LA NOVELLA CHIESA DI S. ROSALIA.
Efficace
il Pirri nel parlare del fervore della confraternita delle Anime del Purgatorio nel costruire o
riedificare la Chiesa di Santa Rosalia. L’anno è il 1628, qualche
tempo dopo la tremenda peste che a Racalmuto infierì nel 1624 , anno del rinvenimento del corpo di S. Rosalia nella
grotta di Monte Pellegrino, giusta appunto il giorno dell’Ascensione.
Nel
manoscritto attribuibile al Genco è significativo il presente passo: «Poi a pag. 373 [il Cascini] narra che Racalmuto fu devoto di S. Rosalia tanto che narra: “Ne si mostrò poco divota verso S. Rosalia la terra di Rahalmuto, la
quale come si è detto nel primo libro, fin dal suo principio, nacque sotto la
protettione di questa Santa e vi dedicò
la sua prima chiesa, havendola hora rifatta di nuovo; è incredibile la
divotione, con che viene visitata a piè scalzo ogni sera non da pochi, ma d’una
moltitudine grande. Però con molto maggior mostra di pietà, e humiltà ciò
fecero il giorno quando accompagnarono
la sua Santa reliquia, che fù l’ultimo di Agosto 1625, erano andati a portarla
da Palermo, ben 80. a cavallo, e quella mattina, che fù Domenica, si cantò
prima [pag. 375] la Messa nella Chiesa dei Padri Minori Osservanti colla
solennità solita; e si liberò una spiritata; dopo il Vespro pur solenne si fece la processione,
nella quale, benché vi fosse molta pompa d’apparato con tre archi
trionfali, di luminarie per tre giorni,
di concerto di Musiche, e salve di schioppi, nondimeno superava ogni cosa la
devotione, che s’udia delle voci, e sospiri, e pianti, e si vedea della
moltitudine tutta a piè scalzo.
Accettò la Santa la pietà loro, e
gli mostrò a chiari segni, che la sua protettione l’havea liberati dalla
pestilenza; imperoché havendo la terra delle Grotte presso à due
miglia molto mal menata da quel morbo, colla quale così infetta per un buon
pezzo, prima che fosse dichiarata, vi fù pratica stretta, per essere in buona
parte parenti fra loro e haver molta communicatione, non si attaccò però male
veruno; anzi entrandoci dentro appestati diversi, si di questa terra, come
d’altre, i medesimi che la portavano poi in altri luoghi, quivi non vi
lasciarono vestigio alcuno.»
Facendo
la collazione con il testo originale, sono sate necessarie alcune rettifiche. (
Si è consultata l’edizione del 1651 del volume del p. Giordano Cascini «S. Rosalia, Vergine
Romita palermitana, palesata con libri tre dal M. R. P. Giordano Cascini della
Compagnia di Giesù»). Il manoscritto racalmutese (ed anche p. Morreale) attinge a questa pubblicazione palermitana del 1651.
Il p. G. Cascini era morto sin dal 1635 quando fu pubblicato questo volume. E’
stato il p. Pietro Salerno S.J. a riprendere gli appunti del Cascini ed a
rimaneggiare altri due testi già pubblicati tra il 1627 ed il 1635 per fare
questo ponderoso tomo. Per di più rettifica ed immette notizie posteriori,
ragion per cui non si sa quali notizie
siano originali del Cascini e quali interpolate successivamente dal
Salerno. Nell’analisi critica dei padri autori degli «acta sanctorum» del 1748 queste anomalie sono
puntigliosamente messe in rilievo. Certo, anche per la storia di Racalmuto, alcune interpolazioni del
Salerno - tipo, secondo me, quella del riferimento al Monocolo - disorientano. [1]
Notizie
interessanti sulla Chiesa di S. Rosalia di Racalmuto - anche se forse non proprio fondate - si
scoprono nel “saggio storico-apologetico sulla
vera patria del celebre medico D. Marc’Antonio Alaimo di Racalmuto dell’Abate d. s. acquista” Napoli 1852 (cfr. copia fornitaci da P. Biagio
Alessi). «... Andrea Vetrano - scrive Acquisto a pag. 7 -, discepolo di Marco
Antonio Alaimo, recitò nel novembre del 1662 le lodi funebri del dotto Maestro
[...e] proseguendo [..] in conferma
dell’assunto, e della pietà, che sempre più gelosamente si coltivò nella
famiglia Alaimo, il medesimo scrive; che Aloisia Alaimo, dalla quale
Marc’Antonio trasse sua origine, gettò in Racalmuto le fondamenta della Chiesa
di S. Rosalia , unicamente a di lei spese, circa il 1200. [2]
* * *
Nelle
varie fonti prima citate si rinvengono briciole della storia locale di
Racalmuto. Non vanno disperse. A
parte qualche tocco di satanismo secentesco (la vicenda della spiritata), il
vivere paesano, la sua religiosità, la sua organizzazione vi trovano riscontro
sinora non adeguatamente messo in risalto. Le reliquie di S. Rosalia, comprate
in Palermo e traslate in pompa magna nella chiesa di S. Maria dei frati minori osservanti, da ottanta
cavalieri, assurgono a momento di grande rilevanza storica. Una conferma la
ritrovo nel Diploma custodito in Matrice (che però è parziale e non mi consente di
leggere l’ultima parte di destra.)
Ecco quelli che riesco a decifrare:
In alto, nello svolazzante
nastro:
IOANNETTINUS DORIA ET C [/]
Nel rosone, attorno ad
un’interessante immagine di S. Rosalia,
Sancta Rosalia Virgo
eremitica panormitana
Sotto l’aquila nobiliare
NOS D: FRANCISCUS DELLA RIBA S. T [/]
Prothonotarius Apostolicus, Archidiaconus Maioris Panormitanæ E [/]
D.ni Nostri Utriusque signaturæ Referendarius .. & Reverend.mi D [/]
IOANNETTINI DORIA S.R.E. Titoli
Sancti Petri in Monte
Aureo [/]
& Archiepiscopi Panormitani [......] V [icarius] Generalis.
Omnibus ad quos hæ litteræ pervenerint fidem facimus, & testamur
fragmenta Ossis Costæ, quæ funi penes Fratrem IOANNEN BATTISTA [/]
Montis Carmelis esse ex Reliquiis SANCTÆ
ROSALIÆ V[...] [/]
Urbis Patronæ; cuius Corpus nuper est inventum in Antro Montis [/]
mirabiliter inclusum ut autem duo fragmenta, ut supra, liceat universis
[/]
[..] ac religiose venerari; in huius rei testimonium presentes dedimus
nostra fut [/]
præfati Ill.mi Dni Cardinalis obsignatas. Panormi Die X.. Augusti VIII
Ind. [quindi 1625] MDCXX[/]
Firme illeggibili
e in basso, nell’ovale
sotto gli angeli
Lilia præstanis encedunt alma rosetis,
Ignea pestis adest, hac rutilante Rosa
O felix, faustumque solum cui sacra [...]
Pignora, tabificum despicit [..]
|
L’altro
diploma in caratteri gotici, sempre custodito in Matrice, non dovrebbe
riguardare proprio S. Rosalia, anche
se la santa vi è citata: al 17°
e 18° rigo leggerei “in Sancte Anne et Sancti Joachini ac
Annuntiantionis Beate Marie Virginis nec non
Sancte Rosalie festivitatibus et devote visitaverint ..”. Lo stato dell’originale e le ampie abrasioni impediscono una più
precisa lettura. Dovrebbe però riguardare una bolla pontificia di concessione di indulgenze
connesse ad una confraternita che credo quella di S. Francesco. Reca infine
la data del 1630 [Anno incarnationis dominici Millesimo Sexcentesimo tricesimo
Januarij], se non erro. E’ postuma la
visita fatta «in hac terra Regalmuti sub die 26 novembris 1726” da parte di un
canonico.
Facendo
una digressione nella digressione, l’episodio degli 80 cavalieri che portano in
piena peste le reliquie di S. Rosalia da Palermo nella chiesa di S. Maria nell’agosto del 1625, dovette restare ben
impresso nella memoria dei racalmutesi. Qualcuno, però, si avvalse di quel
ricordo per l’esaltazione della propria famiglia. Riporto a tal proposito il
seguente passo di Eugenio Napoleone Messana (op. cit. pag.
104)
«Giovanni IV del Carretto, marito di donna Beatrice Ventimiglia, figlia unica
del principe di Castelbuono, quando ascese alla contea [di Racalmuto] aveva tre figli, Girolamo Aldonza e Porzia. Girolamo
per la legge del maggiorasco vigente era destinato alla successione della
contea. Le figlie erano entrambi (sic) ospiti della zia Marzia del Carretto,
figlia di Giovanni III, abbatessa di Santa Caterina in Palermo fino al 1598, data della sua morte e vi sarebbero
forse rimaste se non fossero state riportate in paese nel 1600, per volontà del
padre, allarmato dell’insurrezione contro il nuovo pretore. In quell’occasione
Giovanni IV promise le figlie in moglie a quei cavalieri che gliele avessero
ricondotte al castello sane e salve. La sorte arrise al milite Scipione
Savatteri che sposò Maria ed ebbe in dote il feudo di Gibillini. Questo
matrimonio diede inizio alla famiglia dei Savatteri di Racalmuto, che risulta
essere la più nobile di tutte le altre. I Savatteri infatti discendono da Pable
Zavatier, nobile francese al seguito del conte Ruggero [...] Non si hanno
notizie dei motivi per cui Aldonza non contrasse mai nozze, si sa soltanto che
lei nel 1605 a proprie spese fece costruire l’Abbazia di Santa Chiara ...»
L’inattendibilità
storica, specie sui del Carretto, è fin troppo vistosa.
Quanto a donna Aldonza, questa non ebbe mai a maritarsi e fu ospitata, zitella
invecchiata, nel monastero di S. Caterina in Palermo. Eugenio Messana non
ebbe modo di studiare i documenti che si rinvengono nell’Archivio di
Stato di Agrigento per
conoscere la vicenda della terribile virago secentesca donna Aldonza del
Carretto. In Pirri, ad esempio, vi è qualche spunto per la storia di
questa nobildonna. (cfr. pag. 758, op. cit.)
Sul
nobile Savatteri, gli archivi parrocchiali smentiscono purtroppo
impietosamente. Ma la digressione prova come anche nelle fantasie nobiliari
locali vi sia un barlume di storia: il caso citato può a mio avviso collegarsi
allo sfilare di cavalieri con le reliquie di S. Rosalia nell’estate del 1625.[3]
La chiesa
di S. Rosalia resta funzionante per circa un secolo e mezzo.
Nel 1758 essa è ormai quasi cadente: nel libro delle visite pastorali (Archivio
Vescovile di Agrigento - Visita del 1758 di Andrea Lucchesi Palli
- f.
735) si annota:
«Eodem [giugno 1758] - S.ta Rosalia - Predictus
Ill.mus et rev.mus U.J.d. D. Gerlandus Brunone accessit ad visitandam Ecclesiam
S.tæ Rosaliæ et dixit:
‘che fosse interdetta fin tanto, che gli altari
fossero provveduti delle necessarie suppellettili giusta la forma prescritta
dal nostro Ecc.mo Monsig. nelle sue istruzioni della Sagra Visita date in
stampa.
