GIBILLINI
Feudo,
Racalmuto, lo fu parzialmente: dalla diplomatistica emerge come il feudo di Gibillini sia cosa
ben diversa dalla contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio
degradante tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non
soltanto la contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva
neppure parte di quella terra feudale, almeno integralmente.
Il
primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ;[1] il
diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:
«Il Re concede al
milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu
[feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore,
insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente
perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei
nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il
Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come
sopra.»
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere
possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte.
Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a
cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il
fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in
potestatem et iurisdictionem incidere
catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei
catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio
presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge
sull’apporto dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non
contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si
rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re
Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a
Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in
Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della
setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani - [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia
e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.[2] Prosegue
Giunta [3] «queste premesse spiegano
il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100 cavalieri,
400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò “con
trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da ottenere festose accoglienze da parte dei Palermitani
“che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare della
insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre terre
e castella”». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e
Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un
paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV,
detto il Semplice riuscì a
riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio
tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto
nell’opera del San Martino de Spucches .[4] Secondo
l’araldista il feudo di Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da
non confondersi con l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per
antico possesso” alla famiglia Chiaramonte. Srabbe stato Manfredi Chiaramonte [5] a
costruirvi la fortezza, quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu
Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di
sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo
Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario, iure francorum, con obbligo di servizio militare
e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392
(registrato in Cancelleria nel libro
1392 a foglio 221) [6]; col
secondo diploma, dato ad Alcamo, il 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria
nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe
concessi tutti i beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi
ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in
Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi
altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e
di Francesco Lagorrica, il Moncada fu deferito come reo di alto tradimento,
avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397
fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni.
Morì di dolore nel 1398.
Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa
della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo
di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.[7]
Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio,
forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de Marinis che ne acquisì
l’investitura il 1° aprile 1493 more
francorum, [8] per
passare quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per
la morte del padre e come suo
primogenito. [9] Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di
Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa dalle figlie Giovanna e Maria il
22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede
Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con
investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro
Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f.
271).
Maria
De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26 dicembre 1568, per donazione e
refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella (Ufficio del Protonotaro, XII
Indiz. f.479) .
Beatrice
De Marino e Sances de Luna s'investì di
due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la morte di Alonso de Sanchez suo
marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta Giovanna suddetta, M.sa di Favara
(Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f. 15); peraltro v’è pure
un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a favore di Carlo di Aragona de Marinis, P.pe di Castelvetrano,
figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII Indiz., f.160); un’altra
investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a favore di Maria de Marinis per
la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria, III Indiz. , f. 491); dopo non ci
sono investiture a favore dei Moncada.
Diego
Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615, per donazione fattagli da
Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui le due quote furono vendute da Beatrice
suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da Palermo il 5 dicembre 1608
(Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu quindi una reinvestitura in
data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo III e successione al trono
di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22, f. 283 retro).
Subentra
- sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con investitura del 28 febbraio
1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo padre (Cancelleria ,
libro del 1624-25, f. 214); viene quindi reinvestito il 29 agosto 1666
per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (Conservatoria, libro
Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina
morì a Naro il 24 novembre 1667
come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di S. Nicolò.
Diego
Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di Luigi suddetto, s'investì
dei due terzi il 7 ottobre 1668
(Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f. 89).
Luigi
Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9 settembre 1686 dei due terzi, per la morte e quale figlio
primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1686-89, f. 17).
Diego
Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come primogenito e, per la morte di
Luigi Gerardo suddetto, nonché come
rinunziatario dell'usufrutto da parte di Giulia Massa, sua madre, agli
atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di Palermo, del 1° ottobre 1738
(Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).
Giulio
Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il 3 dicembre 1787, come
primogenito e per la morte di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest.
1787-89, f. 25).
Diego
Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di Gibellini il 15 luglio
1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio suddetto (Conservatoria
vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non
ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.
Ma
a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino de Spucches, da qui,
non segue bene le vicende feudali di Gibillini.
Comunque nel successivo volume IX - quadro 1454, pag. 221 - intesta:
“onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463,
foglio 204” ed indi rettifica:
«Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di
Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come
figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA
(Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).
1. - Quindi vendette agli atti di
Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI,
pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi
sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini;
e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto
Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero
compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re
a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal
feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro
Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).
2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO
s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D.
Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile
1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo
non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di
Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»
·
* *
Le
vaghe fonti storiche sembrano dunque assegnare l’erezione del Castelluccio a
Manfredi Chiaramonte: la data sarebbe quella del primo decennio del XIV secolo,
la stessa del Castello eretto entro il paese. Manfredi era il fratello di
Federico II Chiaramonte, ritenuto l’artefice “di lu Cannuni”. Perché due
fratelli abbiano deciso di erigere due castelli diversi in territori così
contigui, resta un mistero. Forse la tradizione - tramandataci dal Fazello e
dall’Inveges - è fallace. Quello che è certo che sia il feudo di Gibillini (da
Sant’Anna al Castelluccio sino alla contrada dell’attuale miniera di
Gibillini), sia il feudo di Racalmuto (da Quattrofinaiti al confine con Grotte;
dalla Montagna al Giudeo sino alla Difisa) erano possedimenti della potente
famiglia chiaramontana, e tali sostanzialmente rimasero sino al loro tracollo,
alla fine del XIV secolo, allorché il duca di Montblanc ebbe modo di tagliar la
testa ad Andrea di Chiaramonte. Il feudo di Gibillini passa alla famiglia
Moncada, ma per breve tempo, e quindi alle scialbe case baronali dei Marino,
prima, e Giardina, poi. Passa, quindi, ai Tulumello per mano di un prete e ciò ad onta di tutte
le prerogative del feudalesimo siciliano. La cosa, del resto, finì nei
tribunali per una lunga vicenda giudiziaria – questa volta, tutta ottocentesca
– che rimase impressa nella memoria dei racalmutesi, ostile e beffarda verso i
nuovi nobili racalmutesi, provenienti da una famiglia digabelloti sino al tardo
Settecento. Più vindice che ragionato il gran
dispitto che Sciascia dispensa, qua e là, a codesti baroni di nuovo conio,
come prima abbiamo avuto modo di scrivere. Oggi i rampolli dei Tulumello – che
discendono sia da questa casata sia da quella ostile dei Matrona, per felici
matrimoni– meritano ogni rispetto. E noi non vorremmo davvero qui maculare
l’amicizia che a loro ci lega.
La svolta del 1374
Si accredita autorevolmente la tesi di un Mafredi
Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate combinazioni, si
venisse a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [10] Non sembra
potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte]
ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino
Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro,
Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella,
Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo, Girgenti,
Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in documenti
coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro paese
appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con
certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia
nel senso allora corrente di gravissima epidemia». [11] Già vi era
stata un’invasione di lacuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne
fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni si ebbero per
un ritorno dei focolai epidemici di una ventina d’anni dopo. Operava frattanto
la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il
panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo erano
emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile additare
una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era propenso a
credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di quei tragici
eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto
questo è però documentato. Un fatto eclatante viene inventato di sana pianta:
un massiccio trasferimento della residua, falcidiata popolazione da
Casalvecchio all’attuale sito. Già, subito dopo la conquista di Garibaldi, il
locale sindaco - pensiamo a Michelangelo Alaimo - faceva scrivere ad un dotto
professore del Continente: «…Racalmuto
…fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo
primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama
Casalvecchio. …. Questo borgo fu sotto il dominio della famiglia Chiaramonte,
passò quindi in feudo della famiglia Requisenz, principi di Pantelleria.
(Alcune delle surriferite notizie debbonsi alla cortesia dell'on. Sindaco di
questo Comune).» [12]
L’apice della visionarietà si ha naturalmente nel Messana, [13] secondo il
quale: «A
Racalmuto le cose andavano bene, la popolazione cresceva, sempre attorno
al castello. Vista insufficiente la cappella del Palazzo che nei primi tempi
dopo il 1355 fu aperta al culto dei pochi superstiti alla calamità, si costruì
la chiesa dedicata a S. Antonio Abate, eletto patrono del paese, alla periferia
del nuovo centro abitato, verso l'odierno cortile Manzoni. Intanto gli anni
passavano, e al barone Antonio Del Carretto erano succeduti i figli Gerardo e
Matteo. La baronia di Racalmuto con altri possedimenti era toccata a Matteo, a
Gerardo invece Siculiana col resto dei
feudi. I due germani non rimasero estranei agli avvenimenti politico militari
del regno. Essi seguirono, come aveva fatto il padre, i loro parenti, i
Chiaramonti, anche perché questi avanzavano rivendicazioni sulla baronia, tutte
le volte che non vedevano i Del Carretto al loro fianco con entusiasmo e
dedizione. Negli anni di grazia tra il 1374 ed il 1377 in più luoghi storici
infatti Racalmuto è annoverata fra i beni chiaramontani. E' chiaro che i Del
Carretto erano i signori di Racalmuto negli affari interni, ma tanto legati e
dipendenti dai Chiaramonti che all'esterno apparivano come valvassori dei
potentissimi parenti. Gerardo e Matteo, alla caduta di Andrea Chiaramonti, che
avevano seguito nell'assedio di Palermo, riuscirono a sfuggire all'ira di
Martino e ricoverarono all'interno. »
In questa pagina del Messana c’è del vero, ma tanto da rettificare, almeno se
si dà in qualche modo credito alla lezione da noi sopra esposta.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed il
1375 ebbero indubbiamente a coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è
possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo
vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360.
L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I,
il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può
solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con
9 galeee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galeee) che aveva
scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV
si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento:
nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci
da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di
nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1362-1363 si registra una
recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si
riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si
può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Ma quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per
certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il concordato con il
papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile interdetto. La corte pontificia, ancora ad Avignone,
versava in ristrettezze economiche: se la Sicilia si mostrava disponibile ad
una tassazione straordinaria aveva possibilità di una rimozione del gravame
papale. Fu così che si fece strada la soluzione della controversia con il papa:
bastava assicurare il pagamento di un sussidio il cui peso sarebbe finito
direttamente sulle vessate popolazioni dell’Isola, compreso Racalmuto
naturalmente.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi
eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un
nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII
era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a
Limoges nel 1329; morirà a Roma
nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia
ponendo fine alla cosiddetta "cattività avignonese". La fine del suo
pontificato fu contraddistinta dalla rivolta generale delle province italiane.
