QUESTIONE
FUSIONE BANCA MEDITERRANEA
Ad ogni
buon conto lo strumento ibribo di patrimonializzazione [orripilante neologismo inventato dalla
Vigilanza] a nulla poteva giovare, atteso il disastroso ordito valutativo cui
gli uomini del socio tiranno si sono indotti a chiusura d’esercizio. Si
consideri che “le passività subordinate non possono eccedere il 50 per cento
del ‘patrimonio di base’ (cfr. Appendice B.I. 1998, pag. 283); si consideri
anche che per un processo di dissennate svalutazioni dei crediti che gli stessi
uomini del Banco di Roma dichiarano avvenute in “chiave tuzioristica” – il che
significa attraverso gonfiature di “riserve occulte” – non si era potuto
raggiungere quel “minimum” di patrimonio di vigilanza; si sappia che senza quel “minimum” nessuna banca può
continuare ad operare per norme giuspubblicistiche di settore,. Tutto ciò
considerato, quello “strumento ibrido” è
finito per palesarsi inutile e dannoso per la BM ed indebitamente locupletativo per il socio
tiranno [alias BR].
Quest’ultimo
imponeva ai propri uomini – che supinamente recepivano – di contrarre un debito
con la casa madre di cui la BM obiettivamente non necessitava: si frapponeva
infatti il sovrabbondante cash flow alla cui lievitazione non mancava di
contribuire la preconcetta ritrosia degli uomini del banco a finanziare
l’industria locale (vedi la stasi degli impieghi, in decremento se si depurano
delle pesanti capitalizzazioni degli interessi di fine esercizio). Aggiungasi
il basso rapporto impieghi/depositi che ha determinato un ulteriore aggravio
dei propri già critici saggi di rendimento gestionale.
Ovvio che, presumendosi l’assolta inidoneità
dei soci di minoranza – e di quelli più deboli in particolare, più numerosi,
più sprovveduti e quindi più facilmente obnubinabili, quali i ricorrenti si
dichiarano – il C. di A. della Mediterranea ha creduto sufficiente imbastire
questo ultracriptico riferimento nella relazione di legge a corredo della loro
proposta di bilancio:
«La Banca
di Roma, per riequilibrare l’assetto patrimoniale della Mediterranea ha emesso
uno strumento ibrido di patrimonializzazione di lit. 100/miliardi e, per il
superamento della crisi vissuta dall’azienda, la capogruppo, di comune accordo
con gli organi amministrativi della Mediterranea, ha individuato nella fusione
per incorporazione della Mediterranea nella Banca di Roma e nel successivo
scorporo del ramo di azienda bancaria di Banca Mediterranea la soluzione più
idonea.»
Quanto di
contraddittorio, di capzioso, di menzognero
saprebbero ben dimostrare tecnici agguerriti; se i deboli soci di
minoranza – che secondo esplicita confessione verranno drasticamente estromessi
dalla loro banca – non sanno opporre altrettanto capziose argomentazioni
tecnicistiche, - né qui, né nel
propedeutico atto assembleare del 9 novembre 1999, né nella prossima adunata (o
sceneggiata) del 26 aprile 2000 (ove il solito “omino” della Banca di Roma –
socia al 53% ad onta di tutte le norme ante trust – acriticamente balbetterà il
suo vincolato assenso alle proposte degli omologhi uomini BR) - ciò impone una
drastica difesa di valore assoluto in questa sede. Solo in tale modo,
attraverso una sospensione degli avallanti raduni pseudoassembleari, si potrà
finalmente introdurre un briciolo di giustizia nelle tortuose e vessatorie
vicende della Banca Mediterranea.
Alla voce
110 di fine esercizio abbiamo – si pensi - una
“passività subordinata” di L. 100 miliardi che stando a quando si annota – a caratteri
piccolissimi, per non venire letti – a pag. 43 è “passività subordinata” «…
riferita ad un prestito di L. 100 miliardi ricevuto dalla Capogruppo Banca di
Roma. Esso è regolato al tasso Eurobar a 6 mesi diminuito dello 0,10%, prevede
una durata di almeno 10 anni e il rimborso in unica soluzione alla scadenza,
previa autorizzazione della Banca d’ Italia. Le clausole di subordinazione che
disciplinano il contratto consentono, in caso di perdite di bilancio che
determino [sic] una situazione del capitale versato e delle riserve al di sotto
del livello minimo di capitale previsto per l’autorizzazione all’attività
finanziaria, che le somme rivenienti dal finanziamento e dagli interessi
maturati possano essere utilizzate per far fronte alle perdite al fine di
consentire alla Banca di continuare.»
Ammesso e
non concesso che questa sia un’informativa accessibile ai soci sprovveduti –
quali noi siamo – emerge ictu oculi
che si è deciso aliunde di non far
più “continuare” la Banca: è dunque venuto meno ogni motivo per un siffatto
iugulatorio prestito. Ed era prestito che non poteva essere deciso dagli
amministratori della BM, per evidente conflitto di interessi; che non poteva
essere deciso dalla “maggioranza” dei soci, per evidente conflitto di interesse
del socio tiranno; che semmai andava fatto decidere ai soli soci di minoranza, il che notoriamente non è avvenuto.
