Sciascia, pare, non partecipasse perché aveva in
odio il “giummo” della divisa fascista: forse lo zio il prof. Farrauto sapeva
ben proteggerlo ed esonerarlo. Ex avanguardista se non erano in età di leva, potevano benissimo
servire lo Stato fascista con l’arruolamento volontario: se ne guardarono bene.
La retorica tanta, i fatti pochi. Tartufescamente, tra il dire (in sproloqui
patriottardi) ed il fare ( al fonte si moriva) si disse ma non si andò al
fronte. Armiamoci e partite, si ironizzava a Racalmuto. Le piccole italiane,
ora giovincelle appetite dai guerreschi
in calore, le addestrava la maestra Taibi, maschia ma non insensibile.
Il “cadetto” aveva una sorella che si affacciava alla giovinezza:
longilinea, soave, alquanto francesizzante. Se dò adito ai miei molto tardivi
vagheggiamenti cinematografici, dovrei dichiararla emula di Anouk Aimée. La ormai ineludibile entrata degli
americani, metteva in apprensione. Non per i baldi yenkee ché quelli composti se
ne dovevano stare vuoi per i figli militari dei nostri vuoi perché si sapeva
che risorta era la vecchia mafia (quella vera) e già accordi c’erano per una
tranquilla conquista della Sicilia, vigilata, indirizzata e protetta dai tanti
rispettabilissimi capimafia di ogni centro abitato siciliano. Si vociferava che
potessero seguirli i marocchini e costoro si diceva essere famelici di giovani
donne, specie se minorenni o meglio vergini. Era propaganda fascista,
d’accordo. E Moravia con la sua “ciociara” era molto di là a venire. Un po’ si
sapeva un po’ no: un accordo di ferro era stato concertato: niente squadre
marocchine in Sicilia. La diffidenza sicula in materia di salvaguardia della
giovinezza intemerata delle proprie figlie in età da marito era acuminata ed
angosciante. Già di giovani in paese c’erano pochi per via della guerra voluta
da quel “cornutazzu” di Mussolini.
Aveva in
bel da fare Giuggiu Agrò ad impedire discorsi disfattisti al Circolo del mutuo
soccorso tra i sedentari che qualcosa dovevano avere per le loro interminabili
discussioni. Qualcuno lo prese e se lo portò in gattabuia. Brav’uomo in
definitiva Giuggiu Agrò – lo dice anche Sciascia. Aveva comunque un
fanatismo fascista in corpo che se lo
portò sino alla tomba. Prematuramente, purtroppo. Quando ritornò dalla
deportazione in Algeria, cercò una sistemazione. Tutto il suo servizio come
segretario del fascio ora non solo non serviva a niente, ma era da ostacolo ad
un impieguccio al municipio. Allora non c’era l’attuale scorciatoia dei LSU o
dei posticini a contratto. Bisognava essere di intemerata fede “democratica”.
Giuggiu Agrò l’attestato di intemerata fede democratica ovviamente non poteva
esibirlo, neanche con carte false. Cercò allora di farsi dare una dichiarazione
di civile convivenza dal Mutuo Soccorso. Lì, però insorsero pingui maldicenti,
usi al male e l’attestato gli si doveva negare per la faccenda
dell’incarcerazione di un socio reo di mormorazioni disfattiste. Giuggiu Agrò
altezzosamente prevenne lo smacco, ritirò la richiesta: a dire il vero ci aveva
pensato un astro nascente della politica di sinistra, piissimo e neo comunista
per dissidio da un compagno di letto omo. Giuggiu Agrò fu regolarmente assunto.
Pensate un po’, da un “comunista”. A Racalmuto sappiamo tutto sommato essere
ilari.
Ragazza già donna all’Anouk Aimée (per mia palese
mistificazione), era prima cugina di mia madre. Soprattutto era nipote di mia
nonna materna, scheletrica per troppa vedovanza. C’era pure mia zia monaca,
venuta dal trapanese per sfuggire ai terrificanti bombardamenti americani. La
monaca, allora caruccia anche se traccagnotta con le sue sei o sette cinquine, portava un nero
integrale e si diceva che gli americani dove vedevano nero vedevano fascisti e
sparavano ed ammazzavano, Ma c’era soprattutto l’apprensione marocchina. Mia
zia monaca il saio nero non volle assolutamente levarselo. Quanto all’altra
faccenda, non era Claudia Cardinale del Gattopardo per farsi quella sconcia
risata. Noi nipotini in fin dei conti la consideravamo asessuata, come
asessuate consideravamo tutte quelle vedove di vecchia data che a Racalmuto (ed
altrove, penso) brulicavano.
In un primo tempo, alla fine di giugno, ci
radunammo tutti in casa mia vecchia casa che mio padre aveva fatto aggiustare
dal Mussumulisi sperperando tanti suoi risparmi sudati, letteralmente parlando,
con i suoi viaggi a Palermo per rifornirsi di “roba” che poi forniva
lucrosamente a tanti venditori ambulanti. Un altro mio zio faceva quel
mestiere, aveva la “bardanella” che un aiutante, quando non faceva il facchino,
portava a tracollo girovagando per i paesi vicini: Milocca, lu Naduri, Castrufllippu e soprattutto Montedoro. Aveva
purtroppo scarsa fortuna. Bellissimo quel mio zio, vestiva “allicchittatu”, lo
ricordo in eterno lucidarsi le scarpe. Le donne, sedicenti zie, venivano anche
da Palermo per corteggiarlo. Salivano in un terrificante solaio della casa
paterna di mia nonna. La quale aveva di che strillare. Lassù figlio e “parente” palermitana facevano i loro comodi.
Così pensava mia nonna ed io penso che pensasse giusto. Mio zio giovanissimo
cominciò ad avere disturbi di stomaco: Vomitava tanto. Non voleva, però,
curarsi; aveva terrore dei ferri. Morì di cancro nel ’50 a soli trent’anni. Era
mio “pipino”. Gli volevo un bene dell’anima. Me ne voleva di più. Ave,
carissimo zio, ovunque tu sia!
