lunedì 1 febbraio 2016


QUESTIONE FUSIONE BANCA MEDITERRANEA

 

 

Ad ogni buon conto lo strumento ibribo di patrimonializzazione  [orripilante neologismo inventato dalla Vigilanza] a nulla poteva giovare, atteso il disastroso ordito valutativo cui gli uomini del socio tiranno si sono indotti a chiusura d’esercizio. Si consideri che “le passività subordinate non possono eccedere il 50 per cento del ‘patrimonio di base’ (cfr. Appendice B.I. 1998, pag. 283); si consideri anche che per un processo di dissennate svalutazioni dei crediti che gli stessi uomini del Banco di Roma dichiarano avvenute in “chiave tuzioristica” – il che significa attraverso gonfiature di “riserve occulte” – non si era potuto raggiungere quel “minimum” di patrimonio di vigilanza; si sappia che  senza quel “minimum” nessuna banca può continuare ad operare per norme giuspubblicistiche di settore,. Tutto ciò considerato,  quello “strumento ibrido” è finito per palesarsi inutile e dannoso per la BM ed  indebitamente locupletativo per il socio tiranno [alias BR].

Quest’ultimo imponeva ai propri uomini – che supinamente recepivano – di contrarre un debito con la casa madre di cui la BM obiettivamente non necessitava: si frapponeva infatti il sovrabbondante  cash flow  alla cui lievitazione non mancava di contribuire la preconcetta ritrosia degli uomini del banco a finanziare l’industria locale (vedi la stasi degli impieghi, in decremento se si depurano delle pesanti capitalizzazioni degli interessi di fine esercizio). Aggiungasi il basso rapporto impieghi/depositi che ha determinato un ulteriore aggravio dei propri già critici saggi di rendimento gestionale.

 Ovvio che, presumendosi l’assolta inidoneità dei soci di minoranza – e di quelli più deboli in particolare, più numerosi, più sprovveduti e quindi più facilmente obnubinabili, quali i ricorrenti si dichiarano – il C. di A. della Mediterranea ha creduto sufficiente imbastire questo ultracriptico riferimento nella relazione di legge a corredo della loro proposta di bilancio:

«La Banca di Roma, per riequilibrare l’assetto patrimoniale della Mediterranea ha emesso uno strumento ibrido di patrimonializzazione di lit. 100/miliardi e, per il superamento della crisi vissuta dall’azienda, la capogruppo, di comune accordo con gli organi amministrativi della Mediterranea, ha individuato nella fusione per incorporazione della Mediterranea nella Banca di Roma e nel successivo scorporo del ramo di azienda bancaria di Banca Mediterranea la soluzione più idonea.»

Quanto di contraddittorio, di capzioso, di menzognero  saprebbero ben dimostrare tecnici agguerriti; se i deboli soci di minoranza – che secondo esplicita confessione verranno drasticamente estromessi dalla loro banca – non sanno opporre altrettanto capziose argomentazioni tecnicistiche, -  né qui, né nel propedeutico atto assembleare del 9 novembre 1999, né nella prossima adunata (o sceneggiata) del 26 aprile 2000 (ove il solito “omino” della Banca di Roma – socia al 53% ad onta di tutte le norme ante trust – acriticamente balbetterà il suo vincolato assenso alle proposte degli omologhi uomini BR) - ciò impone una drastica difesa di valore assoluto in questa sede. Solo in tale modo, attraverso una sospensione degli avallanti raduni pseudoassembleari, si potrà finalmente introdurre un briciolo di giustizia nelle tortuose e vessatorie vicende della Banca Mediterranea.

 

Alla voce 110 di fine esercizio abbiamo – si pensi - una  “passività subordinata” di L. 100 miliardi  che stando a quando si annota – a caratteri piccolissimi, per non venire letti – a pag. 43 è “passività subordinata” «… riferita ad un prestito di L. 100 miliardi ricevuto dalla Capogruppo Banca di Roma. Esso è regolato al tasso Eurobar a 6 mesi diminuito dello 0,10%, prevede una durata di almeno 10 anni e il rimborso in unica soluzione alla scadenza, previa autorizzazione della Banca d’ Italia. Le clausole di subordinazione che disciplinano il contratto consentono, in caso di perdite di bilancio che determino [sic] una situazione del capitale versato e delle riserve al di sotto del livello minimo di capitale previsto per l’autorizzazione all’attività finanziaria, che le somme rivenienti dal finanziamento e dagli interessi maturati possano essere utilizzate per far fronte alle perdite al fine di consentire alla Banca di continuare.»

 

Ammesso e non concesso che questa sia un’informativa accessibile ai soci sprovveduti – quali noi siamo – emerge ictu oculi che si è deciso aliunde di non far più “continuare” la Banca: è dunque venuto meno ogni motivo per un siffatto iugulatorio prestito. Ed era prestito che non poteva essere deciso dagli amministratori della BM, per evidente conflitto di interessi; che non poteva essere deciso dalla “maggioranza” dei soci, per evidente conflitto di interesse del socio tiranno; che semmai andava fatto decidere ai soli soci di minoranza, il che notoriamente non è avvenuto.

