IL
QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO
Il
quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo,
la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia
genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un
personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi
fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva
di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte
capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo
a quella famiglia proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e
mezzo vero del 13 aprile 1400 ([1]) - abbiamo
le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo
qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che
inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,
difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione
che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia
che specificatamente ci interessa in questa sede.([2])
Quel
che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina
di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del
beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele
alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era
conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di
sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di
Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla
riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano
istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai
saraceni da parte dei
Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una
inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa in
Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare
canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto
beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante
gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che
riportiamo, in calce, in una nostra traduzione dal latino ([3]):
Il
documento fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava comodo per ribadire l’autorità
delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo
del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’:
diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511,
nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa
in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che
solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta
del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti
collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò
origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può
benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile
ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola
concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col
Papa.
GLI
EBREI A RACALMUTO
La
presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità
sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca
(lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di
Agrigento), nella loro monumentale
opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel
1492. ([4])
Raccapricciante
lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato.
Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel
periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un
ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento interessante e che va riportato integralmente
sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi
termini dialettali della nostra terra. [5]
In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen
Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra
il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore)
Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione
dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era
avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice
e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro
Raneri. Ma tanti
altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad
alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne
assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato.
Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato
ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.
Non
sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette,
dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità
nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che
sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi
d’oro - una enormità per i tempi e le
condizioni della Racalmuto di allora -
e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.
L’algoziro
Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà
appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e
fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario
viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi
di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di
moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non
va trascurata l’eventualità che addirittura si sia consumata una vendetta
collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale
relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno
carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle
carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga.
La
città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono
in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non
tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che gli ebrei sono servi della regia Camera e
quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli
ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa
privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento con le autorità locali agrigentine e quelle
racalmutesi.
E’
uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine
e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia
traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali,
ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare
nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi
in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel
quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo.
Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e,
pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad
appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è
accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere
locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La
corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.
Quanto
alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano significativi assetti
organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero Sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben
strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò
provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a
Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e
sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro
fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di
marrani racalmutesi, finiti sotto l’Inquisizione. Quel non glorioso tribunale
ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla
fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome
abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul
povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non
collimanti con quelle della laica canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.
IL SECOLO
DELLA MADONNA DEL MONTE
La
tradizione colloca nell’anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente
scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che
suonerebbe falsa e blasfema. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la
seconda lezione dell’Officio sulla nostra prodigiosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita
in latino - da tempo immemorabile, un
prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del
Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo
poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico
tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella
antica città di Castronovo. E questo fu un mero portento.»
Francesco
Vinci, in un una memoria del
1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura
Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913,
Eugenio Napoleone Messana nel 1968,
Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci
sfuggono hanno scritto sull’evento, quasi sempre con filiale devozione e con
trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto.
Un
quadro storico puntuale e documentato ce l’ha fornito di recente il compianto
gesuita locale P. Girolamo Morreale. Esso è esaustivo per chi
pretende l’umana verità storica. Col suo candore l’ex-voto esposto nel
Santuario del Monte rappresenta, pare dalla fine del Seicento, la nostra
ancestrale devozione mariana; esso ci immerge nella concitazione del popolo
racalmutese per l’arrivo nella parte alta del paese del carro trainato dai buoi
con sopra il venerato simulacro della Madonna.
Nella
visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la
gloriosa statua viene come inventariata, con stile del tutto anodino.
Nell’Archivio Vescovile di Agrigento si rinviene il documento della visita fatta
nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non
mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa
richiamare alla mente un santuario prestigioso della Vergine. P. Morreale ([6]) ha come
un moto di stizza quando vede il notista della Curia trattare apaticamente
l’argomento. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa
importanza, l’irriguardoso burocrate si limita ad inventariare il glorioso
simulacro semplicemente come «una figura di nostra donna di marmaro».
Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode a Racalmuto solo a partire dai primi decenni del ‘700,
dopo l’opera del p. Signorino.
La visita pastorale del Vescovo di Agrigento, datata 1540, è per altri
versi un momento importante per la storia religiosa di Racalmuto. Abbiamo un documento
storico basilare. Pur nel linguaggio non
perspicuo ed arcaico, balza un quadro della struttura ecclesiale di Racalmuto.
Ci
affacciamo, così, all’epoca moderna per la quale disponiamo di fonti d’archivio
e documentali rilevantissime che vanno studiate ed interpretate con rigore
scientifico, bandendo quel vezzo della visionarietà cui gli eruditi locali sono
stati soliti abbandonarsi. La storia della comunità ecclesiale racalmutese
appare ora circostanziata e colma di
affascinanti spunti e di specificità di grande portata edificante. Si
pensi al culto della Madonna, alla devozione verso S. Rosalia, alla
veneranda figura di padre Elia Lauricella ed ai tanti servi di Dio della nostra epoca
contemporanea.
SACERDOTI DI RACALMUTO DEL XVI SECOLO
Premessa
Nell’Archivio parrocchiale della Matrice di Racalmuto si rinviene un elenco di sacerdoti che
abbraccia il periodo dal 1545 sino ai nostri giorni. L’intestazione è molto
eloquente e ben specifica il contenuto del registro. «Liber - viene denominato
- in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum, nec non Diaconorum,
Subdiaconorum et Clericorum huius terrae Racalmuti, jam ex hac vita discessorum
a pluribus ab hinc annis fere immemorabilibus, opere R.di Sac. D. Paulini
Falletta hoc anno 1636 pro quarum animarum suffragio
semel in mense in feria secunda secundae hebdomadae ad cantandam Missam omnes
Sacerdotes, Diaconi, Subdiaconi et Clerici se obligaverunt convenire. - Ut in
actis Not. Panfili Sferrazza Racalmuti sub die 26 Marzii 1638.» Fino a
quando si cantò quella messa il lunedì
della seconda settimana di ogni mese, non sappiamo. Oggi non avviene più
e crediamo a memoria d’uomo.
Il primo sacerdote a venirvi annotato è l’arciprete e
canonico d. Nicola de Galloctis, citato nella visita
pastorale di Mons. Pietro di Tagliavia e d’Aragona del 1543. La trascrizione è però
scorretta: lo si chiama “Nicola Galletti”. Abbiamo quindi i tre
successori nel tempo: d. Tommaso Sciarrabba - anche lui arciprete e canonico - D. Gerlando d’Averna e don Michele Romano. Viene omesso l’arciprete
Capoccio per saltare a
d. Andrea d’Argomento, con il quale s’inizia il
secolo XVII.
Sui sacerdoti racalmutesi del secolo XVI sappiamo ben
poco. Qualche dato si desume dall’archivio vescovile di Agrigento. Notizie e riferimenti si
colgono nei libri parrocchiali della Matrice, quasi tutti di battesimo
per quello scorcio di secolo, e databili, comunque, a partire dal 1564. La
bolla di conferimento dell’arcipretura di Racalmuto al sac. Gerlando di Averna è stata da noi rintracciata nell’ Archivio
Vaticano Segreto e risale al 13 novembre del 1561.
Lo stato delle nostre ricerche ci permette di
individuare soltanto due sacerdoti officianti a Racalmuto prima del XVI secolo. Sono i religiosi
ricordati nella Colletteria dell’archivio vaticano (cfr. ASV - Collect. 161 f.
96) Martuzio de Sifolono, titolare della chiesa di
S. Maria, chiamato a
corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310), ed il
prete Angelo di Montecaveoso, tassato per nove tarì in relazione all’ufficio sacerdotale che
esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo neppure se fosse un
sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S. Maria - ed ogni
attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna è mero arbitrio.
Il “presbiter” Angelo de Montecaveoso ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di
Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava pochi proventi
(dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno
prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.) e non lascia traccia
di sé.