Nel 1375 e nel 1376, nel momento in cui Firenze ingaggiava contro la Santa Sede
la guerra degli «8 santi», novanta citta e castelli dello Stato pontificio si
sollevavano contro gli ufficiali apostolici e demolivano le fortezze edificate
antecedentemente dal cardinale Albornoz. La rivolta può venire considerata
causa del definitivo tracollo del papato francese in Italia, che non riesce più
a percepire i sussidi straordinari imposti dal 1370 al 1375 nei domini della
Santa Sede.
Negli ultimi anni della loro dominazione in Italia, i papi
avignonesi ricorsero molto spesso alla generosità dei loro sudditi con
richiesta di sussidi straordinari, tanto da trasformarsi in imposte ordinarie.
Quanto al consenso dei parlamenti, divenuto alla lunga puramente formale, a
partire dal 1374 esso tendeva a sparire del tutto. Dal 1369 al 1371 si trascina
la guerra di Perugia e diviene controversa l’esazione dei sussidi della Tuscia
in favore del patrimonio della Santa Sede. [14] Scoppia
quindi la guerra milanese ed insorgono difficoltà per l’acquisizione dei
sussidi relativi agli anni 1372-1373. L’Italia conosce, nel 1374 e nel 1375, la
devastazione della peste e della fame. L’epidemia di peste bubbonica affiorata
a Genova nel 1372 si diffonde a poco a poco per il resto d’Italia, e nel 1374
raggiunge la Francia meridionale. Una grande siccità imperversò alla fine del
1373. Dopo, nel successivo aprile, cominciarono piogge torrenziali e protratte
che rovinarono la mietitura e provocarono la carestia. Un coacervo dunque di
circostanze per le quali Gregorio XI si vide costretto a sollecitare un nuovo
aiuto economico da parte dei sudditi italiani per sostenere la guerra che
continuava, più furibonda e più rovinosa che mai, contro il signore di Milano.
All’inizio del 1375, la Camera apostolica non incontra
difficoltà soltanto in alcune province dell’Italia centrale. La carenza contributiva
si estende alla Cristianità intera. Salvo forse la Francia, la percezione
dell’obolo è un totale fallimento nel reame di Napoli e, specialmente, in
Sicilia. L’Inghilterra si era sollevata contro le pretese di Gregorio XI. Il
clero di Castiglia e di Lione e quello del Portogallo rifiutava ogni aiuto. Il
papa fu allora costretto a revocare le vecchie tasse e dichiarare che si
accontentava di somme relativamente modeste (qui 20.000 e là 25.000 fiorini).
Nella stessa Italia, gli ecclesiastici fanno orecchi da mercante e rifiutano di
consegnare al collettore Luca, vescovo di Narni, i contributi che pure avevano
promesso. I mercenari non sono pagati e, per calmarli, Gregorio XI deve
conferire terre della Chiesa ai loro capi.
La guerra milanese è frattanto prossima a concludersi. Il 4
giugno 1375, la tregua con i Visconti è conclusa. Lungi dal riassettare una
situazione fortemente compromessa, la fine delle ostilità aggrava le tensioni.
I mercenari, privi del loro soldo, sono lì lì per costituirsi in compagnia e
rifarsi con i saccheggi. Non basta, certo, un’ipotetica retribuzione a
frenarli. Solo degli espedienti possono salvare provvisoriamente la Camera
apostolica. Gregorio XI si fa prestare
somme enormi.
L’incapacità del papato di procurarsi il denaro necessario al
finanziamento della guerra contro Bernabò Visconti è il segno del fallimento
finale della fiscalità avignonese. Questo fallimento deborda dai limiti dello
Stato pontificio e si estende a tutta la Cristianità, come mostra il rifiuto
pressoché generale di pagare i “sussidi della carità” sollecitati da Gregorio
XI nel 1373.
Per un sussidio di carità può però la Sicilia togliersi da
dosso l’interdetto, conseguenza del Vespro: lo può l’intera Sicilia ed è
perdonata; lo può Manfredi Chiaramonte e tutte le sue terre sono
perdonate; lo può Racalmuto ed il 29
marzo 1375 viene solennemente assolto, con un cospicuo “sussidio della carità”
, di una colpa mai commessa.
Storici di acuto intelletto scrivono che «c’è un elemento
comune del mondo moderno che è stato considerato come il fondamento del suo
processo evolutivo, nelle forme di stato e Chiesa, costumi, vita e letteratura.
