo che pu• avere ragione del musulmano.
Pensa, quindi, a
batterlo con l'astuzia e l'inganno. L'ablativo
assoluto adoperato
dal Malaterra Š efficace: ® ipso
circumveniendo
debella‑to¯ . Lo si pu• debellare solo circuendolo.
Chamuth allora non Š
l'imbelle che ama descrivere M. Amari. Per
vincere il Saraceno,
il conte Ruggiero assalta l'impreparata
Girgenti ove sa che
dimorano moglie e figli di Chamuth. Prende
la citt… , la
fortifi‑ca. Principalmente si preoccupa della sorte
della moglie di
Chamuth. Questa viene sottratta da ogni
® dehonestatione¯
e viene messa sotto diretta tutela del conte
normanno, il quale Š
consa‑pevole che in tal modo il Saraceno pu•
venire ricattato ed
essere facile preda del nemico. Il conte
Ruggiero Š
proprio ® sciens Chamutum sibi facilius reconciliari¯ ,
afferma il
Malaterra; ci• equivale a dire che cos sarebbe stato
più facilmente
soggiogabi‑le.
Per fare terra
bruciata attorno al nostro Chamuto, tocca
ad 11
castelli l'ignominia
delle scorribande dei lancieri di Ruggieri.
Alla nostra
Racalmuto Š dato assaggiare le moleste attenzioni
dei normanni, come
ai citati e sicuri Platani, Naro,
Guastanella, Sutera,
Bifara, Caltanissetta e Licata o agli
incerti Missar,
Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuto si
arrese, non ci sembra proprio che tutto sia
da imputare al suo
essere un flaccido uomo d'armi. E se anche
fosse stato, questo
non ci pare un grande demerito.
Lo stesso Amari
nella nota di pag. 179 della sua Storia dei
13
Musulmani in Sicilia
integra, e corregge, le sue impressioni
(33[1]l*@4H 3
L'Amari cita prima le fonti: ® Malaterra, lib.
IV, cap. 6; Anomimo,
presso Caruso, Biblioteca Siciliana, p.
855.¯ e quindi
aggiunge: ® Secondo fra Corrado, op. cit., pag.
48, Castrogiovanni e
Girgenti furono occu‑pate nello stesso anno.
Ma ci• non Š
detto precisamente dal Malaterra; n‚ citato l'anno
dell'avvenimento, il
quale, secondo la serie dei fatti narrati
dallo stesso
cronista, tornerebbe al 1087, ovvero ai primi mesi
del 1088. Gli ARABI pongono la resa di Castrogiovanni
nel 484,
tre anni dopo quella
di Girgenti (1088-89) e le fecero cedere
entrambe agli orrori
della fame: [1]Ibn al-ATIR, Ab–
al-FIDA,
an-NUWAYRI e Ibn AbŒ
DINAR,[1] nella 'Biblioteca
Araba-Sicula',
pag. 278, 414, 448,
534 [trad. I, 499, e II, 99, 145, 287
[questo
è un vecchio mio scritto, redatto con vetusto programma di videoscrittura. Fino
ad un certo punto ho dato una limata. Poi mi sono stufato. Ripropongo il tutto
così come mi risulta. Se qualcuno si scoccia, pazienza. Nella speranza che
futuri ricercatori del prossimo secolo vorranno farmi le bucce, lascio così
come ne dispongo a FUTURA MEMORIA, dato che diversamente da Sciascia sono
convinto che il FUTURO delle cose storiche è solo memoria del passato]
MOZIONE
D’ORDINE DEL SOCIO FERRARA MICHELE
Quanto
andrò dicendo mi auguro sia preso nella debita considerazione dagli artifici di
questo irricevibile bilancio - chiunque essi siano; ovunque essi risiedano; a
qualsiasi centro d’interesse appartengano;
specie se espressioni di soci egemoni, impalpabili, romani, rivestiti
fors’anche di veste quasi giuspubblicistica; che costoro abbiano l’accortezza
di ritirare un documento improprio nell’impostazione, criptico nella
delucidazione, carente nelle motivazioni, illeggibile nell’ordito numerico e
via dicendo.