La
melanconica fine della gloriosa chiesa di S. Rosalia emerge burocraticamente dal Registro dei
Vescovi 1792-1793, ff. 570-571, giusta i seguenti termini:
[la parte della pag. 570 che
riguarda S. Rosalia reca a fianco
annotato: Non abuit effectum e risulta tagliata con un’ampia X, ma la lettura è
del pari interessante:] «Rev.do
Archip.tero terræ Racalmuti salutem. Restiamo intesi dalle vostre lettere
segnate sotto li 21. del mese cadente di Maggio in risposta al nostro
ordine colle quali ci rappresentavate,
che avendo fatto bandire (bandiare) la
Chiesa quasi diruta sotto titolo di S.ta Rosalia, non vi è stata alcuna
offerta; solamente codesto Sacerdote Don Salvatore Maria Grillo per sua
devozione vuole erigere l’altare a d.a
Santa entro codesta Venerabile Chiesa Madre a sue proprie spese una con tutti
quelli paramenti per decoro di d.o Altare conservandosi della cessione della
medesima Chiesa di S.ta Rosalia, e perciò avete a Noi ricorso per l’ordine
opportuno. Dietro il quale fu da Noi
fatta ‘provvista] quod fiat ordo Rev. Paroco prout conveni. In seguito di che vi diciamo ed ordiniamo che
obligandosi il Rev. di Grillo ad erigere il dovuto Altare con tutte le necessarie
decorazioni a proprie spese, ed al mantenimento del medesimo, passerete a stipulare il contratto
»
«Rev. Archip.ro Terræ Racalmuti
Salutem - Restiamo intesi delle vostre lettere [...] sotto li 21: del p.p. Mese di Maggio colle
quali ci partecipate di aver d’ordine
nostro fatto subastare per il corso di anni due la ven.le Chiesa di S. Rosalia quasi diruta, e
non è stato possibile rinvenire dicitore, che volesse far la sua offerta,
solamente codesto Rev.do Salvadore Grillo pella sua pietà
e devozione verso d.a gloriosa Santa , ed a preghiere anche dei devoti
s’indusse ad acconsentire di erigere d.o Altare e Cappella condecente e congrua
in codesta Venerabile Chiesa madre in onore di detta Santa uniformemente di ornato della stessa Chiesa una [f. 571]
... con tutte le decorazioni necessarie a d.o Altare e Cappella, conservandosi
della cessione della suddetta Chiesa di S.a Rosaria e Sagrestia annessa, quale
offerta fu da voi annunziata, dopo averla fatta mettere all’asta [ subastare?]
non fù migliorata da nissuno, e perciò chiede da Noi la licenza per poter
passare a stipular contratto di cessione di suddetta Chiesa e Sagrestia in
favor di detto di Grillo, obligandosi questo di far sud. Altare e Cappella,
con tutta la decorazione necessaria, ed a corrispondenza dell’ornato di detta
Chiesa, e come meglio per dette lettere. Dietro le quali fù da noi fatta
provvista quod fiat ordo Rev. Archip.ro prout concedit: In seguito di che vi
diciamo et ordiniamo che facesse fare la relazione ad un perito Maestro
Marammiere di quanto bisogna per l’erezione dell’altare colle dovute
decorazioni e valore della chiesa distratta, quale relazione la trasmettirete a
Noi. [...] Datis Agrigenti die 3 Junij
1793: Can. Thes.us Caracciolo Vic. Cap.ris , Can. Trapani cancellarius.»
Questo
sac. D. Salvatore Maria Grillo - che fa la permuta con la chiesa di S.
Rosalia - appare tra i sacerdoti officianti dell’Itria
a fine del secolo XVIII, anche se spesso si fa sostituire a pagamento da altri
sacerdoti nella celebrazione delle messe dovute per i confrati di quella
congregazione.
Nei
vari Censimenti custoditi in Matrice figura questo sacerdote, che risulta defunto nel 1806. Eccone qualche dato:
(dal
censimento del 1790)
103
|
Grillo
|
Nicolò
|
ROSALIA D.A M - ANTONIO 20 – D.
GAETANO 16 - D. GIROLAMO 28 - FILIPPA SERVA – CALOGERA SERVA
|
BARONE
|
104
|
Grillo
|
Salvadore
|
VENERA SERVA - CHIARENZA FRANCESCA SERVA - D. RAFFAELE 23
NIPOTE
|
|
(in quello del 1801, il gruppo familiare risulta così
ripartito)
·
Rev. Dn Salvadore Grillo - Dn. Raffaele nipote anni 34 - Venera serva -
Francesca serva.
·
D.n Girolamo Grillo - Dn. Francesca moglie.
·
D.n Antonino Grillo libero anni 24 - D.n Gaetano anni 30 - D.n
Francesca anni 32 - Filippa serva - Rosalia serva.
Il
sac. Salvadore Grillo è, peraltro, soggiogatario piuttosto diligente
della Matrice di Racalmuto, come appare nei libri
della Fabbrica, proprio durante la gestione del Procuratore Sac. Benedetto
Nalbone. Paga come
erede di un altro Grillo e, così, dopo il 1806 i suoi eredi.
Credo
che ai documenti vescovili prima riportati si riferisse il P. Morreale S.J a pag. 24 della sua op. cit. e da lì abbia
tratto la congettura di ubicare la chiesa di S. Rosalia «in fondo alle attuali vie Cavour e baronessa
Tulumello». Certo quel Sac. Grillo sembra appartenere alla nota famiglia baronale
che ebbe a concentrarsi attorno a quello che oggi viene indicato come ‘Arco di
D. Illuminato’, sopra il Collegio. Ma da qui a
collocare la chiesetta quasi
diruta - fagocitata per poche once da quel prete che tiene in casa una serva a
nome Chiarenza [antenata del prete garibaldino racalmutese?]
- nelle aree di dominio dei barone Grillo, ce ne corre.
Il
testo dell’Arciprete Genco vorrebbe accreditare il canonico Mantione come un dissennato piromane dei documenti comprovanti la nascita a Racalmuto di Rosalia. Quei
documenti non poteva distruggerli perché del tutto inesistenti. Se fossero
esistiti non sarebbero sfuggiti al puntigliosissimo inquisitore del card.
Doria, il p. gesuita Cascini. E gli si sarebbe
ulteriormente complicata la vita, già tutt’altro che agevole, dovendo far
collimare le tante dicerie sulla nascita di S. Rosalia. Dopo S. Stefano
Quisquina - tanto lontana dagli altri posti creduti quelli natali di S. Rosalia
come i centri reatini Rocca Sinibalda e Borgorose (un tempo Borgo Collefegato)
- ci mancava proprio Racalmuto per la quadratura di quel cerchio nativo di S.
Rosalia.
Il
can Mantione, però, una imperdonabile
colpa ce l’ha: per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima
testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa
Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa
in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del
Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed
una sacralità superiori allo stesso
interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva
permettere quello scempio. Era da
quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue.
I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano
accessibilissimi. Ai miei occhi, il comportamento di quell’Arciprete appare
incomprensibile. Un pozzo di scienza,
viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non
religiosa) verso la chiesetta di S.
Rosalia o Rosaliella gli riverbera una
poco esaltante ombra.
A
voler sintetizzare, abbiamo dunque un’antichissima chiesetta che risale, a
seconda delle varie versioni delle fonti,
al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente
quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali
agrigentine).
Nel
1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio viene riadatta, o
edificata (o riedificata) la novella chiesa di S. Rosalia che resiste sino al 3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac.
Salvadore Grillo essendo stata barattata dal can. Mantione per un altare con statua alla Matrice.
Ma
già nel 1758 quella chiesetta era in cattivo stato. Il vero culto della Santa
si era trasferito alla Matrice come attesta l’arc. Algozini nella visita pastorale del 1732. Vi si riferisce il § IX ove è inclusa
nell’elenco “delle processioni” quella di “S. ROSALIA”.
La vecchia chiesa di S. Margherita.
Scrive il
Pirri:
Antiquissimum est templum olim
maius S. Margaritae Virg. ab oppido ad 3 lapidis jactum, anno 1108 de licentia
Episcopi Agrigenti a Roberto Malconvenant domino illius
agri exctructum, praediisque auctum
Su
tale chiesa incombono le decime destinate al 18°. canonicatus S. Margaritae [talora 10° Canonicato di
Santa Margherita in Racalmuto]. Soggiunge il Netino:
«an.
1398, ob rebellionem Thomae de Miglorno Rex Martinus dedit Gerardo de Fimio in
lib. Canc. ind. 6. ann. 1398. f. 137. Capib. f. 316. habet mediam decimam
oppidi unc. 56.» Vi sono in questo passo richiami a documenti della Cancelleria
e dei Capibrevi di Palermo: per i Capibrevi cfr. quelli
pubblicati nel 1963 da Illuminato Peri [ Gian Luca Barberi -
beneficia ecclesiastica - a cura di Illuminato Peri - G. Manfredi Editore
Palermo - Vol. II , pag. 139]. Vi si legge: «canonicatus agrigentine sedis
prebenda sancte margarite rayalmuti - [316] - Cum ob rebellionem et
nephariam proditionem per presbiterum Thomam de Maglono canonicum agrigentinum
contra serenissimum regem Martinum Sicilie regem perpetratam canonicatus
agrigentine sedis cum prebenda ecclesie sancte Marie de Rayhalmuto agrigentine
dioecesis vacaret, rex ipse auctoritate apostolica sibi in hac parte
sufficienter impensa canonicatum ipsum cum eadem prebenda tanquam de regio
patronatu presbitero Gerardo de Fino contulit et
concessit, quemadmodum in ipsius domini regis Martini provisione in regie
cancellarie libro anni 1398. VI. inditionis in cartis 137 registrata diffusius
est videre.
Unde per verba illa, scilicet:
‘Auctoritate apostolica in hac parte nobis sufficienter concessa’ notandum est
quod Sicilie reges a summis pontificibus perpetuam habuerunt prerogativam et
potestatem conferendi omnia regni beneficia. invenitur enim reges ipsos non
tantum beneficia regii patronatus, verum etiam alia ad prelatorum et aliarum
personarum collationem spectantia contulisse, prout superius pluribus in locis
expositum est. Nunc autem anno 1511 currente.»
Sulla chiesa abbia detto alquanto
diffusamente prima. Per correntezza vi facciamo qui generico rinvio.
ARCIPRETI,
SACERDOTI, RELIGIOSI E LAICI IN OLTRE DUE SECOLI DI STORIA RACALMUTESE -
1500-1731
Dopo la venuta della Madonna del Monte
Ad Ercole succede nella baronia il figlio Giovanni (il
secondo di una serie che arriva a quota cinque). Reperibile a Palermo negli atti del
Protonotaro del Regno di Sicilia, un diploma che lo riguarda e che risale al 28
gennaio, VII^ Ind., 1519. In quel torno di tempo capitò ai Del Carretto un intreccio di fatti criminosi che un loro
pronipote, Vincenzo Di Giovanni, ebbe poi voglia di
raccontare in un suo volume dal titolo Palermo
Restaurato, buttato giù subito dopo la celebre peste del 1624.
L’intreccio
di omicidi e vendette fra nobili passò alla storia come il caso di Racalmuto, quasi celebre come quello
di Sciacca. Un Del Carretto, Paolo, aveva avuto un
contrasto con la famiglia Barresi di Castronovo ed al colmo della sua ira ebbe a
schiaffeggiare un membro di quella nobile casa. Apriti cielo! Quando codesto
Paolo Del Carretto con 25 cavalli andò a visitare don Ercole Del
Carretto, signore di Racalmuto, spie
avvertirono i Barresi che si mossero verso la piana di San Pietro per tendere un agguato. Ne scaturì una rissa
con morti dell’una e dell’altra parte. Paolo del Carretto, il più animoso di
tutti, brandiva a destra e a manca il suo pugnale per uccidere senza pietà. Ma
una saetta nemica gli si conficcò in fronte e cadde a terra morto stecchito.
I
Barresi poterono lavare l’onta subita ma dovettero
riparare all’estero, a combattere con il maresciallo di Francia Lautrec, temendo la ritorsione
della più potente famiglia dei Del Carretto. Passato un certo tempo, si
reputarono al sicuro e tornarono in Sicilia. Morto, frattanto, Ercole Del
Carretto, toccava al figlio
primogenito Giovanni l’incombenza della vendetta di famiglia. Giovanni I, neo
barone di Racalmuto, non se la sente di affrontare
di persona i Barresi. E’ in rapporti di grande amicizia con Enrico Giacchetto di Naro, manigoldo sopraffino, e
gli dà l’incarico di punire per suo conto l’oltraggio subìto. Enrico promette e
nella città di Termine stermina la famiglia Barresi, che aveva frattanto
abbandonato Castronovo. Le teste mozzate furono portate a D. Giovanni II a
certificazione della consumata vendetta. Il Del Carretto ebbe quindi fastidi dalla giustizia di allora
ma col tempo, per dirla con il cronista, “riuscì con vittoria, grandissimo
onore e reputazione.” [4]
Codesto Paolo del Carretto affiora negli archivi della Curia Vescovile
Agrigentina. E’ chierico, ossia un ordine minore del tempo che consente il
matrimonio ed una normale attività laica. Non certo quella criminale. E’
vessatorio verso Racalmuto, tanto che
pacifici cittadini - e persino un prete - gli fanno causa, nonostante i vincoli
feudali che si erano già affermati. [5]
Il
Sacerdote che contrasta con il chierico del Carretto è don Francesco La Licata, su cui abbiamo i dati
forniti dal documento datato 17 maggio 1512 - XV^ Ind., riguardante la consegna
di cedole della Curia Vescovile ai sindaci di Racalmuto Vito de
Grachio, Francesco de Bona, Jacobo de Mulé, Philippo Fanara, Salvatore Casuchia, Grabiele La Licata, Orlando de Messana, presbitero Franesco La Licata et Stephano de Santa Lucia, a seguito di istanze avanzate alla Gran Regia Curia. L'incarico promanava dal Vicario
Generale Luca Amantea ed è rivolto al Vicario di Racalmuto.