Per produrlo le nazioni occidentali dovettero formare quasi un unico stato
spirituale e temporale insieme.» [15] Ma ciò per
un breve momento. Sorgono quindi le lingue nazionali; si sfalda il precedente
mondo monolitico e «un passo dopo l’altro, l’idioma della Chiesa si ritirò
dinanzi all’impellanze delle varie lingue delle varie nazioni.» L’universalità perse terreno; l’elemento ecclesiastico
che aveva sopraffatto le nazionalità entra in crisi; i popoli si mettono in
cammino lungo percorsi nuovi, in
incessante trasformazione, e sempre più accentuatamente distinti e separati. La
potenza dei papi era assurta ad altissimi livelli in un mondo coeso. Ma ecco
che nuovi momenti cominciano ad eroderla. Furono i francesi che opposero la
prima decisa resistenza alle pretese dei papi. Si opposero, in concordia
nazionale, alla bolla di condanna di Bonifacio VIII; tutti i corpi di quel
popolo espressero il loro consesso agli atti del re Filippo il Bello.
Seguirono i tedeschi. L’Inghilterra non rimase estranea per
lungo tempo a questo movimento; quando Edoardo III non volle più pagare il
tributo al quale i re suoi predecessori si erano impegnati, ebbe l’assenso del
suo parlamento. Il re prese allora misure per prevenire altri attacchi della
potenza papale.
Una nazione dopo l’altra si rende autonoma; le pubbliche autorità rigettano le idee di
sudditanza ad una autorità superiore, sia pure a quella del papa. Anche la
borghesia si discosta dall’umile sottomissione ai papi. E gli interventi di
costoro vengono respinti dai principi e dai corpi statali.
Il papato cade allora in una situazione di debolezza e di
imbarazzo che rese possibile ai laici, che sinora avevano cercato di
difendersi, di passare al contrattacco. Si ebbe addirittura lo scisma. I papi
poterono essere deposti per volontà delle nazioni. Il nuovo eletto doveva
adattarsi a stabilire concordati con i singoli stati.
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’
questo un momento cruciale della crisi che abbiamo fugacemente additata. Ed in
questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In
cambio di un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto,
frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche per il
modesto, gramo paesetto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola - scrivemmo
una volta in pieno disaccordo con Sciascia.
Le decime del 1375
Nel contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un
personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito
nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel.
Originario della diocesi di Mende, in Francia, fu uno dei valenti agenti
dell’amministrazione finanziaria della Santa Sede sotto i pontificati di Urbano
V e di Gregorio XI. Si distinse come collettore in Germania (1366-1367) e
quindi nella Penisola Iberica (1368-1371). A questo punto il suo destino si
lega a quello della Sicilia ed investe Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo
del 1375. La sua missione in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al
1375. Svolge diligentemente i suoi compiti e fra l’altro redige come collettore
apostolico carte e registri contabili che, conservati negli Archivi del
Vaticano, sono giunti sino a noi. Vi troviamo, infatti, proprio il nostro
paese.
Bertrand du Mazel era “archidiaconus
Tarantone in ecclesia Ilerdensi, cappellanus pontificis” (Reg. Vat. 268, f.
67) cioè a dire un diacono maggiore che aveva l’amministrazione dei beni di
taluni settori della chiesa (canonica, etc.). Oggi il titolo è meramente
onorifico e viene attribuito ad un componente capitolare delle cattedrali. Du
Mazel , come tutti i collettori, dovette tenere un registro delle sue
operazioni per sottopole al controllo dei chierici della Camera apostolica.
Pare che sia stato un uomo preciso e metodico: conservò una copia della sua
corrispondenza. Una parte di tale corrispondenza riguardava, per nostra
fortuna, la Sicilia. Ciò si deve al fatto che per il diritto di spoglio tutte
le carte di Bertrand du Mazel dovettero essere versate in blocco alla Camera
apostolica alla morte del proprietario.
Du Mazel curò un carteggio con le autorità siciliane
dell’epoca nella sua qualità di collettore del sussidio riscosso dal popolo
siciliano. Inoltre conservò i documenti contabili tra cui quietanze, conti dei
sotto-collettori, minute e bella copia dei conti. Nel Reg. Av. 192, fol. 414-419v,
abbiamo la minuta autografa, cancellata e corretta, del conto del sussidio
versato dal popolo siciliano.
La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca
nel quadro degli eventi sopra abbozzato.
In particolare occorre tener presente che all’inizio del 1373, dopo
laboriosi negoziati, il re Federico IV di Sicilia e la Regina Giovanna di
Napoli concludevano la pace sotto l’egida del papato. Riconosciuto come sovrano
legittimo della Trinacria, Federico IV accettava la signoria di Giovanna I, e quella
di Gregorio XI. Egli si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla regina
che lo doveva trasmettere alla Santa Sede. I siciliani dovevano giurare la pace
e prestare giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti
e privilegi che godeva prima del Vespro del 1282. Il papa prometteva di levare
l’interdetto che gravava sull’isola da lunghi anni.
L’accordo si rendeva necessario per le ristrettezze
finanziarie pontificie a seguito della lotta contro i Visconti di cui abbiamo
detto. Si è anche visto come i “sussidi caritativi” chiesti al clero di molti
paesi fossero risultati fallimentari.. In Sicilia la percezione di tale
sussidio fu decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la
promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono
chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono modalità di esazione
contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle
del dicembre del 1372, chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della
Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione
dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo. In virtù di una clausola
apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva
liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento di rispettare la pace e
d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto
pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in
imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa
riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero
si parla ancora più esplicitamente di “subsidio auctoritate apostolica imposito” . E ci siamo dilungati proprio perché
in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.
