Il Seicento Racalmutese
Il
Seicento inizia con l’uccisione a Palermo, nella via Favara - e non in contrada Ferraro di Racalmuto, come affermano storici
locali - del poco virtuoso Giovanni IV Del Carretto. Ecco come un diarista di
Palermo raccontò il raccapricciante delitto:
A 5 di maggio 1608, Lunedì sera, a ora una di notte.
In questa città di Palermo, nella strada Macheda, alla calata a mano dritta
dove si va alli Ferrari, successi uno orrendo caso, che venendo in cocchio lu
ill.e conte di Racalmuto, chiamato D. Ioanni del Carretto, insemi con un altro gentilomo nominato D. Ioanni
Bonaiuto (quali sempre era solito di andare con lui), come fu alla detta
strata, ci accostorno dui omini, li quali non si conoscêro, allo palafango [parafango] di detto; e ci tirarono
dui scopettonate nel petto a detto conti, chi a mala pena potti invocare il
nome di Jesù, con gran spavento di quello che era con detto conti, e con gran
maraviglia di tutti li agenti; e finìo.
« A 7 detto, mercori, ad uri
22. Si gittao un bando arduissimo della morti del ditto conti di Racalmuto: chi cui sapissi o rivilassi cui avissi occiso a
detto conti, S.E. li donava scuti cincocento, dudici spatati, quattro testi,
sei destinati [1],
purché non sia lu principali ci avissi fatto
detto delitto, et anco la grazia di S. M.».
Il seguito della storia ci è pure noto, sempre per merito di
quel diarista palermitano:
«A 20 ottobre 1608. Fu martoriato il sig. Baruni dello Summatino. Lo
primo iorno happi quattro tratti di corda, e lo secundo tre, ed il terzo dui, e
li sùccari [2] soliti; e tinni [intendi che tenne forte
a non confessare]: avendo stato carcerato del mese di agusto passato.
«E fu perché il giorno che
sindi andâ a li galeri di Franza, andando Scagliuni a vidiri cui era supra detti
galeri, trovao uno calabrisi quali era di Paula, e travauci certi faldetti che
avia arrubati allo Casali.
«E pigliandolo, ci disse,
che non ci facissero nenti, ché isso volìa mettiri in chiaro uno grandissimo
caso.
«E cussì Scagliuni ci lo
promisi; et isso dissi, che isso con il sig. D. Petro Migliazzo aviano tirato
li scupittunati al conti di Racalmuto, essendoci ancora in loro compagnia alli cantoneri il sig. D. Petro e il sig. D.
Vincenzo Settimo; e che il detto di Migliazzo avia tirato il primo; e che il
baroni del Summatino ci avea promesso onzi cento per fari detto caso. E chiamao
ancora diversi personi».
Giovanni
IV Del Carretto lascia un figlioletto (l’unico legittimo) di
appena nove anni. Quello che non riuscirà mai più a togliersi di dosso
l’anatema e l’ingiuria (cocu) di
Sciascia, Girolamo II Del Carretto viene raccolto fanciulletto a Palermo e
portato nel suo castello di Racalmuto, affidato alle cure (chissà
se affettuose) del fratellastro, il neo arciprete di Racalmuto don Vincenzo del Carretto.
Spettegoliamo
anche noi con Sciascia (op. cit. pag. 16): «Il conte [Girolamo II Del Carretto] stava affacciato al
balcone alto tra le due torri guardando le povere case ammucchiate ai piedi del
castello quando il servo Antonio di Vita “facendoglisi da presso, l’assassinò
con un colpo d’armi da fuoco”. Era un sicario, un servo che si vendicava: o il
suo gesto scaturiva da una più segreta e sospettata vicenda? Donna Beatrice, vedova
del conte, perdonò al servo Di Vita, e lo nascose, affermando
con più che cristiano buonsenso che “la morte del servo non ritorna in vita il
padrone”. Comunque la sera di quel 6 maggio 1622, i regalpetresi certo mangiarono con la salvietta, come
i contadini dicono per esprimere solenne soddisfazione; appunto in casi come
questi lo dicono, quando violenta morte rovescia il loro nemico, o l’usuraio, o
l’uomo investito di ingiusta autorità.»
E
nella Morte dell’Inquisitore (pag. 180): «Che un fondo di verità sia in
questa tradizione, riteniamo confermato dall’epilogo stesso del racconto
popolare, che dice il servo di Vita averla fatta franca grazie a donna
Beatrice, ventitreenne vedova del conte: la quale non solo perdonò al di Vita,
fermamente dicendo a chi voleva fare vendetta che la morte del servo non ritorna in vita il padrone, ma lo liberò
e lo nascose. Ora chiaramente traluce ed arride, in questo epilogo, l’allusione
a un conte del Carretto cornuto
e scoppellato...».
