Per i tuoi articoli scrivi a
castrumracalmutodomani@gmail.com - Per i tuoi post clicca su
Commenti
giovedì 7 giugno 2012
LA CASINA DI LA NUCI
Nel mese di giugno, è
buona abitudine dei racalmutesi “acchianarisinni n’campagna”; è la
villeggiatura di tanti che non amano il mare e preferiscono la frescura e la
serenità di un soggiorno nel verde. Durante tale periodo, una volta, venivano
svolte tante attività: si faceva “l’astrattu”, “li chiappi di pumadoru”,
“li ficu curati”, “li buttigli di sarsa”.
Anche i miei nonni avevano l’abitudine, d’estate, di
recarsi nella loro casa in campagna, alla Noce.
Si stabiliva un giorno nel quale veniva il carretto
per il trasporto delle masserizie.
Mia nonna cominciava col raccogliere tutto quanto
potesse servire per il lungo soggiorno.
Le ultime cose che venivano caricate erano gli
animali. I gatti venivano catturati e infilati in un sacco. Bambino, vedevo quei
sacchi che sprizzavano protuberanze da tutte le parti. Le galline venivano
legate per i piedi e, a testa in giù, caricate. Il cane non aveva diritto a
viaggiare in cabina e, quindi, veniva legato con una corda all’asse del
carretto, dove pendeva un lume a petrolio usato di notte, per segnalare la
presenza del mezzo .
Caricato tutto, il carrettiere dava il via al mulo e
partiva. Noi si andava con la macchina presa in affitto da Di Marco, che
stazionava in piazzetta in attesa dei pochi clienti. Si arrivava alla Noce,
varcando “la grada”, dove era posizionata “la figuredda di lu Cori di
Gesù” e trovavamo mio nonno, partito di buon ora, “gninucchiuni” che
“scippava” erba “di lu chianu”, facendo innervosire mia
nonna, preoccupata del fatto che “Cicciu” -così si chiamava- in quella
posizione, potesse consumare i pantaloni.
La casa era una costruzione dal tetto spiovente,
senza pretese e senza luce, con una piccola porzione, stalla e pollaio,
attaccata alla parte più bassa. Si entrava, varcando una porta di legno
spesso,chiusa la sera “cu lu monacu” (un pezzo di legno grosso infilato
nel muro che bloccava la porta), in una stanza che serviva da soggiorno e,
all’occorrenza, come stanza degli ospiti, per lo più zii che venivano per
qualche giorno. Superando un gradino, si accedeva alla camera da letto vera e
propria, intasata di “tavuli e trispa” che formavano dei letti, tanti
eravamo i nipoti. Allo stesso livello del soggiorno, oltre un’apertura senza
porta, stava “lu cufulari”, “la bileddra” e, più in alto, “lu
parmientu cu lu tuorchiu”. Per noi bambini era una vera grande festa,
potevamo fare quello che volevamo, senza controllo alcuno di genitori rigorosi.
Dopo il primo giorno, dedicato all’organizzazione e alle pulizie, tutto prendeva
un ritmo regolare, con pranzi a base di “minestri a vuddru apiertu”, cavati
e “nzalati di pumadoru, sardi salati, spicuna di chiappari, cipuddri e
ova”. Si andava a prendere l’acqua alle fontane di “Ficamara” o “a la
Menta”. Si usava di solito la cortesia di qualcuno o, in alternativa, si
chiedeva in prestito “la scecca”, già sellata “cu lu pannieddru”,
sopra il quale stavano “li cancieddri” , dove venivano inserite
“li lanceddri”. Noi bambini trascorrevamo il tempo esplorando varie zone
nelle vicinanze, cacciando grilli e lucertole o, muniti di fionde, speranzosi di
acchiappare qualche sfortunato passero. Arrivava il periodo della raccolta delle
mandorle. Veniva “lu mitatieri” Totu e la moglie Luvigina. Il marito, con
degli scarponi così pesanti e rigidi, che non permettevano, camminando, di
piegare il piede e la moglie con un fazzoletto in testa a mo’ di bandana. Noi
bambini aiutavamo, scartando “li burduna” e raccogliendo mandorle
sfuggite alla loro attenzione.
Il pomeriggio il raccolto veniva pesato “cu lu
tumminu” e si stendeva all’aria ad asciugare.
La sera, dopo cena, era usanza fare le passeggiate al
chiaro di luna (non ricordo più un chiarore lunare così intenso, sicuramente
dovuto al fatto che c’erano poche luci); si cantava e si
chiacchierava di tante cose. Prima di rientrare, veniva acceso un lumino “a
lu Cori di Gesù” e ci si sedeva “nni lu limmitu” a pregare.
Le mattine, noi bambini, le dedicavamo a “fari sulami” ( le mandorle
dimenticate a terra).
Tutto scorreva
serenamente. Di solito, si metteva qualche chilo e poco si sentiva la mancanza
dei genitori, che ci avrebbero vietato tante cose. C’era un giorno di luglio nel
quale i grandi decidevano di portarci dal barbiere. Tutti nella macchina di Di
Marco, andavamo da “Mastru Bilasi, a lu Carminu”. Un simpatico
personaggio che, alternando il lavoro di contadino e di barbiere, a volte
dimenticava che, in quel momento, stava facendo il barbiere e non il contadino.
Dopo la….potatura, si tornava “a la Nuci”, con l’aria di bambini scappati
da un riformatorio.
Alcuni giorni, mia nonna faceva il pane e “li
fuazzi”, impastava con le mie zie, “famiava” e infornava prima “li
fuazzi” e dopo il pane che, immancabilmente risultava eccessivamente
abbronzato. Ma non si doveva dire.
Arrivava così settembre e le prime piogge. Era quello
che aspettavamo : “quannu scampava”, stivali ai piedi e tutti a
raccogliere “babbaluci”, classificati in “babbaluci, judisca e
muntuna”. Il divertimento stava nel contarli e vantarsi con i vicini:
“nni cuglivu quattrucientucinquanta!” e l’altro: “iu e ma
muglieri setticientu ntre du uri!”
La stagione, per noi bambini, si concludeva con la
vendemmia e con l’uva pestata rigorosamente con i piedi e con l’odore del mosto
“nni la bileddra”. Sempre Totu e Luvigina per la raccolta, Totu sulu
pi pistari.
Racalmutese Fiero
Nessun commento:
Posta un commento