I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai
suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più
generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che
ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche
eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai
fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e
Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né
scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti
esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne
di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che casualmente
affiora.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano:
ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73), ma non
può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto il
profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada
Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il
finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha
sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per
quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i
vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo
all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e
per il quale le varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.
Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e
VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale
storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi:
qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto
un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché
l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle
conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra
plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra
l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo
cattolico agrigentino - se vi fosse, chi
questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche
conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità
cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da
Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola
di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare , Ricimero con quella vittoria
poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo sbandamento
che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, si
diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con regolari raccolti
granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere
possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero
romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste
riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto
ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un
buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i
cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va
affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo
documentali, ma neppure archeologiche.
Il risvolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al
535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente:
inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di
quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due
e mezzo dell’insediamento berbero).
IL TEMPO DEI BIZANTINI
Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto
diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto
di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento
delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa
pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro
abitativo più intenso era piuttosto lontano, ad un paio di chilometri circa,
attorno alle Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano un ipogeo cristiano. I
Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al cristanesimo e
sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano
marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che
vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo un
patrimonio archeologico che avrebbe avuto un’incommensurabile portata
storica. Ma la zona resta pur sempre
ricca di reperti e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di
quel periodo storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali.
(Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo retrocede la
datazione delle monete al V secolo: cosa inverosimile se le effigie degli
imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo
posteriori)
A seguito di una scoperta
archeologica del 1990 in contrada Grotticelli
le pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo
sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio
1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona
denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti
umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti
artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non
viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno
vasto insediamento in quella zona a partire da un’epoca che per quello che
abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero
romano.
L “ipogeo cristiano” di Biagio Pace si troverebbe in
«quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto». Nostre
personali ricerche ci fanno pensare che
l’abbaglio del grande archeologo poggerebbe su questo passo del Tinebra
Martorana: «..alla contrada Grutticeddi
esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato
che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti
di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una
ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei
dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque
essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o
alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di
Bisanzio. Sulla scia di autorevoli
storici è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario
dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a
Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.
L'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta,
tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto
casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a
Racalmuto, ho sentito varie versioni
pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una
vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non
eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista
denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete
finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou,
secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di
tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi,
riferentisi a Tiberio II - Héracleonas». Quelle
monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o
inficiate da errori di datazione.
RACALMUTO,
VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno
fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Di
congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili
barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze
archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile
che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro
case e spostarsi altrove.
E che può
dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma
noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel
tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo
lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di
eclissamento della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un
fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna,
se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Siamo, in
ogni caso, affascinati dai versi di Ibn HAMDIS e tifiamo per un grande rigoglio
della civiltà araba qui da noi.
Pianse, invero, Ibn con accenti che toccano
ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:.
«Ho
riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla
malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non
l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee
in chiese,
«dove i
frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città,
vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i
quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la
mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì
gloriosa e fiera.
«Aprirono
con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi
lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non
hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi
la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior
parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano
soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si
era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd
ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni
amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e
cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani
erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali
convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio
del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di
religione e di culto.
Quanti
erano i berberi e quanti i dhimmi a
Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli
infedeli (i dhimmi) che per avventura
avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere
la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria
quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi
le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo
neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che
sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un
arabista del calibro di Rizzitano per tratteggiare questa congiuntura storica
di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.
«In
entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità
dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e
ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di
Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini
che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano
temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora
concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel
settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento
e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle
posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione
amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che
elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui
prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione
con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia,
e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in
Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti
scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici
venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti
erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo
apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre
sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero
all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo VII, quando
l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di
antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano
condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano
superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore
agricolo.
«Per
quanto concerneva invece i dhimmi, questi
erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini
commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale
che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante;
oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi
erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del
principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi
musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di
conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più
dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è
chiaro che erano i dhimmi a dovere
«pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto
sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto
a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto
da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il
compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde
evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari,
avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel
nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya».
Non è
questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e
Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per
tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono -
scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di
Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di
malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò
guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30
dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le
méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso
dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi
arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a
Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio)
distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e
desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha
l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese
morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata.
Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la
dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai
«Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari
ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran
in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si
riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio
arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo,
nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non
perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si
sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che
era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese
dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma
furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie
diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il
governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità
e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il
propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il
nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940
riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame.
Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma
anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate
del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica
dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe
inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme
dell’investitura califfale - protrattosi per oltre un secolo (dal 948 sino al
1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo
congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato
di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno
al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono
diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara,
Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e
Catania s’indussero ad appoggiare i
contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista
della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della
dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma
non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche
ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una
fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire
in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorere” –
poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale
nome.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché
un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha
tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo
Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli
eventi nella sua Storia dei Musulmani di
Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel
passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso,
investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni
normanni.
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