Ma
ci divertiamo meno, quando sacrilegamente lo scrittore prosegue: «ma questa
viene ad essere una specie di causa secondaria della sua fine, principale
restando quella del priore. Insomma: se non ci fossero stati elementi reali a
indicare il priore degli agostiniani come mandante, volentieri il popolo avrebbe
mosso il racconto delle corna del conte. Il priore non era certamente uno
stinco di santo: ma quel colpo di scoppetta il conte lo riceveva consacrato da
un paese intero. Una memoria della fine del ’600 (oggi introvabile, [ma ora
trovata dal Nalbone, n.d.r.], autore di una buona storia del paese) dice della
vessatoria pressione fiscale esercitata dal del Carretto, e da don Girolamo II in modo particolarmente crudele e brigantesco.
Il terraggio ed il terraggiolo, che erano canoni e tasse enfiteutiche, venivano
applicati con pesantezza ed arbitrio...»
Qualche
volta siamo stati persino caustici: « Le carte della matrice di Racalmuto sono un po'
stregate: appaiono vendicatrici. Basta che uno storico locale si sbilanci in
ricostruzioni storiche che prescindano dalla loro consultazione per scattare la
vendetta: esse stanno lì per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono
rispetto, deferenza, assidua
frequentazione e meticolosa attenzione.
Quando il giovane studente in
medicina - il Tinebra Martorana - si mise a
scrivere improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri
parrocchiali, questi lo hanno beffato smentendolo impietosamente specie nelle
fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di
sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa
dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra).
Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto
travolgere dal suo fidato storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie
nell’anticlericale attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense -
che davvero era un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede, ciò fece poche volte e per compiti istituzionali
e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli
di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto
quando Girolamo del Carretto - che secondo Sciascia fu fatto
trucidare dal monaco - era poco più che tredicenne.
Non fu, poi, questo Girolamo del
Carretto ad essere
tiranno di Racalmuto in modo
“grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui ad accordarsi
con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in cambio di
34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del “terraggio” e
del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di
Regalpetra o di Morte
dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto
l’età di venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si
era liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello
giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre,
aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di
cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei, una Ventimiglia.
(E tanto grazie alle recenti
scoperte d’archivio del prof. Nalbone. Siffatte carte ci forniscono anche notizie su
Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta defunta da
poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii filiaeque
donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et praefati d.ni
Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno della
restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi domini
racalmutesi con diploma emesso nel
Cenobio di S. Lorenzo il 28
ottobre 1654).
Quando
facevamo queste considerazioni, non era ancora nota la documentazione del Fondo
Palagonia. Quella documentazione
restituisce alla verità la faccenda del terraggio
e del terraggiolo pretesi dai Del
Carretto. Crediamo che queste non
siano tasse enfiteutiche o che sia inesatto definirle così. Erano diritti
feudali spettanti al baronaggio siciliano e legati al semplice fatto che
contadini abitassero nella terra del
barone: dovevano al feudatario (di solito al suo arrendatario o esattore delle
imposte cui queste venivano concesse in soggiogazione) una certa misura di
frumento per ogni salma di terra coltivata nel feudo (terraggio) ed un’altra (di solito doppia) per quella coltivata
fuori dal feudo (terraggiolo). A
preti e conventi racalmutesi codesti gravami feudali non andavano giù ed essi
fecero cause memorabili (e secolari) per sottrarsi e sottrarre dagli odiati terraggio e terraggiolo. La spuntarono
solo il 27 settembre 1787.