Non abbiamo elementi per stabilire se, oltre ad
incassare le prebende, i beneficiari di S. Margherita, ebbero a svolgere una
qualche missione sacerdotale a Racalmuto: si tratta di due preti di
cui ci tramanda i nomi un noto documento (Archivio di Stato di Palermo: Reale
Cancelleria, Vol. 34, f. 137v, anno
1398) del 20 settembre 1398, Tommaso de Manglono e Gerardo de Fino. Il primo era un canonico
agrigentino, considerato ribelle dal re Martino e pertanto spogliato della
prebenda racalmutese; il secondo, arciprete di Paternò, era
divenuto cappellano regio: difficilmente avrà avuto tempo per
pratiche religiose nella terra del beneficio di Santa Margherita, ricevuto graziosamente dal
re. Gli bastava mettersi in contatto con Matteo del Carretto, cui erano state impartite
istruzioni per la corresponsione dei proventi a quelll’arciprete di Paternò.
Biagio Pace vorrebbe un ipogeo cristiano in contrada delle Grotticelle di Racalmuto. Se ha ragione, il
cristianesimo si sarebbe diffuso nel paese fin dal V-VI secolo; da allora sino
al nono secolo, quando gli arabi s’impadronirono di questa parte della Sicilia,
molti sacerdoti si saranno succeduti ma su di loro nulla assolutamente si sa e
non sono neppure tentabili congetture, anche azzardate. Lo stesso avviene per i
tempi dei Normanni e per quelli
successivi sino al 1308. Occorre fare un salto, dunque, che ci porta al 17
maggio del 1512: in un documento vescovile si accenna al sacerdote racalmutese
Francesco La Licata che - unitamente ai sindaci Vito Graci, Francesco Bona, Giacomo Mulè, Filippo Fanara, Salvatore Casuccio, Gabriele La Licata. Orlando Messina e Stefano Santalucia - si era rivolto
all’autorità viceregia per avanzare un imprecisato ricorso avverso il chierico
Paolo del Carretto. Possiamo affermare che il
La Licata sia il primo sacerdote veramente racalmutese
di cui abbiamo notizia.
In definitiva, è proprio dal La Licata che può partire una ricognizione dei sacerdoti
racalmutesi: i precedenti quattro nominativi (due dell’inizio e due della fine
del XIV secolo) ci appaiono forestieri e per un paio di loro non è ipotizzabile
una qualche sia pure sporadica presenza a Racalmuto.
[1]) Ci
riferiamo allo scambio dei beni tra Gerardo e Matteo del Carretto. Il documento che utilizziamo
è una fotocopia dovuta alle solerti ricerche del prof. Giuseppe Nalbone presso l'Archivio di Stato di Palermo (cfr.
ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE
GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181 - Data 9/4/1993).
[2])
Resta a nostro avviso ancora insuperata la ricostruzione che della vicenda fa
lo SPUCCHES nel quadro 783 del vol. VI (Avv. Francesco SAN
MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia
dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol VI). In
particolare, ci riferiamo ai seguenti punti dell'opera:
«1. - Federico CHIARAMONTE, figlio terzogenito di Federico e
Marchisia PREFOLIO, ebbe Racalmuto da FEDERICO di Aragona; lo affermano concordi
tutti gli storici. Sposò questi certa Giovanna di cui si sconosce il casato.
Egli morì in Girgenti; il suo testamento porta la
data 27 dicembre 1311, X Indiz., fu pubblicato da notar Pietro PATTI di
Girgenti il 22 Gennaro 1313, II Indizione.
[XI IND.]
