* * *
L’arciprete
Lo Brutto morì nel 1696 come da atto in Matrice:
5.2.1696
|
VINCENZO
|
S.T.Dr. SACERDOS DON
|
LO BRUTTO
|
ARCHIPRESBITER
|
69
|
MATRICE
|
.
|
FALLETTA PAOLINO CONF. PROB
|
|
DA OBLIG.
|
|
In calce ad un libro dei morti del tempo trovasi questa nota:
Victoria figlia di Giaijmo
LO BRUTTO e della quondam Melchiora,
entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a
24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna
Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino
don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri
eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.
A
questo si abbarbica un Savatteri del XIX secolo per vantare un’ascendenza
nobile ed esigere la proprietà del beneficio del Crocifisso. Ebbe però pane per
i suoi denti imbattendosi nel formidabile duo, don Calogero Matrona (che quel
beneficio volle ed ottenne) e l’agguerrito in utroque arciprete Tirone. La storia del beneficio è
lunga: inizia nei primi quarant’anni del ’Seicento e resta scandalosamente in
sospeso ancora oggi. Beneficio nato per ‘recupero crediti’ - si direbbe ora -
fu da vescovi compiacenti trasformato in appannaggio di un ragazzino della
potente famiglia Cavallaro, sotto condizione che divenisse e restasse prete.
Don Ignazio Cavallaro morì vecchissimo, a 84 anni, il 25 novembre 1874. Il
nipote Calogero Savatteri che lo teneva in casa voleva mantenere la cospicua
proprietà terriera, ma la curia l’aveva assegnata a don Calogero Matrona. Il
Savatteri vanta un diritto di successione affermando che i beni fondiari
nient’altro erano che una dote dei Del Carretto ad un’antenata che aveva vincoli di sangue con
quei nobili: ne sarebbero derivati anche titoli nobiliari che sarebbero
spettati a lui ed a sua moglie: donna Concetta Matrona (le omonimie si spiegano
con i tanti matrimoni tra cugini, anche di primo grado che la chiesa del tempo
non solo non osteggiava, ma incoraggiava; diversamente per i poveracci erano
sanzioni con umilianti atti pubblici di riparazione). Eugenio Napoleone Messana riecheggia nel suo libro queste amene vicende
nobiliari, nella benevola versione tramandata in famiglia da vecchissime zie.
L’arciprete Tirone, in memorie a stampa (deliziose) che si conservano in
Matrice rintuzza, da par suo, quella rappresentazione
dei fatti. La vertenza giudiziaria si risolve a favore del duo Tirone-Matrona.
Don Calogero Matrona può prendere possesso del Crocifisso. Deve però celebrare
tante messe per l’anima dei pii leganti. Vive sino all’11 gennaio 1902. Sul
letto di morte un terrore l’assale: quelle messe lui non le ha mai celebrate
ritenendo di potere fare una compensazione occulta con le pesanti spese
sostenute contro Savatteri-Matrona. Si confida con l’arc. Genco: lascia
cospicui legati come atto riparatore. L’arc. Genco interessa le autorità
ecclesiali. Sostiene che il lascito, andando in conto spese per la riparazione
della Matrice, ripara alla grave inadempienza del Matrona. Le autorità trovano
un compromesso: una metà alla Matrice e l’altra per la celebrazione di messe
per l’anima dei secenteschi benefattori.
