Mi colgo la foto e me
la conso a mio gusto. Distratto come sempre, finisco in una nobile accolta. Mi
dimetto e rimetto qui le mie solite
beffe. Ironizza Sciascia:
“Così il cane sotterra frenetico
L’osso rubato – e all’istante dimentica!»
Ma godo ancor più a seguire Peppe Bruno quando recita:
«Nostra
madre non ha voglia di tirarci su; forse
si sentirebbe più libera, se noi cadessimo in bocca a questo cagnaccio».
E il ‘cagnaccio’ Peppe con altra voce sibila. Suggerisce: ingordo in un sol boccone
ingoia passerotti e passerottine che pipiano
lamenti e rimpianti. La chiesuola della foto crediamo di ben conoscere.
Lungi le crepe seicentesche, al limite sarebbero cinquecentesche e anche
anteriori.
La chiesuola, quella
vetusta, nei miei libri (e di nessun altro) seguii e perseguii. Fu faccenda dei
Savatteri quando iniziarono ad arricchire
per spinta di tal Scipione o Saipiuni come i villici storpiavano l’astruso
nome.
Un molto postumo virgulto
lo vuole divenire d’alto lignaggio e dovizioso
per avere custodita integra una
castissima fanciulletta dei Dei Carretto in un periglioso viaggio da
Palermo ai manieri del castello sopra la Fontana; e dopo o perché rimasta immacolata
o per l’opposto la ebbe in premio, sull’ara coniugale.
Quella chiesuola venne chiosata da un pingue vescovo
spagnolo in alto lassù a Girgenti, ma credendo forse di essere ancora in
Catalogna ne storpiò il titolo in Nostra Signora di Monserrato (se il giornale di
Sciascia mi leggesse, sarebbe più erudito e meno faziosamente familiare e di
nobil ceppo).
Questa chiesuola qui - tardissimo
ottocentesca - potrebbe avere veritiero sillabo qualora risorgessero le signorine
Sferrazza e don Lillì dismettesse la sua senile vis lubrica.
Fu chiesuola di vaticaneschi
commendatori, per vescovi di imperiosa favella. Il Peruzzo se d’estate qui
veniva, nei lindi saloni sferrazzeschi pernottava, e in questa chiesuola officiava
maestosa la mitra, ricca la veste, col piviale gemmato, massiccio d’argento il baculo d’appoggio. Dopo, signorilmente nelle calde estati, vi
scendevano dalle arroganti casine del pizzo di ponente del Serrone, i nuovi
nobili, ricchi e ciarlanti, con frotte di fanciulle frementi. Si negavano ocularmente
a noi meschinelli plebei, che da allocchi le miravamo. E quegli ignudi omeri
opimi ci baluginavano per i memori nostri onanismi notturni.
Ed era da infiggerci penitenze
estreme; tradivamo le più corpulente ragazzotte che dimorando nei pagliai di
fronte tutto mostrano il petto e ben più appetibile stimolo potevano suggerirci
per i nostri usuali impuri atti che pur si richiamavano al biblico Onan qui semen spargebat in terram.
La chiesuola del nobile Scipione si disperse
nel tempo per spartizioni falso-testamentarie. Questa novella Madonna del
Serrone veniva ora officiata ogni estiva domenica ma non da prete dimesso: veniva
cavalcando asina mansueta, un gran
monsignore con violacea mantella, alto, aspro, austero, di longilinea snellezza,
ammirevole, riverito. Giungeva così l’arciprete Casuccio ed attorno gli si stringevano,
civettuole, le eleganti signore e indi i loro consorti, galantuomini espansi
per eccessivo indugiare sulle poltrone di cuoio dell’esclusivo Circolo Unione.
Casti riguardi, casti sorrisi, niente di quello che pur taluno malignava. Non
vorrei però che giunto nella valle di Giosafatte abbia a aver rivelo di intrecci
che se vivo ne avrei tratto divertito scandalo.
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