Anzi, nell’assemblea del 9 novembre 1999, si è arrogato il ruolo di presidente un signore che doveva ancora essere eletto amministratore; che non ha atteso i canonici trenta giorni per stabilire se scattavano o meno le pregiudiziali di onorabilità e professionalità che la legge bancaria ostativamente esige; di cui ancor oggi non si sa quali titoli accademici accampi (come ha potuto appurare in Internet il socio Taverna) e che, in ogni caso, glissava le mozioni d’ordine mossegli e stroncava – dopo cinque minuti – l’intervento critico del socio Taverna, nonostante si fosse antecedentemente stabilito in 20-30 minuti la durata degli interventi.

 

 

E così, con estrema disinvoltura e con sostanziale ed inqualificabile reticenza, si adempie formalisticamente ai dettati della vigilanza sugli schemi di conto economico delle banche per affastellare incomprensibili cifre sul “conto economico riclassificato” (cfr. pag. 17). La persuasività del linguaggio algoritmico diviene ulteriore velame alla comprensibilità degli inspiegabili (e tenebrosi) crolli gestionali in tema di

-          “margine gestione denaro” (erraticamente contrattosi nel 1999 del 22,77%),

-          “utili netti operazioni finanziarie” (sogghigno lessico per dire “disastro reddituale”) contrattisi e ribaltatisi del 170,22%;

-          “risultato lordo di gestione” fallimentarmente passato dagli 80,8 miliardi di resa del 1998 ad un valore abissalmente negativo di meno 93,7 miliardi;

-           “risultato ante imposte” di meno 272,887 miliardi, con un peggioramento gestione di un improbabile saggio decrementativo del 653,50%.

 

Tanto avrebbe dovuto  mettere sull’avviso il perito di nomina pubblica – la RECONTA ERNST & YUNG di Roma – che si era davvero in presenza di un bilancio del tutto nullo, falso, non veritiero, capziosamente concepito, in smaccato conflitto d’interessi concepito e quindi ragguagliare il Presidente del Tribunale di Melfi che mancava il requisito primo di una “situazione patrimoniale .. redatta con le osservanza delle norme sul bilancio di esercizio” di cui al seconda comma dell’art. 2501 ter del codice civile e che pertanto – fino ad un nuovo progetto di bilancio vero e reale – non era praticabile alcuna seria e fondata quantificazione dei rapporti di cambio per la fusione. Ciò è stato invece scandalosamente negletto.

 

Tanto avrebbe dovuto spingere la Banca d’Italia ad essere a dir poco alquanto più cauta nel concedere l’autorizzazione di cui all’art. 57 del TULB. Invece si è adoperato in modo così “comprensivo” da spingere impudentemente gli amministratori della Mediterranea a proclamare che «la frequenza dei contatti ed il sostegno in ogni circostanza dalla Filiale di Potenza rendono ancora più sentiti i sentimenti di gratitudine verso il Direttore della stessa.» (cfr. pag. 20). Per converso il socio Taverna veniva insolentemente messo alla porta da quel Direttore mentre tentava di ragguagliare sulle miserevoli sorti dei soci di minoranza. E per converso ancora, non solo il Direttore tratteneva a colloquio l’altro visitatore – il debitore Cardone – ma, guarda caso, ciò fu pronubo ad un accordo post limina con surrettizio acquisto di azioni BM all’improbabile prezzo di L. 6500 e con laute remissioni di ragioni creditizie a tutto danno degli altri soci anche di quelli in analoghe condizioni ed a bilancio di “fusione” varato.

 

Tanto avrebbe dovuto creare le fibrillazioni presso la Consob: Banco Roma prima svaluta e poi ripristina al costo la partecipazione maggioritaria presso la Mediterranea. E ciò non tanto perché crede alle valutazioni dei (suoi) tecnici – che, sia detto per inciso, prima portano ad oltre 15 mila miliardi il patrimonio (cervellotico) della BR e poi lo rastremano a 12 mila miliardi per consentire un cambio ultraenfiato di 5 a 2 in apparente favore verso i soci di minoranza della Mediterranea, ma invero per eziologicamente predisporre gli accorgimenti tecno-contabile al fine di traslare senza obbligo di rivalutazioni quell’attivo artificioso presso la divisata «società bancaria di nuova costituzione, controllata totalitariamente dalla Banca di Roma.»

 

E qui davvero c’è da sobbalzare dandosi per scontato un nugolo di autorizzazioni della Banca d’Italia “ante litteram”, a futura memoria, in incomprensibile dispregio delle norme avverso il “socio unico” e con aggiramento di quanto comunitariamente stabilito contro le concentrazioni bancarie.