Nella
varie bolle pontificie e vescovili, il beneficio del Crocifisso deve essere
volto al sostentamento di un coadiutore della Matrice. L’ignota origine - in
effetti si trattava di terre rientranti nei beni allodiali della Noce spettanti
ad un ramo cadetto dei del Carretto e dall’ultima erede di tale ramo rivenduti a
donna Maria Del Carretto, dopo il 1650 - era stata
bene strumentalizzata dall’arciprete Tirone per riavere dal governo le terre che nel
frattempo erano state vendute a profittatori delle leggi dell’eversione
garibaldina. Alla morte dell’arciprete Genco, quando sorse la controversia tra
il Casuccio ed il padre Farrauto, il Crocifisso fu assegnato a quest’ultimo a
ristoro del torto subito con la preferenza del vescovo per il primo nella
nomina ad arciprete. P. Farrauto ebbe anche il
contentino di una parrocchia creata dal nulla, tutta per lui: quella della
Madonna della Rocca, il 26 giugno 1923. Trasferito alla parrocchia del Carmelo,
gli fu consentito di conservare a titolo personale il beneficio. Quando diviene
parroco del Carmine don Giovanni Arrigo, il Crocifisso viene da
lui preteso e ne esige il mantenimento anche quando nuovo parroco del Carmine è
don Alfonso Puma. La gestione delle
appetibili terre della Noce avviene in modo ... arrighiano. Contadini amici vi
si insediano ed oggi nessuno ha più titolo per allontanarli. Già perché alla
morte di padre Arrigo, è la curia vescovile che ne rivendica la titolarità.
Come gestisca quegli ingenti beni immobiliari, chi scrive è e vuole mantenersi
all’oscuro.
DAL
SETTECENTO AI NOSTRI GIORNI
IL
SECOLO DEI LUMI
Premessa
Siamo
giunti al Settecento: il secolo dei lumi, quello tanto caro a Sciascia, quello
di Voltaire cui lo scrittore ammiccava persino quando intese stroncare il pio
p. Morreale che si era permesso di cercare la verità storica della venuta della
Madonna del Monte, quel secolo, dunque, passa per Racalmuto senza propri
eretici, con stravolgimenti tutti interni alla vicenda araldica dei successori
dei Del Carretto, con l’equivoco del terraggiolo, con vicende insomma tutte
minime, tutte paesane, tutte antieroiche, “non narrabili”, direbbe Amérigo
Castro.
Per
celebrare Sciascia alle prese col XVIII secolo, la omonima Fondazione invita
nel 1996 storici, letterati e cattedratici a Racalmuto. Veniamo a sapere da
Antonio Grado che la domanda del Caracciolo: «Come si può essere siciliani?»
può attanagliarsi allo Scrittore come «un’affermazione, un disincantato
epitaffio, che attraversa come un liet-motiv,
come una frase musicale ossessivamente reiterata nella partitura di un requiem, l’intera opera di Leonardo
Sciascia: dal Consiglio d’Egitto a Fatti diversi di storia letteraria e civile.
E proviene, quella domanda, o meglio quella sconsolata constatazione, dal
«secolo educatore», o meglio dal Settecento siciliano di Meli e Tempio, di
Gregorio e Cagliostro, di Vella e Di Blasi, di Matteo Lo Vecchio e del Marchese
di Villabianca: dunque, da un grumo di contraddizioni, di eresie e di raggiri,
di speranze accese da quei remoti «lumi» d’oltralpe, di sconfitte accumulate
nella buia stiva del disincanto.» [1]
Che
tutto ciò si attagli al tetro Leonardo, è pur plausibile, ma che riguardi la
storia del paese di Sciascia, ne dubitiamo fortemente. Più pianamente – e
significativamente – Orazio Cancila ci erudisce, dopo, [2]
«Il Settecento siciliano si apre con la notizia della morte a Madrid nel
novembre del 1700 di re Carlo II, causa di una lunga guerra di successione al
trono spagnolo che coinvolgeva la Sicilia ponendo fine alla plurisecolare
dominazione spagnola; e si chiude con la presenza a Palermo nel 1799 di re
Ferdinando di Borbone, fuggito da Napoli dove era stata proclamata la
Repubblica Partenopea. Cento anni nei quali la Sicilia cambiava ben quattro
padroni.»