Illuminato Peri
chiarisce gli aspetti storici di siffatta atipica tassazione pontificia.
«La esazione fu affidata a collettori pontifici, e fu convenuto che 1/3 sarebbe
andato alle finanze regie. Nella forma Federico IV si presentò mediatore fra
popolazione e autorità ecclesiale. Tanto che l’atto del maggio del 1374, con il
quale egli fissò la misura della sovvenzione, fu dichiarato “moderatio regia”.
Con tale atto si cercò di sedare le reazioni piuttosto violente suscitate dalla
prima richiesta (“rumori, rivolte, novità, assembramenti e molte indicibili e
turpi parole contro la chiesa romana e noi”, sintetizzava il collettore
Bertrand du Mazel). Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in
rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le
“mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in
facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle famiglie nella
categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le condizioni
economiche fossero omogenee, sarebbe stata distribuzione equa. Furono esentati
i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e le “miserabili
persone” che non era prefigurato vi fossero.» [16]
Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a
destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove
istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed
università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo
convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli
inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Sempre da Avignone, il 1° ottobre del 1372, si officia Guglielmo
affinché interponga “partes suas consolidationi Agrigentinae civitatis
efficaciter et, cum consummata fuerit, Francisco de Aragonia impendat
obedientiam et reverentiam, sicut decet.” (Reg. Vat. 268, f. 298 v.° 299 v.°). Si ripristini ad Agrigento la
fedeltà a Francesco d’Aragona, che risultava infranta.
Vediamo questo diploma: «Al nostro diletto figlio, nobiluomo
Guglielmo di Peralta, conte di Caltabellotta della diocesi di Agrigento,
salute. Ed al magnifico diletto figlio,
nobiluomo Giovanni Chiaramonte,
signorotto (domicellus) della diocesi
di Agrigento, nonché ad Emanuele Doria, signorotto (domicellus) della diocesi di Mazara, a Manfredi Chiaramonte, (domicellus) della diocesi di Siracusa, a Benvenuto de Graffeo,
signore di Partanna della diocesi di Mazara.» Il pontefice mostra di conoscere
molto bene la mappa del potere feudale in quel frangente storico, come dimostra
il dosaggio dei titoli nobiliari nella missiva di cui abbiamo citato
l’indirizzario.
Ma particolare attenzione viene rivolta a Giovanni
Chiaramonte che ancora nel 1372 è vivente e domina sull’intera provincia
agrigentina, Racalmuto compreso (il papa ignora i Del Carretto, argomento ex silentio, quanto si vuole, ma pur
sempre circostanza rivelatrice). Sottolineiamo questa lettera del 20 gennaio
1372: «a Giovanni Chiaramonte per i suoi
buoni offici tra la Regina di Sicilia e Federico d'Aragona - secondo il tenore
delle lettere per Nicolò de Messana,
Pietro d'Agrigento custodi delle custodie di Messina e di Agrigento dell' O.F.M.»
(Reg. Vat. 268, f. 247). In ben sei
lettere papali a Giovanni Chiaramonte, questi viene chiamato “domicellus panormitanus”. Nello stesso
periodo sono sette le missive papali a Manfredi Chiaramonte. I due sono dunque
personaggi di rilievo sino alle soglie del 1374. Il 6 febbraio 1372, per il
papa avignonese, Giovanni Chiaramonte è cresciuto d’importanza: viene chiamato
“domicello dell’isola di Sicilia”. In
altre nostre pubblicazioni, abbiamo citato altri diplomi vaticani che stanno a
suggellare l’enorme importanza rivestita
dai due Chiaramonte, succedutisi nella signoria di Racalmuto in quel torno di
tempo tra il 1371 ed il 1375.
Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella
sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di
percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di
consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico che subito
toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Menfredi è a Mussomeli
nel suo castello che ora si denomina dal suo nome “Manfreda”: là si redige un
processo verbale che attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria,
presentandosi davanti al re Federico III gli ha prestato fedeltà e devoto
omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, si era dunque sopito.
Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re, Manfredi ha
solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace, come è
stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro e finché il re
l’osserva lui stesso. Egli ha promesso di fare versare il sussidio dovuto alla
Chiesa dagli abitanti delle su terre di Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa,
Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro, Favara, Racalmuto,
Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronovo, Mussomeli, Camastra,
Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo Adriano,
Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco, Pietra Rossa e
Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle proprietà dei
Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le proprietà di
Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione. Esse sono
distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona parte
dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno,
Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di
Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra,
Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano,
Castronuovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Adriano ... 4) Le proprietà della regione
di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [17] Il
processo verbale è stato redatto su domanda del re e del nunzio apostolico
nella casa dove risiede il re da Francesco da Treviso, notaio apostolico e
imperiale «presentibus reverendo padre Rostagno abbate monasterii Sancti
Severini Majoris de Neapoli et nobilibus et circumspectis viris Jacobo
Pictingna de Messana milite, Georgio Graffeo de Mazaria, Bonaccursio Maynerii de
Florencia, Manfredo de la Habita de Panormo, Raynerio de Senis, Reynerio
Pictingna de Messana et aliis.» [Copia di Bertrand du Mazel: Reg. Av. 192. Fol.