Anzi,
nell’assemblea del 9 novembre 1999, si è arrogato il ruolo di presidente un
signore che doveva ancora essere eletto amministratore; che non ha atteso i
canonici trenta giorni per stabilire se scattavano o meno le pregiudiziali di
onorabilità e professionalità che la legge bancaria ostativamente esige; di cui
ancor oggi non si sa quali titoli accademici accampi (come ha potuto appurare
in Internet il socio Taverna) e che, in ogni caso, glissava le mozioni d’ordine
mossegli e stroncava – dopo cinque minuti – l’intervento critico del socio
Taverna, nonostante si fosse antecedentemente stabilito in 20-30 minuti la
durata degli interventi.
E così, con
estrema disinvoltura e con sostanziale ed inqualificabile reticenza, si adempie
formalisticamente ai dettati della vigilanza sugli schemi di conto economico
delle banche per affastellare incomprensibili cifre sul “conto economico
riclassificato” (cfr. pag. 17). La persuasività del linguaggio algoritmico
diviene ulteriore velame alla comprensibilità degli inspiegabili (e tenebrosi)
crolli gestionali in tema di
-
“margine gestione denaro” (erraticamente contrattosi
nel 1999 del 22,77%),
-
“utili netti operazioni finanziarie” (sogghigno
lessico per dire “disastro reddituale”) contrattisi e ribaltatisi del 170,22%;
-
“risultato lordo di gestione” fallimentarmente passato
dagli 80,8 miliardi di resa del 1998 ad un valore abissalmente negativo di meno 93,7 miliardi;
-
“risultato ante
imposte” di meno 272,887 miliardi,
con un peggioramento gestione di un improbabile saggio decrementativo del
653,50%.
Tanto
avrebbe dovuto mettere sull’avviso il
perito di nomina pubblica – la RECONTA ERNST & YUNG di Roma – che si era
davvero in presenza di un bilancio del tutto nullo, falso, non veritiero, capziosamente
concepito, in smaccato conflitto d’interessi concepito e quindi ragguagliare il
Presidente del Tribunale di Melfi che mancava il requisito primo di una
“situazione patrimoniale .. redatta con le osservanza delle norme sul bilancio
di esercizio” di cui al seconda comma dell’art. 2501 ter del codice civile e che pertanto – fino ad un nuovo progetto di
bilancio vero e reale – non era praticabile alcuna seria e fondata
quantificazione dei rapporti di cambio per la fusione. Ciò è stato invece
scandalosamente negletto.
Tanto
avrebbe dovuto spingere la Banca d’Italia ad essere a dir poco alquanto più
cauta nel concedere l’autorizzazione di cui all’art. 57 del TULB. Invece si è
adoperato in modo così “comprensivo” da spingere impudentemente gli amministratori
della Mediterranea a proclamare che «la frequenza dei contatti ed il sostegno
in ogni circostanza dalla Filiale di Potenza rendono ancora più sentiti i
sentimenti di gratitudine verso il Direttore della stessa.» (cfr. pag. 20). Per
converso il socio Taverna veniva insolentemente messo alla porta da quel
Direttore mentre tentava di ragguagliare sulle miserevoli sorti dei soci di
minoranza. E per converso ancora, non solo il Direttore tratteneva a colloquio
l’altro visitatore – il debitore Cardone – ma, guarda caso, ciò fu pronubo ad
un accordo post limina con
surrettizio acquisto di azioni BM all’improbabile prezzo di L. 6500 e con laute
remissioni di ragioni creditizie a tutto danno degli altri soci anche di quelli
in analoghe condizioni ed a bilancio di “fusione” varato.
Tanto
avrebbe dovuto creare le fibrillazioni presso la Consob: Banco Roma prima
svaluta e poi ripristina al costo la partecipazione maggioritaria presso la
Mediterranea. E ciò non tanto perché crede alle valutazioni dei (suoi) tecnici –
che, sia detto per inciso, prima portano ad oltre 15 mila miliardi il
patrimonio (cervellotico) della BR e poi lo rastremano a 12 mila miliardi per
consentire un cambio ultraenfiato di 5 a 2 in apparente favore verso i soci di
minoranza della Mediterranea, ma invero per eziologicamente predisporre gli
accorgimenti tecno-contabile al fine di traslare senza obbligo di rivalutazioni
quell’attivo artificioso presso la divisata «società bancaria di nuova
costituzione, controllata totalitariamente dalla Banca di Roma.»
E qui
davvero c’è da sobbalzare dandosi per scontato un nugolo di autorizzazioni
della Banca d’Italia “ante litteram”, a futura memoria, in incomprensibile
dispregio delle norme avverso il “socio unico” e con aggiramento di quanto
comunitariamente stabilito contro le concentrazioni bancarie.