2. - Costanza CHIARAMONTE, come figlia unica di Federico suddetto,
successe in tutti i suoi beni come erede universale del padre. In conseguenza
ebbe il possesso di RACALMUTO. Sposò questa in prime nozze,
Antonino del CARRETTO, M.se di Savona
e del Finari (Dotali in Notar Bonsignore de Terrana di Tommaso da Girgenti li 11 settembre 1307). Sposò in seconde nozze Brancaleone Doria, genovese, col quale
ebbe molti figli. Questo risulta possessore di RACALMUTO, (MUSCA, Sic. Nob. pag. 20). Costanza morì in Girgenti
... Il testamento di lei è agli atti di Notar Giorlando Di Domenico di
Girgenti, sotto la data 28 marzo 1350, V Indiz.; fu transuntato in Catania,
agli atti di Notar Filippo Santa Sofia li 24 novembre 1361 (INVEGES, Cartagine
Siciliana, f. 228-229).
3. - Antonio del CARRETTO successe nella signoria di RACALMUTO, come donatario della madre,
per atto in Notar RUGGERO d'ANSELMO da
FINARI li 30 agosto 1344, XII Indizione. Sposò questi certa SALVASIA
di cui si sconosce il casato. Nacquero da lui GERARDO e MATTEO. Il
primo se ne tornò a Genova dopo aver servito Re MARTINO contro i ribelli;
i beni di Sicilia li cesse al fratello.
4. - Matteo del CARRETTO suddetto fu investito della Baronia di RACALMUTO in
Palermo, a 4 Giugno, IV Indizione 1392. (R.
Cancelleria, libro dell'anno 1391, f. 71) [L'indizione è del tutto errata.
Il 1392 cadeva nella XV Indizione. Occorrerebbe cercare meglio di quanto
abbiamo fatto noi nella R. Cancelleria il citato documento che a dir poco è
segnalato in modo impreciso]. .»
[3])
Archivio di Stato di Palermo: Real Cancelleria - Vol. 34 - p. 137 v. - 1398
[Ricerche del prof. Giuseppe Nalbone] «Martino etc. Al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della
terra di Paternò, cappellano della
nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci
inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. E così apprezziamo quelli che sappiamo essere i morigerati vostri costumi di vita di cui v’è generale stima e nei quali noi
siamo pienamente fiduciosi, e pertanto per l’autorità apostolica in ciò a noi
sufficientemente accordata, il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con
prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è
reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione
contro le nostre benignità - fiduciariamente vi commendiamo e per grazia vi
conferiamo, concediamo e doniamo in modo che possediate la prebenda,
l’aumentiate, la teniate, ne usufruiate e l’amministriate con i suoi redditi e
proventi che potrete destinare alla vostra comodità affinché in modo più
consono - Dio permettendo - possiate trarne mezzi di sussistenza durante la
nostra vita e finché quel canonicato ci resterà affidato dall’autorità
apostolica.
Ai nunzi ed agli incaricati presso il
venerabile eletto governatore della predetta maggiore chiesa agrigentina nonché
al consesso dei canonici diamo incarico acché vi pongano e vi immettano nel
materiale e reale possesso di quel canonicato, con prebenda redditi ed i suoi
debiti e consueti proventi, per l’autorità delle presenti credenziali, oppure
che ve ne rendano il possesso per il tramite di altri, non mancando di tenerlo
intatto e di salvaguardarlo e di rendervelo quindi integro sia per quanto
attiene allo stesso canonicato sia alla pertinente prebenda nei consueti
termini giuridici.
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato
al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti
ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto
presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano
rendere integralmente e pienamente la
prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso
canonicato, se desiderano e possono mantenere la nostra benevolenza.
Dato
in Siracusa, l’anno del Signore, VII^ Ind. 1398.
.... Re Martino - »
[4])
CODICE DIPLOMATICO DEI GIUDEI DI SICILIA raccolto e pubblicato dai fratelli
sacerdoti Bartolomeo e Giuseppe LAGUMINA
- edito dalla SOCIETA' SICILIANA
PER LA STORIA DI SICILIA - Documenti
Storia di Sicilia - Serie I - DIPLOMATICA N.°
12 - Trattasi del terzo volume dei fratelli Lagumina . Palermo 1890. (pag. 145, documento n.° LIX -
Palermo 7 luglio 1474, Ind. VII.)
[5] ) «Il
Vicere’ Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi
a Racalmuto per punire coloro che uccisero
il giudeo Sadia di
Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.»