Il barone Giovanni II Del Carretto, avrà avuto la meglio sulla
giustizia terrena, ma nel suo Castello sopra la Fontana la sua coscienza gli
rimorse sino alla morte. Cercò di tacitarla facendo sorgere chiese e conventi
(San Giuliano, San Francesco, Santa Maria di Juso, il Carmelo). Ebbe ad essere
munifico con i preti. Dispose per un
avello dovizioso a San Francesco. Fece sorgere confraternite al Monte, a San Giuliano, nella
chiesa arcipretile di S. Antonio, a Santa Maria di Jesu. I carmelitani di padre
Fanara gli furono devotissimi. I minori conventuali
della custodia agrigentina ebbero beni ed onori e poterono officiare nella
sontuosa chiesa di S. Francesco. Proprio qui il barone avrebbe voluto la sua
tomba riparatrice. [6]
Ma la quiete dell’anima, in vita, Giovanni Del Carretto III non pare l’abbia mai raggiunta.
Abbiamo motivo di ritenere che il figlio Girolamo I - primo
conte di Racalmuto - ebbe poi voglia di titoli nobiliari
altisonanti, che molto denaro gli costò, troppo anche per le sue cospicue
disponibilità. Quella cappella, a nostro avviso, non la costruì mai: non emerge
dalla documentazione d’archivio, che pure è cospicua in ordine alla chiesa di
San Francesco. Per sottrarsi agli obblighi testamentari, che investendo cose di
chiesa potevano far scattare temibilissime scomuniche, fu tanto abile da fare incarcerare
dal compiacente Santo Ufficio il notaio redigente il testamento. Quel notaio si
chiamava - guarda caso - Jacobo Damiano, sì, proprio quello a cui
sia Sciascia sia E.N. Messana dedicano la loro anticlericale attenzione.
Il testamento che gronda spirito cristiano, bontà,
benevolenza verso i poveri, rispetto per il clero, devozione, e simili nobiltà
d’animo, noi l’abbiamo già pubblicato: la sua consultazione illumina sulla
storia (veridica e non fantasiosa) della prima metà del Cinquecento
racalmutese. Vi traspare il livello religioso della locale comunità ecclesiale,
il culto della Madonna e dei Santi, l’empito morale, la voglia di nuove chiese
in cui pregare (ed ove venire sepolti).
Nella prima metà del cinquecento sorgono le prime grandi
confraternite racalmutesi. Queste non sono da confondere con
le aggregazioni delle maestranze, come si è soliti pensare in forza delle
reminiscenze scolastiche. Le confraternite racalmutesi trascendono il dato
sociale: vi si associano, tutti insieme ed alla pari, nobili e plebei, mastri e
contadini, preti e laici. Hanno essenzialmente la funzione di assicurare la
“buona morte” - che equivale ad una sepoltura dignitosa e cristiana nelle
chiese che i sodalizi riescono a fabbricare con i mezzi propri e con l’apporto
economico determinante del barone locale.
Le confraternite amministrano anche i lasciti - cospicui - che
taluni arricchiti, morti senza prole o che intendono punire la poco affidabile
vedova, stabiliscono per testamento al fine di dotare un’orfana - purché
appartenente al loro ceppo familiare e sempreché sia povera (relativamente).
Le organizzazioni - decisamente laicali, anche se assistite
da un cappellano - disponevano di fondi pecuniari da far
fruttare. Finivano con lo svolgere attività intermediatrice, si configuravano
in modo assimilabile alle moderne banche. Investivano soprattutto in case che
affittavano e per contrassegno vi stampavano una figura richiamava, di norma,
la denominazione della confraternita, derivata dalla chiesa in cui avevano sede
sociale.
Stando alla visita del 1540-4 del vescovo Tagliavia, si
possono ricordare queste istituzioni:
·
Luminaria del Santissimo Corpo di Cristo,
istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che però essendo pressoché
distrutta - almeno nel 1540 - non era praticabile ed al suo posto operava
provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della Gloriosa Vergine
Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava
la detta luminaria sopra alcune case di Racalmuto, e cioè su 17
corpi di fabbricati, che si solevano locare per circa otto once, con affitti
peraltro crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere
e curava i legati.
·
Confraternita della Nunziata: ne erano i
rettori:
1.
Montana mastro Paolo;
2.
Cacciatore mastro Paolo;
3.
Santa Lucia Cesare;
4.
Vaccari Giovanni.
Aveva dodici once di reddito sopra diverse
case di proprietà, locate per dodici once.
*
Confraternita di Santa Maria del Monte: ne erano
rettori:
1.
Cacciatore mastro Pietro;
2.
Vaccari Pietro;
3.
de Agrò Mirardo;
4.
Fanara Adario.
Aveva quattro once e venti tarì di reddito
sopra diversi possedimenti terrieri.
·
Confraternita di Santa Maria di Gesù:
ne erano rettori:
1.
de Agrò Natale;
2.
Vurchillino (Borsellino) Antonino;
3.
Murriali Giuliano;
4.
de Alaimo Michele.
Aveva
dodici carpi di case in Racalmuto, locate per
dieci once all’anno.
·
Confraternita di S. Giuliano: ne erano
rettori:
1.
Curto Angelo;
2.
Lauricella Andrea;
3.
Curto Stefano;
4.
Picuni Antonino.
Aveva una certa rendita in denaro. Ai
rettori fu imposto di esibire il legittimo inventario, sotto pena d’interdetto.
Le confraternite racalmutesi appaiono come peculiari
organizzazioni economiche, con un patrimonio immobiliare abitativo estesissimo,
quasi monopolistico; fungono da banche con prestiti a tassi contenuti, quelli
ammessi dalla chiesa; amministrano i fondi di dotazione per il matrimonio di
orfane povere; e principalmente lucrano con le incombenze della sepoltura dei
morti nelle chiese di loro proprietà. Emergono, comunque, due singolari e sorprendenti caratteristiche:
la prima è una spiccata laicità, quasi si temesse una indesiderata
sopraffazione ecclesiastica. Si badi bene, il sacerdote è bene accetto, ma esso
deve limitarsi alla parte spirituale; è il cappellano che dice messa - a pagamento - ed accudisce
agli atti di pietà quotidiana. La gestione economica e societaria è però di
esclusivo appannaggio dei laici: il governatore, i rettori e figure simili.
L’altra caratteristica è un interclassismo del tutto inusitato per i tempi. I
cosiddetti “magnifici”, o i “mastri” o i semplici ‘villani’ convivono in un
solo sodalizio senza preminenze e senza subordinazioni d’indole classista. C’è
chi fa derivare da tali aspetti una forma di vita religiosa racalmutese, senza
dubbio sincera e sentita, ma con venature anticlericali. E’ tipicamente
racalmutese il motto: “monaci e parrini, vidici la
missa e stoccaci li rini”. Atavica dunque a Racalmuto la separazione tra il mondo di Dio, della
religione, della chiesa e quello del consorzio civile specie sotto il profilo
economico e sociale. Al contempo, il classismo - o come vorrebbe Gramsci la
coscienza di classe - non ha molto senso nella ‘dimora vitale’ racalmutese e da
sempre. Solo nell’Ottocento gli arricchiti dello zolfo pretesero una loro egemonia accompagnata a
prestigio sociale; si ritennero “galantuomini” e si associarono in loro
esclusivi circoli. Nel Novecento tale discriminatoria suddivisione sopravvisse,
con i tratti - spesso buffi, e talora beffardi - che Sciascia seppe mirabilmente rappresentare nelle Parrocchie di Regalpetra. Ma tra i vari Circoli
Unione o della Concordia e le antiche confraternite
cinquecentesche non v’è analogia alcuna.
Le
confraternite - che sappiamo essere diffuse in tutta la
Sicilia - non vantano ancora una sufficiente pubblicistica, diversamente da
quello che avviene, ad esempio, in Francia. Ci pare che solo il padre Sindoni
di Caltanissetta se ne sia occupato. Alla Matrice sono conservati Rolli ed altri documenti di
minuziosa ricognizione della lunga vita di siffatte confraternite. Nessuno,
sinora, li ha studiati. Qualche spurio accenno si trova nel libro di padre
Morreale sulla Madonna del Monte. [7] Pur nel
massimo rispetto per quel grande gesuita, ci pare però che l’approccio è
fuorviante ed il peculiare fenomeno racalmutese delle confraternite sfuggì
all’intelligenza del colto studioso.
* * *
Nel
1576 Racalmuto assurge a conte a e vi si insedia il barone
Girolamo Del Carretto, nel frattempo trasferitosi
a Palermo [8]. Con riferimento a codesto
Del Carretto, assurto
dopo tredici anni di baronato racalmutese, al prestigioso titolo di conte - ma
lui brigò per il marchesato - Sciascia vibra nelle sue Parrocchie di Regalpetra (pag. 17), le seguenti scudisciate:
«Ammazzato,
da due sicari del barone di Sommatino, morì anche il padre di Girolamo, uomo
anch’esso vendicativo ed avido. Il primo Girolamo [appunto quello di cui
parliamo] fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per
lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un
privilegio che elevava Ragalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non
sappiamo molto: fu pretore di Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione
seu presunzione”, come afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani
contro la sua autorità. Né mi pare sia da ascrivere a sua gloria il fatto che
per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento,
trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza
commento offre il già ricordato erudito racalmutese [cioè il Tinebra Martorana, n.d.r.]»
Per
amore di verità, Girolamo, primo conte di Racalmuto non poté avere dato l’ordine delle frustate ai
trenta facchini per il semplice fatto che era morto da sedici anni, essendo
deceduto nel 1583[9]. Viveva a
Palermo nel 1600 Giovani IV del Carretto, figlio di Girolamo I. Il
pasticcio di ritenere pretore di Palermo, nel 1600, Girolamo I del Carretto che
era morto da sedici anni, lo confezionò il Villabianca, che a dire il vero,
appena se ne accorse cercò di rimangiarselo. Ma lo fece in modo così maldestro
che ancora nel 1924 il San Martino de Spucches continua nell’errore
villabianchiano. Poco male se il Tinebra Martorana non se ne accorse. Forse Sciascia, poteva
essere più avveduto: per lui - ed è ovvio - la vicenda dei Del Carretto aveva senso solo se suggeriva metafore
letterarie.
Un
passo della Morte dell’Inquisitore ci pare invece perspicace ai fini
dell’inquadramento storico di questa congiuntura racalmutese (pag. 183): «..
dai documenti del Garufi sappiamo che a Racalmuto c’erano, nel 1575, otto familiari e un
commissario del Sant’Uffizio; e due anni dopo dieci
familiari, un commissario e un mastro notaro: su una popolazione di circa
cinquemila (il Maggiore-Perni dà 5.279 abitanti nel 1570, 3.825 nel 1583: per
quanto queste cifre siano da accettare con cautela, si può senz’altro ritenere
attendibile la flessione [10] ). Vale a
dire che il solo Sant’Uffizio aveva una forza quale oggi, con una popolazione
doppia, non tengono i carabinieri. Se poi aggiungiamo gli sbirri della corte
laicale e quelli della corte vicariale, e le spie, ad immaginare la vita di
questo nostro povero paese alla fine del secolo XVI lo sgomento ci prende. Ma
di racalmutesi caduti nelle grinfie del Sant’Uffizio, prima di fra Diego, ne
troviamo uno solo: il notaro Jacobo Damiano, imputato di opinioni
luterane ma riconciliato nell’Atto di
Fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563. Riconciliato : cioè, per manifesto e pubblico pentimento, assolto;
ma non senza pena ...».
Per
quello che si è visto nel corso di questo lavoro, di sacerdoti racalmutesi
addetti al Sant’Uffizio, ne abbiamo trovati
parecchi, ma solo a partire dai primi anni del ’Seicento sino ad arrivare
all’ultimo che è stato don Francesco Busuito, morto il 29 gennaio 1802 all’età
di 74 anni.
