...per mestiere spiego bene agli altri quello che per me non
comprendo.
mercoledì 5 giugno 2013
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA DITTATURA? L’arco di
tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944 e un dies
ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello
che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per
Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo– dopo) tentava di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili: nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) .“In quache modo volevo – puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro, anzi si esercitò su di loro.Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga; con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di querele.Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi (a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto- durante il fascismo, sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della “post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande linguistaebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -ricorre ad un artato “torbo” da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità, nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti.Sono ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di luce, di vitaquale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo. Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA DITTATURA? L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944 e un dies ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo– dopo) tentava di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili: nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) .“In quache modo volevo – puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro, anzi si esercitò su di loro.Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga; con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di querele.Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi (a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto- durante il fascismo, sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della “post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande linguistaebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -ricorre ad un artato “torbo” da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità, nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti.Sono ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di luce, di vitaquale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo. Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA DITTATURA? L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944 e un dies ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo– dopo) tentava di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili: nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) .“In quache modo volevo – puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro, anzi si esercitò su di loro.Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga; con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di querele.Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi (a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto- durante il fascismo, sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della “post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande linguistaebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -ricorre ad un artato “torbo” da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità, nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti.Sono ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di luce, di vitaquale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo. Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo– dopo) tentava di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili: nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) .“In quache modo volevo – puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro, anzi si esercitò su di loro.Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga; con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di querele.Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi (a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto- durante il fascismo, sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della “post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande linguistaebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -ricorre ad un artato “torbo” da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità, nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti.Sono ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di luce, di vitaquale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo. Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA DITTATURA? L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944 e un dies ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo– dopo) tentava di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili: nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) .“In quache modo volevo – puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro, anzi si esercitò su di loro.Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga; con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di querele.Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi (a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto- durante il fascismo, sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della “post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande linguistaebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -ricorre ad un artato “torbo” da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità, nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti.Sono ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di luce, di vitaquale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo. Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA DITTATURA? L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944 e un dies ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo– dopo) tentava di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili: nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) .“In quache modo volevo – puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro, anzi si esercitò su di loro.Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga; con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di querele.Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi (a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto- durante il fascismo, sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della “post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande linguistaebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -ricorre ad un artato “torbo” da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità, nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti.Sono ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di luce, di vitaquale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo. Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA DITTATURA? L’arco di
tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944 e un dies
ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello
che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per
Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare
frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi
da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un
attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento
granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo – dopo) tentava
di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro
Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far
credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa
essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su
quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo
ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad
eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla
imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili:
nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e
come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) . “In quache modo volevo
– puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere
omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per
consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore
fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha
imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto
fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro,
anzi si esercitò su di loro. Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano maturati
in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale
esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese Sciascia
odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la politica
politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti persino
dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga; con
Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di
querele. Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di
una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse
imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle
giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi
consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi
(a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò
i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo
ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho
conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia
rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la
fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto - durante il fascismo,
sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un
morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos, l’invidia,
l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore e
protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di imbecilli,
popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole
della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della
“post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande
linguista ebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole
contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo
ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del
vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata
non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove
di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli - ricorre ad un artato “torbo”
da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi
antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci
altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli
fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una
lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità,
nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come
quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini
qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti. Sono
ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo,
una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un
mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si
trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la
cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò
al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un
fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui
anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un
lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva
anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine
sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a
dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi
cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di
fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di
luce, di vita quale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla
Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo.
Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo
Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto
minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA DITTATURA? L’arco di
tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944 e un dies
ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello
che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per
Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare
frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi
da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un
attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento
granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo – dopo) tentava
di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro
Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far
credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa
essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su
quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo
ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad
eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla
imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili:
nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e
come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) . “In quache modo volevo
– puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere
omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per
consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore
fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha
imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto
fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro,
anzi si esercitò su di loro. Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano
maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un
tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese
Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la
politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti
persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga;
con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di
querele. Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di
una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse
imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle
giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi
consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi
(a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò
i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo
ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho
conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia
rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la
fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto - durante il fascismo,
sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un
morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos,
l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore
e protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di
imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole
della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della
“post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande
linguista ebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole
contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo
ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del
vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata
non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove
di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli - ricorre ad un artato “torbo”
da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi
antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci
altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli
fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una
lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità,
nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come
quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini
qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti. Sono
ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo,
una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un
mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si
trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la
cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò
al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un
fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui
anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un
lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva
anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine
sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a
dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi
cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di
fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di
luce, di vita quale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla
Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo.
Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo
Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto
minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA DITTATURA? L’arco di
tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944 e un dies
ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida il fratello
che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora per
Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare
frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi
da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un
attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento
granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo – dopo) tentava
di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro
Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far
credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa
essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su
quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo
ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad
eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla
imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili:
nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e
come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) . “In quache modo volevo
– puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere
omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per
consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore
fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha
imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto
fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro,
anzi si esercitò su di loro. Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano
maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un
tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese
Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la
politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti
persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga;
con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di
querele. Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di
una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse
imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle
giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi
consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi
(a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò
i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo
ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho
conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia
rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la
fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto - durante il fascismo,
sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un
morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos,
l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore
e protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di
imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole
della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della
“post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande
linguista ebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole
contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo
ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del
vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata
non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove
di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli - ricorre ad un artato “torbo”
da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi
antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci
altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli
fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una
lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità,
nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come
quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini
qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti. Sono
ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo,
una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un
mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si
trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la
cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò
al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un
fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui
anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un
lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva
anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine
sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a
dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi
cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di
fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di
luce, di vita quale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla
Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo.
Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo
Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto
minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
martedì 15 ottobre 2013
A proposito delle favole e delle tavole della dittatura del
connubbio scascia-bruno
Se ci domandiamo: Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA
DITTATURA? crediamo di poter rispondere:
L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944
e un dies ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida
il fratello che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora
per Leonardo Sciascia.
Le scrisse mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad
ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo
pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono
cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di
rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo–
dopo) tentava di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro
Sciascia. Il quale però dovette saper ben nascondere il suo dispetto da far
credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa
essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su
quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo
ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad
eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla
imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili:
nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e
come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) .“In quache modo volevo
– puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere
omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per
consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore
fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha
imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto
fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro,
anzi si esercitò su di loro.Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano
maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un
tale esercizio” ed, aggiungiamo noi, della sottesa fede politica. Due chiese
Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la
politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti
persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga;
con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di
querele.Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di
una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse
imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle
giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi
consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi
(a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò
i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo
ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho
conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia
rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la
fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto- durante il fascismo,
sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la
“liberazione”un morto aggiorna ogni mattina, sentivo dire nella mia infanzia.
Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi
benefattore e protettore di Sciascia. Un mondo di bestie, di furbi, di cattivi,
di imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti
delle Favole della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della
“post-dittatura”. Pasolini nel 1951 non capì. La valentia scrittoria del grande
linguista ebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole
contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo
ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del
vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata
non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove
di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -ricorre ad un artato “torbo”
da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi
antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci
altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli
fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una
lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità,
nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come
quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini
qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti.Sono ora
le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una
fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo
migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si
trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la
cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia –
ricordò al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io
sono un fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui
anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un
lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva
anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo:
dittaura=ordine sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita:
un’ossessione che a dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla
morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi
cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di
fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di
luce, di vita quale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla
Fedro rovesciato? Nessuna, avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza
volerlo, il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia
ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in uno scritto
minore de GLI AMICI DELLA NOCE.
A proposito delle favole e delle tavole della dittatura del
connubbio scascia-bruno
Se ci domandiamo: Quando Sciascia scrisse le FAVOLE DELLA
DITTATURA? crediamo di poter rispondere:
L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato, pensiamo attorno al 1944
e un dies ad quem, che per noi sfiora ma non supera il 1949, quando si sucida
il fratello che segnò profonda cesura stilistica, etica, umorale e altro ancora
per Leonardo Sciascia.
Le scrisse mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad
ammassare frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo
pacifico, lungi da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono
cogliere in un attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di
rastrellamento granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo–
dopo) tentava di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro
Sciascia. Il quale però dovette saper ben nascondere il suo dispetto da far
credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa
essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su
quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo
ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad
eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla
imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili:
nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e
come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) .“In quache modo volevo
– puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere
omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per
consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore
fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha
imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto
fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro,
anzi si esercitò su di loro.Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano
maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un
tale esercizio” ed, aggiungiamo noi, della sottesa fede politica. Due chiese
Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la
politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti
persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga;
con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di
querele.Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di
una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse
imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle
giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi
consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi
(a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò
i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo
ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho
conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia
rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la
fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto- durante il fascismo,
sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la
“liberazione”un morto aggiorna ogni mattina, sentivo dire nella mia infanzia.