Spero anche
che i soci di minoranza comprendano il vero gioco consumato da quello dominante
e abbandonando le loro ripicche paesane si accingano - almeno in questa sede -
a far valere le loro sacrosante ragioni, condizioni indispensabili per
sensibilizzare finalmente le autorità tutorie, sinora prese da esigenze di
tamponamento di malvezzi bancari territoriali.
Il bilancio
che ci viene chiesto di approvare ha un taglio decisamente incomprensibile: nulla
si spiega, nulla si dice a chiarimento di tavole e tavole di aridi numeri, men
che meno ci vien fatto sapere perché all’improvviso si riesumano fatti e
vicende di almeno un quinquennio prima e - divenuto il socio egemone padrone
assoluto del consiglio di amministrazione, dopo il defenestramento o le
dimissioni forzate dei pur remissivi esponenti della minoranza - si è inferto
un colpo esiziale alle residue valenze patrimoniali dei soci minoritari. Non è
qui il caso di rammentare che la Banca di Roma diviene all’improvviso padrona
assoluta della Mediterranea senza conferire - o quasi - alcun apporto per
consolidate plusvalenze della precedente azienda bancaria, benedicente - e
stavolta a cuor leggere - l’organo tutorio. Beh! Ora ci viene addirittura chiesto
di azzerare il “fondo soprapprezzo azioni” che noi soci di minoranza e noi soli
abbiamo costituito, con solo nostri sudati - ed ora dispersi - capitali
freschi, strafregandosi di tutti i divieti per conflitto d’interessi e
rimettendo alla volontà dittatoriale del socio egemone la decisione
dissolvitrice del patrimonio altrui, senza contemplare gli ostacoli anche
giuridici che vi si contrappongono. Sapremo noi soci di minoranza difenderci
almeno in questo? Per le ragioni che svolgerò dopo? O la voglia di consumare
vendette per vetuste beghe personali avrà il sopravvento? Ma alla fin fine -
anche se da solo - credo che riuscirò a
salvaguardare i diritti e le aspettative della minoranza.
Tre o
quattro cifre sintetizzano la devastazione bancaria che con questo progetto di
bilancio - frutto solo dell’inventiva dei rappresentanti del socio egemone - ci
si propone addirittura di “approvare”, come se non si trattasse di manovre
volte solo a nostro danno, a danno cioè dei soli, indifesi, modesti, potentini,
maldestri soci, divenuti proprietari solo del 49% del derelitto capitale della
banca - e prima eravamo il 100% e prima i soci di Pescopagano avevano
addirittura diritti inalienabili di prelazione - soci retrocessi a comprimari
per estranee intrusioni non sbaragliate a suo tempo per interferenze anche
autorevoli.
Omnia consumpta! Tutto è consunto: con questo
atto (non possiamo chiamarlo di pirateria, per non farci querelare) anche la
residua parvenza di essere compartecipi di un’azienda bancaria s’intende
dissolvere, consumare: senza renderci avvertiti di nulla, con schematiche
incomprensibili note, con sottovalutazioni delle nostre ragioni, con misteriose
alchimie contabili, con l’accennare e lasciar cadere la cosa, come si trattasse
di cosa minima, scontata, vecchia e nuova a seconda delle convenienze. Artefice
palese: un consiglio d’amministrazione evirato dei residui rappresentanti della
minoranza; artefice occulto: estranei servizi studi e legali romani (dobbiamo
pensare che si tratti di quel soggetto a cui il bilancio dedica un’intera
pagina - la n.° 63 - praticamente vuota: un pensatoio romano che fa utilizzare
i suoi consulenti, superpagati dalla banca dominata: leggere per credere
un’arida posta: quella di pag. 56 “4.2 Composizione voce 80(b) ‘altre spese amministrative’
- (b) Competenze a professionisti
esterni: L. 6.413.846.934; e non si è capito male: neppure l’anno prima si
era scherzato ma per un miliardo e mezzo in meno; allora l’importo era stato :
L. 4.914.115.300)”. I signori del progetto di bilancio si fossero degnati di
fornirci un minimo di notizie: mistero assoluto, al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere!)