Mia zia monaca sembrava l’esperta di bombardamenti.
All’improvviso a Racalmuto, sul cielo di Racalmuto, cominciarono a volteggiare
aerei, pareva che giostrassero: in picchiata e poi s’inerpicavano, rumori
assordanti. Le sirene che preannunciavano aerei già in sorvolo, che dovevano
segnare la fine ed invece gli apparecchi
militari americani ancora lì stavano, dal Castelluzzo alla montagna, da dietro
il Serrone sino al mare e dal mare in paese. Luccichii, lampi in cielo.
Mitraglie che dannatamente crepitavano lassù in alto, senza senso …
fortunatamente. Veramente non ce ne
davamo più apprensione, tutto divenne consueto, insenso ma non preoccupante.
Mia zia sosteneva che quando suonava la sirena nel rifugio dovevamo andare … ma
rifugio a Racalmuto non c’era. Almeno di notte, disse mia zia sotto in cantina
dovevamo dormire. Scendemmo tutti i parenti stretti nella nostra cantina che
era ampia ed aveva archi di supporto che secondo mia zia ben potevano
proteggerci da improvvisi lanci di bombe. Cunzarunu
letti. Per noi bambini era più un divertimento che un rifugiarsi. La novità
appariva gradevole, spezzava la monotonia dei giorni a scuola chiusa. Mia nonna
paterna, però, non volle venire: nella sua alcova, quella antica alla siciliana
si sentiva più al sicuro. Mio zio Pietro la seguì. Mia nonna Concetta venne un
paio di notti, non si trovava a suo agio. Se ne tornò nel suo catoio. Mia zia monaca non poté lasciare
la mamma sola e melanconicamente andò a dormire nel mono ambiente della
mamma. La festa evaporava. Giunti così
ai primi di luglio mio padre decise che il tempo orami era caldo e ben si
poteva andare “ fori” a la Curma. Si
prese il solito carretto; il carrettiere, il solito, sistemò tanta di quella
roba su quei pochi metri quadrati del tavolato del carro che sembrava un
miracolo. Le lunghe tavole del letto matrimoniale di mia nonna – che su quello
ancora dormiva con me bambino accanto a farle compagnia - fuoriuscivano dietro,
con i trispa a cavalcione. Il marito
le era morto da oltre trent’anni. E lei vedova rimase con il nero del lutto
perennemente addosso. Jppuni nero, falletta nera, calze nere, scarpe –
ineleganti tappini – nere; il
fazzoletto largo in testa come soggolo, però, era bianco, candido. Aveva la
dentiera ed ogni sera se la levava. Io bambino non capivo e ormai vi avevo fatto l’abitudine. Quando a
tarda età mi sono messo a rimembrare ed
a cercare di capire mi sono chiesto che tipo di femminilità vivevano
tutte queste vedove in giovane età; e di allegria la retriva società siciliana
poco gliene concedeva; divenivano proprio asessuate, neppure discorsi alacri si
concedeva. Tante, quasi tutte assurgevano però a matriarche, il dominio
dell’intera famiglia avevano e le maggiori vittime erano le altre donne del
clan; i maschietti ci guadagnavano, un occhio di riguardo veniva loro elargito;
qualcuno diveniva il cocco di nonna ed in famiglia conseguiva scandalosi ed
invidiati privilegi. Sciascia ebbe a dire una volta che in Sicilia vigeva il
matriarcato; la Maraini lo fulminò.
Fu così che ai primi caldi di luglio 1943 ci
trovammo a la Curma. Mia nonna aveva
ereditato una piccola proprietà, manco due tumoli di terra, bonificati, però,
con alberi di pero, di pesco, di fico. Grande il castello di fichidindia che
faceva da pudica cortina alla “robba”. C’era un casolare siciliano con feritoie
per scrutare e se del caso sparare. Era dell’Ottocento. Tre ambienti si direbbe
oggi: la cammara, tre metri per tre
metri, l’ingresso giù con scala d’accesso e sotto la scala la mangiatoia; di
fronte, la cucina all’antica; adiacente una stalla grande. L’ingresso era parte
su pietra gessosa – la chiamavamo balata
– e parte sulla nuda terra, battuta comunque e con sopra residui di paglia da
tempo immemorabile; frammisti rami secchi di pruni. Amplissima la mangiatoia. Proveniva
dall’ampia proprietà di mio bisnonno. Questi nell’ottocento si era dato alla
speculazione zolfifera. Non aveva avuto molta fortuna. Bucava la terra, cercava
zolfo. Quasi mai lo trovava, debiti contraeva. Sul letto di morte fece
testamento, lo dettò al notaio che riservò per se stesso una buona fetta della
nostra terra alla Curma. Una parte
comunque pervenne a mia nonna. A quella casa non piccola, non grande, ero
affezionato. Pervenuta a mia madre, fu venduta in un momento di nostre
difficoltà economiche. Non sono riuscito a recuperarla. Ora, spalla; i
proprietari attuali sparsi per il mondo non hanno tempo e voglia di buttar
l’acqua fuori, come si dice.
Appena si arrivava si faceva subito la “ittena”,
una rudimentale panca in pietra; v’era dentro una sorta di nicchia grande e vi
si affiggeva una immagine sacra grande; di solito il sacro cuore di Gesù. Il
miracolo avveniva nella “cammara”. In quei pochi metri quadri mia nonna faceva
disporre il suo grande letto matrimoniale. Nell’angolo di fronte si
apparecchiava il lettino per mia zia monaca che aveva per paravento due
lenzuola legate ad un filo ad L che
partiva da un chiodo alla parente di fronte, si attorcigliava ad un bastone che
faceva da angolo e si fissava ad un altro chiodo alla parete di lato. Un lettino
a terra nel mezzo ci usciva. Vi si coricava la sorella del cadetto di cui
abbiamo parlato. Nel letto grande dormivano mia nonna due nipoti accanto e due
altri ai piedi del letto. Mia nonna il suo materasso lo voleva di lana, per gli
altri il materasso era un ripieno di paglia che si andava a prendere dalle aie
fresche della tradizionale trebbiatura con le bestie. La raccolta era già alle
spalle.