Il caos, l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi
benefattore e protettore di Sciascia. Un mondo di bestie, di furbi, di cattivi,
di imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti
delle Favole della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della
“post-dittatura”. Pasolini nel 1951 non capì. La valentia scrittoria del grande
linguista ebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole
contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo
ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del
vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata
non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove
di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli -ricorre ad un artato “torbo”
da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi
antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci
altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli
fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una
lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità,
nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come
quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini
qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti.Sono ora
le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo, una
fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un mondo
migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si
trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la
cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia –
ricordò al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono
un fondatore del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui
anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un
lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva
anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo:
dittaura=ordine sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita:
un’ossessione che a dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla
morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi
cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di
fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di
luce, di vita quale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla
Fedro rovesciato? Nessuna, avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza
volerlo, il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia
ma è lo Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in uno scritto
minore de GLI AMICI DELLA NOCE.
venerdì 15 marzo 2013
Quando Sciascia scrisse le
FAVOLE DELLA DITTATURA? L’arco di tempo ha un punto d’origine molto arretrato,
pensiamo attorno al 1944 e un dies ad quem, che per noi sfiora ma non supera il
1949, quando si sucida il fratello che segnò profonda cesura stilistica, etica,
umorale e altro ancora per Leonardo Sciascia.
Mentre si annoiava al Consorzio Agrario, ad ammassare
frumento anche requisito, in ufficio come poliziesco, lui animo pacifico, lungi
da ogni violenza persino verbale. Credo che pochi lo poterono cogliere in un
attimo di veemente ira. Neppure quando il collega (crediamo e di rastrellamento
granario prima e in veste di maestro elementare - annoiatssimo – dopo) tentava
di mettergli “nel piatto povero .. lo schifo di una mosca”.
Crediamo che sia stato don Pino a molestarlo tanto il nostro
Sciascia. Il quale però divette saper ben nascondere il suo dispetto da far
credere a chi stava appiccicato di essere il suo più grande amico. Come si sa
essere in Sicilia.
Erano tempi in cui l’Autore “imparava a scrivere”. E su
quali sillabari? Savarese, Cecchi e Barilli. Barilli con il suo raffinatissimo
ma estetizzante gusto musicale lasciò tracce sparute. Ancor meno Cecchi. Ad
eccezione di qualche foglio sparso non trovo nulla che possa avvinarsi alla
imperante (allora) prosa d’arte. Invece Savarese lascia impronte indelebili:
nel capolavoro di Sciascia, LE PARROCCHIE, gli echi dell’Ennese ci stanno e
come persino quasi nel titolo (chiunque l’abbia messo) . “In quache modo volevo
– puntigliosamente annota Sciascia, persino in contrasto con Pasolini - rendere
omaggio a Savarese, autore dei FATTI DI PETRA”, La seconda ragione per
consentire il ribattezzo di Racalmuto in Regalpetra.
Diciamolo subito: Savarese, che muore nel 1945, fu scrittore
fascistissimo come quasi tutti quelli della Ronda. E Sciascia si confessa: ha
imparato a scrivere «proprio sugli scrittori “rondisti”». Nato e cresciuto
fascista, in famiglia fascista, ama scrittori fascisti e si cimentò con loro,
anzi si esercitò su di loro. Dirà: “per quanto i miei intendimenti siano
maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un
tale esercizio” ed aggiungiamo noi della sottesa fede politica. Due chiese
Sciascia odiò con sincerità: la cattolica e la comunista, tout court la
politica politicante. Amico di un professore marxista, di Mannino, di Andreotti
persino dopo una inziale frizione; e possiamo dire anche di Craxi e Cossiga;
con Guttuso finì male e con Pannella non diciamo tutta la verità per paura di
querele. Si pensi che ci confidarono che in ultimo lo allettò la profferta di
una candidatura da parte di Almirante. L’immatura morte ci precluse
imprevedibili evoluzioni politiche del Nostro.
