venerdì 16 gennaio 2015

Disturbo?


La “buona tecnica” e l’ipotattico scrivere; favole antiche e questioni d’oggidì.

Recupero finalmente il pacco con i libri rari speditomi a fine novembre da Agato Bruno. Risultava introvabile il volume di Pier Maria Rosso di San Secondo “Tutto il Teatro – la dimensione europea”. Il secondo volume ero riuscito a procurarmelo a Roma presso la specializzata IBS di via Nazionale.

L’altro volumetto ormai ancora più introvabile è “La Sicilia, il suo cuore – Favole della dittatura” del nostro grande Leonardo Sciascia, l’Adelphi l’ha ceduto alla Bompiani ed ha tolto di circolazione il dignitoso libretto che ospitava al n° 400 della Piccola Biblioteca. Perché ciò non si sa o io non so o se non so questo non vuol dire che non sospetti, e di grosso. Debbo notiziare che la casa Editrice dopo pensamenti mi diffida dal chiosare con splendide pitture di Agato Bruno quelle favolette scritte da Sciascia prima del 1950. Senza mezzi termini mi invia un post ove si ardisce interdire opere d’ingegno altrui e non si accordano non richieste autorizzazioni. Ho avuto voglia di pensare che la simonia non è solo nelle cose della chiesa cattolica, ma alberga anche tra i mercanti delle opere di ingegno e tra i locupletanti ereditari dei sommi e Sciascia sommo lo fu.

Resta singolare che le pagg. 67-71 accolgono un saggio del 1951 di Pier Paolo, Pasolini, il terzo volume della Bompiani, no. Cosa sia successo non mi è dato di sapere. Anche qui sospetti .. buoni per eventuali dispetti.

Come qualcuno sa, mi sono adoperato per far desumere dal testo delle favole edite nel 1950 dalla Baldi, pronubo quel Mario dell’Arco che venne a Racalmuto per piazzare per poche lire alcune sue favole al Circolo Unione. In cambio, Sciascia pubblicò il suo primo lavoretto presso la tipografia del Parlamento Baldi. Di quella edizione posseggo le fotocopie degli omaggi a pagamento che Sciascia fece del suo primo successo editoriale a Giuseppe Gregorio Delfino ( in Racalmuto il 28/11/1950) ed al suo fido e valido parente Jachino Farrauto. Il gusto scabro ed elegante della stampa Sciascia ce l’ha già tutto, e se l’Adelphi con la sua Piccola Biblioteca non scantona troppo, non altrettanto può dirsi della inelegante pingue edizione della Bompiani. Pervenuto il libretto Adephi, leggo il Pasolini. Qui il sommo Pier Paolo bleffa alquanto. Elegia ma fuori campo. Il testo sciasciano esordisce con il latino sempliciotto di Fedro (superior stabat lupus), cosa da quarta ginnasiale. Ma Sciascia non credo che sia stato un ginnasiale. Fino a quindici anni scribacchiava da cane le cartoline “fascistissime” a don Piddu Tulumello. Esaltava e si esaltava per le adunate che aveva potuto ammirare a Trieste, meta di uno dei suoi giovanili viaggi a spese di zii federali e di zie maestre elementari. Povere cose – diceva – quelle di Racalmuto, a confronto. Ma qui almeno la maestra Taibi faceva sfilare fanciulle in fiore di quella che sarà Regalpetra e tra queste v’era una tal innominata dal petto straripante che eccitava entrambi i due corrispondenti. La grammatica a quel tempo era per Nardu un optional. E tale restò anche nel immediato dopoguerra per quello che gli rimbrottava un autorevole firma vaticanesca, come rammento di aver letto.

Dice Pasolini: “queste favole hanno la chiusura di brevi liriche, e richiamiamoci pure al quadretto di genere alessandrino, alla maiolica orientale, o alla lirica popolare (e magari proprio siciliana), tanto per dare al lettore un’idea di questo linguaggio”. “Troppo garante di non volgare attualità è questa lingua così ferma e tersa”. Comunque “questi improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel contesto di questo linguaggio, così puro che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia stata una favola”.

L’alato scrivere è fuori discussione, ma il concetto non dovette essere “tenace” duraturo, se Sciascia a quasi un decennio dopo sente il bisogno di puntualizzare, gradire eppure contrapporsi, specificare in un commento al suo riuscitissimo pamphlet  “ La Parrocchie di Regalpetra” e scrivere note come queste: “debbo confessare che proprio sugli scrittori ‘rondisti’  - Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a scrivere”; “tengo a dichiarare che avendo cominciato a pubblicare dopo i trent’anni, cioè dopo avere scontato in privato tutti i possibili latinucci che si imponevano a quelli della mia generazione, da allora non ho avuto problemi di espressione, di forma se non subordinati all’esigenza di ordinare razionalmente il conosciuto più che il conoscibile e di documentare e raccontare con buona tecnica”. Lode a Pasolini dunque ma per sola buona educazione (e i malevoli direbbero per convenienza) ma Sciascia non poteva accettare stilemi non congeniali; non accettabile, dunque, che “la sua ricerca documentaria e addirittura la sua denuncia”, potessero concretarsi “ in forme ipotattiche, -  a dire di Pier Paolo – sia pure semplici e lucide: forme che non soltanto ordinano il conoscibile razionalmente (e fino a questo punto la richiesta marxistad el nazional-popolare è osservata) ma anche squisitamente: sopravvivendo in tale saggismo il tipo stilistico della prosa d’arte, del capitolo”. In questo tirar di fioretto tra due antitetici “intelletti” quel che di sicuro emerge è che Sciascia non era ”marxista”, v’è persino stizza in lui ed i sofismi tra il conoscibile (che è poi fantasia) e il conosciuto (la galassia della memoria)  sfumano nel “saper raccontare con buona tecnica”. Con sapiente sintesi, con brevità, canoni cui mi pare Leonardo Sciascia si adedeguò con crescente e mirabile puntiglio.

 Mi pare quindi disallineata la pagina che il professore Antonio Di Grado ci regala nell’introdurre “gli amici della Noce”. Paratassi oltre i limiti, apparire eruditi citando (un richiamo colto ogni due righe), avventurarsi solo nel conoscibile, elusivi nella memoria e nella contemplazione. Il magistero cade su “confrerès”; gli affetti e le intelligenze sono un grumo intorno ai ricchi silenzi; le citazioni, allusive; il carisma, sobrio. Si citano le “conversazioni in Sicilia”, ma non Elio Vittorini: il magistero intellettuale del grande scrittore non avrebbe gradito: e chiarisce ora il perché, spandendo fuoco nel mare in dispregio dei desiderata del caro estinto, Paolo Squillacioti (pagg. 186-187).

Desistiamo. Annusiamo effluvi censori (o di autocensura; peggio). Una triviale domanda: con un “direttore artistico” di tal fatta quanta speranza residua nei conati di conseguire gli scopi statutari della Fondazione Sciascia?

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