Fu così che nella notte del 10 luglio 1943
facemmo la tremenda esperienza di una bomba americana esplosa là vicino, a Piru. Si disse che a tarda notte avevano
acceso il fuoco per cuocere i pomodori nel grande pentolone di rame e farne poi
l’ “astratto”. Non morì nessuno per
quell’incauto richiamo del volteggiante aereo americano, pronto a sganciare una
bomba su innocui contadini alle prese con le conserve di pomodoro. Dopo guerra,
a dignità nazionale ripresa, una denuncia penale occorreva fare contro quei
nostri liberatori, figli o imparentati di emigranti compaesani.
Svegliati di soprassalto, nulla capendo,
stropicciandoci gli occhi impauriti, non avemmo neppure il tempo di farci dire
da mia zia monaca cosa era successo. Subito,
subito, iusu, intimò con voce strozzata mia zia monaca. Bummi ittaru, bummi ittaru, soggiunse la
zia che dicemmo essere esperta.
Ci sdraiammo giù, all’ingresso, sopra la paglia
antica frammezzata da pruni pungenti. I culetti di noi bambini ebbero dolorose
pizzicate. Le anziane per decenza tacquero. Stemmo alquanto in attesa di chissà
quale nuova deflagrazione. Per fortuna nulla ebbe a seguire. Allora, mia zia
salì sopra, prese coperte e lenzuola. Sotto, tutto aggiustò al fioco lume di
una “lumera” ad olio. Risistemati da cristiani, mia zia monaca prese il suo
rosario e cominciò a biascicare le solite avemaria. “Ave Maria, piena di grazie, il Signore è teco. Tu sei la benedetta”
….. e noi di seguito: Santa Maria madre
di Dio, prega per noi peccatori …Il salmodiare ad un tratto cominciò a
venire frammezzato dalla sorella del cadetto che con stridulo pianto
istericamente lamentava “mammuzza mia ca
un ti viiu cchiu”. Quando poi raccontavano la vicenda, a noi bambini
piaceva celiare: “ Santa Maria Madre di
Dio … Mammuzza mia ca un ti viiu chhiu”.
Mia nonna ebbe un moto di stizza. “U cafè vuogliu”. Aveva voglia mia zia
monaca a dire: Madre mia, non si può!. Se
accendiamo il fuoco, ci bombardano. Mia nonna, perentoria: u cafè vuogliu. Paziente e remissiva mia
zia monaca, salì di sopra, prese il caffè scese giù e lo versò nel pentolino di
acqua. Ristoratici in qualche modo, la tardissima ora ci portò tutti in un
sonno che almeno per noi bambi fu profondo e tranquillo.
Alle prime luci del giorno, giunse il fratello
della cuginetta di mia madre e se la portò via. Subito dopo, giunsero mio zio
Pietro e mio padre e tutti quanti, nonna e nipoti, ci riportarono in paese. A
Sant’Antonino, mio fratello Luigi, il bambino di manco tre anni e lo zio Pietro
videro volteggiare sopra di loro gli impazziti aerei americani. Scesero da
cavallo, e ripararono sotto un rovo ai bordi della strada. Sopra gli aerei sparavano
a vuoto, in continuazione. Quei piloti saranno stati drogati, che non vi era
bisogno alcuno di sparare. Non c’erano militari, e lo sapevano, non c’erano
tedeschi e lo sapevano. Vero è che
Mussolini, o chi per lui, aveva fatto piazzare sopra il fortilizio del
Castelluccio un gran cannone. Non vi erano però artificieri, non vi erano
soldati. Anche a lu “Cannuni” avevano piazzato un cannone. Lì, i soldati
c’erano, ma neppure un colpo ebbe a sparare. Inettitudini? Ordini segreti?
Intesa col nemico? Mah! Un dubbio mi assale. Non c’era alcun bisogno di
bruciare tanto carburante, di sprecare tante munizioni, di mettere a
repentaglio tante vite umane; tanti loro soldati, anche e far tanto spreco di
apparecchi, come a quel tempo li chiamavamo. Ed allora, nessuno mi toglie dalla
mente che tutto dipese dagli interessi delle grandi industrie di armi
americane. Cui si aggiunse, strategicamente, l’intento di tenere impegnate
forze tedesche in Sicilia. Cui dopo seguì la folla sfida tra Patton e
Montgomery a chi arrivava prima a Palermo. Tutta roba da tribunale di guerra.
Ma gli americani vinsero e furono eroi e liberatori, i tedeschi persero ed
ebbero l’ignominia di Norimberga. Poi il fratello piccolo di tre anni andava
salmodiando “ bum bum bum … mi spararu
ccà (a quel posto) m’acchiapparu”.
Erano state, però, le spine del rovo.
Dice Sciascia all’atto dell’entrata degli
americani, i siciliani erano “servi che finalmente si liberano da un padrone ed
un altro attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido”. Noi non abbiamo tanto
pessimismo, pensiamo semplicemente che i siciliani a cominciare dai loro
“fasci” si scrollarono di dosso questa abitudine a considerarsi servi e furono
cittadini dignitosi, magari un po’ accorti nei confronti della giustizia
“romana”. Con la democrazia cristiana – bisogna riconoscerlo – Roma non fu più
“nemica”, lo Stato non più nemico. Un pizzico di diffidenza, non guasta ma
senza mai esagerare. Simile sentire non è perspicuo e la letteratura abbisogna
di forti tinte. Ritornare, dopo millenni, alla “servitù della gleba” fa molto
scic e fa vendere. Per quel che ricordiamo nella congiuntura dello sbarco
americano a Gela, c‘era molto senso della congiuntura, molto prammatico senso
del presente, del vivere giorno per giorno. Non si pensava più né a Roma né a
Mussolini. Sicuramente non si sapeva di Stevens e neppure più “la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto”. Alla radio non ci
si toglieva più il berretto al comunicato di mezzogiorno: c’era il problema del
mezzogiorno da risolvere. Accortamente dai Racalmutesi, desolatamente per i
tanti “sfollati” venuti soprattutto da Palermo. Suonarono davvero “sirene e
campane a martello [per annunciare] l’emergenza”? Noi non ricordiamo,
francamente ci pare svolazzo poetico.