Dicevano
delle tre o quattro cifre strategiche del progetto di bilancio; eccole:
- perdite di
esercizio L. 129.954.978.671 (pag. 38);
- sofferenze :
L. 1.172/miliardi (contro L. 764/miliardi del precedente anno con balzo
vertiginoso del 53,40% - vedi pag. 14);
- partite
incagliate ancora per L. 191 miliardi, nonostante i massicci ed improvvidi
passaggi a “sofferenze” (pag. 15);
- devastanti
ammortamenti in conto delle sofferenze: L. 186,3 miliardi (vedi fra l’altro
pag. 4: voce 120 “rettifiche di valore su crediti e accantonamenti per garanzie
e impegni” voce senza dubbio sibillina, non meglio chiarita e che ha avuto
questa evoluzione: fine ’97: L. 186.269.955.469.=; fine ’96: L. 87.752.777.851;
variazioni + (più) L. 98.517.177.618; incremento del 112,27%.)
Sono cifre
buttate lì, nel progetto di bilancio, che sconvolgono ogni logica di economia
d’azienda; che vanificano i patrimoni del soci minoritari; che - per converso -
lasciano integra la partecipazione del socio dominante che potrà alienare ogni
cosa senza nulla perdere (aveva potuto acquistare o sottoscrivere cinque anni
prima a L. 8.000, al valore cioè che ora - dopo cinque anni - viene canonizzato
anche contabilmente. Conflitti d’interesse a non finire; obbligo di astenersi,
per lo meno, dalle decisioni per nulla ottemperato ( e si è sicuri che non si
vorrà neppure in questa sede rispettarlo: ma uomo avvisato è mezzo salvato);
scivolamento nelle ipotesi degli articoli del 2446 codice civile, 2447 c.c. e
2448, sub 4), senza preoccuparsi minimamente di attivare almeno le procedure
indifferibili previste (e anche qui lungi da noi ogni intento intimidatorio;
solo un preannuncio di difese a salvaguardia delle nostre ragioni di soci
conculcati); omissione di ogni adeguato chiarimento sia in sede di relazione
generale sia in sede di doverosa esplicazione di sibilline poste contabili.
Si pensi ad
un fatto di esplosivo monito: senza eventi imprevisti ed imprevedibili, senza
ragioni inopinatamente sopraggiunte, senza deterioramenti repentini
dell’ordinario operarato bancario (del tipo di colossali malversazioni da parte
di dipendenti infedeli), la Banca Mediterranea,
che nel 1997 il suo modesto ruolo di azienda creditizia era riuscita a
svolgerlo per merito esclusivo della pur numerosa e subalterna compagine
impiegatizia, precipta da un risultato positivo ad una catastrofica perdita
d’esercizio: dalle L. 2.115.023.261.= di utile del 1996 si finisce nel baratro
di una perdita d’esercizio di L. 129.954.978.671.= (vedasi a scanso di equivoci
la pag. 4 del progetto di bilancio). Il deterioramento reddituale del 1997 è
stato dunque di L. 132.070.001.932.= e - secondo quello che gli anonimi
redattori del progetto di bilancio ci segnalano in asettica e quasi
irreperibile cifra contabile - ciò ha significato un crollo gestionale del -
udite, udite - 6.244,38%, parametro tanto inconsueto, tanto spaventevole, tanto
abissale che avrebbe dovuto spingere i responsabili - alla fine tutti portavoce
del solo socio dominante - a quintali di giustificazioni e di chiarimenti e di
ragguagli e di informazioni tecniche e di spiegazioni giuridiche, e di lezioni
di tecnica bancaria, e di altro ed
altro ed altro ancora. Ed invece nulla, o pressoché nulla - visto che quello
che si dice, cripticamente, innocentemente, sa di scarica barile. Ci dicono di
banca “appesantita da pregressi consistenti crediti problematici” (pag. 1); ci
informano che - non in questo esercizio - ma “negli anni più recenti [sono
state fatte] onerose svalutazioni di bilancio” (pag. 1); che ciò è avvenuto “in
un contesto congiunturale particolarmente depresso” (pag. 1); hanno voglia
persino di volerci far credere che la banca avrebbe mantenuto “una capacità
reddituale che ha permesso di generare nell’esercizio 1997 un risultato della
gestione positivo per oltre 70 miliardi e di perseguire uno sviluppo...” (sì,
proprio così!). Ma subito dopo - ignorando la più elementare regola di logica
che non ammette che al contempo si affermi il contrario “per la contraddizion
che non consente” - veniamo tutti noi soci subalterni gabbati dovendo credere
loro che “noti fenomeni di deterioramento della qualità del credito hanno
determinato anche in questo esercizio un pesante fardello sul citato margine
lordo di gestione, abbattendo e producendo un risultato dell’esercizio ancora
insoddisfacente, corrispondente ad una perdita di circa 130 miliardi. (a pag.