Durante
il baronato e la contea di Girolamo I Del Carretto, fu intensa la vita civica
a Racalmuto. Era da tempo che i
vassalli si erano ribellati alle imposizioni feudali, specie quelle del
cosiddetto terraggio e terraggiolo. Da ambo le parti erano state sostenute
ingenti spese. Un accordo fu trovato il 15 gennaio 1580 (9^ ind.).
E
prima, nell’ anno 1577, al suono della campane i racalmutesi si erano congregati nella chiesa dell’Annunziata
per cercare un alleggerimento di imposta da parte viceregia, dati i calamitosi
tempi seguiti alla peste di alcuni anni prima. Si era avuto il necessario
avallo di Girolamo Del Carretto.
Girolamo
I Del Carretto non solo, dunque, non fece frustare nel 1600 i
facchini di Palermo (diciamo, per precedente morte), ma appare piuttosto
benigno verso i suoi vassalli di Racalmuto.
Gli
subentrava, alla morte, il figlio primogenito Giovanni IV Del Carretto. Questi fu irrequieto e non
si astenne persino dall’omicidio. E’ lui il mandante dell’attentato al Cannita,
su cui si dilungano gli storici locali. E’ lui che finisce nel carcere di
Castellammare di Palermo, ove era detenuto anche il poeta Antonio Veneziano (perirà questi; si salverà Giovanni del
Carretto e Sciascia causticamente punzecchia). E’ lui che ha una
caterva di sorelle cui garantire il “paragio” (fra le altre la celebre donna
Aldonsa del Carretto, la fondatrice del convento di Santa Chiara a Racalmuto); un figlio spurio di nome
Vincenzo diventerà arciprete di Racalmuto nel 1608; l’altra figlia
illegittima si sposerà con Girolamo Russo, divenuto governatore del Castello racalmutese. E contro di questi
si catapulterà, con la sua pingue mole, il vescovo agrigentino, approdato dalla
Spagna, Horozco Covarruvias.
Giovanni
IV Del Carretto male visse e peggio morì: trucidato in un
attentato a Palermo, lasciò come erede
l’infelice Girolamo II Del Carretto, occisus a servo diceva una pergamena custodita entro il sarcofago
del Carmine, e suo nipote Giovanni V Del Carretto fu giustiziato a Palermo nel 1650. (Tra
quest’ultimo Giovanni e Girolamo II, storici poco accorti hanno intrufolato un
altro Giovanni o un altro Girolamo che è solo frutto di confusione e di scarsa
avvedutezza nella ricerca storica; anche Sciascia vi casca, ma - ripetesi - lo scrittore non si
ritenne mai un erudito di storia locale). L’aneddotica è ricca e non è questa
la sede per ripercorrerla. [11]
Nel
Cinquecento la storia religiosa racalmutese ha punte di rilievo: inizia nel
1554 un’attività archivistica che risulta oggi un patrimonio unico e mirabile
per chi voglia investigare sullo sviluppo demografico del paese. Sono
cappellani e preti, eruditi e diligenti che in registri annotano i fatti della
vita locale. Una cultura che ravviva la terra misera e tragica del grano e del
vino. Sono governatori e rettori delle confraternite che trascrivono nei loro rolli atti e
testamenti, disposizioni varie e consegnano alla memoria futura i momenti
operosi dei nostri antenati di quel tempo.
Racalmuto conta all’inizio del secolo appena 1670
abitanti ed a chiusura siamo attorno a 4448. Dal 1554, l’evolversi cittadino è
segnato passo passo dai tanti deprecati preti: un merito tanto grande quanto
misconosciuto. Noi abbiamo spigolato per ricordare di costoro tutto quanto ci è
stato possibile sapere.
L’efferata
esecuzione antisemita che abbiamo sopra rievocata avvenne nel 1474, quando
vescovo di Agrigento era Iohannes de Cardellis seu Cortellis, un
benedettino che era stato abbate del Monastero di S. Felice in Bruxelles e che
nel 1479 si trasferirà a Patti. Quale peso abbia avuto nel reggere la diocesi,
non è dato di sapere. In precedenza, aveva governato la chiesa agrigentina il
Beato Matteo de Gimmara, noto per il suo furore nel volere
convertire gioco forza gli ebrei agrigentini. Su quell’onda lunga, poté
maturare il misfatto contro il povero Sadia di Palermo. Gli ebrei
saranno cacciati dall’agrigentino in coincidenza con la scoperta dell’America,
nel 1492. La Racalmuto del 1500 era stata dunque ‘epurata’ dei pochi
ebrei ivi stanziatisi, forse con una conversione imposta.
Ercole
Del Carretto vuol apparire devoto alla Madonna; non avrà
voluto grane con gli ecclesiastici ed i suoi vassalli di colpo saranno divenuti
ferventi credenti, del tutto ignari di che cosa significasse la circoncisione.
Neppure si dovevano rinvenire i celebri marrani: tutti credenti, tutti ariani,
tutti cristiani di antica data. Nelle grinfie del Sant’Uffizio, il primo racalmutese - che
poi era agrigentino - è stato alla fine del secolo il notaio Jacobo Damiano, come afferma Sciascia, per di
più sospetto di essere un luterano. Sangue puro, anche lui, dunque.
Nel
1537 diviene vescovo di Agrigento il nobile Pietro de Tagliavia de Aragona. Apparteneva alla
potentissima famiglia dei Tagliavia signori di Castelvetrano. Passerà a reggere
la prestigiosissima chiesa metropolitana di Palermo. Giulio III lo eleverà alla
porpora cardinalizia.
Il
Prelato, nel 1540, manda i suoi visitatori episcopali a Racalmuto e costoro diligentemente ma in modo angusto e
burocratico redigono alcune paginette di relazione. E’ la prima descrizione
dello stato delle chiese, o meglio è un elenco delle dotazioni, dei “jocalia”
posseduti.
Tre
anni dopo, il 9 giugno del 1543, il vescovo Tagliavia si reca in pompa magna in
questa nostra terra. Sarà stato senza dubbio ospite nel Castello del nobile
Giovanni II Del Carretto. Della Visita si fa un
processo verbale, ma molto stringato; comunque ne scaturisce un quadro generale
del clero e delle confraternite di Racalmuto, basilare per una ricostruzione
storica di quel tempo.
Quante
chiese fossero aperte a Racalmuto a metà del Cinquecento, come erano dotate,
quali sacerdoti avessero ruoli egemoni ed uffici di risalto, quali le rendite,
chi aveva le primizie e chi le decime, ecco un contesto che scaturisce dal
latino incerto di quel pur notevole documento.
In
precedenza nel 1520, quando vescovo di Agrigento era Iulianus Cibo, era scoppiata la grana
della successione dell’arciprete Giacomo de Salvo. Questi, morto anni prima,
aveva lasciato dei beni. Chi subentrava ne reclamava il possesso. Le
postulazioni di prelati e di legati palesano il modo scopertamente simoniaco
con il quale l’arcipretura di Racalmuto transitava da un beneficiario all’altro. E la
corte papale trovava tempo ed interesse ad assegnare quel lontanissimo e
sparuto beneficio a protetti, o raccomandati o forse semplicemente acquirenti
del giro dell’ entourage papalino.
Il
mercimonio si ripete nel 1561 con la nomina ad arciprete di Racalmuto del sacerdote don Gerlando d’Averna, che, se
bene interpretiamo i dati d’archivio della Matrice, era un agrigentino. Prima
non abbiamo mancato di riportare ed illustrare i documenti, sinora inediti, che
ci rendono edotti di questi spunti di vita ecclesiastica racalmutese. Una
caterva di preti con quel cognome piombano da noi, trovando mansioni
remunerative. Anche parenti laici seguono il classico ‘zio prete’ e mettono su
famiglia; nel tempo il cognome diviene più prosaicamente Taverna. Tra il
D’Averna ed il Taverna, i registri della Matrice oscillano per un paio di secoli almeno.
Al
D’Averna subentra, nell’arcipretura, il sac. Michele Romano, che muore
il 28 luglio 1597. In vita appare un arciprete diligente ed assiduo. Propendiamo per la sua
origine racalmutese. Lascia comunque un cospicuo “spoglio”. Il solito vescovo
Horozco ne esige la consegna. Ma, più potente ed
ammanigliato, sarà il conte Giovanni IV Del Carretto ad avere la meglio nella vertenza giudiziaria,
potendo questi vantare i suoi diritti feudali.
Si
rifece il vescovo nominando arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio - un napoletano girovago che aveva
favorevolmente testimoniato in Spagna nel processo concistoriale per la
concessione della mitra vescovile. Divenuto il Capoccio segretario del neo vescovo agrigentino, deve
trattare con la curia romana per uscire dalle pastoie delle “relationes ad
limina” che il Concilio di Trento imponeva agli ordinari con cadenza triennale.
Nelle carte dell’archivio segreto del Vaticano, lo rinveniamo varie volte,
presente a Roma. Non ha quindi tempo di recarsi a Racalmuto, neppure per
prendere possesso del beneficio. Vi manda suoi delegati, dei canonici che appaiono in uno scandaloso processo per
sodomia in cui sono coinvolti ecclesiastici di Cammarata.
Mons.
De Gregorio, e dopo di lui lo storico
Manduca, tendono ad esaltare quest’ordinario spagnolo. Chissà perché i colti
sacerdoti, quando fanno storia, credono che debbano fare apologetica. Chiosare
le mende di un vescovo indegno che fece arrabbiare il papa (una annotazione
pontificia autografa degli archivi vaticani lo attesta inequivocabilmente) non
è poi atto riprovevole, se a compierlo è magari un ecclesiastico.
Tra
le carte segrete romane, un cappuccino, uomo del celebre vescovo Didacus de
Avedo (Haëdo) - il vescovo del Sant’Uffizio, ordinario prima di
Agrigento e poi di Palermo, scarnifica il pingue presule spagnolo con staffilate
feroci. Un libello mandato al papa lo vorrebbe:
Scandaloso et scommunicato; Disobediente et lascivo; Scandaloso; (coinvolto in un ) Homicidio; Disobediente
della Sede Apostolica; Concurso à laici; Contra il Motu proprio di Sisto;
Usurpatore; Subornatore; Scommunicato; Cupido;
(affetto da) Pazzia; Sordido; Cupido - Archimista.
E
per ognuno di questi epiteti, giù una sfilza di fatti, apprezzamenti,
insinuazioni, miserie umane. Non fu certo un caso che lo spagnolo Horozco Covarruvias, imposto dal re Filippo II di
Spagna, riuscì a lasciare il vescovado agrigentino per pressioni e
raccomandazioni regali e dovette accontentarsi della più angusta diocesi di
Cadice, a metà rendita.
Ebbe
la beffa di vedersi bruciato un libro, intitolato De Rebus suis, per ordine del Papa, che lo aveva messo all’indice
in quanto era un libercolo calunnioso verso la potente famiglia dei Del Porto,
ed altri notabili agrigentini. Il Pirri tramanda che il vescovo Didacus de Haedo suum trasmisit vicarium Franciscum Byssum Agrigentum;
qui convocato in aede Cathedrali populo die festo coram ipso Episcopo libros
flammis vorandis tradidit.
Il
Pirri si era prima lasciato andare ad apprezzamenti
lusinghieri sul Covarruvias,
dichiarandolo uomo di grande erudizione. Invero, il presule spagnolo si
faceva tradurre in latino da Sebastiano Bagolino i suoi claudicanti versi. In
compenso beneficiò il fratello del poeta siciliano, che era sacerdote, con i
beni di S. Agata di Racalmuto. E così i pii legati dei
fedeli del nostro paese servirono per pagare gli uzzoli letterari di uno
scervellato, che indegnamente occupava
la cattedra di S. Gerlando.
* * *
Il
Capoccio fu arciprete di Racalmuto per lo spazio di un mattino: inviati i suoi
messi don Vito Bellosguardo e don Antonino d’Amato il 16 luglio del 1598, ben
prima del marzo del 1600 deve far fagotto. Gli subentra don Andria Argumento,
che prende possesso “di la maiori ecclesia di Racalmuto” appunto il 7 marzo
XIII ind. 1600.