A
Racalmuto, la scansione degli eventi settecenteschi può essere così
schematizzata, in una sorte di quadro sinottico:
-9 marzo 1710: muore Girolamo III
del Carretto, sopravvissuto al figlio, e suo unico erede, Giuseppe del
Carretto, e così si estingue la locale casata carrettesca;
-3 settembre 1713: Die 3 7bris
1713 VII Ind.Vigilia
Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac
terra Racalmuti: l’interdetto – riflesso racalmutese della sciasciana controversia
liparitana – ha tragici scoramenti sui locali, per non potere più seppellire i
propri morti nelle proprie chiese, che ben travalicano lo smarrimento di quel
cambio di padroni, dagli spagnoli ai Savoia, che gli implicati nella politica
dovettero provare, in quello stesso periodo;
- 1715: il regio commissario
generale d. Domenico Damiani e Scammacca della città di Randazzo, in nome di S.
Maestà, chiama a raccolta i notai di Racalmuto e chiede il dettagliato
resoconto di tutti gli atti pubblici del clero locale e dei beni delle chiese:
immaginabili il terrore e lo sgomento
dei tanti nostri preti e monaci;
-10 luglio 1716: Brigida Scittini e
Galletti, vedova di Giuseppe del Carretto, si aggiudica, jure crediti, per
diritto di credito dotale, la contea di Racalmuto. Chissà se la notizia giunse
in paese;
-27 agosto 1719: sospiro di
sollievo: «L’interditto fu imposto
dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con
il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la
Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima
seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci , Can. Teo. e Vic. Generale Apostolico
con l’Autorità della S. Sede.»;
-1736: Panormi die duodecimo mensis aprilis 14 ind. 1736 Fuit prestitum
juramentum debitae fidelitatis et vassallagij e pertanto servatis servandis concedatur
investitura .... tituli Comitatus
Racalmuti in personam ill.s D. Aloysij Gaetano ducis Vallis Viridis. Don
Luigi Gaetani - che doveva pur rifarsi
delle enormi spese sostenute in questa usurpazione feudale - non si aspettava
una situazione così deteriorata come quella rinvenuta. Cerca innanzitutto di
ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Si dichiara “mosso da pietà per i
suoi vassalli” ma le due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata le
vuole tutte;
-1738: in quest’anno, sorge una controversia feudale
su Racalmuto, con tutti i crismi (e con tutti i costi). Il duca trova
pretermessi anche i suoi diritti di terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei
feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli abili benedettini di San Martino delle Scale di
Palermo erano risusciti a farsi confezionare un decreto di esonero dal vescovo
di Agrigento. Don Luigi Gaetani è costretto ad adire le vie legali: premette
che è stato già magnanimo accontendandosi della
metà di quanto dovuto per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium
consuetae praestationis exegit). Non può pertanto tollerare che i benedettini
usufruiscano di un falso esonero, fallacemente accordato dal vescovo di
Agrigento, il noto Ramirez, in data 16 settembre del 1711;
-1741: il 22 giugno 1741 i
benedettini risultano soccombenti, con compenso di spese, però;
-1747: la contea di Racalmuto passa
alla principessa di Palagonia Maria Gioacchina Gaetani e Buglio;
- 7.1.1754; SCIASCIA LEONARDO M.°, di m.° Giovanni ed Anna Scibetta; sposa ALFANO INNOCENZA di m.° Bartolomeo e
Caterina olim fugati. - Matrimoni 1751-1763 - 67 – Nota: d. Albertus
Avarello -- Cl. Mario Borsellino e Cl. Giuseppe Lipari, testi; furono benedetti
da d. Giuseppe Pirrera; gli atti della Matrice ci ragguagliano su questo
antenato di Leonardo Sciascia che va ben al di là del «nonno di suo nonno» che
lo Scrittore voleva come suo capostipite racalmutese, oriundo, per giunta, da
Bompensieri;
- 1755: nasce a Racalmuto il Sac.
Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)
-
-1756: il 19 febbraio viene nominato
arciprete di Racalmuto d. Stefano Campanella: sarà colui che passerà alla
microstoria locale come l’arciprete che debellò il terraggio ed il terraggiolo;
-1759: all’Itria viene fondata la
Confraternita della Mastranza (26
luglio 1759);
-1767: l’arciprete Campanella
completa la costruzione del «cappellone grande» della Matrice;
-1771: i Requesens si appropriano di
Racalmuto il 28 gennaio 1771. Girolamo III del Carretto aveva contratto
matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su
quella cittadina. La Lanza – pur avanti negli anni - riesce a partorire il
figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i
cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requesens di impossessarsi
dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Annota il San Martino de Spucches: «Giuseppe Antonio REQUISENZ di Napoli, P.pe di Pantelleria, s'investì,
a 28 gennaio 1771, della Terra, Castello e feudi di Racalmuto; successe in
forze di sentenza pronunziata a suo favore dal Tribunale del Concistoro e
Giudici aggiunti, per voto segreto, contro Maria Gioacchina GAETANO e BUGLIO,
P.ssa di Palogonia, già c.ssa di Racalmuto; quale sentenza porta la data 2
ottobre 1765 e fu pubblicata, in esecuzione degli ordini del Re, da detto
Tribunale li 20 giugno 1770 (Conserv. Reg. Invest. 1172 [o 1772?], f. 143,
retro). [...] Detto P.pe Francesco a sua
volta, fu figlio del P.pe Antonino Requisenz e Morso e di Giuseppa del CARRETTO. Questa Dama fu infine figlia del Conte di
Racalmuto GIROLAMO di cui è parola di sopra al n. 4. E' da questa discendenza
che i signori REQUISENZ reclamarono ed ottennero i beni tutti ereditari della
famiglia del CARRETTO;
-1776: lo stesso arciprete continua
nei lavori di abbellimento della Matrice; dicono le cronache: «Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro
fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel
1783.»;
-1782: «E' noto - abbiamo già
scritto - un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro
nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie
a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel
1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio.."»;
-1783: inizia la causa – intentata
dal sac. Figliola presso il Tribunale di Napoli – contro il «terraggiolo»;
-1785: « Soprusi praticati dal sac.
Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve
vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite
tiritere anticlericali. Nessuna ricerca
storica, da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico;
-1785-1786 : ma è Giuseppe Tulumello
ad affermarsi in paese: nel 1785-86 egli figura tra i giurati dell’Università
di Racalmuto, insieme agli ottimati Lo Brutto, Scibetta, e Gambuto. Il sindaco
è Antonino Grillo. Il collettore risulta don Giuseppe Amella.
-1786: il sac. Figliola « …
ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto
Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di
causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del
Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto
il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»;
- 1787: D. Stefano Campanella
prosegue nella controversia antifeudale intentata dal Figliola e così « … con altri primari del paese incominciarono
a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di Palermo e dopo quattro anni di strepitosa lite dal
Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii,
et Terragiolii tam intra, quam extra territorium declaratur non deberi.”;
-1791-92 : forte dell’ascesa dello zio sacerdote don
Nicolò Tulumello, don Giuseppe di quella famiglia di gabelloti, fa il grande salto nella scala dei valori
sociali del luogo: ora il tesoriere comunale è lui. A lui la borsa. L’apice del
Comune può restare agli altisonanti “magnifico rationale Impellizzieri Santo”,
al “magnifico Baldassare Grillo”, al “magnifico Salvatore Lo Brutto”, a
“Francesco Amella”, a “Paolo Baeri e Belmonte” - che sono sindaco e giurati -,
ma è lui che tiene i cordoni della borsa e così, improvvisamente, i fogli
ufficiali della Curia panormitana lo designano con il nobilitante appellativo
di “don”. Finalmente! Ancora non barone come il nipote Giuseppe Saverio, ma il
primo tassello, quello più difficile, è tutto nel carniere di famiglia;
-1793: la vecchia. Gloriosa chiesa
di S. Rosalia viene smantellata; era riuscita a resistere sino
al 3 giugno 1793 quando viene ceduta al
sac. Salvadore Grillo che ha intenzione di farne una stalla: fu
barattata dal can. Mantione in cambio di
un altare con statua alla Matrice;
-1796: il feudo di Gibellini viene
venduto con rogito del «Not. Salvatore
SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona
nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme
57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per
il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli
dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore
fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29
aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo
di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes
1806-1808, n. 3 foglio 77)». Passeranno 13 anni prima che emerga la persona nominanda. Eccola: «D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO» che « s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte
dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto
li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40).