«Ioannes etc. Vicerex etc. nobili oliverio
raffa militi algoczirio regio fideli dilecto salutem. diviti sapiri comu quisti
iorni prossimi passati sadia di palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di
raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto
da uno liuni figlastro di mastro raneri et dapoy alcuni altri di lu dictu
casali quasi a tumultu et furia di populu dediru infiniti
colpi a lu dictu iudeu non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo diabolico
spiritu dicti tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro
li denti usando in la persuna di
lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu gettaru in una fossa et copersilu di pagla et gictaru
foco petri et terra.
la qual cosa essendo di malo exemplo
merita grande punicioni et nui
tali commoturi di popolo et delinquenti
volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et
a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia
havimo provisto per sapiri la veritati e quilli foru a tali
malici participi et culpabili. et per la
presenti vi dichimo commictimo et
comandamo che vi digiati
personaliter conferiri in lu dictu casali et
cum quilla discrepcioni lu casu riquedi digiati inquisiri et
investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu
tumultu et actu. et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu
iudeu et cui si trovau presenti et partechipi
a la dicta morti et delicto. et de tucti
li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito
vestru li portariti a nui. comandanduvi chi cum
diligencia et cum quilla
discrecioni da vui confidamo digiati
prindiri de personis tucti quilli
foru culpabili et si trovaro alo dicto
acto et quilli digiati minari in la chitati di girgenti et carcerarili in lu
castellu di la dicta chitati in modo
chi non si pocza
di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che a lu
dictu iudeu fu prisa certa roba et intra
li altri uno gippuni in lu quali si
dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro farriti di lo
dicto gippuni e di tucta l’altra roba libri et
scripturi diligenti
investigacioni et perquisicioni
cui li prisi et in
putiri di chi persuna sono. et
trovandoli cum ydonia et sufficiente pligiria de restituirili ad omni
simplichi requisicioni di la regia curia li restituiriti a li heredi di lu dictu
iudeu. preterea perche multi
audachi et temerari persuni li quali
poco timino la iusticia
presummino in la chitati di girgenti
parlari et usari alcuni prosuncioni et adminanzi ac
iniurij contra li iudei
di dicta chitati di che porria suchediri inconvenienti et scandalu
non senza disservicio di la regia
curti. a
li quali inconvenienti volendo
debitamente providiri actento chi li
iudei sono servi di la regia cammara
et non si divino lassari
indebitamente vexare ne
molestari. vi comandamo chi eciam vi
digiate conferiri in la dicta
chitati di girgenti per li lohi soliti
et consueti farriti voce preconis
emictiri banno puplico sub pena vite et publicacionis bonorum et altri a
vui meglo visti chi non sia persuna
alcuna digia ne persuna cuiusvis
condicionis et gradus chi digia palam vel oculte de die nec de
nocte intus nec extra civitatem
offendiri vexari ne molestari li dicti iudey.
ne alcuno di loro tanto masculi comu fimini tanto grandi comu pichuli ne
loru beni re facto verbo et opere. et
chi lo capitaneo iurati gubernaturi di li iudei et altri
officiali digiano ipsi iodey
favoriri et defendiri contro omni persuna chi indebite li volissi offendiri et molestari. lu quali
banno post eius pubblicacionem farriti reduchiri in scriptis ut appareat
in futurum. et si alcuno volissi
dimandari iusticia oy incusari alcunu
iudeu digia compariri davanti di nui et
farrimo debito complimento di iusticia. in modo chi cui havira commissu malificio et
delicto sarra debitamente castigato. Nam in
premissis et circa ea cum dependentibus emergentibus et annexis vi damo
et conferimo plena bastanti et sufficienti potestati per presentes.