Il
Capoccio era oriundo napoletano. Come mai, dunque,
riesce ad accaparrarsi le pingui “primizie” gravanti sui martoriati contadini
racalmutesi? Ci viene in soccorso l’archivio segreto vaticano. Abbiamo
curiosato nel processo concistoriale per l’elevazione a vescovo di Agrigento del mezzo ebreo Horozco. Il Capoccio vi appare come un perdigiorno, un avventuriero
finito chissà perché in quel di Spagna. Si dà da fare e fornisce la sua
testimonianza nel canonico processo che si instaura per la elevazione alla
dignità episcopale del toletano. Aveva, questi, una macchia - per l’epoca - da
tenere nascosta: pena l’indegnità e la non eleggibilità. Non aveva proprio la
cosiddetta limpeza de sangre: la madre Maria Valero de Covarruvias era di
origine giudea. Il prescelto aveva conseguito appena gli ordini minori il 30
aprile 1573 ed eccolo subito canonico priore della cattedrale di Segovia, senza
essere ancora sacerdote (l’ordine maggiore lo conseguirà il 12 maggio 1573).
Regge il vescovado di Segovia durante la sede vacante e diviene quindi
arcidiacono di Cuéllar. I suoi meriti sono solo quelli della sua famiglia che
annovera importanti canonisti e umanisti come Diego e Antonino Covarruvias o
come Sebastiano che fu cappellano del Sant’Uffizio.
Un
siffatto giovanotto è destinato ad una folgorante carriera: il re di Spagna
Filippo II lo impone a Clemente VIII che non può fare a meno di elevarlo a
vescovo titolare della prestigiosa cattedra di S. Gerlando. Da un borgognone ad
un toletano!
Ma
la forma è forma: s’imbastisce il rituale processo in Spagna. Tra i testi,
riesce a intrufolarsi il napoletano Capoccio il cui unico titolo è quello della pretesa
conoscenza delle cose della Cattedrale di Agrigento presso la quale aveva anni
prima brigato. La deposizione del Capoccio è vaga, imprecisa, reticente, incompetente;
eppure è sufficiente per fugare gli ostacoli del vigente diritto canonico.
Giunto
in pompa magna ad Agrigento, il giovanotto toletano, pingue oltre ogni dire,
basito, che sa parlare solo in spagnolo e non comprende né latino, né la lingua
italiana, né, tampoco, il vernacolo siciliano, viene raggiunto dal compiacente
spergiuro d’origine napoletana.
I
Napolitani, i cui meriti tutti riconoscono ma i cui difetti non possono
ignorarsi, sono come sono: non sarà parso vero al partenopeo Capoccio di ricattare il neo-vescovo per quella
testimonianza spagnola, secretata nei suoi particolari, ma ben presente nella
memoria dell’Horozco: una resipiscenza, un pentimento del teste spergiuro ed
ecco la revoca!
Capoccio viene subito tacitato con la nomina a
segretario; gli vengono affidate locupletanti missioni nell’ostile corte
papale. Non basta: i benefici arcipretali racalmutesi sono suoi. E’ lo stesso
Horozco che nelle sue relationes ad limina a ragguagliarci della molteplicità e
cospicuità di tali gravami ecclesiastici sulla disastrata Racalmuto.
Scrivono
il Nalbone ed il Taverna (op. cit.):
Dalla
documentazione vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era
in grado di “ingabellare” 9.500 onze di
rendita diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato
in causa:
· al 15° posto risulta censita la “prebenda di Racalmuto che vale di
Mensa onze 130”;
· tra i “Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3 viene
rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al Teologo quale eligino il
Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata [che sappiamo di
Racalmuto, come sappiamo che talora il vescovo la utilizzava
non per remunerare teologi ma il fratello di un letterato, per come abbiamo
sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100[12];
· l’arcipretura di Racalmuto è segnata al n°
12 e “vale de mensa onze 250”.
Tirando le
somme, i racalmutesi a fine secolo XVI erano chiamati per decime religiose e
tasse episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti
gli oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era
un gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.
Ma, allora
- come del resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non
amavano riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in
gabella, recita il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto
ascendessero. Pensare ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.
Il
Capoccio non é però uomo di valore: lo scontro con gli
eventi - che sono aspri, scorticanti, tragici - lo spoglia ed il re appare
nudo: uno spettacolo avvilente. L’Horozco lo caccia via e del napoletano non si
sa più nulla.
L’appetibile
arcipretura di Racalmuto viene affidata a tal Andria Argumento: non
racalmutese, di certo; siciliano ad ogni buon conto. Costui si insedia a
Racalmuto, come detto, il 7 marzo XIII
ind. 1600. Lo troviamo nel sinodo di Giovanni Horozco del 1600-1603: al n.° 7 dei nuovi esaminatori
sinodali viene eletto il nostro arciprete che può vantare un dottorato in entrambi i
diritti.
In
quel sinodo fa capolino don Vito Belguardo che era venuto a Racalmuto come mandatario del Capoccio: ora è
canonico con la dotazione della seconda rendita del porto. Dagli incarichi
sinodali è puntigliosamente bandito il Capoccio (morto o cacciato via da Agrigento?).
Se
Racalmuto ha mantenuto una fede profonda ed
incontaminata nonostante l’aggrovigliarsi di siffatti poco commendevoli episodi
che sanno per noi moderni di simonia, si
deve agli umili sacerdoti autoctoni che sommessamente, ubbidientemente, senza
orpelli onorifici, hanno predicato la parola del Signore ed hanno saputo
inculcare nel popolo l’insegnamento della Chiesa. A costoro va la perenne
gratitudine. Abbiamo cercato di riesumare le poche notizie che su di loro sono
ancora reperibili nei polverosi archivi (della Matrice di Racalmuto, o dell’Archivio Vescovile di
Agrigento o dell’Archivio di Stato di Agrigento). Il nostro dilungarci su tali
aspetti, dovrà essere giustificato da tale intento gratificatorio.
* * *
La
microstoria racalmutese del Secolo XVII è fitta di notizie: anche l’esigente
Sciascia ammette che ora, sia pure per una felice
congiuntura, la storia locale diviene da appena avvertibile in “narrabile”.
Nell’aprire la mostra di Pietro d’Asaro, lo scrittore racalmutese,
non mostra soverchia considerazione della tanta storia presecentesca e concede
la sua attenzione solo a quattro personaggi secenteschi: « ... ora voglio
parlare - ebbe a dire - di un piccolo paese, “lontano e solo”, come sperduto
nel val di Mazara, diocesi di Girgenti, che dall’oscurità dei secoli
emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe
“narrabile”, da “descrivibile” che appena e soltanto era, grazie alla
simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa “bella” e vi profonde il
suo denaro, di un pittore, di un medico illustre, di un teologo; e di un
eretico.»
E’
una visione troppo riduttiva, ai nostri occhi, ma è di sicuro mirabilmente
provocatoria.
Non
pensiamo che il prete Santo d’Agrò sia quello in preda a “deliri erotici”, ad “alumbramiento”; né che Pietro d’Asaro sia stato più un confidente del Sant’Uffizio che un pittore (anche se la sua arte non può
essere magnificata, come oggi è di moda); né che Marco Antonio Alaimo sia stato un grande medico (ebbe più celebrità
di quanto meritasse); né che Pietro Curto vada al di là di una qualche
infarinatura di “scienze metafisiche”; né, tanto meno, che Diego La Matina, cui va la nostra umana
pietà, sia stato un eretico di grande statura intellettuale e morale, (per
noi: modesto gaglioffo, nerboruto e
sensuale, che non sapendo assuefarsi alla rigida regola del periferico convento
di S. Giuliano - specie in materia di alimentazione
quotidiana - trasmigra a Palermo, sull’onda della rivolta di Giovanni V del Carretto, e vi trova sgherri,
carcerazione e la esiziale attenzione del Sant’Uffizio).
Povero
fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la
sventura di finire in un convento che già nel 1667 ([13]) si
tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione
vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia
omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace,
oggetto di letterarie e fantasmatiche mistificazioni.
Lo
si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita
tale lo indica il suo accusatore dell’Inquisizione. Gli si attribuisce un atto
di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile
svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 e, palesemente,
non si ha consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si
sarebbe saputo che la chiara annotazione della quarta indizione corrispondeva
appunto al 1621. E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al
La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante
del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo
Sciascia non avrebbe potuto sproloquiare sui vezzi
astrologici del Padre Matranga ([14]).
Lo
si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del
pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le ladronerie del monaco agostiniano: scrive da
cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il
valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa
precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a
proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si
deve credere all’Inquisitore quando arraspa nel retorico addebito al frate di
colpe dello spirito (bestemmiatore
ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego ..
eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie
svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli
credito quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al
quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo
degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco,
dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato
dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al
Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale
considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Bazzicando
l’archivio segreto del Vaticano si possono acquisire notizie sul vescovo
spagnolo di Agrigento Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel
1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119
al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e
prepotente famiglia dei Del Porto del capoluogo agrigentino.([15]) Da un
contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti,
affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale
per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è
personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo
a quello messo sotto accusa da Scaiascia - doveva pure intendersene. Dalle sue
querule relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo
illuminante passo: «Nella Diocese, che è
molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per
godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta
anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non
si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali
e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno,
vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si
ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico
che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([16]).
Alla
luce di queste considerazioni coeve, ci pare che avesse proprio ragione
Leonardo Sciascia a autodefinirsi nella « Morte dell’Inquisitore» uno
‘sprovveduto’ sull’argomento.
Un
contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di
Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo infilza «come uomo talmente intrigato al
Sant’Uffizio, e così ben visto dagli
inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il
beato Agostino Novello fosse nato a Termini». L’intrigato dottore acquista,
però, tutta intera fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le
grinfie dell’Inquisizione per avergli trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti
spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per
l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto
inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il
fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe
tornato oltremodo comodo per la sua accusa, anziché abbarbicarsi a tortuosità
per conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo
scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe
fortuna. «Volentieri - scrisse con tòcco blasfemo - [si sarebbe dato] al
diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali,
ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del
processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus
delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il
Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto
più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe
stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma
Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena
ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo grado degli
ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra
messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non
procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’
e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità,
ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una
fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il
gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non
approda al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene
conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo. A quei tempi, essere sorpresi a
“scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti
del processo di beatificazione del contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si
rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi
aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro
cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre
predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin
fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La
Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di
non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la
promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro
avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’
ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul
posto. ([17])
Il
latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai
primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata,
pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della
Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi
alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio:
era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’
- un uomo di 42 anni di nome Nalbone - «susceptis
sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae
regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et
resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit]
in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il
Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale
della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto
tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo
Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ([18])
Il
Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo,
per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al
brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la
Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco al
Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga.
Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra
Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale
dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23
anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga
fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio
che lo si rigiri come meglio aggrada,
resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione
oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel
tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo
alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla
sfrenata, libertina.
«Siamo
convinti, - scrive Sciascia, nella
“Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 -
convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben
riuscire a fare di uomo religioso, che
dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di
coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente
religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin
troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto
scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale
dell’Inquisizione non era migliore degli
altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara
nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le
pagine del Di Giovanni in “Palermo Restorato” così lapidarie nel
descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte
d’Albadalista, e darsi in pasto
all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [19]
E
la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si
dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata.
Stigmatizziamo quell’esecuzione capitale, ma, per favore, parlare di martirio,
è blasfemo.
La
mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa: terziaria
francescana, fu di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati
racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza
alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come
un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”.
L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava
opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.
* * *
Altri,
comunque, sono per noi i protagonisti della storia (o microstoria), civile e
religiosa, della Racalmuto del Seicento: i dieci arcipreti che si sono
succeduti nel secolo; i tanti umili sacerdoti che si sono contraddistinti nelle
opere di carità in quei calamitosi tempi, divenuti memorabili (e narrabili) per
pesti, morte, miseria, sfruttamenti feudali, e talora neghittosità prelatizia;
gli artefici delle sordide pretese dei signori del Castello; ed altri.