 

Non si sa se trattisi di millantato credito o di altro: si sa che la Banca d’Italia non ha finora censurato codeste (dis)informazioni di bilancio del Banco di Roma (cfr. pag. 61). Si sa altrettanto che la Consob non risulta abbia censurato questo passaggio della citata relazione:

«Per quanto riguarda la Banca Mediterranea, il valore di carico è stato mantenuto a 226 miliardi [ma nella semestrale non era stata svalutata? n.d.r.] Esso si raffronta con un patrimonio netto totale di 102,6 miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca di Roma (53 per cento circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il controllo di Banca Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli investimenti effettuati che produrranno effetti a partire dal 2000, costituisca un valore che giustifica il mantenimento del valore di carico.  Del resto, le perizie effettuate da advisor indipendenti per determinare il valore di concambio ai fini della prevista fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca di Roma un valore che eccede il valore di carico.»

 

Orbene, il c.d. “valore di carico” non piò che essere questo:

-          Costo residuo della partecipazione: L. 226.000.000.000.=

-          N.ro azioni possedute: n.  38.840.319.=

-          Valore unitario: L. 5818,696.=

 

Allora ecco spiegato l’arcano del perché quei “advisor” frettolosamente dichiarati “indipendenti” abbiano oscenamente superato ogni pudore, portato prima il valore di bilancio della BM di L. 1401,91 a L. 2.435 (un quasi mirabolante raddoppio) e poi a L. 3570 (siamo alla tripletta) e poi .. e poi essendo l’artificio ancora insufficiente si abbandona ogni pudore, ogni calcolo e miracolisticamente, come nell’evangelica moltiplicazione dei pani e dei pesci, si dice nervosamente che basta dire che il concambio è di 5 a 2, mandando al diavolo ogni parametrazione patrimoniale, ad onta ci pare del buon codice civile. Ma ipse dixit e l’ipse è di Milano, professore universitario, parla inglese (equity approach, target, cash flow, earning, book value etc,) , sa di algoritimi lunghi dieci centimetri con simboli complessi (multt, mults) in greco (a, b, g), esoteci (W, K”, ) e ti invoca l’egeico Guatri ed ancor di più il misterioso DAMORADAN. Tira anche il ballo, peggio del molieriano borghese gentiluomo, la Regola di Stoccarda sul risk free rate o (visto che non avevamo capito) sul price of time, in vista del CAMP (Capital Asset Pricing Model) nell’ambito, beninteso, del going concern value. Noi, signor Giudice, lo confessiamo: non ci abbiamo capito nulla (se non un menare un can per l’aia); ma noi siamo maldestri soci di minoranza. Certo, speriamo che nessun togato si faccia prendere per il bavero.

Ma quel 5 a 2 una cosa la dice: le azioni della Mediterranea al massimo varrebbero (pur così cervelloticamente enfiati) L. 5111,99. Quindi la Banca di Roma nel suo bilancio dichiara il falso. Siamo ben lontani dalle proclamate L. 5818,696; siamo lontanissimi da quel iattante passo secondo cui «il valore di concambio ai fini della prevista fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca di Roma un valore che eccede il valore di carico.»  Ma noi soci di minoranza della BM non abbiamo strumenti giuridici per contestare un’affermazione espoliatrice dei nostri diritti societari, trattandosi di relazioni di bilanci alieni. Abbiamo solo lo strumento dell’art. 700 cpc per difendere un bene di valore assoluto: la correttezza negli affari; la sincerità nelle rappresentazioni delle valutazioni; la veridicità delle appostazioni di bilancio; l’onestà degli intenti nelle relazioni d’affari.

 

 Quando, poi, si afferma (cfr. pag. 2 della Relazione  BM al progetto di fusione) che si è inteso adoperarsi per «la salvaguardia dei diritti patrimoniali degli azionisti di minoranza» si è in smaccata contraddizione con i citati assunti del socio tiranno. Siamo in presenza di … . beh! chiamiamole in questa sede “superfetazioni”, eziologicamente rivolte ad espellere da una banca che solo nel 2000 prospererà (questo hanno detto, come sopra citato)  i soci indesiderati per conseguire un vantaggio esclusivo per quello egemone che potrà traslare un attivo, in atto dubbio, in una costituenda nuova banca, tutta di sua proprietà, locupletando in proprio in correlazione al danno imposto, con la dismissione coatta, ai subalterni soci minoritari.

 

E tali soci minoritari mai sono stati ragguagliati dal socio egemone.

 

Il socio Taverna contestava vibratamente  tutta la sequela di irregolarità che può cogliersi da quest’altro stralcio e le pressanti domande non vennero degnate da alcun chiarimento.

 

I Sindaci presenti avrebbero dovuto informare l’organo di Vigilanza. Ma l’intervenuta autorizzazione sembra escluderlo. Nel qual caso resterà da vedere se non sono scattati gli estremi dell’art. 134 TULB. Diversamente, l’Organo di Vigilanza avrebbe difettato nei propri doveri giuspubblicistici di controllo o in quelli della doverosità della segnalazione agli organi giudiziari.

 

 

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