4.]
Dalla lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da
Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica
storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il
casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di
Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas ha un suo governo locale che
fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a degli ufficiali
subalterni ed ha una popolazione che costituisce un soggetto giuridico (universi homines). Rientra tra le terrae nostrae, cioè di Manfredi. Se
dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto sarebbe
dovuta essere terra di Antonio II del Carretto: il diploma in esame dice ben
altro.
«Cum zo sia cosa ki
- soggiunge il conte di Chiaramonte con un siciliano cancelleresco che ha il
suo fascino - a nuy sia debitu procurari
vostru beneficiu et universali saluti, cossì di l’anima comu di lu corpu,
idcirco vi significamu ki pir tali ki vuy putissivu aviri lu divinu officiu et
la celebracioni di li missi, sì comu ànnu la plu parti di li altri terri di
quistu Regnu, et maxime per consideracioni di la malvasa epithimia ki vay
discurrendu per diversi terri et loki, in presencia di lu R[e]... prestamu et
fichimu juramentu di observari la pachi facta per lu signur Re comu [illu] ...
observirà et hannu juratu li altri baruni, et lu simili avimu factu fari a la
universitati di Palermu et di Girgenti; per la quali concordia esti commisu a
lu venerabili misser Bertrandu, capellanu et nunciu apostolicu et collecturi
deputatu per nostru signuri lu papa di lu subsidiu impostu per la relaxioni di
lu interdictu, ki pagandu vuy chauna universitati oy locu la taxa imposita et
consueta, comu ànnu pagatu li altri terri di lu predictu Regnu, ipsu per la
auctoritati a ssì commissa relassi lu dictu interdictu et restituiscavi lu
divinu officio et la celebracioni di li missi, ut predicitur; et impirò vulimu
et comandamu ki vuy, officiali predicti, ordinati tri boni homini un chascuna
terra et locu predicti ki aianu a recogliri la dicta munita, et ki incontinenti
si pagi a lu dictu collecturi perkì puzati consiquiri tanta gratia et beneficiu
supradictu. Et pirkì siati plu certi di la supradicta nostra voluntati, fachimu
fari quista nostra patenti lictera, sigillata di lu nostru sigillu consuetu,
cum li nomi di li terri et loki infrascripti. Datum in castro nostro Cacabi, VIIII° Februarii XII
indictionis [rectius: XIII indictionis = 1375].
«Nomina
terrarum et locorum sunt hec, videlicet:
Spackafurnu
- Naru - lu Mucharu - Sanctu Stephanu - la Petra d’Amicu
Sicli
- la Delia - li Glubellini - Perizi - Calatrasi
Modica
- la Favara - Sutera - lu Palazu Adrianu - lu Misilendinu
Ragusa
- Monticlaru - Manfreda - Cacabu - Camarana
Claromonti
- la Licata - Camastra - Chifalà - Petra Russu
Odorillu
- Rachalmutu -
Castrunovu - Misilmeri - ____Ç____
Terranova
- Guastanella - Bibona - la turri di Capublancu - Et cetera
Copia di B. du Mazel: Reg. Av. Fol. 431-431v.»
Ancora una volta le singole università devono dunque nominare
tre probiviri (tri boni homini) i
quali devono assolvere il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli
abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano
stati i prescelti di Racalmuto, ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino
la ficcante tassazione.
L’elenco delle università ha una sua logica: Racalmuto si
trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su
Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti
dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di
Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a
Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. A Nord di
Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina:
Gibillini (Glubellini) che non può
essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto livello) ma che
potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se
è così, la storia del paese di arricchisce di un altro importante tassello. Da
Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito
dopo tocca a Castronuovo e quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo
Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il
nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi diviene nullo.
Fin qui si è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo
delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a
partire dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6
marzo); il 18 dello stesso mese può
togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico;
il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto. Dal nostro paese si passa a Castronuovo (8
aprile 1375). La raccolta del sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno
con la rimozione dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo:
altra regione, lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamente
solo Racalmuto.
Disponiamo di un paio di annotazioni che riguardano il nostro
paese e che naturalmente svelano tratti storici diversamente ignoti. Il Reg.
Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione al
foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit
amotum interdictum in casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus
coperte palearum CXXXVI que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.»
Traducendo: «Del pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto
nel casale di Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136
case coperte di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende
ad onze 7 e 27 tarì.» La tassa, ad essere precisi, dovette essere così
ripartita:
|
|
quota individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
numero fuochi
|
136
|
|
238
|
onze 7
|
tarì 28
|
ceto medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
|
|
benestanti (1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
|
|
poveri (1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
|
|
Con i suoi 136 fuochi
Racalmuto aveva dunque una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4
componenti per ogni nucleo familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i
miserabili), i preti (tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e
quelli che dispersi per le campagne non era possibile includerli nel censimento;
un venti per cento, è aliquota verosimile. Nel 1375 Racalmuto contava pertanto
circa 650 abitanti.