Chi
furono di dieci arcipreti? Il seguente elenco è tratto dagli studi del Nalbone:
1600
|
ANDREA
|
D ' ARGUMENTO
|
ARCIPRETE
|
1602
|
ANDREA
|
D ' ARGUMENTO
|
ARCIPRETE
|
1608
|
VINCENZO
|
DEL CARRETTO
|
ARCIPRETE E NEL
1622 BENEFICIALE E
|
1613
|
PIETRO
|
CINQUEMANI
|
RETTORE e poi
nel 1614 ARCIPRETE
|
1615
|
FILIPPO
|
SCONDUTO
|
ARCIPRETE
"incipit januari 14 ind. 1615"
|
1616
|
FILIPPO
|
SCONDUTO
|
ARCIPRETE
|
1632
|
GIUSEPPE
|
CICIO
|
ARCIPRETE
|
1634
|
ANTONINO
|
MOLINARO
|
VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
|
1645
|
TOMMASO
|
TRAJNA
|
ARCIPRETE D.S.T.
|
1645
|
PIETRO
|
CURTO
|
ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
|
1649
|
POMPILIO
|
SAMMARITANO
|
ARCIPRETE
|
1654
|
POMPILIO
|
SAMMARITANO
|
ARCIPRETE S.T.D.
|
1654
|
GIUSEPPE
|
TRAINA
|
PRO-ARCIPRETE SETTEMBRE 1652
|
1668
|
VINCENZO
|
LO BRUTTO
|
ARCIPRETE
|
1677
|
VINCENZO
|
LO BRUTTO
|
ARCIPRETE a 41
|
1697
|
FABRIZIO
|
SIGNORINO
|
ARCIPRETE
|
Come
si vede, il sacerdote Pietro Curto vi figura come arciprete di Ventimiglia (diocesi di Palermo) e non come
colui «che si distinse - parola di Sciascia - a Palermo nelle scienze metafisiche, e che
nel 1656 pubblicò un Corso filosofico
che spiegavasi in quei tempi nel Collegio massimo dei Gesuiti, che crediamo
essere stato quello di Palermo». En
passant, il sacerdote Pietro Curto morì il 30 giugno 1647 (cfr. il vario
volte citato Liber in quo adnotata ...della
Matrice, colonna 3 n.° 52).
Racalmuto, dunque, si affaccia al
cupo XVII secolo con una popolazione di 4500 abitanti circa e ne esce con
cinquemila fedeli (parola del vescovo Francesco Ramirez, quello che travolse
Racalmuto nell’interdetto fulminato per la celebre controversia liparitana).
Una crescita limitata, forse per le angherie dei Del Carretto, come vorrebbe Sciascia, ma forse
per le due tremende pesti, quella del 1624, molto nota, e quella che dura dal
settembre del 1671 all’agosto del 1672 e che sterminò un quarto della
popolazione; i morti furono 1260 ed il povero arciprete Lo Brutto, in un momento di profondo
sconforto, annotò sul libro dei morti:
INCIPIT INDICTIO Xa
AMARISSIMA - In anno milleximo sexcentesimo spetuagesimo primo - INFAUSTISSIMO
La
Chiesa racalmutese esordiva sotto la sconcertante giurisdizione del vescovo
Horozco e finiva il secolo con una esplosione di preti,
conventi, e religiosi del Benefratelli che insediatisi per predilezione di
Girolamo III Del Carretto nell’ospedale di S. Giovanni di Dio,
scialacquavano le rendite e lasciavano i malati abbandonati a loro stessi.[20]
La
pagina del vescovo Ramirez sui preti-esattori dei baroni colpisce ancora:
vi sono rappresentate le stigmate dei mafiosi - purtroppo, quelli vecchi -
nell’esordio del loro affermarsi nelle plaghe dell’agrigentino: una
consacrazione, una profanazione del sacro ordine, un ascendente sacerdotale sul
succubo mondo contadino, un potere mutuato dalle autorità dal barone dal
politico dal banchiere, l’esercizio di un potere feudale, da un lato;
un’organizzazione criminale, un’ abitudine alle armi ed a sapersene servire per
intimidazione, assoggettamento, estorsione. Un sincretismo (blasfemo ed
agghiacciante) tra religione, crimine, affarismo e prossenetismo politico e
giudiziario. Mafia e antimafia messe assieme. Veste sacra e schioppo omicida al
servizio del feudatario per lo sfruttamento delle masse contadine. Abbiamo gli
embrioni di un’organizzazione che si equipara e sostituisce lo Stato; un
ordinamento - direbbe Sante Romano - che sa acquisire quasi l’eticità hegeliana.
L’analisi
del Ramirez - per quel che ci risulta - non è stata mai
considerata dai colti della mafia e dell’antimafia. Va segnalata.
[1] ) Ad
ogni buon conto, integro qui quelle parti dell’opera che riguardano Racalmuto e che non sono state integralmente citate dal
supposto Genco.
Pag.
14.
«Ma
nella Diocese Agrigentina trè luoghi principalmente antica, e celebre la
memoria di Santa Rosalia conservano, Bivona, S. Stefano, e Rahalmuto, e
par che portata, ò accresciuta vi fosse tal devotione dai Chiaramontani,
percioche poterono per questo haver due cagioni; una la comune patria di
Palermo, dove la Casa Chiaramonte fù molto nobile, e potente: l’altra, la signoria
di quei medesimi paesi, dei quali era stata già Signora la Santa Vergine Rosalia, come diremo nella vita.
«Hor
primieramente quanto a Rahalmuto n’habbiamo chiarezza, percioche Costanza di
Chiaramonte, figlia di Manfredi, sorella di Giovanni, Conte
di Modica rimaritandosi la seconda volta
con Antonio del Carretto, figlio pur di Antonio, che
illustrò questa famiglia col titolo di Marchese del Finale, edificò, ò
riedificò da fondamenti quella terra
Pag.
15
«nel 1320. e visse fin al 1330 [evidentemente
l’Asparacio nel 1924 e, mediatamente, il p. Morreale nel 1986 - cfr. op. cit. - derivano da qui la datazione della fondazione
del chiesa di S. Rosalia di Racalmuto nel decennio 1320-1330) e
benché le lasciasse l’antico nome Rahalmut , che vuol dire in Arabico,
Casalmorto, cioè distrutto, li volle però dare ornamento, e presidio di vita
col patrocinio di S. Rosalia, che perciò edificò la prima Chiesa in honor di
lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai confrati del Santissimo
Sacramento.
«V’era
l’imagine della Santa dipinta nel muro da poco in quà rovinato, e quella che
v’ha hoggi in tela è assai nuova, cioè del 1600, mà della prima imagine,
restandosi ben fissa nella mente, un valente dipintore del medesimo luogo,
detto il Monocolo di Rahalmuto il cui nome è Pietro d’Asaro , n’ha dato fuori
un bello essemplar: vi si fà la festa à 4. di settembre un gran concorso, e
devotione del Popolo, e quel quarto della terra hà pure il nome di S. Rosalia fin’hoggi.»
«Hora
per ciò meglio confermare, passerò all’altra testimonianza delle immagini
[...] Quella di Rahalmuto, della quale
non appare altro millesimo, che questo M.CC. e il muro è guasto»
L’importantissimo
passo delle pagg. 373 e 374 è stato sopra riportato e ad esso si fa qui rinvio.
Pag.
376
«Le
Grotte patirono anche molto [al tempo della peste del
1624], alle quali soccorse la Contessa di Rahalmuto, che l’era vicinissima,
colla reliquia di S. Rosalia; ma non hò distinta, e certa
relatione di alcun benefitio ...»
Per
inquadrare in qualche modo la figura del Cascini e l’opera sua, riporto alcuni dati reperibili
nell’introduzione del libro.
«AL
LETTORE, Pietro Salerno della Compagnia di Giesù.
«L’autore
di quest’opera fù il R.P. Giordano Cascini della Compagnia di Giesù, che a miglior vita
passò sul finire del 1635.
«Nacque
il P. Giordano Cascini di famiglia nobile nella città di Palermo, fù
adoperato dall’Em. Cardinale Giovannettino Doria Arcivescovo di Palermo nelle
consulte per la dichiaratione delle ritrovate Reliquie di S. Rosalia.
«[....]
raccolse quanto il padre Ottavio Caetano [aveva già scritto, prima del
rinvenimento del corpo a Montepellegrino e con contrapposto orientamento su S.
Rosalia,, n.d.r.] nelle Vite de’
Santi di Sicilia».
In polverosi
e ponderosi volumi consultabili presso la Biblioteca Nazionale di Roma, mi sono
imbattuto nella vita di S. Rosalia che trovasi negli «ACTA SANCTORUM - Septembris (tra i santi festeggiati il 4 di
settembre) Tomus II - Antverpiæ - apud
Bernardum Albertum Vander Plassche - 1748 - pag. 278 e ss.
Stralcio e talora traduco:
«Sec. XII post medium. Nullius antiquus de
S. Rosalia egisse scitur: nonnulli tamen
ante inventionem corporis.
- [Antonio Ignazio Mancuso S.J. - scrive
nel 1621 e ricorda i più antichi scrittori rispetto al 1624 e cioè Valerio
Rossi nel 1590 visto da Vincenzo Auria; Filippo Paruta nel 1609 - ] recensit Simonem Parisium , baronem Milochæ,
qui in “De scriptione Siciliæ”, anno 1610 edita [e Vincenzo la Farina,
barone di Aspromonte, che scrisse nel 1620 una “epistolam de S. Rosalia]. [Soprattutto Ottavio Cajetano S.J.,
attorno al 1607 nella sua “Vite dei Santi” [..] Il Cascini muore il 21 dicembre 1631 (?) in Mongitore
“Bibliotecha Sicula”.] «Edidit Cascinus
anno 1627 Vitam S. Rosaliæ etc.. Anno 1631 “Vitam et inventionem corporis S.
Rosaliæ”»
Infine,
viene pubblicata l’opera maggiore in tre libri, dopo la morte, nel 1651 ove
sono inserite molte opinioni, notizie e congetture da parte del p. Salerno. Gli
ACTA si diffondono in puntigliose incongruenze, specie di date che appaiono
postume rispetto alla data di morte del Cascini.
·
Altri autori di
vite della Santa: «Joseph Spucces Societatis Jesu: dissertatione Ms. quà anno
1642 Romæ antiquitatem cultùs S. Rosaliæ defendit. Dissertationem hanc cum
altera ejusdem auctoris de stirpe S. Rosaliæ nobiscum anno 1744 communicavit
R.P. Stanislaus Ignatius Castiglia Societatis Jesu, tunc provinciæ præpositus
..»
Pag. 317
·
Hisce breviter
observatis, redeo ad laudatam dissertationem [...]: “ Primò Racalmuti [*
Rahalmuti] quod est oppidum in dioecesi Agrigentina, templum habetur
antiquissimum S. Rosaliæ, cuius antiquitas refertur ad annum MCCVIII, ut
conijcere licet ex notis repertis in arcu quodam ejusdem ecclesiæ, quae
huiusmodi erant MCCVIII: quinque enim postremae jam media sui parte corrosæ,
hanc tantùm speciem ostendebat.” Hanc S. Rosaliæ ecclesiam memorat etiam
brevissime Salernus pag. 152, et Cascinus pag. 14 et 15. At hic uno seculo
ecclesiam posteriorem facere videtur, cùm narret ædificatam inter annum 1320 et
1330, [ed a questo appiglio mi pare che
tornino ad aggrapparsi, per una riconferma delle loro tesi l’Asparacio nel 1924
e, mediatamente, il p. Morreale nel 1986 -
cfr. op. cit.] , uti ibidem videre licet. Verùm sive seculo XIII sive XIV
condita sit illa ecclesia S. Rosaliæ, certùm est antiquissimi cultus
argumentum.»
Pag. 362
«380. Rahalmutum,
Agrigentinæ quaque dioecesis oppidum, Siculis Rahalmut, antiquis temporibus S.
Rosaliam coluit, primamque eidem ecclesiam dedicavit, ut vult Cascinus. Hanc
ecclesiam, invento corpore, diligenter instaurarunt Rahalmutenses, et Sanctae
reliquias obtenuerunt Panormi. Harum trasnlatio incidit in diem XXXI Augusti
anni 1625, quando suscepta sunt ab inculis insigni pietate et pari solemnitate,
eodemque die energumena liberata, in Ecclesia Fratrum Minorum de Observantia,
ubi solemne cantabatur Sacrum, teste Cascino. Rahalmutenses quoque peste
periculo liberasse videtur patrona Rosalia, præsertim quia illa maximé sæviebat in
vicinia et quia nonnulli infecti Rahalmutum intrârunt, malo nulli communicato,
et demum quia ipsi Rahalmutenses satis diu cum vicinis infectis commercium
habuerant, nec nullum tamen contraxerant contagium.»