Non saremmo tanto propensi a vedere i siciliani celebrare una strana
kermesse quella «dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro
ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido.» Non si attaglia a Racalmuto. Racalmuto fu sinceramente
anche se in modo indolente fascista. La creme dirigenziale era in mano a
galantuomini del primo liberalismo giolittiano e facevano più o meno bene i
medici o gli insegnanti elementari. Ronzavano un po’ troppo i giovinastri
venuti su dal basso, ma velleitari erano, dopo tutto innocui, note
folkloristiche. Non abbiamo avuto martiri fascisti (e manco comunisti). Il
fascismo a Racalmuto lo introdusse – sì, proprio così – Calogero Vizzini con
don Ciccu Burruano, i figli di costui e Agostino Puma. Nacque da esigenze
padronali: quelle dei conduttori di miniere associatisi in un sindacatino
confindustriale per fronteggiare l’incipiente rivolta dei laboratori delle
miniere. Calogero Vizzini non tardò, però, a subire l’onta della repressione
del prefetto Mori, la cui sovrastima di sé ebbe a perderlo per diffidenza di
Mussolini in persona. In quella caduta fu coinvolto il fascista della prima ora
il tenentino Burruano, che per diventare colonnello, a tarda età, dovette
aspettare la caduta del regime. Dopo, fu più che altro celebre per le sue
suadenti doti di gran cerimoniere nei veglioni (promiscui) del Circolo Unione.
Diviene qui ancor più sapida la prosa mirabile di
Sciascia. Dilettiamoci insieme a leggerla: «La mattina del dieci gli americani
erano sulla costa tra Gela e Licata. Il paese in cui mi trovavo, e che era il
mio, distava da Licata una cinquantina di chilometri: ma era compreso in una
zona rimasta alle semplici operazioni di rastrellamento. Così gli americani non
giunsero che una settimana dopo. Giungevano alla spicciolata i feriti di un
reggimento di bersaglieri che, nel punto più vicino della costa, erano entrati
in contatto isolato con gli americani. Non erano siciliani, ma in gran parte
veneti. I siciliani non si erano fatti cogliere, sapevano dove andare, si
sbandarono al primo urto: che era in realtà urto insostenibile e grottesco, se
si pensa che si contava su fossi mal scavati e in gran fretta per arrestare i
carri armati; e che soltanto un paio di aerei si videro timidamente sorvolare i
margini della zona. Dunque i feriti giungevano: e finivano proprio là dove il
regime in vent’anni non aveva speso una lira né sostenuto i muri poco saldi.
Finivano nell’inutile e vuoto ospedale del paese dove un medico frettolosamente
fasciava le loro ferite, ma in quanto a mangiare, proprio niente da fare.
Non avevano
niente le suore, niente sapeva che fare il podestà, ancor meno il segretario
politico. C’era, sì, una colonia della Gil piena di buone cose e dotata di
buone somme; ma via, proprio in quel momento, per dei solati che perdevano la
guerra – mica si poteva perdere di vista il futuro, che era ben altrimenti nero
che l’orbace.
Allora i giovani cercarono di rimediare alla
meglio, quei pochi giovani del paese che ancora erano capaci di sentire
qualcosa d buono [ …] Così i feriti poterono mangiare qualcosa, fino all’arrivo
delle gallette e del corned beef
americano.»
Riteniamo autobiografica l’ultima parte del
nostro stralcio. Spiega bene come i commilitoni feriti a Racalmuto poterono
aspettare, tutto sommato, la loro liberazione ‘americana’. Qualche chiosa: il
podestà non c’era perché sotto le armi. Non si poteva destituirlo e così si
pensò ad un Vice Podestà. So che fu fatta offerta ad uno zio di Sciascia:
questi celestinianamente rifiutò. L’abbiamo scritto e tanto basta. La faccenda
della Gioventù italiana del Littorio e soprattutto la faccenda delle buone cose
e buone somme, ha purtroppo riscontri sgradevoli. Personaggi squallidi ebbero
in mano quei beni e ne locupletarono. Nefasti prima, durante e dopo l’epoca
fascista. Furono delatori fiscali e fecero impoverire certa brava gente su cui
caddero strali tributari per inesistenti profitti di guerra. Di converso
spalleggiarono quelli che i profitti di guerra li avevano davvero conseguiti.
Comunque, figli e nipoti, dopo, condussero o conducono vita esemplare e i
meriti dei figli ricadano sui loro immeritevoli padri. Cose che comunque
potranno venire alla luce solo ad apertura degli archivi per la caduta
dell’attuale riserbo settantennale. Quei baldi giovani qualche peso sulla
coscienza dovevano sentirlo: parlavano ancora di patria, di onore, di dedizione
e se ne stavano caldi e sicuri mente i loro coetanei o poco più che coetanei
perdevano sì la guerra ma con tanto onore e ne uscivano anche malconci nel
corpo quando non perdevano le loro giovani vite. Io sono tutt’altro che
patriottardo ma onore al merito … ed alla verità storica.
Sciascia, quando scriveva, non poteva disporre di
informazioni come quelle che qui ritraiamo da WIKIPEDIA. Se avesse saputo,
prudente com’era, sarebbe stato più accorto e puntuale. Accordiamogli di buon grado l’esimente della buonafede. Ma
rileggiamo le note oggi disponibili in Internet.
Dopo una serie di
bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana,
comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal
generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo
sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore
2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono
lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini
furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann
Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli
americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i
contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione
motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di
carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le
posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35
di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi
tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi
della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente
motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il
piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata
solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile
sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso CCCCXXIX
battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura deficiente
nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che si passavano
a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da arrestare
l'impeto americano.
E qui riprendiamo il bello e puntuale ricordo di
Sciascia:
«Gli americani ancora non venivano. Passarono due
autocarri carichi di soldati tedeschi, bagnati di sudore e con le armi al
piede, seduti per quattro avevano lo sguardo fisso in avanti, stanco ed allucinato.