Invero
il Tinebra Martorana ebbe tra le mani le carte feudali del terraggio e del terraggiolo: gliele misero a disposizione i suoi protettori i
Tulumello, già baroni e maggiorenti del paese. Quel che il giovane vi capì è
riportato fideisticamente da Sciascia e cioè:
«Oltre
alle numerose tasse e donativi e
imposizioni feudali, che gravavano sui poveri vassalli di Regalpetra, i suoi signori erano
soliti esigere, sin dal secolo XV, due tasse dette del terraggio e del terraggiolo
dagli abitanti delle campagne e dai borgesi. Questi balzelli i del Carretto solevano esigere non solo da coloro che
seminavano terre nel loro stato, benché le possedessero come enfiteuti, e ne
pagassero l'annuale censo, ma anche da coloro che coltivassero terre non
appartenenti alla contea, ma che avessero loro abitazioni in Regalpetra. Ne
avveniva dunque, che questi ultimi ne dovevano pagare il censo, il terraggio e
il terraggiolo a quel signore a cui s'appartenevano le terre, ed inoltre il
terraggio e il terraggiolo ai signori del nostro comune... Già i borgesi di
Regalpetra, forti nei loro diritti, avevano intentata una lite contro quel
signore feudale per ottenere l'abolizione delle tasse arbitrarie. Il conte si
adoperò presso alcuni di essi, e finalmente si venne all'accordo, che i
vassalli di Regalpetra dovevano pagargli scudi trentaquattromila, e sarebbero
stati in perpetuo liberi da quei balzelli. Per autorizzazione del regio
Tribunale, si riunirono allora in consiglio i borgesi di Regalpetra, con
facoltà di imporre al paese tutte le tasse necessarie alla prelevazione di quella ingente somma. Le tasse furono
imposte, e ogni cosa andava per la buona via. Ma, allorché i regalpetresi
credevano redenta, pretio sanguinis,
la loro libertà, ecco don Girolamo del Carretto getta nella bilancia la spada
di Brenno ... e trasgredendo ogni
accordo, calpestando ogni promessa e giuramento, continua ad esigere il
terraggio e il terraggiolo, e
s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse».
Sciascia commenta: «Il documento riassunto dal Tinebra
dice che appunto durante la signoria di Girolamo II i borgesi
di Racalmuto, che già avevano mosso
ricorso per l'abolizione delle tasse arbitrarie, subirono gravissimo inganno:
ché il conte simulò condiscendenza, si disse disposto ad abolire quei balzelli
per sempre; ma dietro versamento di una grossa somma, esattamente
trentaquattromila scudi. L'entità della somma, però, a noi fa pensare che non
si trattasse di un riscatto da certe tasse, ma del definitivo riscatto del
comune dal dominio baronale; del passaggio da terra baronale a terra demaniale,
reale.
«Per
mettere insieme una tal somma, il Regio Tribunale autorizzò una straordinaria
autoimposizione di tasse: ma appena le nuove e straordinarie tasse furono
applicate, don Girolamo del Carretto dichiarò che le considerava ordinarie e non in
funzione del riscatto. I borgesi,
naturalmente, ricorsero: ma la dolorosa questione fu in un certo modo risolta a
loro favore solo nel 1784, durante il viceregno del Caracciolo.
«Il
priore degli agostiniani e il loro servo di Vita fecero dunque vendetta
per tutto un paese, quale che sia stato il pasticciaccio
di cui, insieme al defunto e a donna Beatrice, furono protagonisti. (Curiosa è
la dicitura di una pergamena posta, quasi certamente un anno dopo, nel
sarcofago di granito in cui fu trasferita la salma del conte: dà l'età di donna
Beatrice, ventiquattro anni, e tace su quella del conte. Vero è che non
disponiamo dell'originale, ma di una copia del 1705; ma non abbiamo ragione di
dubitare della fedeltà della trascrizione, dovuta al priore dei carmelitani
Giuseppe Poma: e l'originale era stata stilata dal suo predecessore Giovanni
Ricci, che forse si permise di tramandare allusivamente una piccola malignità.)
[...]
«Dall'anno
1622, in cui fra Diego nacque, al 1658, in cui salì al rogo, i conti del
Carretto passarono in rapida successione: Girolamo II, Giovanni V, Girolamo III, Girolamo IV. I del Carretto non avevano
vita lunga. E se il secondo Girolamo era morto per mano di un sicario (come del
resto anche il padre), il terzo moriva per mano del boia: colpevole di una
congiura che tendeva all'indipendenza della Sicilia. E non è da credere che si
fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di
Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice),
vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l'Inquisizione vegliava,
vegliavano i gesuiti; e, a congiura scoperta, il conte ebbe l'ingenuità di
restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel
Regno. Una congiura contro la corona di Spagna era però cosa ben più grave dei
delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano
dediti. Giovanni IV, per esempio, aveva fatto ammazzare un certo Gaspare La
Cannita che, appunto, temendo del conte, era venuto da
Napoli a Palermo sulla parola del duca d'Alba, viceré, che gli dava
guarentigia. E' facile immaginare l'ira del viceré contro il del Carretto: ma
si infranse contro la protezione che il Sant'Uffizio accordò al conte, suo
familiare. (Questo stesso Giovanni IV troviamo nella cronaca dello scoppio
della polveriera del Castello a mare, 19 agosto 1593: stava a colazione con
l'inquisitore Paramo, ché allora il Sant'Uffizio
aveva sede nel Castello a mare, quando avvenne lo scoppio. Ne uscirono salvi, anche
se il Paramo [3] gravemente offeso. Vi perirono invece Antonio
Veneziano e Argisto Giuffredi, due dei
più grandi ingegni del cinquecento siciliano, che si trovavano in prigione.
