I Normanni a Racalmuto
Conquistata Agrigento
nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il
terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol
dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi
di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna
restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto
per un ritorno al cristianesimo.
Ma chi erano questi
normanni?
Il giudizio storico moderno resta
ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze
razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti
dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle
terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli
avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio
rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio
saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal
giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura
confessionale. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero
ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza,
patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di
'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche
spregiudicato religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi
smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere
espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del
re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in
Russia sulla Chiesa ortodossa.» ([1])
L'Amari, si è visto, parteggia per
gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per
la poderosa personalità di Ruggero II.
Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del
Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith
nella sua Storia della Sicilia Medievale
e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri
provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto
come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici
mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti,
rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti
salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le
parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di
Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i
cristiani greci dell'Italia meridionale;
e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici».
Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno
inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene
giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come
colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe
stata edificata una famosa dinastia». ([2])
*
* *
Che cosa ne è stato
della Sicilia musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo
sulla grandezza della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle
sofferenze e della prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in
definitiva. La tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni
(quali erano gli abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e
fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi
racalmutesi, almeno quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in
testa. «Sciascia è un cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome
diffusissimo nel mondo arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II
deportò tanti arabo-siculi.» ([3])
*
* *
Dopo i
primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una
sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma
Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo, sembrò
sottrarsi sia al fenomeno
normanno del feudalesimo sia a quello
accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò
qualche tempo dopo. Crediamo che nei
primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di
Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli
ortaggi. Per quello che diremo dopo, il
nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era
appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni
da seminare ben coltivati.» ([4])
Gli storici
stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il
risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a
vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche
l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità. ([5])
Del resto in
Sicilia, mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo
quadro religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad
operare. La religione cristiana di rito
latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in
maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano
poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a
Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in
un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora rifondandoli,
qualche volta dotandoli di beni. Si
rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di
frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo portatore di
scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i limiti gravi e
le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e
organiche strutture ecclesiastiche. Le
sole in grado di coordinare le manifestazioni di pratiche religiose e
quindi di vita quotidiana della gente e
di riconfermare e rendere operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che
affidava un ruolo di protagonista agli Altavilla e
rappresentava un dato strutturale
della società normanna.» ([6])
Ruggero non
ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato.
Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una
religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e
forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa
latino. Le preoccupazioni politiche
erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di
fiducia, allogeni, chiamati dalla natia Normandia, fu -
ripetiamo - il taglio adottato da
Ruggero nella instaurazione della Chiesa
di Roma nelle terre
della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovadi di Troina,
Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale
quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire
della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe notizia di
essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata
al vescovo francese Gerlando. Nell'anno 1092, [7]
dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna,
giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando. I confini della diocesi sarebbero stati
definiti da Ruggero
in persona. Il documento, in latino ([8]),
può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le
sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene
chiamato GERLANDO. Assegno alla sua
giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di
Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi
sino ai confini di Iatina [Iato]
e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al
fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine,
e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa
diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui,
da dove sorge, si
estende verso Pira, sotto Petralia;
quindi sino al monte
alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso,
nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi
seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade
(Licata). Questa località divide Agrigento
da Butera. Lungo la costa i confini
della diocesi corrono dal Licata
sino al fiume Belice, che costituisce i confini
con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia la delimitazione, che ad ogni modo esclude
Vicari, Corleone e Termini.»
Se il lettore è stato paziente nel seguire il
zig zag dei confini avrà subito colto
che Racalmuto, quale centro al di qua
del Salso, venne in quella bolla
assegnato a GERLANDO, un vescovo santo
ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo
il consunto steriotipo di uomo di nobile prosapia, bello, alto, biondo e di
gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il
Picone la riecheggia con questi tratti
descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato
in Besansone, città della
Borgogna, di copiosa
dottrina fornito, eruditissimo
nelle chiesastiche discipline ed
eloquentissimo, trasse alla fede gran
numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti
ci appaiono più circospetti. In base
alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano
del conte Ruggero, carica che
fu di GEROLDO, e quanto al
resto si
rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che
riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo
l'ultima critica paleografica del
COLLURA risalgono per lo meno alla seconda
metà del sec. XII. Quattro tra i
primi sei più antichi documenti della
Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra
lecito nutrire dubbi.
Il personaggio
non è dunque inventato e questo è già
molto. E il vescovo
ebbe subito fama di santità, come può
arguirsi dal Libellus custodito nell’Archivio Capitolare ove
si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi
dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima,
carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella
sua facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino - ed a
Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da secoli arabo
e solo arabo. Forse residuava un uso del greco nei
ceppi antichi più tenaci. Questo
vescovo borgognone che chissà quale lingua parlava (pensiamo a quella natìa di
Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di
capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, e, di
certo, per lui, incomprensibilmente. E
le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di stucco i
'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo
normanno in mezzo ai saraceni
dell'agrigentino un nucleo di
verità deve pur esservi: forse
Gerlando ebbe qualche successo nello stabilire un certo
colloquio con i potentati locali di lingua araba.