L’indomani a mezzogiorno passarono ancora due tedeschi con una automobile
munita di radio. Fecero sentire il bollettino trasmesso da Roma che da più
giorni non sentivamo; mangiarono tranquillamente, fumarono i loro sigari. Due
ore dopo la loro partenza, cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono
improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta,
qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati
addosso i fucili senza capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le
loro pistole penzolarono nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso
scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del
brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli
spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso
di amenità si diffuse al gesto del caporale.»
Questa singolare sincronia tra due tedeschi,
quasi pacifici, che se ne vanno e cinque americani che “sbucano improvvisamente
nella piazza”, lascerebbe perplessi se non si sospettasse che tra invasori
americani e tedeschi belligeranti intesa c’era. Qualcuno mi dice che per un
certo tempo carri armati tedeschi bivaccarono sotto l’arco di Tulumello, mentre
fanti in gran numero stazionavano ai bordi del Purgatorio, finché non giunsero
autocarri a prelevarli. Subito dopo, come avvisati, arrivò la ronda americana
liberatrice.
Soggiunge Sciascia: «La festa era cominciata. Da
tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come cannate di vino passate di mano in ano sorvolarono la folla,
bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce
violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava
goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in
America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa o
podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta
lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel pover’uomo che
l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso,
proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento
di passare alle insegne della casa del fascio. Tirate giù, furono accompagnate
a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un
abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. »
Aggiunge sempre Sciascia: «La kermesse era al suo
vertice. Camionette e carri blindati affluivano tra ali plaudenti di popolo.
Alquanto nervoso, e nervosamente sorridendo, un soldato dalla faccia di
meticcio puntava dall’alto di un carro, la mitragliatrice sulla folla. In
cambio ne riceveva un sorriso cordiale riflesso su centinaia di facce, un
ammicco di intesa: ‘vuoi scherzare, lo sappiamo, ma domani mangeremo tutte le
buone cose che ti porti dietro, i biscotti salati e gli spaghetti in scatola’.
Qualche sigaretta pioveva sulla generale letizia, e alla mischia che ne seguiva
la macchina fotografica di qualche soldato scattava. »
«Nel frattempo – soggiunge Sciascia – un
contadino che, vedendo in campagna spuntare una pattuglia di americani, tentava
chissà perché di fuggire, veniva raggiunto ed ucciso da una scarica di mitra:
ma la notizia non incrinò la generale allegria.»
A questo punto per Sciascia scatta il represso
ricordo di ingiustizie patite. «..la danza di circostanza era in preparazione.
Si chiamava il ballo delle spie. Le spie. Mentre il popolo si scatenava nella
ebbrezza, il vecchio avvocato C. [e forse
doveva dire B.], con mano tremante di gioia intestava una specie di
supplica: ‘Onorevole Comando Militare Alleato di …’ [intendeva
dire di Canicattì?], e chiedeva la testa di una cinquantina di fascisti
locali [noi pensiamo oltre duecento]
che, da ex massone passato al fascismo, mai l’avevano tenuto nella dovuta
considerazione. [Diciamo gli avevano
fatto torto, o così pensava, lui]. Il segretario politico, il podestà [rectius, il vice podestà che quello era
ancora lontano, sotto le armi], il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie
giunsero alle famiglie qualche mese dopo, da Orano.» Venenum in cauta, una stilettatina a Ballassaru Tinebra. Non molto tempo dopo, finito sotto i colpi di
lupara in piena piazza, da Centoeddeci,
disse il processo; innocente, invece, per Sciascia e per Tanu Savatteri. Sul
debito di Sciascia per questo primo sindaco, imposto dagli americani, abbiamo
già detto e non vogliamo ripeterci. Oltretutto potremmo avere torto.
Ci pare che qualche ripensamento Sciascia lo
abbia avuto, prossimo alla morte, in Fuoco all’Anima. Parlando con Porzio,
taluni ricordi di kermesse sembrano perduti, altri ne affiorano. Qualche
rettifica ci pare di coglierla. Al lettore il confronto ed il giudizio.
Se ben leggiamo, come si vede la storia è
ondivaga; dipende agli umori, dalle idee, dalle convinzioni, dalle età. C’è chi
ricorda una ronda di tre americani che scendono dalla guardia, per San
Giuliano, svoltando per via Fontana all’insù e chi è certo di una pattuglia di
cinque militari che sbucano all’improvviso. E questo è solo un dettaglio. Chi è
certo di occhi corruschi e di placidi sguardi di graduati tedeschi e chi
presume avieri drogati delle Forze Alleate. Ma tanto collima e tanto basta per
varare uno squarcio di storia racalmutese.
Noi licenziamo il nostro rincorrere i nostri
ricordi infantili. Valgano per i nostri compaesani senza fisime letterarie,
senza voglia di avere la certezza in tasca, senza assumere atteggiamenti
censori, senza volere violentare chi la pensa diversamente. Soprattutto senza
idolatrie preconcette e senza sarcasmi astiosi.
Per chi la storia la vuole come sta nella carta
stampata (a dire il vero, oggi, prevale quella leggibile in Internet) forniamo
una raccolta di appunti e contrappunti informatici.
Chiediamo
scusa per la noia che nolenti, ma incapaci, vi abbiamo arrecato.
Calogero Taverna
APPENDICE
[da WIKIPEDIA]
Le forze in campo
Perdite circa
167.000 perdite totali: Germania: 12.000
morti e prigionieri 8.000 feriti[4]
Regno d'Italia: 147.000 perdite (soprattutto
prigionieri)[4] 24.846 perdite
(5.837 morti, 15.683 feriti, 3.326
prigionieri)[5]:
USA: 2.899 morti e dispersi 6.471 feriti
598 prigionieri
Regno Unito:
2.376 morti 7.548 feriti 2.644 prigionieri
Canada:
562 morti 1.664 feriti 84 prigionieri
L'operazione Husky
(colosso) fu la prima invasione alleata del suolo italiano che durante la
seconda guerra mondiale permise, con l'utilizzo di sette divisioni di fanteria
(tre britanniche, tre statunitensi e una canadese) l'inizio della campagna
d'Italia. L'operazione Husky costituì una delle più grandi azioni navali mai
realizzate fino ad allora. Le grandi unità impegnate appartenevano alla 7ª
Armata USA al comando del generale George S. Patton, e l'8ª Armata britannica
al comando del generale Bernard Law Montgomery, riunite nel 15º Gruppo di
Armate, sotto la responsabilità del generale inglese Harold Alexander.