«Della
familiarità dei del Carretto col
Sant'Uffizio abbiamo altri esempi. Ma qui ci basta notare che a Racalmuto, contro l'eretica pravità e a strumento dei
potenti, l'Inquisizione non doveva essere inattiva. [...]
«L'ordine
degli agostiniani di sant'Adriano fu fondato nel 1579 da Andrea
Guasto da Castrogiovanni: il quale, stabilita coi primi compagni la professione
della regola nella chiesa catanese di Sant'Agostino, si trasferì in Centuripe,
in luogo quasi allora deserto, e
fabbricate anguste celle, pose i rudimenti di vita eremitica, e propagolla in
progresso per la Sicilia: notizia che dobbiamo a Vito Amico [Dizionario
topografico della Sicilia, a cura di G. Di Marzo, Palermo 1859.], e non trova
riscontro nelle enciclopedie cattoliche ed ecclesiastiche che abbiamo
consultato. Lo stesso Vito Amico dice che il convento di Racalmuto fu dal pio
monaco Evodio Poliziense promosso e dal conte Girolamo del
Carretto dotato nel 1628. Evidente errore: ché nel 1628
il conte Girolamo era morto da sei anni. Più esatto è il Pirro: S. Iuliani Agustiniani Reformati de S. Adriano ab. an. 1614, rem
promovente Hieronymo Comite, opera F. Fuodij Polistensis [R. Pirro, Sicilia Sacra, libro
terzo, Palermo 1641].
«In
quanto al pio monaco Evodio Poliziense o Fuodio Polistense, si tratta
senza dubbio alcuno di quel priore cui dalla leggenda popolare è attribuito il
mandato per l'assassinio del conte Girolamo. Infatti il Tinebra Martorana, che non
si era preoccupato di consultare in proposito i testi del Pirro e dell'Amico, cade in equivoco quando
dice che al priore di questo convento la
tradizione serba il nome di frate Odio, riferendosi con ogni probabilità
all'azione da lui commessa. Era semplicemente il nome, piuttosto peregrino,
di Evodio o Fuodio che nel corso del tempo si era mutato in Odio.»
Sui
Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra
storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le
parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore),
scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia, invero, gli amari gravami
di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto
attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo
Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare
fuorviante credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad
esempio, queste topiche piuttosto gravi:
*
Il 'Girolamo
terzo Del Carretto' che «moriva per mano del
boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di
Sicilia» ([4]) è inesistente. A salire
sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato
Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che
si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il
feudo di Racalmuto risulta in mano della madre e della vedova del
malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, al predetto
Girolamo che risulta il terzo dei Del Carretto con siffatto nome. Costui, finché subì
l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di
Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu prossimo
ai cinquant'anni,([5]) forse
perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto,
denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del
Carretto ([6]) ed
intentando contro di esso, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che
poteva costargli una scottante scomunica.
La
faccenda del terraggio e del terraggiolo è molto ingarbugliata ma non collima
con la versione sciasciana. L’analisi della ponderosa documentazione del Fondo
Palagonia potrà dare filo da torcere agli eventuali studiosi di diritto ed
economia feudali, con specifico riferimento a Racalmuto: è materiale degno di una
qualche tesi universitaria. A dimostrazione del nostro assunto, ci limitiamo a
riportare in nota un documento del 1738 .[7] Ma
l’intera controversia che dura dal 1580 al 1787 va seguita in tanti documenti
del Fondo Palagonia. Una ricognizione piuttosto analitica, ma limitata alla
contea del Gaetano è contenuta nelle carte segnate: A.S.P. - fondo palagonia - atti privati . n.° 631 - anni 1502-1706 -
n.° 3 - p- 173-240, che sono ben 64 fitte pagine. Abbiamo stralciato, in nota,
solo la parte che ci pare riassuma il veridico svolgimento dei fatti, che non
ci pare confermino le tesi di Sciascia.
* * *
Andrea
d’Argomento, arciprete di Racalmuto ed esaminatore sinodale ad Agrigento, è il
dottore in utroque iure che nel marzo
del 1600, il giorno della festività di San Tommaso dottore della chiesa, prende
possesso della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se forse anche lui
preferisce la più centrale chiesa suffraganea della Nunziata. Questo pozzo di scienza
immigra a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte della Sicilia.