In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti
che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo
Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24 dicembre 1092) - una falsificazione in
forma originale, secondo il Collura
- accenna a nobilati
francesi già presenti in Agrigento, a
concanonici che officiano in una chiesa dedicata a S. Maria, a
parenti francesi da beneficiare con diciassette villani, due paia
di buoi ed un cavallo.
Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato
da un Rogerius che ci avrebbe redento da 'demonicis ... ritibus'
da riti demoniaci (che pure era
la grande religione di Allah). Emerge
il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale, invero, Petrus Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con
una gamma greca nel bel mezzo della
grafia latina. Principalmente, a
colpirci, è il richiamo allo
strumento giuridico del privilegium
che viene firmato in presenza di testi e
davanti ad un vero e proprio notaio 'Rosperto
notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il
suo consiglio viene giudicato 'justus'.
Francesi, notai, prebende
ecclesiastiche, canonici, vescovi
probi ed assennati, ma anche interessati
alle cose terrene, tutto il
mondo della burocrazia
ecclesiastica romana vi traspare,
ed era passato appena un
quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si
è visto, villani, schiavi ed oggetto di
pii legati.
AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero
il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla
sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi,
due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di
poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Montedoro (più
propriamente a Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far
pensare); il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di
Bompensiere. Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva
letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare
su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni.
Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta a Santa Maria fatta costruire
da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica
storica appena avvertita.
Quando
le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio
metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi
elementi per una chiarificazione e per il diradamento del fitto buio che oggi
ci angustia.
Non
andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna
s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a
dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono
denominati saraceni. Esistesse o meno
una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino
sociale di Federico II. Che cosa è stato il
“villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che
vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di
uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia saperne di più, gli studi di
I. Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una
parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra.
L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime
del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non
si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne
per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della
nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I
saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico
II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le
testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad
avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai
locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante
litteram.
La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli era
stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’
Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà
questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375
abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico
interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
[1]) Benedetto
Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari
1947, 9^ ed. pag. 71.
[2]) Denis Mack SMITH,
Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza Bari 1973, vol. I pag. 21.
Questo libro e il suo autore furono cari a Leonardo SCIASCIA. La gelosia degli
storici siciliani fu persino patetica. Ecco, ad esempio, casa pubblica Santi
CORRENTI a pag. 29 della sua Storia di Sicilia come storia del popolo
siciliano, Longanesi Milano 1982 «...a lodare il Mack Smith per il suo 'stile
provocatorio' rimase il solo Leonardo Sciascia, che però si rifece
clamorosamente, facendo decretare al suo amico inglese gli onori del trionfo,
in una speciale manifestazione organizzata a Palermo il 6 aprile 1970, niente meno che al palazzo dei Normanni:
onore mai concesso a nessuno storico, e assolutamente sproporzionato al merito
dell'opera (e il primo a stupirsene fu lo stesso Mack Smith).» Secondo il
Correnti, anche Francesco Brancato, Giuseppe Giarrizzo, Gaetano Falzone,
Francesco Giunta, ed altri, avrebbero storto la bocca di fronte alla storia
siciliana dell'inglese Smith. La quale, invece, è oggi universalmente
cosiderata un classico, come tante altre opere dello storico inglese.
[3] ) Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, Mondatori Milano 1979, p. 12. E potremmo
citare “Occhio di Capra” ove l’arabismo scasciano plana addirittura nell’onirico.
[4]) EDRISI, Sollazzo
per chi si diletta di girare il mondo,
libro I, pag. 94 in Biblioteca Arabo-Sicula, a cura di Michele Amari,
Roma 1880.
[5]) «Un
problema complesso e contraddittorio», le cui fonti sono giunte a noi in copie
del XVII e XVIII secolo. S. Tramontana,
La monarchia normanna e sveva, op.
cit. pag. 543.
[6]) S. Tramontana, "La monarchia normanna e sveva", op.
cit. pag. 541.
[7])
Secondo i BOLLANDISTI [ACTA SANCTORUM BOLLANDISTORUM,
collegerunt ac digesserunt Joannes
BULLANDUS, Godefridus HENSCHENIUS, Societatis Jesu Theologi - "De
S. GERLANDO - Episcopo Agrigentino in Sicilia", addì 25 febbraio, tomo III, Antuerpiae, apud
Iacobum Meursium, 1658 p. 590 ss.] -
autori secondo il COLLURA [op.cit.
p. XI] della "migliore dissertazione su S. Gerlando" - il
primo vescovo di Agrigento post saraceno
potè essere consacrato
dallo stesso pontefice Urbano II nello stesso anno in cui questi salì
al soglio pontificio (12 marzo 1088). Ma è congettura che viene
avanzata solo sulla base di un'asserzione
del PIRRO che vuole Gerlando consacrato da Urbano II
"ex pontificio diplomate". L'assegnazione dei confini diocesani da parte di Ruggero è però del
successivo 1093. Al 1092, il COLLURA - sulla base anche del primo documento capitolare di Agrigento - fa
risalire l'inizio dell'episcopato di Gerlando. Peraltro, un documento - Libellus, c. 18B - afferma: «complens
duodecim annis beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino vicesimo quinto die mensis februarii [1104]».
