sabato 26 dicembre 2015


La microstoria racalmutese del Secolo XVII è fitta di notizie: anche l’esigente Sciascia ammette che ora, sia pure per una felice congiuntura, la storia locale diviene da appena avvertibile in “narrabile”. Nell’aprire la mostra di Pietro d’Asaro, lo scrittore racalmutese, non mostra soverchia considerazione della tanta storia presecentesca e concede la sua attenzione solo a quattro personaggi secenteschi: « ... ora voglio parlare - ebbe a dire - di un piccolo paese, “lontano e solo”, come sperduto nel val di Mazara, diocesi di Girgenti, che dall’oscurità dei secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe “narrabile”, da “descrivibile” che appena e soltanto era, grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa “bella” e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico illustre, di un teologo; e di un eretico.»
E’ una visione troppo riduttiva, ai nostri occhi, ma è di sicuro mirabilmente provocatoria. 
Non pensiamo che il prete Santo d’Agrò sia quello in preda a “deliri erotici”, ad “alumbramiento”; né che Pietro d’Asaro sia stato più un confidente del Sant’Uffizio che un pittore (anche se la sua arte non può essere magnificata, come oggi è di moda); né che Marco Antonio Alaimo sia stato un grande medico (ebbe più celebrità di quanto meritasse); né che Pietro Curto vada al di là di una qualche infarinatura di “scienze metafisiche”; né, tanto meno, che Diego La Matina, cui va la nostra umana pietà, sia stato un eretico di grande statura intellettuale e morale, (per noi:  modesto gaglioffo, nerboruto e sensuale, che non sapendo assuefarsi alla rigida regola del periferico convento di S. Giuliano - specie in materia di alimentazione quotidiana - trasmigra a Palermo, sull’onda della rivolta di Giovanni V del Carretto, e vi trova sgherri, carcerazione e la esiziale attenzione del Sant’Uffizio).
Povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti  riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ( ) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di letterarie e fantasmatiche mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore dell’Inquisizione. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 e, palesemente, non si ha consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara annotazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621. E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto sproloquiare sui vezzi astrologici del Padre Matranga ( ).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le  ladronerie del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando arraspa nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti  .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli credito quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’.  Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla  giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Bazzicando l’archivio segreto del Vaticano si possono acquisire notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il  presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei Del Porto del capoluogo agrigentino.( ) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Scaiascia - doveva pure intendersene. Dalle sue querule relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ( ).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che avesse proprio ragione Leonardo Sciascia a autodefinirsi nella « Morte dell’Inquisitore» uno ‘sprovveduto’ sull’argomento.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo infilza «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». L’intrigato dottore acquista, però, tutta intera fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione per avergli trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato oltremodo comodo per la sua accusa, anziché abbarbicarsi a tortuosità per conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tòcco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo grado degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non approda al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo. A quei tempi, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.
 Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ( )
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni  di nome Nalbone - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ( )
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada,  resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire  a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione  non era migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restorato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista,  e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio.  
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo quell’esecuzione capitale, ma, per favore, parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa: terziaria francescana, fu di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.
*   *   *
Altri, comunque, sono per noi i protagonisti della storia (o microstoria), civile e religiosa, della Racalmuto del Seicento: i dieci arcipreti che si sono succeduti nel secolo; i tanti umili sacerdoti che si sono contraddistinti nelle opere di carità in quei calamitosi tempi, divenuti memorabili (e narrabili) per pesti, morte, miseria, sfruttamenti feudali, e talora neghittosità prelatizia; gli artefici delle sordide pretese dei signori del Castello; ed altri.