Questo titolo non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili
e titolate di Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e
riconoscere.»;
-1799: Il secolo dei lumi si chiude
tristemente per Racalmuto: necessita il paese dei vessatori mutui della locale
Comunia della Matrice – cui con sussiego accondiscende il famigerato vescovo
Ramirez – onde i preposti all’Annona racalmutese possano riuscire ad
approvvigionarsi delle più urgenti vettovaglie. Ecco il diploma vescovile del
23 febbraio 1799: «XAVERIUS Rever. Archipresbitero et deputatis ...terrae
Racalmuti, Salutem. Ci rappresentano codesti Giurati, Proconservatori, e
Sindaco le gravi pressanti urgenze, che si sperimentano in codesta Popolazione,
a segno che si teme molto della furia della Popolo perché pressato dalla fame,
e dalla miseria. Onde sono in penziero di occorrere quanto si può con mutui,
eccedono, e chiedono che per conto di Codesta matrice Chiesa vi sia nella Cassa
una certa somma, che la reputano sufficiente ad impiegarla nelle presenti
istanze, bastevole a soccorrere la indigenza comune. Noi dunque avendo in
considerazione l'espressati sentimenti del Magistrato, e volendo per quanto ci
sarà permesso anche aiutare codesto Publico, venghiamo colle presenti ad
eccitare la vostra carità , il vostro zelo ed il vostro patrimonio acché
concorriate per quanto si può a sollevarlo nelle urgenti angustie e miserie.
Essendovi dunque nella Cassa la indicata somma, qualora si appronta una
sufficiente bastevole fideiussione di restituirla nell’imminente Agosto e
riposta in Cassa, potrete apprestarla a beneficio comune per distribuirsi in
mutuo secondo le intenzioni del Magistrato. Nostro Signore vi assista. Datum
Agrigenti die 23 februarii 1799. = Canonicus
Thesaurarius Caracciolo Vicarius Generalis = Canonicus Trapani Cancell». [3]
-Il Settecento a Racalmuto sorge con
le diatribe tra padre e figlio degli ultimi del Carretto; cessata quella casata
più o meno dannosa per il paese agrigentino, subentrano altre diatribe feudali
che schiariranno l’opaco svolgersi della vicenda umana dei nostri antenati in
quel torno di tempo, tutto sommato sino al 1787; dopo i tempi sono tutt’altro
che felici: i rampanti gabelloti sono peggiori dei loro nobili dante-causa ed in mano di questi emergenti
borghesi (i Tulumello in testa, ma anche i Grillo, gli Amella, i Matrona, i
Farrauto) la sorte del contado è sempre quella: triste e subalterna. A fine
secolo, si verifica addirittura un fenomeno che, nella ferace terra del grano,
non si era mai registrato: la fame. Vendono impegnati gli iogalia delle chiese per il panizzo quotidiano.
DOPO
I DEL CARRETTO
Il seguito della storia dei del
Carretto di Racalmuto mostra ombre ancora non del tutto dissolte. Noi
disponiamo del testo di una procura rilasciata da don Luigi Gaetano per
l’occorrente investitura della contea di Racalmuto; vi è riepilogata la
faccenda della singolare acquisizione feudale: uno strano ed antigiuridico
passaggio dai del Carretto ai Gaetano attraverso la popolaresca intermediazione
di una tale Macaluso. L’evento poté verificarsi per il trambusto di quel
periodo con quell’alternarsi dei Savoia e degli austriaci in Sicilia fino alla
venuta dei Borboni.