[2] ) Ciò
chiaramente appare, aggiung’ei, da un antico Atto esistente in notar D. Michele
Morreale di quella stessa Comune . Quod virtutis specimen non solum fas est suspicere in nostro Marco
Antonio, nam admiratione dignum quoquo videtur in Aloisia Alaimo, a qua
originem ducit idem Marcus Antonius, quæ suis sumptibus in Racalbutensi oppido
templum S. Rosaliæ V.P. sacrum extruxit, anno circiter 1200 a partu Virginis,
ut ex veteri monumento, et chirograho publici Notarii Michaelis Morreale
Racalbutensis, clarissime apparet.»
Interessante, pure, il passo di pag. 14:
«Ci tramandano i nostri
padri, che han ricevuto per incontrastabile certezza, che quattro Chiese numera
la nostra Patria, ove la S. Vergine ha avuto speciale divotissimo culto. La
prima, e la seconda son quelle appunto, che rapporta il Cascini, di cui l’una precesse alla
riedificata, ed in quel luogo, ove è oggi detto d’alcuni di S. Rosaliella. La terza in quello, ove a
nostri dì è la Chiesa di San Michele, opera dell’immortal memoria del Sac. D. Giuseppe Tulumello! nella quale si rappresentava
a seconda la descrizione del Pirro; e la quarta finalmente è la Chiesa della
Matrice,
quale, sebbene non alla S. Vergine consacrata, avvi intanto a destra
un’adornato dorato Altare, e cappella. In essa si vede una quasi parlante
Statua colorita, in abito eremitico, con croce in destra, e libro e bastone
nell’altra, pari all’antico modello.»
[3] ) Le
ricerche presso l’Archivio Vescovile di Agrigento consentono di appurare la verità sulla
congregazione citata dal Pirri. E’ nota, ad esempio, la bolla di fondazione della Congregazione delle Anime del Purgatorio nella Chiesa di S. Rosalia (vedi
ff. 558 e 559 del REGISTRO DEI VESCOVI 1636-37).
[4] ) Il
racconto, però, va gustato nella sua stesura originale. La lingua è arcaica,
secentesca, talora contorta e spesso
scorretta, ma la narrazione non manca di fascino accattivante.
Scrive dunque don Vincenzo Di Giovanni
«Nel tempo che fu
Lotrecco [Lautrec] a Napoli
successe in Sicilia lo caso di Barresi, il qual si nota
dopo quel di Sciacca. E fu il predetto caso, che essendo nella città di
Castronovo D. Paolo Carretto, mio avo paterno,
uomo di gran valore, e avendo differenza con uno di casa Barresi, gli diede il
Carretto uno schiaffo; onde ne successe fra loro gravissima inimicizia, in modo
che la città si ridusse a parte.
Un giorno volle il
Carretto andar a visitare suo fratello D. Ercole,
signor di Racalmuto, e vi andò con 25
cavalli. Ma saputo ciò per le spie da’ nemici, lo assaltâro alla piana di santo
Pietro. Vide egli da
lungi venire i nemici; e potendosi salvare nella chiesa di santo Pietro, gli
parve viltà, e si risolse piuttosto morire, che far gesto di sé indegno. Si
venne tra loro alle mani; ché animosamente il Carretto investì, e ne morsero
dall’una e dall’altra parte.
Ma il Carretto, investendo il
suo nemico, era con un pugnale a levargli la vita, avendolo preso per il petto,
quando uno de’ compagni con una saetta lo percosse in fronte e lo mandò morto a
terra.
Satisfatti perciò
i nemici, attesero a salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco [Lautrec] a servire Sua
Maestà, perché erano due fratelli; e gli successe in una giornata di adoperarsi
valorosamente sotto la condotta del conte Borrello, figlio del viceré, perché
mantennero un ponte tutti e due, tanto quanto gli arrivasse il soccorso; dal
che si evitò gran danno, che poteva succedere agl’Imperiali.
Del che fattosene
relazione a Sua Maestà, spedita la guerra, fûro i predetti due fratelli
indultati in vita, e fûro fatti capitani d’armi per il regno.
Sentì gravemente
il successo D. Giovanni Carretto, nepote del
predetto D. Paolo; e più per vedersi i nemici, in quel momento favoriti,
stargli innante gli occhi, e perché era di gran valore e chimera, procurò
quello, che non avea procurato il padre D. Ercole.
In quel tempo era
nella città di Naro Enrico Giacchetto, uomo
valorosissimo e potente, consobrino di mia ava paterna, il quale, per avere
inimicizia con il barone di Camastra, anco della città di Naro, manteneva a sue
spese cento cavalli, ordinariamente di gente scelta e valorosa, con li quali
faceva allo spesso gesti eroici e
singolari. Di costui ne temeva tutto il regno.
D. Giovanni del
Carretto, figlio del
predetto D. Ercole, si fé chiamare il predetto Enrico, che gli era
amicissimo, a cui conferì il suo pensiero, e lo richiese che si volesse
adoperare per lui in satisfarlo di quell’oltraggio.
Gli promise buona
opera Enrico; e perché si
sentiva che i Barresi si volevano levar le mogli e le case da
Castronovo, e portarsele alla città di Termine, li appostò Enrico con quaranta
cavalli, e, venendo quelli a passare per il fundaco delle Fiaccate, per quel
cammino assaltò i predetti fratelli con molta compagnia. I quali non prima si
videro Enrico addosso, che sbigottiti si posero a fuggire, e furono finalmente
giunti, presi ed uccisi.
E se ne presero le
teste, che furono portate al predetto D. Giovanni, il quale, benché prevedesse
gran travagli di giustizia, ne fu pure assai sotisfatto e contento; tanto si
estimava l’onore in quei tempi.
N’ebbe al fine
gran travagli: ma col tempo ne riuscì con vittoria, grandissimo onore e
reputazione.»
[5] ) Dallo studio di Nalbone e Taverna si possono trarre i
seguenti dati distintivi della neo baronia racalmutese:
1. Diritto
dei baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue
vescovo di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi paladino di un omicida, il chierico Jacobo Vella.
2. Diritto
alla destituzione e nomina di tutte le cariche, civili e militari, di Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i Fanara, i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo
possibilità di farsi apprezzare dagli stravaganti baroni di Racalmuto: ne diventano fiduciari;
spesso si arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono nella
fertile terra del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta
tuttora, ma senza più il ruolo di profittatori del regime.
3. Non
emerge ancora un chiaro affermarsi del diritto al terraggio ed al terraggiolo
[prestazioni in natura da parte dei coltivatori delle terre del barone, nel
primo caso, e fuori la baronia, nel secondo - stando almeno alla
volgarizzazione della fine del Settecento].
Il mero e misto impero dei baroni fa capolino nel Cinquecento, ma si
afferma piuttosto tardivamente.
[6] ) A
tal fine lasciò il seguente legato:
Item ipse spectabilis Testator voluit et mandavit praedictum
spectabilem D. Hieronymum de Carrectis eius filium primogenitum heredem
particularem Missa in Conventu Sancti Francisci dictae Terrae, conficietur
Cappella in loco per eum eligendo [50] in dicta Ecclesia magis congruo in qua
debeat expendi uncias centum in pecunia infra terminum annorum duorum à die
mortis dicti Domini Testatoris numerandorum, cui Cappellae conficiendae pro
anima dicti domini Testatoris, et suorum predecessorum, et pro venia suorum
peccatorum legavit, et legat uncias septem annuales redditus debendas per
magnificum Joannem de Guglielmo Baronem Biginorum super dicto pheudo Biginorum,
et casu quo dictae unciae septem annuae
redditus revendentur à dicto Conventu per supradictum de Guglielmo et suorum
& tali casu de praectio dictarum unciarum septem annuales redditus emi debeant
aliae unciae septem redditus praedijs tutis in futurum, et casu quo infra
dictum tempus annorum duorum ipse spectabilis dominus D. Hieronymus non
erogaret dictas uncias centum in constructione dictae Cappellae, tunc et eo
casu teneatur dictus dominus D. Hieronymus solvere uncias quinquaginta pro
emendis redditibus pro Conventu dicti Sancti
Francisci, ultra dictas unceas centum pro constructione dictae
Cappellae, et ita voluit et mandavit.
[7])
Girolamo Maria Morreale S.J. - Maria SS. del Monte di Racalmuto - Racalmuto 1986 - pagg. 83-89
[8]) Cfr.
questo passo del Villabianca: «Girolamo nel retaggio di questo Stato dopo la
morte di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per
provilegio del serenissimo Rè Filippo
Secondo, dato nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576 (a) [Pirri, Sic. Sacr. Agrig. f. 758, c. 1],
esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577 (b) [R. Cancell. ann. 1577. f. 476].
Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 (a) [DI GIOVANNI, Palermo Ristor. lib. 4.
f. 242 retr.], e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138.
giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il
lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento.
Presedette altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel
1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore
con le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate
per extensum da BARONE loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit.
[9]) Per
i diffidenti, citiamo questo passo dell’investitura: Ponit
qualiter Cadaver prefati ill. don Hieronimi del Carretto sepultum et defunctum fuit in ecclesia Santae
Mariae de Jesu extra moenia felicis urbis Panormi die 9 mensis Augusti XI^ Ind.
1583 pro ut patet per fidem authenticam parochialis ecclesiae Sancti Jacobi
Maritime eiusdem urbis felicis Panormi die 14 Julii XII Ind. 1584.
E questo è
l’atto di morte:
Die nono Mensis Augusti XI^ Ind. 1583
Fu
sep.to in S.ta Maria de Giesu extra moenia lo Ill.mo s.or Do’ Geronimo Lo
Carretto conte de Racalmuto.
In quorum fidem, et testimonium predictam
notam nostra propria manu subscripsimus suis die loco, et tempore valituram.
dat. Pan: die
precalendato
+ P. Raphael
de Natale Capp.us ut supra
+ P. Dionisius
de Martina Capp.us ut supra
[10])
Come dimostrano il Nalbone ed il Taverna nel loro lavoro Racalmuto in Microsoft, la flessione non vi fu.
[11] )
Cfr. il ns. lavoro sulla signoria
racalmutese dei del Carretto.
[12]) Con 100
onze donna Aldonza del Carretto poteva un decennio dopo fondare a Racalmuto un intero convento: quello di S. Chiara.
[13])
Vedasi la nota apposta nel Libro dei Morti del 1667 presso l’Archivio della
Matrice di
Racalmuto. Il 26 agosto del 1667 muore
il padre fra’ Giovan Battista FALLETTA
dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino della Congregazione di
Sicilia all’età di 63 anni. Ad assisterlo è il confratello P. Salvatore da
Racalmuto, agostiniano, un frate in odore di santità, che solo in questi ultimi
tempi si cerca di farlo emergere dalle nebbie di un colpevole oblio. Per
volontà del vescovo agrigentino frà Ferdinando Sancèz
de Cuellar, invero in esecuzione di disposizioni pontificie, il Convento
di S. Giuliano di Racalmuto andava chiuso, per carenza di uomini e di mezzi. Fra’ Giovan Battista Falletta veniva pertanto
sepolto nella Chiesa Madre, anziché a S. Guliano, dato che, come viene
annotato: «stante
soppressione conventui Sacre Congregationis per decretum sub die 26 augusti
1667 ». Ma il Convento riaprì e sopravvisse
per un altro secolo almeno.
[14])
Leggasi quanto elucubrato in Morte dell’Inquisitore a pag. 182 dell’edizione Laterza 1982. Per
inciso, è tutt’altro che provata la storia del priore agostiniano mandante
dell’omicidio di Girolamo del Carretto, avvenuto il 2 (e non 6)
maggio del 1622, ammesso che di omicidio si sia trattato e non della
stroncatura per “un morbo” del venticinquenne conte di Racalmuto. I documenti in nostro
possesso ci fanno propendere per quest’ultima congettura.
[15])
Archivio Segreto Vaticano - Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi - Anno
1602: positiones D-M.
[16]) ASV
- SCVR - anno 1601: positiones G-M.
[17])
ARCHIVIO VATICANO SEGRETO - SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI - PROCESSI nn. 28;
2169; 2170.
[18])
ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO - LIBER MORTUORUM 1811. Dove
fosse quella piazza ove veniva eretto il patibolo non sappiamo con certezza: da
alcuni elementi documentali sembra trattarsi di Piazza Castello.