Come si è visto le case erano di paglia: segno di grande
indigenza. Eppure i racalmutesi o per solerzia degli scherani pontifici o per
vero timore di Dio (e della peste) furono solerti e puntuali nel dare il
sussidio caritativo al papa. Non così in altre zone della Sicilia, come ebbe a
lamentarsi quello straniero di Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte del du Mazel non vanno minimamente confuse con rilievi
censuari. Abbiamo solo numeri simboli da cui possiamo dedurre solo qualche
ipotesi di lavoro di carattere demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a
Racalmuto vi fossero davvero 136 case con tetto a paglia; che 34 di queste
(1/4) fossero abitate da benestanti in grado di corrispondere la tassa
pontificia in misura massima (3 tarì a fuoco); che altre 34 appartenessero a
ceti medi (tassati per 2 tarì a famiglia); la metà (n.° 68) ospitasse famiglie
di dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1
tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per
stima aprioristica. Certamente in misura più limitata dovette essere la densità
delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più
vasta quella della classe che oggi chiameremmo proletaria. E poi i tanti
religiosi (tassati a parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i
“miserabili” (nullatenenti e non imponibili per le legge o per dato di fatto),
gli irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessibili o nei
contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in
stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva.
Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel
1375, che il centro (snodantesi negli scoscesi avvallamenti sotto le grotte
dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti, che tutto
considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e
poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”). Una
popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste
trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento dalla
Catalogna del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
Racalmuto
alla fine del Trecento
L’ultimo
quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che
spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico
siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana
racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità
da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero
ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si
rende indispensabile.
Il 27
luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica
avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici,
quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i suoi
predecessori - Scrive il D’Alessandro [18] - e certo
molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che
affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva
desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla
passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una
aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli
disponeva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale
sin’allora erogate e confermate: un “impeto di giusto dispetto” come poi fu
detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»
Il regno
passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina
sul serio - ma solo pro forma visto
che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come
Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si
reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli
altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e
Guglielmo Peralta.
La vita
riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In
effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i
cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per
Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi
Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché
storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia
intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a curare i nuovi loro
affarri in seno a compagnie marittime.
Racalmuto
scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la
legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [19] Solo che
il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua
cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo
III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal
castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi
III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le
trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non
lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla
alla monarchia iberica.
Rientrava
in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi
di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in
contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva
l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito
Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di
Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo
alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante
Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione
della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie.
In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della
corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare.
Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao
di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le
nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389
moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per
l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra
l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli
e consociativi.
Morto anche
Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un
periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto
l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e
l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante
Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel 1389,
allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di
Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in
Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il
duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava
di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento
del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non
sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano
celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale
della storia di Sicilia.
Si giunge
così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio
di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su
altri nobili di Sicilia - punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX
(1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli
scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche
sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al
giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e
coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte
d’opposizione ai Martini.» [20]
Nel
frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia
a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con
generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna
a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel
lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno
personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto
“Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato
medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano
proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico
racalmutese.
Nel 1392
gli spagnoli sbarcarono in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera.
Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in
Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso
dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea
Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e
nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette
per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di
guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni,
furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu
decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui
rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei
Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di
Racalmuto e dà inizio al lungo periodo
della sua baronia vera e storicamente documentata.
Si
dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio
1391 quando si era celebrato il convegno di Castronuono in cui si era giurata
fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto
né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il
Chiaramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino
ed ecco alcuni convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del
quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima
isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era
del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio
Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» [21] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era
lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per
“necessità” , finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
Ancora
nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di
mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente
ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la
spedizione militare aragonese.
Gli eventi
precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana
presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi
entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio
Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare
l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea
II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a
Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo
ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il
giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3
aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il
Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed
ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a
Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte
si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a
prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme
all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo
palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i
sovrani per trattare dei propri beni. Ma
Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte
di Andrea Chiaramonte si concludeva il
primo giugno 1392, quando venne decapitato nel piano antistante il suo stesso
palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche
di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita,
Manfredi Alagona delle passate vicende.
Il 1°
giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di
essere un feudo chiaramontano.
I Martino e
la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma
c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le
prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati
smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino,
con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca
dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro
feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del
Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità sul
feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di
più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato,
ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di
legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di
sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re
convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la
peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le
assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità
centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno
catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle
aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre
anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a
sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fino nei più minuti aspetti. Questa
sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni
persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò,
rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di
generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per
domare una insurrezione in Sardegna.» [22]
Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in
successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le
corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così
nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per
dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento,
sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente
era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia
aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò
governata direttamente dalla Spagna.» [23]
Note e
dettagli sull’avvento dei Del Carretto
Il
grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene
proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita [24]:
Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su
senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las
mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se
confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y
Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde
murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente
contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas
de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de
Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su
hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan
Lopez de Luna a Sicilia, para que se
criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues
en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno. Sirvio
tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de
Carreto Marques de Sahona: y haziendose
la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio
en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia
del Rey ...