1) ” E, no, cari signori, redattori del progetto di bilancio, qui proprio non
ci siamo.
Voi dite: “noti”. Noti a chi? Noti perché?
Notificati quando? Con quali modalità. Non è un fatto gestionale di poco conto,
un fatto interno, un fatto che non pregiudichi gli interessi legittimi dei soci
di minoranza, un fatto che non metta in frizioni le ragioni contrapposte del
socio egemone con quello dominato, non è
un fatto coperto dal segreto aziendale o di altra natura. Dovete qui
risignificare - invero si tratta solo di informare sarebbe informazione per la prima volta
esternata - questa pretesa notorietà.
“Fenomeni
di deterioramento della qualità del credito”, voi dite. Ma verbigrazia vi
volete spiegare. Si deteriora qualcosa che una volta era buona: Si deteriora
qualcosa perché malconservata. Si deteriora qualcosa perché non si sa gestirla.
Si deteriora qualcosa perché, per mille inconfessabili motivi, la si vuol
deteriorare, perdere. Volete essere più chiari? Dovete esserlo. Qui è in gioco
la sopravvivenza della banca, almeno la sopravvivenza delle partecipazioni
minoritarie. Al socio egemone può fare comodo rimpinzare di riserve, se non
occulte, di sicuro potenziali questa nostra banca; lasciare un residuo barlume
di consistenza patrimoniale che giustifichi la partecipazione al valore di L.
8.000 nel bilancio bancario del socio
dominante; vendere a terzi quell’interessenza - magari esteri e meglio ancora
se esterovestiti e meglio ancora se con capitali da riciclare - a prezzi di
affezione; creare le premesse per un successivo azzeramento del capitale
sociale per l’estromissione dei soci dominati e ciò in vista di una
ricostituzione del capitale sociale cui non potranno accedere i soci dominati
per inidoneità finanziarie e di una locupletazione degli speculatori esteri
(cui gratuitamente accederanno le riverse potenziali per sovrabbondanti
ammortamenti delle sofferenze). Non è così? Chiarite; rasserenate i soci di
minoranza, informate e soprattutto astenetevi dalle improvvide politiche di
occultamento di utili con massicce e ingiustificate rastremazioni dei crediti.
Solo ora,
solo “in questo esercizio - voi dite - [si è determinato] un pesante fardello
sul citato margine lordo di gestione”. Tutto qui? Non volete precisarci natura,
tempi, modalità, responsabilità, inadempimenti, azioni ed altro che diano senso
al vago ciarlare di “pesante fardello”. Quella vostra deve essere una relazione
informativa - e nel caso altamente giustificativa - e non può risolvere in un
esercizio letterario, persino di cattivo gusto. A noi sembra oltremodo
reticente quel discreto accenno a politiche dissennate e dispersive del
patrimonio bancario. A pagare, ora, siamo noi; solo noi soci di minoranza. Non
potete negarci anche la magra soddisfazione di sapere. Pensate un po’, è una
soddisfazione che è obbligo di legge. Pensate un po’ che nella vostra
situazione di espressione - palese - degli interessi del socio
dominante, per di più imbrigliato nelle secche di socio-società con azioni
quotate in borsa ( e chi sa di leggi recentissime sull’OPA e c. capisce bene),
avete più di un motivo di andare cauti, di astenervi da decisioni in conflitto
d’interessi, di essere schietti e sinceri fino all’autocrocifissione. Altro che
limitarvi ad una fraseologia circospetta e quasi da padri gesuiti. Scarna -
questo sì - ma assolutamente inadeguata.
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