Forestiero, di sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le novelle
costituzioni tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si
trasferisce o viene mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo
ritroviamo annotato qua e là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del
1601 rimangono rivelatrici annotazioni come “detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete; all’arciprete; palora al s.
arcipreti”. Il senso è evidente; non può che trattarsi del regolamento
dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri termini la quota di
spettanza per i funerali (che costavano per le spese di chiesa, 5 tarì e 10
grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le “glorie”, i bambini).
Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture avvengono “a lo Carmino”
(ed ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo Fanara, di cui abbiamo
fornito cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu) - e vi viene tumulato un pargoletto della racalmutesissima
famiglia Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata da tutto il clero vi è sepolta
una tale Angela Turano, ceppo poi emigrato da Racalmuto). Sia però chiaro che
non abbiamo elementi di sorta per sospettare di questo arciprete dottore in utroque. Crediamo, anzi, che sia
stato bene accetto e rispettato: un “signore arciprete”, dice il chiosatore
dell’archivio parrocchiale. [8]
Dopo
il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie giudiziarie, contese
con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per questo meno ostile -
vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato dai nobili, è
costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di obbrobri
giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi, canonico percettore della
prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la Sacra Congregazione dei
Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i canonici cammaratesi don Francesco Navarra, titolare
della prebenda di Sutera, e don Raimondo Vitali: il primo era accusato di
pederastia; il secondo di relazione peccaminosa con la vecchia madre del primo.
La
diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio
parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si insedia il 25
giugno 1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette mettersi di buzzo
buono per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18 giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si
porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne tramanderà una
relazione minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti
e misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte per la storia di
Racalmuto, e non solo quella religiosa. [9]
Il Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva essere anomala sotto
il profilo del codice canonico del tempo. Il figlio legittimato - era stato
concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto Giovanni IV Del Carretto - don Vincenzo Del Carretto si era insediato nella chiesa di S. Giuliano,
elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse stato consacrato
sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene dall’indagare. Il
potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non consente insolenze
del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione di San Giuliano
hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola: ratifica il
fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti approssimativamente uguali:
la bisettrice parte dal Carmino ed
arriva a la Funtana lungo un percosso
che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo riusciti a tratteggiare con
sicurezza. Non passava di certo per la discesa Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni pressoché impraticabile, ma
lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la chiesa di Santa Rosalia,
posta al centro del paese, ma dalla parte di S. Giuliano, per irrompere nella
parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete; quella a nord-ovest, in
mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene assegnata al giovane - è
appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di
sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è già affermato ed una sua tela -
oggi purtroppo irrimediabilmente perduta - viene apprezzata, come abbiamo
visto, in occasione della visita a Santa Margherita, la chiesa
congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S.
Margaritae depictum in tila manu
pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del vescovo).
Don Vincenzo Del Carretto era stato colpito l’anno precedente dal lutto
per la morte del padre (5 di maggio
1608); aveva raccolto il fratellastro novenne Girolamo II che per diritto ereditario era divenuto
novello conte di Racalmuto (la legge contemplava il maggiorascato, e
sarebbe toccato quindi a don Vincenzo essere Conte, ma
escludeva i figli illegittimi, e don Vincenzo così era escluso, con suo scorno a la faccia di lu munnu).
Don Vincenzo è il tutore del conte minorenne: nel 1609
pasticcia quell’infame accordo sul terraggio e terraggiolo che Tinebra
Martorana e Sciascia affibbiano al “vorace e brigantesco don Girolamo
II Del Carretto”, all’epoca uno smarrito
bambino. Lo desumiamo da un diploma che
tra l’altro recita:
Sotto le
quali convenzioni ed accordio detta università ed il conte di detto stato hanno
campato ed osservato per insino all’anno settima indindizione prox: pass: 1609,
nel qual tempo detta università, e per essa li suoi deputati eletti per publico
consiglio a quest’effetto, ed il dottor Don Vincenzo del Carretto Balio e Tutore
di detto Don Geronimo, moderno conte allora pupillo, con intervento e consenso
del reverendissimo don Giovanni de Torres Osorio, giudice della Regia Monarchia
protettore sopraintendente di detto pupillo e con la sua promissione di rato,
devennero à novo accordio e transazione in virtù di nuovo consiglio confirmato
per il signor Vicerè e Regio Patrimonio, per il quale promisero detti deputati
à nome di detta università pagare al detto conte don Geronimo scuti
trentaquattromila infra quattro mesi, e
quelli depositarli nella tavola di Palermo per comprarne feghi ò rendite tuti e
sicuri, con l’intervento e consenso di detta Università, con diversi patti e
condizioni in cambio per l’integra soluzione e satisfazione di detti terraggi e
terraggioli dentro e fuora di detta terra e suo territorio, e per contra detto
tutore cessi lite alla detta exazione di detti terraggi, quali ci relasciò e
renunciò, essendoli prima pagata detta somma di scuti trentaquattromila,
promettendo non molestare più detti cittadini ed abitatori di detta università
di detti terraggi e terraggioli come più diffusamente appare per detto
contratto all’atti di notar Geronimo Liozzi [a.v.: Liezi] à 17 luglio settima
indizione 1609., confirmato per Sua Eccellenza e Regio Patrimonio
A porre una qualche attenzione alle date, abbiamo che Die 22 Junii VI Ind.is 1608 Don Vincenzo
viene riconosciuto Arciprete (sia pure a metà con quella specie di mitateri quale appare il vassallo don Paulino d’Asaro); il successivo 17 luglio
si sbilancia nella gestione delle sopraffazioni feudatarie.