per li quali comandamo a tutti et singoli
officiali et persuni di la
chitati nec non a lu nobili baruni
officiali et persuni di lo dicto
casali chi in la execucioni di li
sopradicti cosi cum li dipendenti emergenti et quilli vi digiano
obediri et assistiri ac
prestari omni aiuto consiglio et
faguri et loro brazo
si et quociens opus erit et per vos fuerint requisiti nec contraveniant aut aliquem contravenire
permictant ratione aliqua sive causa sub pena unciarum mille regio fisco
applicandarum. vui vero in la execucioni
di li dicti cosi vi haviriti et
portariti in tali modo et omni quilla diligencia chi pozati
meritatamente essiri inanzi nui comandatu. Dat. panormi die VII Iulij
VIIe Indicionis M° CCCCLXXIIII°.
post datam. constituimo a vui dicto
nobili per vostri iornati et salario ad racionem de tarenis octo pro
quolibet die dum in premissis legitime vacaveretis. Dat. ut supra.
Lop Ximen Durrea»
Cancelleria, vol. 130, pag.
332 - R. Protonotaro, vol. 73, pag. 160
[6])
Girolamo M. Morreale, S.J - Maria SS. del Monte di
Racalmuto - Racalmuto 1986: pag. 29 «Le notizie più sicure e più antiche sulla
Madonna del Monte le
abbiamo dalla sacra Visita, fatta a Racalmuto dal vescovo o da un suo delegato,
nel 1540 ... La statua è descritta con termini assai scarni, secondo lo stile
inventariale: "Una figura di Nostra Donna di marmaro"» Pag. 30: «Poco dopo sono riportati gli ornamenti
della statua: "Item uno panigliuni [rectius: pavigluni, n.d.r.] di cuttuni cum sua frinza di sita
russa per [rectius: supra, n.d.r.] la
Immagini [rectius: inmagini, n.d.r.] di marmaro di Nostra Donna et una
cultra vecchia [rectius: vecha, n.d.r.] per la ditta Immagini [rectius: supra la ditta inmagini, n.d.r.] ... Item: uno panigliuneddo [rectius: paviglunetto, n.d.r.] a la immagini [rectius: inmagini, n.d.r.] di Nostra Donna .»
«Il titolo della chiesa è riportato nel paragrafo che la riguarda:
"Visitatio ecclesie sancte Marie di lo Munti".
«Per la quantità di beni riportati nell'inventario, la chiesa del Monte
è la terza dopo la Matrice e
l'Itria. Si ha l'impressione di una chiesa periferica che ha appena il necessario: sono ricordati
un solo paio di candelieri di legno e le 13 tovaglie di altare come biancheria
sacra. Le due chiese centrali, Annunziata (Matrice) e l'Itria, invece appaiono bene
attrezzate di parati sacri..»
A quest'ultimo proposito mi
par di potere annotare: a) Il P. Morreale legge sicuramente in modo errato Jsu in Itria
(la chiesa dell'Itria sorgerà a Racalmuto un secolo dopo); b) la chiesa del Monte figura
dopo Matrice, S. Maria di Gesù ed anche S.
Giuliano, al quarto posto, forse addirittura alla pari di S. Margherita; c) in
ogni caso, trattasi delle prime cinque chiese di Racalmuto: le altre (ricordo
ad esempio: S. Rosalia e S.
Leonardo) non attiravano l'attenzione dei visitatori episcopali per la loro
scarsa importanza. La chiesa del Monte, comunque, ha una buona dotazione di
paramenti sacri, ha una cassetta per le elemosine ed un guardaroba per la sua prestigiosa
statua di marmo, anche se viene indicata come vecchia (da ciò si potrebbe anche
dedurre che la statua marmorea non è poi detto che sia quella che si venera
oggi e che la chiesa del Monte è molto antica, forse più antica della stessa S.
Maria di Gesù).
Altra importante fonte è :
«LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno
1542-43)» - Tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura
dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno
accademico 1981-1982. Racalmuto risulta tratttato nelle pagine 207-218. La
visita è dell'11 giugno 1543 ed è successiva di tre anni a quella qui indicata.
La Chiesa del Monte non vi figura perché il visitatore si limitò ad annotare a
lato la vecchia visita.
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