E
in un atto del 6 marzo del 1736 si raccontano le peripezie della vedova di don
Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini, alle prese con la curia nel
tentativo di rinviare gli esborsi per l’investitura della contea di Racalmuto,
cadutale addosso dopo la morte del suocero don Girolamo del Carretto.
Brigida Schittini
Il
lungo tedioso documento vale solo per renderci edotti sul fatto che nel lontano
1709 Paola Macaluso ebbe a prestare poche onze (si parla del reddito su 32
onze) alla vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini. La
vedova lasciò insoluti i suoi debiti. Nel 1736, subito dopo l’avvento di
Carlo IV [VII] di Borbone (15 maggio
1734 - ag. 1759), Paola Macaluso, personaggio non meglio identificato,
riattizza un processo civile - insufflata evidentemente dal duca Luigi Gaetani
- pretendendo nientemeno la contea di Racalmuto a ristoro del antico modico
prestito, che però si era rigonfiato per interessi di mora e per ammennicoli.
Le sequenze processuali sono bene ricostruite in un documento del Fondo di
Palagonia: sono dettagli che possono interessare solo studiosi di diritto
civile nel Settecento siciliano.
Paola Macaluso
Paola
Macaluso la spunta sul piano processuale, ma non sa che farsene dell’assegnata
contea di Racalmuto. Allora candidamente dichiara di avere agito in nome e per
conto del duca Gaetani.
Luigi Gaetani
In
tal modo il duca Luigi Gaetani viene in possesso di Racalmuto (titolo e feudi)
in data 12 aprile 1736. Come si disse, don Luigi Gaetani non si aspettava una
situazione così deteriorata come quella che rinviene in questa sua usurpata contea.
Cerca
innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Siamo nel 1738 ed
una controversia lunga e defatigante.
Trova pretermessi i suoi diritti di
terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli
abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi
confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani
è costretto a sollevare un costoso incidente processuale. Estrapoliamo queste
note di cronaca.
Il
duca Gaetani si vanta di essersi accontentato della metà di quanto dovuto per
terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Ma ecco che i benedettini avanzano strane
pretese: vantano un esonero del 16 settembre del 1711. Ciò però non è accettabile
per una serie di ragioni giuridiche che gli abili legulei del duca dipanano da
pari loro. Ecco scattare un’altra occasione di lite giudiziaria. Siamo nel
1739.
Il
22 giugno 1741 i benedettini sono soccombenti. Le spese vengono compensate. Le
faccende racalmutesi, comunque, non sono
davvero prospere: il bilancio è deficitario.
Araldica
racalmutese dopo i del Carretto
Non
è agevole far collimare quello che emerge dalla documentazione Palagonia con
quanto asserisce il Villabianca (che in ogni caso appare minuziosamente
informato). Abbiamo visto che il duca Gaetani era riuscito sin dal 1736 a
divenire conte di Racalmuto. Evidentemente il marchese di Villabianca non ne
era ancora a conoscenza quando scrisse sui Ventimiglia; lo era invece allorché
pose mano al volume sui del Carretto.
* * *
Sciascia
rispolvera le sue giovanili letture del Tinebra Martorana; tiene presente anche
questa pagina araldica del S. Martino-De Spucches ed inventa un capitoletto del
suo Il Consiglio d’Egitto[4]:
«Don Gioacchino Requesens stava, tra monsignore
Airoldi e don Giuseppe Vella, ad ascoltare le mirabilie del Consiglio di
Sicilia.
«”E vi
voglio leggere” disse ad un certo punto monsignore “una cosa che vi farà
piacere… Nella vostra famiglia, se non sbaglio, avete il titolo della contea di
Racalmuto…”.