Sciascia amò la Racalmuto delle adunate, le sfilate delle
giovani italiane, gli ammiccamenti che il regime con la maestra Taibi
consentiva in una Racalmuto sotto la musoneria di preti ed arcipreti sessuofobi
(a prescindere dalle loro private ma ben ascose birichinerie). Sciascia non amò
i preti specie quelli che gli si strisciavano addosso ammaliati dal suo
ateismo. Sì, ieri alle ore 10,25, credetti in Dio …… Che è colpa mia se ho
conosciuto un solo prete degno! Leggere FUOCO ALL’ANIMA per capire e annuire.
Arrivano gli americani, arriva la Kermesse; Sciascia
rabbrividisce. Esplode rabbia, cattiveria, violenza in paese. Per Sciascia la
fattoria di Orwel gli si para davanti, ora. A Racalmuto - durante il fascismo,
sotto Mori, solo un paio di omicidi prontamente perseguiti – ora dopo la “liberazione”un
morto agghiona ogni matina, sentivo dire nella mia infanzia. Il caos,
l’invidia, l’esecuzione crudele del nuovo sindaco, per tanti versi benefattore
e protettore di Sciascia. Un modo di bestie, di furbi, di cattivi, di
imbecilli, popola la mente e la fantasia di Sciascia: sono i veri spunti de le Favole
della Dittatura, con brutto neologismo diremmo le favole della
“post-dittatura”. Pasolini nel 1961 non capì. La valentia scrittoria del grande
linguista ebbe il sopravvento sul giudizio riduttivo che siffatte false favole
contro la presunta dittatura fascista a chi conosce Sciascia nell’intimo
ispirano.
Aggiungasi l’evidente stridore lessicale; la ricerca del
vocabolo da prosa d’arte, alla Cecchi. Ma a Sciascia quella lingua ricercata
non è consona. Qualche esempio. Se deve descrivere un lupo a Racalmuto – dove
di lupi non ce ne stanno e tantomeno di ruscelli - ricorre ad un artato “torbo”
da coniugare con specchio: una endiade un po’ troppo cerebrale. E dopo sofismi
antitetici a quelli del favolista latino di Superior Stabat lupus non sa dirci
altro che un termine non favolistico come “lacerare”: il lupo “d’un balzo gli
fu sopra a lacerarlo”. E se una lezione politica vogliamo cogliere è una
lezione politica ribaltata: nella dittatura razionalità anche nella bestialità,
nel nuovo corso, solo violenza senza ragione, violenza raccapricciante come
quel ”lacerare” le candide carni del tenero agnellino. Erano tempi di uomini
qualunque schiacciatt e di merli gialli e di becchi gialli vituperanti. Sono
ora le scimmie a predicare l’ordine nuovo: si vuole “un tripudio dolcissimo,
una fraterna agape vegetariana”. Chi non ricorda – se ha l’età mia – “per un
mondo migliore” di padre Lombardi S.J.?
Già, ma se un topo si mette a giocare con un gatto, “si
trova rovesciato sotto le unghie del recente amico”. Allora capisce “che la
cosa si mette come per l’antico”. «Con tremula speranza – sempre Sciascia – ricordò
al gatto i principi del nuovo regno. “Sì”, rispose il gatto, “ma io sono un fondatore
del nuovo regno”. E gli affondò i denti nel dorso.»
Favole, certo; ma non contro la cessata dittatura – di cui
anzi si ha nostalgia – ma contro il preteso “ordine nuovo”, quello che da un
lato macchiava Portella delle Ginestre di sangue rosso, ma dall’altro poteva
anche esserci violenza sotto le bandiere rosse persino di un Li Causi.
Ovvio che noi non accettiamo questo manicheismo: dittauta=ordine
sociale: ordine nuovo=caos violento. Giustizia che latita: un’ossessione che a
dire il vero Sciascia si portò coerentemente sino alla morte.
Agato Bruno, pittore maturo, non in cerca di una qualsiasi
cifra espressiva. Ma con gnosi politica radicata, col possesso di un’arte di
fascinosa attrattiva cromatia, con vezzo georgico virgiliano, ebbro di sole, di
luce, di vita quale ispirazione può suggere da siffatte implumi favole alla
Fedro rovesciato? Nessuna avremmo voglia di affermare. Ma, forse senza volerlo.
Il pittore, l’artista Agato Bruno una consonanza la trova in Sciascia ma è lo
Sciascia raro, pudico, quello idillico che traspare solo in questo scritto
minore de GLI AMICI DELLA NOCE:
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