Investigando i processi d’investitura emerge che don Vincenzo
Del Carretto esercita questa funzione tutoria sino al
luglio del 1610. Ma da questa data, quando il bambinello Girolamo II viene d’autorità - pare - fidanzato a Beatrice
figlia bambina del Ventimiglia, il tutore diviene il futuro suocero del conte,
come si evince da questo stralcio:
Reg.tus Panormi die 3 julij viii
ind. 1610
Testes ricepti et examinati per
ill.m Regni Siciliae Protonatorum ad instantiam d: Jo: de Viginti Milijs,
Marchionis Hieracij, Principis Castriboni, balej et tutoris ill. d. Hieronimi
del Carretto Comitis
Racalmuti ad verificandam infrascriptam pro investituram capiendam ditti
comitatus.
Il Tinebra Martorana (pag. 125) vorrebbe Girolamo II sposato ad una ”certa Beatrice, di cui
s’ignora il cognome”. Niente di più falso: di donna Beatrice sappiamo tanto.
Non crediamo che finché si protrasse il breve legame matrimoniale si sia
indotta all’adulterio, come maliziosamente insinua lo Sciascia. Da
vedova, qualche leggerezza può averla commessa (ma noi non lo diremo dinanzi a voi stelle pudiche.) Negli
atti vescovili troviamo questa singolare “littera monitoria” ([10]):
«Die 3 septembris VII
ind. 1622 - Rev. Arc: terrae Racalmuti. Semo stati significati da parti di
donna Beatrice Del Carretto e Ventimiglia,
contissa di detta Terra, nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto, tuturi
et tutrici di li figli et heredi del quondam don Geronimo lo Carretto, olim
conti di detta Terra qualmenti li sonno stati robbati, occupati et defraudati
molte quantità di oro, argento, ramo, stagni et metalli, robbi bianchi, tila,
lana, lina, sita, capi lavorati, come senza, et occupati, scritturi publici et
privati, denegati debiti, et nome di debitori; rubato vino di li dispensi,
animali grossi, stigli con arnesi, cosi di casa .... In suo grave danno,
prejuditio, et ... In forma comuni etc.»
Sembra, dunque, che dopo la morte del conte avvenuta il due (
e non il 6) maggio 1622, una rivolta
popolare sia esplosa a Racalmuto: vi sarebbe stato l’assalto
al munito castello ed il popolino rivoltoso abbia fatto man bassa di tutto. La
giustizia - che pure era mera espressione dei Del Carretto - non fu in grado di far nulla e così alla
giovane vedova ed a suo cognato, tutore, non rimase nient’altro da fare che
chiedere la comminatoria delle canoniche sanzioni da parte della sede vacante
del vescovado di Agrigento. Ne avesse avuto sentore Leonardo Sciascia, crediamo
che avrebbe imbandito in modo più succulento la tavola della “mangiata cu la salvietta” dei
racalmutesi nell’estate del 1622.