«Ci viene
dai del Carretto,” disse don Gioacchino “una del Carretto è venuta in moglie…”
«Ve la
voglio leggere,” disse monsignore “ve la voglio leggere” [e qui Sciascia
propina la pagina riportata dal Tinebra Martorana relativa alla statistica
araba della popolazione racalmutese del 24 gennaio 998: noi l’abbiamo sopra
trascritta]
«”Interessante” disse freddamente don Gioacchino. Ci
fu un momento di imbarazzato silenzio, monsignore deluso dallo strano contegno
di don Gioacchino. […] Ma don Giuseppe aveva già afferrato la situazione: don
Gioacchino, giustamente, si preoccupava di quel che sulla contea di Racalmuto
poteva venire fuori dal Consiglio d’Egitto. »
Francamente, non pensiamo che don Gioacchino Requesens
avesse di che temere dalla penna falsaria dell’abate Vella: erano i preti di
Racalmuto a molestarlo ed in modo davvero preoccupante. Finì che ci rimise i
privilegi del mero e misto imperio ed anche i lucrosi canoni del terraggio e del terraggiolo.
Terraggio e terraggiolo: atto finale
Presso la Matrice, come detto, si conserva un Liber in quo adnotata reperiuntur nomina
plurimorum Sacerdotum. Al n.° 292 (col. 16) incontriamo questa dedica a D. Nicolò Figliola: «di Grotte, domiciliato in Racalmuto, eletto
nella causa del Terragiuolo, che gli antenati inutilmente tentarono nei
tribunali contro il Signor Conte.
«Nell’anno
1783 si cominciò la causa, e nel tempo dell’agitazione il predetto Figliola due
volte si trasferì in Napoli al R. Erario e riportò dal Sovrano, che il Conte
mostrasse il titolo dell’imposizione del terragiolo, che non poté provare, per
cui sotto li 30 luglio 1787, dopo quattro anni di causa dal Tribunale si era
designato il giorno di decisione, ma il Figliola nello stesso mese, se ne morì.
«Il sudetto
nel 1786 ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e
Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso
di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del
Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto
il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»
Al n.° 297 (col. 17) tocca all’altro protagonista della
vicenda: l’Arciprete D. Stefano Campanella, di cui si tesse questo encomio:
«Collegiale-Economo nel
1754-1755 in Campofranco. Successore dell’Arciprete Antonio Scaglione, fatto il
concorso nella Corte Vescovile di Girgenti nel 1756 a 19 Febbraio sotto Mons. Lucchese Palli, approvato
e raccomandato alla Santità di Papa Benedetto XIV, da cui fu eletto Arciprete
Parroco con bolla emanata da Roma 16 giugno 1756 ed in Palermo esecutoriata 8
Agosto 1756 confirmata dal Vescovo di Girgenti 14 Agosto e l’indomani, 15,
prese possesso.
«Da
principio curò il ristoramento delle Fabbriche della Chiesa. Nel 1760 fece la
presente ampia Sacristia, nel 1767 compì il cappellone grande. Nel 1776 si
perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due campanili ed arricchì la
chiesa di arredi sacri nel 1783.
«Egli con
altri primari del paese incominciarono a proprie spese la causa per il
Terragiolo nel Tribunale di Palermo e
dopo quattro anni di strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a
28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra
territorium declaratur non deberi.”
«Finalmente
nel 1787 in Favara fu Visitatore eletto dalla Corte Vescovile di Girgenti per
quel Collegio di Maria. Morì compianto da tutti il 26 Aprile 1789 d’anni 60,
mesi otto, giorni 2 - e di Arcipretura anni 32, mesi 8 giorni 7.
«Fu ancora
Vicario di questo Monastero, Delegato dalla Regia Monarchia etc.»
La vicenda del terraggio
e del terraggiolo è stata oggetto di
nostre apposite ricerche, che, solo di
recente per il ritrovamento di
importanti documenti da parte del prof. Giuseppe Nalbone, abbiamo potuto
approfondire: crediamo di essere riusciti almeno in parte nell’opera di
ripulitura di tante incrostazioni ideologiche degli storici nostrani.
Di rilievo, alcune carte della Real Segreteria del 1785 che
palesano una settecentesca controversia clerical-sociale nella nostra
Racalmuto.