Per il
Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al
servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo
spagnolo desunse, sicuramente, questa notizia dagli archivi aragonesi, ma
abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche,
specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci svelano
il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come
marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città
ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da fare in
un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre Gerardo che
si mette a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità
latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non
risolvibile allo stato delle attuali conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto
i Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando
la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove certe delle
pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il
fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato
alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura
della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due
fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al
primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia
- in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto?
Interrogativi cui non siamo in grado di dare risposte certe.
Nel
1392 giunge, dunque, in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma
astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di
grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici
siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive
Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta
l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea
Chiaramonte, e non cessò di combattere
la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse
tornato utile.
Ne
approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di
Racalmuto, naturalmente a pagamento.
L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.
All’inizio
del secolo XIV un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di
quel marchesato solo per un terzo (sempreché la favoletta abbia un fondamento
storico - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di
averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva
convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca
nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole: costui pare che abbia
lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo
fratellastro Antonio del Carretto.
Antonio
frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui
Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica
i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i
Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare
integralmente dalla parte dell’Aragonese.
In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà
vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico
transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha
cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera
proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.
Martino il vecchio si rende subito conto del senso e
della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio
racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità”
- come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Quel
beneficio gli viene tolto per essere assegnato ad un altro estraneo “al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della
terra di Paternò, cappellano della
nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra
ignominia della storia ecclesiastica racalmutese.
PROFILI
DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è
dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a
Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri
domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di
Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del
Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a
suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche
indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto
che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300.
Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e
l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli
odierni araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione
delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese
Antonio I del Carretto che nei primi del Trecento lascia Finale Ligure per
approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte,
semplicemente non esiste, a nostro giudizio.
[1] )
DOCUMENTI PER SERVIRE ALLA STORIA DI SICILIA - SERIE DIPLOMATICA VOL. VIIII
(NOVE) - PALERMO 1885 - CODICE DIPLOMATICO DI FEDERICO III DI ARAGONA RE DI
SICILIA (1355-1377) - DI GIUSEPPE
COSENTINO. VOL. I - PAG. 451-452. DOCUMENTO DCLVII (657) - CEFALU', 21
aprile 1358. ind. XI.
[2] ) Matteo Villani, Cron., IV,3.
[3] ) Francesco Giunta, Aragonesi e catalani nel Mediterraneo, Palermo 1953, I, pag. 49 e
segg.
[4]) Avv.
Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari
di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol.
IV - Quadro 435 - pag. 80.
[5] ) ma vedansi i dubbi che
si sollevano dopo.
[6] ) con
tale privilegio furono concessi i
seguenti beni confiscati ad Andrea Chiaramonte cioé: la contea di Malta e di
Gozzo col titolo di Marchese e l'isola di Lipari, la città di Naro, di Mineo e
di Sutera, la terra di Delia, di Mussumeli, Manfredi, Gibillina, Favara,
Misilmeri, e la Rocca di Mongellino
(PIRRI, Sicilia Sacra, f. 757 - APRILE,
Cronaca Sicula, f. 200 - INVEGES, Cartagine Siciliana, libro 2°, cap. 6,
f. 300);
[7] )
MUSCIA, Sicilia Nobile, pag. 72
[8] )
Cancelleria, 1492-93, foglio 114.
[9] )
Conservatoria, libro INVEST. , 1495-1511, f. 1182; fu poi reinvestito il 20
gennaio 1417 per il passaggio della Corona (UFFICIO PROTONOTARO DEL REGNO,
PROCESSI INVESTITURE, 1560-61).
[10] ) G.
Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti - Palermo
1891, pag. 14.
[11] )
Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[12] ) DIZIONARIO
COROGRAFICO DELL'ITALIA a cura
del prof. Amato AMATI - Milano
(Vallardi) - (1869) - vol. VI pagg. 712-713.
[13] ) Eugenio
Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Atec -
Canicattì - Giugno 1969. pag. 77.
[14] )
Jean Glénisson: les origines de la revolte de l’état pontifical en 1375, in
Rivista di Storia della Chiesa in Italia, Anno V . n. 2 1951, pag. 147 e segg.
[15] ) L. von Ranke - Storia dei Papi - Sansoni Firenze 1965, vol. I pag. 34.
[16] ) I.
Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
[17] ) J.
Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di
Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[18] )
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 107.
[19])
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[20] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse
- U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[21] )
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121. Continua il D’Alessandro: «ascoltati
gli emissari, i quali “latius narraverunt”, il duca rispondeva che “super
praedictis providebimus et providere curamus taliter quod gratias et alia quae
per dictos nuncios a nobis postulata fuerunt celerem sortientur effectum et
proinde vos, et alii nostri servitores, dante Deo, merito contentari.»
[22] )
Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I
pag. 115.
[23] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag.
116.
[24]
) ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
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