La campagna ebbe
inizio con lo sbarco in Sicilia (a Licata, tra Gela e Scoglitti e tra Pachino e
Siracusa) delle forze alleate, tra il 9 e il 10 luglio 1943, a cui presero
parte circa 160 000 uomini.
La pianificazione
dello sbarco
L'attacco
all'Italia fu deciso da americani ed inglesi durante la Conferenza di
Casablanca del 14 gennaio 1943 (a tal proposito, celebre rimase la definizione
dell'Italia di Winston Churchill: «L'Italia è il ventre molle dell'Asse») e la
pianificazione e l'organizzazione venne affidata al generale Dwight Eisenhower.
Accordi
preliminari
La preparazione
allo sbarco interessò una trattativa tra i rappresentanti del governo alleato e
chi realmente aveva in Sicilia una grande influenza, ovvero la mafia[6]. Dalla
relazione conclusiva della Commissione parlamentare Antimafia presentata alle
Camere il 4 febbraio 1976: “Qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in
Sicilia numerosi elementi dell'esercito americano furono inviati nell'isola,
per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione
sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a
Casablanca l'occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò
un'apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere le
necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della “preparazione psicologica”
della Sicilia. Fu così predisposta una fitta rete informativa, che stabilì
preziosi collegamenti con la Sicilia, e mandò nell'isola un numero sempre
maggiore di collaboratori e di informatori. Ma l'episodio certo più importante
è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco dal
gangster Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di
origine siciliana, il quale stava scontando una condanna a 15 anni[7]. Si
comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie
dell'infiltrazione alleata in Sicilia prima dell'occupazione. Il gangster
americano, una volta accettata l'idea di collaborare con le autorità
governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di
origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i
necessari piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli elementi
dell'esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per
preparare all'occupazione imminente le popolazioni locali. “Luciano” venne
graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra”,
tornò a Napoli a fare contrabbando di sigarette e traffico di eroina.
E un fatto che quando il 10 luglio 1943 gli
americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, il generale Patton
raggiunse Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “...è
storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo
sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d'accordo con il gangsterismo
americano, s'adoperò per tenere sgombra la via da un mare all'altro...”[7].
Ancora la Commissione antimafia: "la mafia rinascente trovava in questa
funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i
lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta
e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i
suoi crediti verso le potenze occupanti”[7].
Accordi fra Allen
Dulles e Lucky Luciano
La trattativa fra
servizi segreti americani e criminali mafiosi passò attraverso l'Office of
Strategic Services, (OSS), diretto dal generale William Donovan:
gerarchicamente, l’OSS in Europa dipendeva da Allen Dulles[8], che aveva la
propria sede in Svizzera, il suo diretto dipendente in Italia era
l’italoamericano Massimo Corvo, di origini siciliane, noto come "Max"
e detto in codice "Maral", numero di matricola 45[9].
Max Corvo incominciò ad organizzare i propri
uomini formando un'unità militare che, fra le forze armate americane era nota
come the mafia circle (il circolo della mafia). Stabilì quindi ulteriori
contatti con Victor Anfuso, Lucky Luciano, Vito Genovese, Albert Anastasia e
altre persone delle organizzazioni criminali italoamericane inserite nell’operazione
Underworld, un giovane raccomandato dallo stesso Luciano, Michele Sindona, e
anche un certo Licio Gelli[9].
Max Corvo e la sua squadra vengono sbarcati in
Nord Africa a maggio 1943. Poi tre giorni dopo l’attacco, l’unità prende terra
a Falconara, vicino a Gela, e si stabilisce nel castello della cittadina. A
Melilla Corvo incontra padre Fiorilla, parente di uno dei suoi uomini e parroco
di San Sebastiano, poi è ad Augusta, sua città natale, per reclutare
collaboratori locali. Intanto gli agenti dell’OSS occuparono le isole piùà
piccole intorno alla Sicilia, fra cui Favignana e liberarono dalla prigione
numerosi boss della mafia, che furono arruolati nel servizio dell’OSS, circa
850 "uomini d'onore" raccomandati dai capi mafiosi siciliani, che
dopo l'occupazione assunsero cariche pubbliche nell’amministrazione militare
del colonnello Charles Poletti: in provincia di Palermo ci furono 62 sindaci
mafiosi.[9].
Le forze
contrapposte erano sulla carta di consistenza quasi pari, dato che la Sesta Armata
italiana (generale Alfredo Guzzoni) poteva contare su circa 220.000 uomini,
solo 170.000 dei quali erano però combattenti. Le grandi unità italiane erano
inoltre carenti sotto tutti i punti di vista (armamento e motorizzazione
soprattutto), e molte erano unità costiere prive di armamento pesante. Alcune
eccezioni erano costituite da un battaglione di artiglieria semovente aggregato
alla Divisione Livorno, che aveva in carico un certo numero di semoventi da
90/53, in grado di mettere fuori combattimento qualunque mezzo corazzato
alleato. Il contingente tedesco, forte di 30.000 uomini circa ed al comando del
generale Frido von Senger und Etterlin (sostituito il 15 luglio da
Hans-Valentin Hube), a differenza degli italiani era perfettamente equipaggiato
ed aveva sotto il suo controllo anche la Fallschirm-Panzer-Division 1
"Hermann Göring", dotata di alcuni carri pesanti Tiger I.