[19])
Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restorato - Palermo 1989, libro quarto, pag. 335. Per un
approfondimento si leggano le splendide pagine di C.G. Garufi: Fatti e
personaggi dell’Inquisizione in Sicilia - Palermo, Sellerio - pp. 255
e 262-263.
[20] ) E’
sempre il vescovo Ramirez che nella sua relatio ad limina del 1699 così
raffigura la parrocchia di Racalmuto:
RECALMUTUM
Oppidum
animarum quinque millium sub Archipresbyteri cura, cuius electio, et institutio
prout de Iure Communi, habetque pro sui sustentatione prope ducenta scuta.
In Maiori Ecclesia per Sacerdotes Almutijs insignitos
quotidie horæ Canonicæ recitantur.
Regularium
Virorum domus quinque.
1. Carmelitarum: Sacerdotibus tribus,
cum duobus Laicis.
2. Minorum Conventualium: Sacerdotibus
tribus, cum uno Laico.
3. Minorum Regularis Observantiæ:
quatuor Sacerdotibus, et tribus Laicis.
4. Reformatorum S. Augustini: tribus
Sacerdotibus, et laicis duobus.
5. Domus Hospitalis, in qua fratres S.
Jonnis Dei: uno Sacerdote, et duobus Laicis.
Hinc
representandum censui, quod postquam hi
Fratres Hospitale pro suo Instituto exercendo acceperunt, nunquam Instituto
vacant, sed redditus Hospitalis ipsi
consumunt, et cum ab Ordinarij sint
Iurisdictione exempti, non sunt vires ad cogendum, ut, vel Instituto
vacent, vel domum relinquant.
Monialium
Monasterium sub Regula Tertij Ordinis S. Francisci, ubi Deo famulantur decem et
octo Professæ Chorales, duæ Novitiæ, et
quinque Conversæ.
Ecclesiæ,
ultra Maiorem, et præfatas, quindecim. Sacerdotes quadraginta septem, Clerici
triginta sex.
Crediamo un
erompere di bilioso astio - che sembra suffragare le pesanti accuse sabaude
contro il prelato Ramirez - queste note d’indole generale che non
possono non riferirsi anche a Racalmuto:
Quia vere
paucis ab hinc Mensibus totius Dioecesis visitationem integre absolvimus, et
plura, eaque graviora mala animadvertemus, oportet nos Sanctam Sedem certiorem
facere, ut dignetur pro reparatione validam porrigere manum: aliter enim putamus nos insufficientes ad tantum onus: ne
si remedium adhibere velimus, malum eat in peius cum animarum detrimento.
In Clero Seculari hoc malum inter alia
reperimus, quod cum totum ferme Regnum, eiusque oppida sub immediata
iurisdictione Baronum, abusus inolevit, quod hi assumunt sibi viros sacerdotali
caractere insignitos pro temporalium rerum administratione. Hos Sacerdotes
secretos appellant, nomen impositum ad significandum ministerium, nempè, ut
sint exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad Barones
spectantium. Præfatorum Baronum terras dividunt inter Oppidanos ad excolendum,ut
plurimum non sine pauperum iniuria, dum eos cogunt ad conducendas terras
præfatas, non quas possunt excolere, nec
pro pensione, super qua deberent
pacisci, sed pro beneplacito Baronum.
Custodes sunt
Iurisdictionis Laicalis, tam Criminalis, quam Civilis. Et quamvis designatos
teneant Laicos Ministros, quorum nomine causæ iudicantur: nihil tamen illi
disponunt absque interventu, aut certe dispositione præfatorum Sacerdotum, qui
tam Capitaneis, quam Birruarijs præcipiunt; hunc, verbi causa, modo carceribus
addicendum, illum e carceribus extraendum, hunc aut illum, hac vel illa pæna
plectendum, sive ab ea absolvendum, atque sæpius homines criminosos proprijs
ipsorum manibus capiunt carceribus mancipandos, non sine irregularitatis
periculo. Incedunt armis onusti, venationibus clamorosis, et venationibus
dediti sunt, atque ut milites sclopis (?), alijsque similibus armati comitantur
Barones, quando iis hinc inde commigrari contingit. Hinc plura audent contra
Ecclesiasticas personas, et Iurisdictionem Ecclesiæ, sicut et contra locorum
Sacrorum Immunitatem, quibus in gratiam Baronum infestissimi sunt.
Cogunt
sæpissime cæteros Sacerdotes, at alias Ecclesiasticas personas oppidorum, sicut
diximus de Vassallis laicis, ad acceptandum terras ad seminandum pro pensione
sibi benevisa, atque solvere gabellas, ad minus eas quas in sui favorem
imponunt Barones. Horum Sacerdotum ministerio usque ad Sacratissimas functiones
Ecclesiasticas se ingerunt, præscribunt Ritus, et Cæremonias intra Ecclesias.
Plurimi sunt qui nec permittunt Sacramenta administrare in illorum oppidis,
nisi illis Sacerdotibus, de quibus sciunt omnia ad beneplacitum eorum
ordinaturos; aliter tot mala contra eosdem machinatur, etiam per carcerationem,
et exilium parentum, vel coniunctorum, quod compelluntur Ministerio renunciare.
Atque similiter faciunt contra Vicarios foraneos, si omnia ad eorum nutum non moderentur. Nulli licet pro negotio
aliquo ad Episcopum recurrere, non obtenta prius ab eis venia. Ipsi Causas
Spirituales sæpius decidere faciunt per se, vel per suos ministros oretenus.
Sacerdotes, et alias Ecclesiasticas personas mulctant et carceribus addicunt.
Ecclesiarum bona, et aliorum piorum locorum pro illorum placito administrantur,
lites insurgentes dirimunt, quod relictum fuit pro una Ecclesia, vel pro aliquo
opere applicant alteri Ecclesiæ, vel pro
alio ministerio, atque inventi sunt qui bona stabilia Ecclesiarum concesserunt
Laicis ad meliorandum. Nec audent ita vexati Ecclesiastici ad Prælatum
recurrere, tum quia impossibiles sunt iuridicæ probationes, cum contra dominos,
et potentes, quin etiam eorum ministros laicos, Vassali ullo pacto ad deponendum adigi non possint; tum
quia si aliquam super negotio inquisitionem faciant Prælati, statim suspicio
oritur quod querelis Ecclesiasticorum permoti hoc agant, quamquam pro Fisco
Causa formetur, et tunc mala, quæ imminent, graviora sunt hac misera servitute.
Sæpe voluimus mittere manum pro
Ecclesiasticorum defensione; at vero
illi poplite flexo rogaverunt, ut manum retraheremus, scientes quam certo defensionem cessuram in maximam illorum
ruinam, quorum libertati consulebamus: unde miserrimam tolerant servitutem;
tutant enim, et iactant Barones se in proprijs Oppidis esse rerum tam
prophanarum, quam ecclesiasticarum, ut supremos
moderatores. His accedit quod anno proxime elapso per omnes Civitates, et Oppida promulgatum
fuit Laicale proclama, quo monebantur omnes
ministri Iurisdictionis Temporalis, nullum familiarem aut ministrum Laicum Episcoporum debere gaudere privilegio fori Ecclesiastici;
Et cum oporteat tenere ad minus
ministros inferiores, quales sunt
Birruarij, Laicos; ut primum isti pro defensione Iurum Ecclesiarum, vel
Ecclesiasticorum, nomine Curiæ Spiritualis monent aliquem, ut desistat ab
offensione, vel citant pro præfata
tuitione, carceribus mancipant, si monitio, aut citatio sit contra aliquem
Laicum Ministrum, aut contra ab eis dependentes. Nec datur (tam longe, lateque
in hoc Regno gravaminum patet campus) in
propriam defensionem aliquid moliri; cum
non solum actus iuridicos efformare, sed
nec verbum quidem proferre liceat, quod statim aditum non præstet gravamini decidendo … Iudice qui pro Regula Iudicandi
habet præfatum laicale proclama.
Hinc
Ecclesiastica disciplina prolapsa, Prælatorum Iurisdictio enervis, Subditorum
audacia petulantior, in quibus nec obedientia, nec modestia, personarum Deo
Sacratarum propriæ reperiuntur, quippe sæpissime in delinquendo seculares
facinorosos enormiter excedunt. Augentur hæc
mala ex nimia facilitate obtinendi
exemptionem … Prælatis, quæ tanta promptitudine occurrit, ut nullus eam
pro libito non consequatur. Si autem nolit exemptionem generalem circa omnes causas, et in aliquo
delinquat, sufficit ut non possit corrigi … Prælato, dicere se esse gravatum.
Vel oportebit Prælatum in alio Trubunali facere partes actoris tot causarum
quot habet subditos. Unde modo Prælati nihil agere possunt præterea, quæ ut in
plurimum facere possunt alibi, in villulis Vicarij foranei Episcoporum.
Regularium
Virorum res non fælicius se habent, quia similia patiuntur, vel potius eadem
tam subditi, quam Superiores illorum: Patiuntur tamen Regularium res aliud
notabile malum contra Regularem Observantiam, et disciplinam quam, etiam si
vellent amplecti, non possent ad præscriptum Regulæ vivere ob paucitatem
fratrum commorantium in Conventibus. Plures enim sunt Conventus in quibus duo
tantum habitant fratres, in alijs tres, aut quatuor ad summum. Unde nec
Ecclesiæ decenter tenentur, neque horæ Canonicæ in Choro in similibus domibus
recitantur, et sæpius potius scandalo, quam exemplo populi sunt; Quapropter
prudentiores, laicorum, immo et Regularium
putant, putant consultissimum
fore, si præfati supprimerentur conventus, et Fratres in eisdem existentes ad
alios, in quibus ob maiorem numerum posset institui Regularis Observantia, trasferrentur.
***
Monialium
Monasteria plures conservant tenaciter abusus. Inter quos non inferioris momenti est, quod in eis
commorantur plurimæ feminæ seculares aliquando ingressæ titulo amplectendi
institutm monasticum, quod noluerunt, vel non potuerunt amplecti. Aliquando
ingressæ titulo educationis, quæ ab
infantia usque ad finem vitæ durat. Et sæpissime atque ut in plurimum,
cum notabili monasteriorum damno non solvunt alimenta, vel quia non possunt,
vel quia nolunt; Et cum sint frequenter sorores, vel proximiores consanguineæ
Monialium, istæ ob gratiam parentum, et consanguineorum exigere
rationesalimentorum nolunt, quinimmo impediunt exationem. Et cum aliunde
Monasteria non sint valde opulenta, quam (per il Copista: quæ, n.d.r.) sæpe egestate laborant,
et sustentare nequeunt tot Moniales, et seculares, unde opus habent consumere
pecunias destinatas pro emptione
stabilium, censuum, et aliorum annualium reddituum, ne perire fame cogantur. Ob
quam causam iam minus curant seculares de monachandis filiabus, aut sororibus
invenerunt quidem modum exonerandi familias absque dispendio. Hinc exceptis
paucis Monasterijs, in quibus exactissime Regula, quam profitentur, observatur,
in cæteris nec umbra apparet Regularis Observantiæ, sicut nec votorum
paupertatis, et obedientiæ, sed vivunt non aliter quam si seculares essent sub
clausura custoditæ.
Præterea pene
in omnibus Monasterijs conversæ sunt feminæ seculares, nec volunt eas Moniales
recipere ad habitum et professionem regularem, ut possint libito … Monasterio
eicere.
Quod rare,
etiam quando inhabiles fiunt pro Monasteriorum servitio, faciunt.
* * *
Omnia ferme præfata possent obtinere optatum
remedium ab ordinaria potestate si vires haberet hac vero civibus evacuata, cogimur
cum dolore cordis potius mala videre, et plangere, quam tolerare. Videmus navim iactatam fluctibus, remigamus
laborantes, contrarij venti concutiunt, atque his agitati procellis pene
submergimur. Unde solum remanet, ut cum illis clamemus, quorum personam et
ministerium gerimus, Domine, salva nos, primus sperantes ab eo qui Christi
vices habet vocem audire. Confidite. Ego sum nolite timere, utque ventis, et
mari imperio facto tranquillitas magna fiat. Et hæc de statu Ecclesiæ, et
Dioecesis Agrigentinæ, quam sub Obedientia Sanctæ Sedis et EE. VV. protectione
humiliter collocamus, atque sub ea vivere velle, et mori toto corde
protestamur.
Datum
Agrigenti die 20 septembris 1699.
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