Il conto con il 1092 dunque torna. Ed il primo documento dell'archivio di Agrigento porta la data
appunto del 1092. [Puntuali, come sempre, le notizie e le note critiche in
proposito del Collura, op. cit., p. XI e
p. 3]. Il PICONE parla del 1090 [op. cit. p. 823], ma incidentalmente e senza alcun supporto
critico.
[8]) «Ego Rugerius ... in conquisita Sicilia
episcopales ecclesias ordinavi, quarum una est Agrigentina Ecclesia, cuius episcopus vocatur GERLANDUS , cui in
parochiam assigno quicquid intra fines
subscriptos continetur, [ ... ], videlicet, a loco ubi oritur flumen de
subtus Corilionem, usque desuper petram de Zineth, et inde tenditur
per divisiones Iatinae et
Cephalae, et deinde ad divisiones Bichare; inde vero usque
ad flumen Salsum, quod est divisio Panormi et Therme, et ab ore
huius fluminis, ubi cadit in mare,
protenditur haec parochia de iuxta
mare usque ad flumen Tortum, et ab hoc, ab inde ubi oritur, tenditur ad
Pira de
subtus Petram Heliae, atque inde ad altum montem, qui est supra Pira;
inde autem ad flumen Salsum ubi iungitur
cum flumine Petra Helie, et ex
hoc flumine sicut ipsum descendit ad Limpiadum, qui locus dividit Agrigentum et Butheriam; atque inde per maritimum usque
ad flumen de Belith, quod est divisio Mazariae, et aduch tenditur sicut hoc flumen currit usque de subtus Corilionem
, ubi incepit divisio, exceptis Bichara et Corilione et Termis.»
Questo documento è pubblicato sub 2) dal Collura, ["Le più antiche carte
...", op. cit. p. 7-18], ed è sottoposto ad una esegesi molto accurata.
Del resto trattasi del diploma fondamentale della Chiesa agrigentina normanna. Noto al Fazello, fu
ripreso dal Pirro [I, p. 695 A-B] e se ne occuparono STARABBA, LA MANTIA,
GARUFI, PICONE, RUSSO, BERNARDO, FULCI, PUNTURO, SALVIOLI, WINKELMANN,
LAURICELLA, KEHR, CASPAR [v. Collura, op.
cit., p. 7]. Il documento edito dal Collura viene considerato "una
copia incompleta della seconda metà del
XII secolo. Altre copie, ma tardive, dell'intero diploma si conservano in
Palermo, Archivio di Stato, in 'Prelatiae
Regni', I, codice n. 54, CC.109A-110A [I], redatta il 10
febbraio 1509, ed in 'Liber
Regiae Monarchiae Regni Siciliae', I, codice n. 56, cc. 49A-51A [L],
redatta il 3 gennaio 1555 (apografo del
1770; l'originale è conservato nell'Archivio di Stato di Torino)"
[op. cit. p. 7].
Il FAZELLO, il religioso di Sciacca nato nel
1498 e morto nel 1570, fu il primo a scrivere su questo documento [Tommaso FAZELLO, "Storia di
Sicilia, Deghe due", Palermo 1830, tomo II p. 86]. I padri bollandisti si
avvalsero dell'opera del Fazello, ma
ancor di più di quella del Pirro, per la loro dissertazione sul documento
e su S. Gerlando [cfr. Acta Sanctorum Bollandistorum, op. cit., p. 590 e
ss.]. Anche il Picone [op. cit. appendice I] riporta il testo con
note critiche, ma copia pedissequamente dal Pirro. Il quale [ Sicilia
sacra, t. I, p. 695 e 696], non ha sottomano i documenti originali di
Agrigento e si avvale di corrispondenti locali.
Considerano autentico il
documento WINKELMANN, LAURICELLA, KEBER, CASPAR, GARUFI, JORDAN e SCADUTO; sono
per la falsità: BERNARDO, FULCI, STARABBA, PUNTURO e SALVIOLI.
Nell'opera del Netino può
leggersi, anche, la Bolla di papa Urbano II di ratifica, del 10 ottobre del 1098.
Il Pirro
utilizzò il diploma agrigentino, donde tutti gli altri editori tra cui
il MANSI, il CARUSO,
il PICONE, il RUSSO e il PUNTURO [Collura, op. cit., p. 21]. Nel 1960 il
documento viene edito criticamente dal Collura [op. cit. doc. n. 5, p. 21-24],
secondo il quale "nel complesso il testo della bolla è sincero".
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