Non si sa
se trattisi di millantato credito o di altro: si sa che la Banca d’Italia non
ha finora censurato codeste (dis)informazioni di bilancio del Banco di Roma
(cfr. pag. 61). Si sa altrettanto che la Consob non risulta abbia censurato
questo passaggio della citata relazione:
«Per quanto
riguarda la Banca Mediterranea, il valore di carico è stato mantenuto a 226
miliardi [ma nella semestrale non era stata svalutata? n.d.r.] Esso si raffronta con un patrimonio netto totale di 102,6
miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca di Roma (53 per cento
circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il controllo di Banca
Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli investimenti effettuati
che produrranno effetti a partire dal 2000, costituisca un valore che
giustifica il mantenimento del valore di carico. Del resto, le perizie effettuate da advisor
indipendenti per determinare il valore di concambio ai fini della prevista
fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca
di Roma un valore che eccede il valore di carico.»
Orbene, il
c.d. “valore di carico” non piò che essere questo:
-
Costo residuo della partecipazione: L.
226.000.000.000.=
-
N.ro azioni possedute: n. 38.840.319.=
-
Valore unitario: L. 5818,696.=
Allora ecco spiegato l’arcano del perché quei “advisor”
frettolosamente dichiarati “indipendenti” abbiano oscenamente superato ogni
pudore, portato prima il valore di bilancio della BM di L. 1401,91 a L. 2.435
(un quasi mirabolante raddoppio) e poi a L. 3570 (siamo alla tripletta) e poi
.. e poi essendo l’artificio ancora insufficiente si abbandona ogni pudore,
ogni calcolo e miracolisticamente, come nell’evangelica moltiplicazione dei
pani e dei pesci, si dice nervosamente che basta dire che il concambio è di 5 a
2, mandando al diavolo ogni parametrazione patrimoniale, ad onta ci pare del
buon codice civile. Ma ipse dixit e l’ipse è di Milano, professore
universitario, parla inglese (equity
approach, target, cash flow, earning, book value etc,) , sa di algoritimi
lunghi dieci centimetri con simboli complessi (multt, mults)
in greco (a, b, g), esoteci (W, K”, ) e ti invoca l’egeico Guatri ed ancor di più il
misterioso DAMORADAN. Tira anche il
ballo, peggio del molieriano borghese
gentiluomo, la Regola di Stoccarda
sul risk free rate o (visto che non
avevamo capito) sul price of time, in
vista del CAMP (Capital Asset Pricing
Model) nell’ambito, beninteso, del going
concern value. Noi, signor Giudice, lo confessiamo: non ci abbiamo capito
nulla (se non un menare un can per l’aia); ma noi siamo maldestri soci di
minoranza. Certo, speriamo che nessun togato si faccia prendere per il bavero.
Ma quel 5 a
2 una cosa la dice: le azioni della Mediterranea al massimo varrebbero (pur
così cervelloticamente enfiati) L. 5111,99. Quindi la Banca di Roma nel suo bilancio dichiara il falso.
Siamo ben lontani dalle proclamate L. 5818,696; siamo lontanissimi da quel iattante passo
secondo cui «il valore di concambio ai fini della prevista fusione per
incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca di Roma un
valore che eccede il valore di carico.»
Ma noi soci di minoranza della BM non abbiamo strumenti giuridici per
contestare un’affermazione espoliatrice dei nostri diritti societari,
trattandosi di relazioni di bilanci alieni. Abbiamo solo lo strumento dell’art.
700 cpc per difendere un bene di valore assoluto: la correttezza negli affari;
la sincerità nelle rappresentazioni delle valutazioni; la veridicità delle
appostazioni di bilancio; l’onestà degli intenti nelle relazioni d’affari.
Quando, poi, si afferma (cfr. pag. 2 della
Relazione BM al progetto di fusione) che
si è inteso adoperarsi per «la salvaguardia dei diritti patrimoniali degli
azionisti di minoranza» si è in smaccata contraddizione con i citati assunti
del socio tiranno. Siamo in presenza di … . beh! chiamiamole in questa sede
“superfetazioni”, eziologicamente rivolte ad espellere da una banca che solo
nel 2000 prospererà (questo hanno detto, come sopra citato) i soci indesiderati per conseguire un
vantaggio esclusivo per quello egemone che potrà traslare un attivo, in atto
dubbio, in una costituenda nuova banca, tutta di sua proprietà, locupletando in
proprio in correlazione al danno imposto, con la dismissione coatta, ai
subalterni soci minoritari.
E tali soci
minoritari mai sono stati ragguagliati dal socio egemone.
Il socio
Taverna contestava vibratamente tutta la
sequela di irregolarità che può cogliersi da quest’altro stralcio e le pressanti
domande non vennero degnate da alcun chiarimento.
I Sindaci
presenti avrebbero dovuto informare l’organo di Vigilanza. Ma l’intervenuta
autorizzazione sembra escluderlo. Nel qual caso resterà da vedere se non sono
scattati gli estremi dell’art. 134 TULB. Diversamente, l’Organo di Vigilanza
avrebbe difettato nei propri doveri giuspubblicistici di controllo o in quelli
della doverosità della segnalazione agli organi giudiziari.
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