Pantelleria si
arrende
I primi segnali
dell'invasione si ebbero già un mese prima (11 giugno 1943), con la presa
dell'isola di Pantelleria[10], primo lembo di terra italiana a cadere in mano
alleata, seguita dalla caduta dell'isola di Lampedusa il 13 giugno.
A Pantelleria, dopo un violentissimo
bombardamento aereo, il comandante italiano chiese e ottenne da Mussolini il
permesso di arrendersi, facendo credere di non avere scorte idriche. In realtà
le capaci caverne dell'isola, che già ospitavano degli hangar per l'aviazione,
erano in grado di offrire un riparo sicuro a tutta la popolazione civile e
militare dell'isola, e le scorte idriche e alimentari erano tutt'altro che
esaurite. Gli alleati fecero circa 11.000 prigionieri tra le forze italiane.
Le forze navali
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Le forze da sbarco,
precedute da uno sfortunato lancio di paracadutisti (nessuna delle unità scese
nel luogo stabilito e molti parà vennero catturati; inoltre 23 dei 144 Dakota,
lungo la rotta di ritorno, sorvolarono le navi alleate e vennero abbattuti
perché scambiati per bombardieri dell'Asse) erano protette e scortate da una
formidabile flotta combinata.
Supermarina non si
assunse la responsabilità di inviare la flotta a difesa dell'isola,
rischiandone la totale distruzione, quindi chiese capo di stato maggiore di
prendere tale decisione; ne segui una serie di discussioni che non portarono ad
alcuna azione operativa.[11] La decisione fu in qualche modo giustificata dal
fatto che, in assenza di adeguata copertura aerea, le corazzate e gli
incrociatori italiani sarebbero salpati per una missione suicida. Tuttavia
neppure i numerosi sommergibili in agguato a sud della Sicilia ottennero
risultati: nel corso della campagna di Sicilia la Regia Marina perse i
sommergibili Ascianghi, Bronzo, Flutto, Nereide, Argento ed Acciaio con la
morte in tutto di 152 uomini, ottenendo come unica contropartita i gravi danneggiamenti
degli incrociatori leggeri Cleopatra e Newfoundland e l'affondamento della
motocannoniera MGB 641[12][13].
La flotta alleata
contava quattro navi da battaglia (Nelson, Rodney, Warspite e Valiant,
quest'ultima appena rientrata in servizio dopo l'attacco di Alessandria), più
altre due di riserva ad Algeri ("Forza Z" con le corazzate Howe e
King George V), le portaerei Formidable e Indomitable, gli incrociatori Orion,
Newfoundland, Mauritius e Uganda, gli incrociatori contraerei Aurora, Penelope,
Euryalus, Cleopatra, Sirius e Dido, e 27 cacciatorpediniere. Le forze di
appoggio diretto contavano 2 monitori, l'incrociatore Dehly, 8
cacciatorpediniere, 4 cannoniere, 5 mezzi da sbarco trasformati in batterie
galleggianti, e 6 mezzi da sbarco con lanciarazzi. La US Navy per parte sua
schierava cinque incrociatori (USS Boise, USS Savannah, USS Philadelphia, USS
Brooklyn e USS Birmingham), oltre a 25 cacciatorpediniere e a un monitore
britannico. Da notare anche la presenza tra queste forze di unità appartenenti
a paesi occupati, come Olanda e Grecia. Con l'appoggio di queste forze le prime
truppe toccarono terra nelle prime ore del 10 luglio.
Le forze terrestri
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Nave inglese
colpita da un bombardiere tedesco durante lo sbarco a Gela l'11 luglio.
Le forze dell'8ª
Armata (il XXX Corpo d'armata formato dalla 1ª Divisione canadese, la 51ª
Divisione e la 231ª Brigata Malta, e il XIII Corpo d'armata costituito dalla 5ª
e dalla 50ª Divisione) sbarcarono nei tratti di costa compresi tra la penisola di
Pachino e la piazzaforte di Siracusa-Augusta, sul versante ionico, ad eccezione
della 1ª Divisione canadese che sbarcò più a sud. Due brigate, la 1ª Brigata
Paracadutisti e la 1ª Brigata Aviotrasportata (su alianti), distaccate dalla 1ª
Divisione Aviotrasportata britannica furono aviosbarcate dietro le linee
italiane per conquistare dei punti chiave.
La 7ª Armata di
Patton sbarcò dapprima tre divisioni nel tratto di costa compreso tra Licata e
Gela[14]. La 3' divisione sbarcò nella costa a ovest di Licata, località Torre
di Gaffe e baia di Mollarella, 5-8 chilometri a ovest di Licata. La 1ª
divisione sbarcò nei pressi di Gela e la 45ª divisione nei pressi di Scoglitti.
L'82ª Divisione Aviotrasportata o paracadutisti fu invece aviosbarcata tra Gela
e Scoglitti. Di fronte a queste forze c'erano le divisioni denominate costiere
dell'Asse Germania Italia, in particolare la 206ª nell'estremo sud-est
dell'isola, la 207ª a Licata in località Sant'Oliva o San Oliva o S.Oliva, e la
18ª Brigata costiera sulla costa di Gela. Furono queste unità, oltre alle
batterie costiere, a sopportare l'urto dello sbarco americano. Il fuoco di
controbatteria delle navi da guerra e l'appoggio aereo favorirono la rapida
attestazione delle forze di invasione, anche se nei punti maggiormente muniti
di artiglieria costiera la lotta fu piuttosto aspra. Nei numerosi tratti di
costa privi di difesa le truppe alleate poterono avanzare dai punti di sbarco
senza difficoltà. Tuttavia a Licata furono combattute aspre battaglie porta a
porta e la città fu interamente conquistata dagli Alleati il 21 luglio 1943 e
quindi fu fatta sbarcare anche la 2' divisione corazzata. Nell'entroterra erano
presenti la divisione Livorno e la divisione Hermann Göring, oltre alla male
armata Napoli. In riserva momentanea la 15ª Divisione Panzergrenadier tedesca,
divisa in gruppi tattici, non aveva più di 60 carri. A ovest erano schierate le
divisioni italiane Aosta e Assietta. Al comando delle forze dell'Asse, da
Berlino fu inviato Hans-Valentin Hube.