Poi, con gli anni, il terrore della morte ebbe a sorprendere
il prete don Vincenzo del Carretto: si costruì una chiesetta (Itria) tutta per
lui e la dotò. I suoi eredi - nobili - dovettero corrispondere le rendite al
cappellano di quella chiesetta perlomeno sino 1902: il
prof. Giuseppe Nalbone ha potuto stilare questo quadro sinottico:
1609
|
VINCENZO
|
DEL CARRETTO
|
FONDATORE DELLA CHIESA
DELL'ITRIA
|
1632
|
SANTO
|
D ' AGRO'
|
BENEFICIALE DELL ' ITRIA
|
1677
|
STEFANO
|
SAIJA
|
BENEFICIALE S.MARIA DELL'ITRIA
|
1731
|
PIETRO
|
SIGNORINO
|
BENEFICIALE S.MARIA DELL'ITRIA
|
1736
|
PIETRO
|
SIGNORINO
|
CAPPEL. ITRIA
|
1782
|
NICOLO'
|
AMELLA
|
BENEFIC.S MARIA DELL'ITRIA
|
1830
|
CALOGERO
|
PICONE
|
ER.SIGNORINO, CONF, UTR.CH. ITRIA
|
1902
|
GIOVANNI
|
PARISI FU VINCENZO
|
MARIA SS. DELL' ITRIA
|
Don Vincenzo Del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o volle essere) per poco tempo. Ancora
vivo, l’arcipretura risulta passata a tale Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ([11]) Secondo
il prof. Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima
rettore e poi arciprete del nostro paese:
1613
|
PIETRO
|
CINQUEMANI
|
RETTORE e poi
nel 1614 ARCIPRETE
|
Viene annotato, nel Liber
in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della
Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma
l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616
benedice, ad esempio le nozze di
Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi
atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura,
fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato
avvengono fatti memorabili, tristi, lieti e rissosi:
la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80
cavalieri a Palermo a prenderle, in una con la bolla che abbiamo dianzi
illustrata; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica
nel centro del paese; inizia sotto di lui la controversia per sottrarre
Racalmuto dall’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e passarlo a quella del Metropolita di
Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae
13 Decembr., 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae
Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis et
comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in
criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni
Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e
Racalmuto ne avevano le scatole piene delle pretese del
vescovo Traina. Un delatore, canonico,
ebbe a scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da
avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto
il letto. La notte, preso da raptus
estraeva le casse, le apriva, e ci si
curcava sopra. Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie
legali della corte pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento
a sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio
Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo
Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo
cercato di rintracciare in Vaticano questa importante documentazione, ma non ci
siamo riusciti. Le carte furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma
sappiamo dal Pirri che esse si trovano presso l’Archivio Metropolitano
della curia palermitana “in registr....13 januar. [1632].” Tanto per chi avrà voglia di cercarle.
Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma ci dicono poco. Disponiamo
solo di una scrittura del 4 gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati
- n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito della faccenda, così ce la racconta il Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem
litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit,
ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter
Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte
le furie: se ne dispiacque proprio summopere,
forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a
Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini,
caduti in un indegno crimine (indignitas
facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere
penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse
il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi
maneggi - avrà profuso anche a Roma il
suo copioso denaro (e già perché anche allora Roma era ... Roma
ladrona). Fatto sta che immediatamente si ridiscute la causa presso la
Camera Apostolica ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il
vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei
paesi agrigentini: tutto deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia.
Ma
chi erano i domini terrae Racalmuti?
Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi
nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la
sorella Dorotea ([12]) - era
soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del
Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere
feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere un atto
notarile del tempo, per desumere gli artefici dell’incauta
iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti
notabili:
Universitas terrae et
comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis
dittae terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli,
Benedictus Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: doct. Joseph Amella uti jurati
dittae terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e
rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque non si
abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria, un
provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre
agevolazioni ai borgesi racalmutesi
che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni
feudali. ([13])
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox
clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più commendevole come luogotenente che
come dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia.
Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero
nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un
piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo?
Per avere alleggerite le onnivore tasse.
A Racalmuto, nella cura delle anime,
allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni
terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino
Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo
d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra
Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vuole
assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla
sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può
arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da
Cammarata: è anche per quei tempi un
giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Tommaso Traina. Vanta
un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di
parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto
come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia
veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare
menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1939 figura come economo
della Matrice, incarico che ricopre nel
1645 e nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo
costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato
parte dei pretesi diritti mora per mancata corresponsione del “paragio” da
parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo. Il convento dovette
però sorgere e completare per la dotazione di altri benefattori che ignoriamo,
e soprattutto per interessi di mora capitalizzati, dovuti dalle Tavole di
Palermo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il
vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri
contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un
pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in
favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono
nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione,
pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore
ragioneristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di
don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare
l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della
Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di
sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante
ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che
in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali,
entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano
mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del
defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete
addivengono ad una transazione. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra
Martorana, procuratogli pare - guarda
caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino
notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che
leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A dire
il vero l’alumbramiento più che nel
casto sacerdote Santo d’Agrò sembra di coglierlo nei nostrani scrittori,
passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro,
d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo,
esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della
storia ecclesiastica di Racalmuto. Non mancherà tempo per
restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco
Antonio Alaimo quello che secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso
in superfetazioni.