Chi furono di dieci arcipreti? Il seguente elenco è tratto dagli studi del Nalbone:
1600 ANDREA D ' ARGUMENTO ARCIPRETE
1602 ANDREA D ' ARGUMENTO ARCIPRETE
1608 VINCENZO DEL CARRETTO  ARCIPRETE E NEL 1622 BENEFICIALE E
1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE  e  poi  nel 1614  ARCIPRETE
1615 FILIPPO SCONDUTO ARCIPRETE  "incipit januari 14 ind. 1615"
1616 FILIPPO SCONDUTO ARCIPRETE
1632 GIUSEPPE CICIO ARCIPRETE
1634 ANTONINO MOLINARO VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
1645 TOMMASO TRAJNA ARCIPRETE D.S.T.
1645 PIETRO CURTO ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
1649 POMPILIO SAMMARITANO ARCIPRETE
1654 POMPILIO SAMMARITANO ARCIPRETE S.T.D.
1654 GIUSEPPE TRAINA PRO-ARCIPRETE SETTEMBRE 1652
1668 VINCENZO LO BRUTTO ARCIPRETE
1677 VINCENZO LO BRUTTO ARCIPRETE  a  41
1697 FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE
Come si vede, il sacerdote Pietro Curto vi figura come arciprete di Ventimiglia (diocesi di Palermo) e non come colui «che si distinse - parola di Sciascia - a Palermo nelle scienze metafisiche, e che nel 1656 pubblicò un Corso filosofico che spiegavasi in quei tempi nel Collegio massimo dei Gesuiti, che crediamo essere stato quello di Palermo». En passant, il sacerdote Pietro Curto morì il 30 giugno 1647 (cfr. il vario volte citato Liber in quo adnotata ...della Matrice, colonna 3 n.° 52).
Racalmuto, dunque, si affaccia al cupo XVII secolo con una popolazione di 4500 abitanti circa e ne esce con cinquemila fedeli (parola del vescovo Francesco Ramirez, quello che travolse Racalmuto nell’interdetto fulminato per la celebre controversia liparitana). Una crescita limitata, forse per le angherie dei Del Carretto, come vorrebbe Sciascia, ma forse per le due tremende pesti, quella del 1624, molto nota, e quella che dura dal settembre del 1671 all’agosto del 1672 e che sterminò un quarto della popolazione; i morti furono 1260 ed il povero arciprete Lo Brutto, in un momento di profondo sconforto, annotò sul libro dei morti:
INCIPIT INDICTIO Xa AMARISSIMA - In anno milleximo sexcentesimo spetuagesimo primo -   INFAUSTISSIMO
La Chiesa racalmutese esordiva sotto la sconcertante giurisdizione del vescovo Horozco e finiva il secolo con una esplosione di preti, conventi, e religiosi del Benefratelli che insediatisi per predilezione di Girolamo III Del Carretto nell’ospedale di S. Giovanni di Dio, scialacquavano le rendite e lasciavano i malati abbandonati a loro stessi.
La pagina del vescovo Ramirez sui preti-esattori dei baroni colpisce ancora: vi sono rappresentate le stigmate dei mafiosi - purtroppo, quelli vecchi - nell’esordio del loro affermarsi nelle plaghe dell’agrigentino: una consacrazione, una profanazione del sacro ordine, un ascendente sacerdotale sul succubo mondo contadino, un potere mutuato dalle autorità dal barone dal politico dal banchiere, l’esercizio di un potere feudale, da un lato; un’organizzazione criminale, un’ abitudine alle armi ed a sapersene servire per intimidazione, assoggettamento, estorsione. Un sincretismo (blasfemo ed agghiacciante) tra religione, crimine, affarismo e prossenetismo politico e giudiziario. Mafia e antimafia messe assieme. Veste sacra e schioppo omicida al servizio del feudatario per lo sfruttamento delle masse contadine. Abbiamo gli embrioni di un’organizzazione che si equipara e sostituisce lo Stato; un ordinamento - direbbe Sante Romano - che sa acquisire quasi l’eticità hegeliana.
L’analisi del Ramirez - per quel che ci risulta - non è stata mai considerata dai colti della mafia e dell’antimafia. Va segnalata.
 

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