La Sicilia si
arrende [modifica]
I combattimenti
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Il generale Patton
a Palermo riceve il 28 luglio 1943 il gen. Montgomery all'aeroporto
Dopo una serie di
bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana,
comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal
generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo
sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore
2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono
lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini
furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann
Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli
americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i
contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione
motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di
carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le
posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35
di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi
tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi
della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente
motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il
piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata
solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile
sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso
CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura
deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che
si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da
arrestare l'impeto americano.
Sul fiume Simeto fu
combattuta un'altra durissima battaglia che impegnò gli inglesi dell'VIII
Armata, bloccando la loro avanzata verso Catania. Il 16 luglio gli americani
arrivarono ad Agrigento. Nonostante la combattività e il valore di gran parte
delle forze dell'Asse (non solo le efficienti unità tedesche)[senza fonte], la
Sicilia fu occupata in soli 38 giorni quando, il 17 agosto, le truppe Alleate
entrarono a Messina, dopo aver conquistato Palermo il 22 luglio e Catania il 5
agosto.
I tedeschi con un
ponte di barche riuscirono a trasferire in Calabria la gran parte delle loro
truppe e dei loro mezzi, a differenza degli italiani che abbandonarono molti
dei loro.
Lo sbarco a Licata
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Lo sbarco a Licata
avvenne la notte tra il 9 e 10 luglio 1943 mediante la 7ª Armata statunitense
comandata dal generale Patton che sbarcò la 3ª Divisione Fanteria (3rd Infantry
Division), comandata dal Maggiore Gen. Lucian King Truscott (Joss Force). Lo
sbarco avvenne nelle spiagge vicino Licata, poiché il Porto di Licata
costituiva obiettivo strategico e quindi occupato dai militari dell'Asse
(Germania nazista e Italia). L'ora "H" ebbe inizio alle ore 2.45 del
10 luglio 1943 e quindi iniziarono le operazioni di sbarco nelle spiagge
prestabilite. Alle 2,57 nella spiaggia di Mollarella e Poliscia toccarono terra
i primi carri armati americani. La 3ª divisione sbarcò contestualmente a ovest
della città di Licata, nelle spiagge di Torre di Gaffi e Mollarella e ad est di
Licata nelle spiagge di Falconara e nelle spiagge della Playa. Gli Alleati sbarcati
a Licata furono bombardati dalle forze dell'Asse e furono colpite e affondate
la nave Maddox e Sentinel delle forze Alleate. Gli Alleati comunque riuscirono
a sbarcare tutti gli uomini dalle navi e conquistata completamente Licata già
nella mattinata del 10 Luglio 1943, proseguirono verso Palma di Montechiaro e
Campobello di Licata. Il faro del porto di Licata, data la notevole altezza, ha
una portata di circa 21 miglia marine, costituiva un sicuro riferimento. Il
porto di Licata nei giorni successivi allo sbarco, assicurava l'arrivo dei
rifornimenti. Gli alleati la mattina del 10 luglio 1943, alle ore 8 circa,
avevano già messo la bandiera stelle e strisce degli Stati Uniti d'America, a
Licata, sulla montagna di Sant'Angelo. Il giorno 12 luglio gli Alleati erano
nelle campagne circostanti la città, in località S.Oliva o Sant'Oliva o San
Oliva, nei pressi dell'omonima stazione ferroviaria, distante circa 7
chilometri dalla città di Licata. Nella piana di Licata gli Alleati
approntarono qualche giorno dopo lo sbarco, una pista di atterraggio.
L'occupazione
alleata [modifica]
A capo
dell'amministrazione militare alleata della Sicilia occupata, di competenza
dell'AMGOT che venne battezzata in questa occasione, fu indicato Charles
Poletti.
Solamente il 3
settembre iniziò lo sbarco e quindi l'invasione alleata nella penisola italiana
con l'Operazione Baytown, in concomitanza con la firma dell'armistizio.
Armistizio che fu firmato a Cassibile, in provincia di Siracusa.
Attanasio, S.
Sicilia senza Italia. Luglio-Agosto 1943. Milano, Mursia 1983.
Alfio Caruso, Arrivano i nostri, Longanesi,
2006, ISBN 978-88-502-1100-5
Bartolone Giovanni, Le altre stragi. Le stragi
alleate e tedesche nella Sicilia 1943-1944, Bagheria (Palermo), Tipografia Aiello
& Provenzano, 2005.
Carloni Fabrizio Gela 1943 Le verità nascoste
dello sbarco americano in Sicilia Mursia ISBN 978-88-425-4742-6
Costanzo Ezio Sicilia 1943. Le nove muse.
Costanzo Ezio, Mafia e Alleati, Le Nove Muse
Editrice, Catania 2006
D'Este, C. 1943. Lo sbarco in Sicilia. Milano,
Mondadori 1990. ISBN 978-88-04-33046-2
Li Gotti, C. Gli americani a Licata.
Dall'amministrazione militare alla ricostruzione democratica (capitolo I -
L'operazione Husky). Civitavecchia, Prospettiva editrice 2008. ISBN
978-88-7418-377-7
Maltese, P. Sbarco in Sicilia. Milano,
Mondadori 1981.
Mangiameli, R. "La regione in guerra
(1943-1950)" in Storia d'Italia - Le regioni dall'Unità ad oggi, a cura di
M. Aymard e G. Giarrizzo. Torino 1987
Pantaleone M., Mafia e politica, Einaudi,
Torino 1978
Renda F., Storia della Sicilia (1860-1970),
Sellerio, Palermo 1987
Santoni, A. Le operazioni in Sicilia e
Calabria. Roma, S.M.E. 1983.
Tranfaglia N., Mafia, politica , affari
nell’Italia repubblicana (1943-1991), Laterza, Roma 1992
Zingali, G. L'invasione della Sicilia. Catania
1962.
Zangara Carmela 10 Luglio 1943 Lo sbarco degli
Americani nelle testimonianze dei Licatesi. "La Vedetta" Editrice.
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