Il 30 agosto l’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:
1648
|
TRAIJNA Arc.
|
Thomaso
|
Matrice
|
gratis
|
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il
d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu
sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la
memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante
peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di
vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in
orripilanti caratteri bronzei, peracri
ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa
il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione
sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un
protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua
Storia della Sicilia.
* * *
Al Traina subentra nell’arcipretura don Pompilio
Sammaritano, un semplice dottore in
teologia. Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro Sammaritano. Lo nomina
subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene
giubilato e deve emigrare. Lo segue uno
stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con
Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera.
Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un
famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito
censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto
la moglie e la mamma dell’infelice Giovanni V Del Carretto. Si annota in censimento:
LA CARRETTA XXa
|
ECCELLENTISSIMO
SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO C.TA
|
La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del
riottenimento dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto
tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono gli atti di
questa emblematica vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di
consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus
Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare
dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la
contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO
D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di
Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654,
reca in esordio per la penna di don
Lucio Sferrazza. Il depositario è il
dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi,
cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle
feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il
vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi
fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo
et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò
ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o
Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle ..
pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d.
........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel
contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è
la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il
figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma
ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29
tarì. Donna Maria Del Carretto e Branciforte è indebitata sino al collo: il
15 dicembre 1654 può dare solo un’onza e 18 tarì delle cento onze promesse.
Annota il contabile:
15.12.1654: dall'Ecc.ma sig.ra D. MARIA DEL CARRETTO e
Branciforte Contessa di Racalmuto hò ricevuto onza una e tt.ri
(tarì) dicidotto in conto delle onze cento have promesso d'elemosina et l'ho
ricevuto per mano di Giuseppe di Chiazza e di Antonino Morreale di Lucio d........-\ 1 18
La posa in opera delle colonne - quelle di cui si parlava nella transazione
con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter
dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero
utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del
Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti
della Matrice riportano:
1664
|
SAMMARITANO
|
Pompilio
ARCHIPRESBITER
|
66
|
huius matricis Ecclesie
|
Viene
sepolto in Matrice, presente
clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un
racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per
lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno
profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella
centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. [14]
Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del
nipote che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità
potesse legare uno spagnolo all’ amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino
alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) -
dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668);
Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio
1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata
vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696.
Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori
Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo
atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale
controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore
storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre
al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci
immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel
tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi fedelissimi a Roma
che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava
un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di
applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene -
del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente
per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia
Apostolica). Se un moribondo -
ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in
stato di semplice attrizione, dunque,
avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli,
era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia
agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i
tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono
in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice,
dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli
beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo
D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per
levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da
ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre
Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe
Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la
diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte
della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase
ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo.
Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una
bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire
cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora
era quella all’aperto a li fossi. Solo
che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono
con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non
avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole
e dai cani randagi.[15]
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo”
godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto
- finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non
dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare
l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accampagnava il feretro in quel derelitto
cimitero incustodito: “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un
parlare e scrivere poco ... latino
(nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si
fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. In altra sede abbiamo
riportata la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa
“sacramentale”. Del tutto analoghe sono
le altre, come quella: Datis
Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can
Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale
congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre
Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone.
Costituisce la Comunia e ne ottenne la nomina di mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero
arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non
annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello
economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi
morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante
primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente
ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le
onze occorrenti, essendosi rastremata la tassa del macinato per morte di un un
quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei
tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte
Girolamo III Del Carretto, salassato dal re per il
tradimento del padre Giovanni V Del Carretto, dalla mala gestione
dei suoi antenati che non pagando i
debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie
del pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora
relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del
Carretto e delle sue similissime sei sorelle, aveva
dato in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo ([16]) l’intero
patrimonio dei conti di Racalmuto.
Girolamo III Del Carretto, esasperato, si rivale sui
ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla
poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana:
contra ed adversus Reverendos Sacerdotes
don Fabritium
Signorino;
don Sanctum de
Acquista;
don Joseph
Casucci;
don Joannem
Battistam Baera;
don Petrum
Casucci;
don Calogerum
Cavallaro;
don Franciscum
de Agrò;
et don Michaelem
Angelum Rao,
indebitos
possessores; [17]
Girolamo
III Del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando
fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio
ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad
assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui
memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare
alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
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