La politica
antibaronale del Caracciolo è fin troppo nota per sorprenderci dell’andamento
della controversia feudale di Racalmuto.
Non siamo
partigiani certamente del Principe di Lampedusa, né del sacerdote locale, don
Giuseppe Savatteri, che gli teneva bordone. Ma al di là dei meriti dei
sacerdoti Figliola e Campanella, prima rievocati, fu quella del 28 settembre
1787 una sentenza politica, giuridicamente azzardata, storicamente falsa.
Era di
sicuro un grande araldista il Requesens per lasciarsi abbindolare dai legulei
di Racalmuto. Avrà esibito i bei diplomi del 500 e del 600, tutti a suo
vantaggio, ma contro il Caracciolo naufragò.
Al di là
dell’aspetto sociale, che ci vede
dall’altra parte della barricata, siamo portati, per amore della storia locale, a credere che
il burbanzoso principe di Pantelleria avesse ragione e l’illuminista Caracciolo
sbagliasse.
Resta
ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto,
se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in
contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Abbiamo
notato sopra le varie controversie dei Gaetani sul terraggio e sul terraggiolo.
I tribunali gli avevano dato, tutto sommato, ragione, ma erano altri tempi.
Ora, alla fine del Settecento la musica è ben altra. Ne fa le spese il buon
nome del sac. Savatteri, vilipeso imperituramente da Sciascia.
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)
Bello,
elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere
- questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della
locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di
infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per
prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e
intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e
dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del
Crocifisso.
Quando, il
Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello -
si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di
dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito
negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per
dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori. Quello sui cui
il Tinebra trama è il carteggio del Caracciolo su cui abbiamo già detto.
Ripetiamo quello che riguarda il nostro sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di
giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16
- Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo
esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del
terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la
Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche
esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie
e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non
vedersi pur troppo soverchiati.»
Al Tinebra
Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda
della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo
(l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia
oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate
“notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica
(pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore
di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di
rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Scrive
dunque lo Sciascia [5]:
«Ecco il
rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi
praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza
analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere
dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito,
contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio
del Crocifisso.
Prosegue
Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte
ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far
restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote Savatteri aveva ad
essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero
così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più
complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di Napoli, che è quanto
dire.
D. Giuseppe
Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19,
D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo
aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte
della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare
le messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle
sanzioni. Così risulta annotato in registri della confraternita.
Tratti salienti del Settecento racalmutese
Il Settecento fu un secolo di riforme sociali e politiche per
Racalmuto: uscito dalle grinfie dei Del Carretto – ormai totalmente decaduti
per morti precoci e per debiti devastanti – il paese subiva uno dei più grossi
grovigli giuridici del tempo e cadeva nell’ipocrita rapacità dei Gaetano.
Abbiamo già detto dell’ineffabile Macaluso, una scialba signora che si presta
alle truffe feudali del duca di Naro. Patetico quel patrizio – che con
Racalmuto non aveva avuto mai nulla a che spartire – quando, con impudenza
tutta nobiliare, afferma che egli era niente meno che “mosso da pietà per i
suoi vassalli” nel reclamare le due salme di frumento per ogni salma di terra
coltivata. Siamo nel 1738 allorché sorse quella strana controversia feudale,
esemplare per la storia del nostro paese. Ci si mettono pure i monaci di
Milocca (dopo Milena): imbrogliano codesti feudatari in abito talare ed
inventano privilegi da parte del vescovo di Agrigento che, anche se con
l’avallo sacrilego della curia agrigentina, sono il segno della protervia degli
sfruttatori dei lavoratori racalmutesi con quelle aberranti pretese di
terraggio e terraggiolo. In pieno Settecento, il retaggio barbarico dello
schiavismo perdura ancora a Racalmuto. E gli ecclesiastici non ne sono certo
immuni, come dimostra una controversia tra il Convento di S. Martino delle
Scale ed il duca Gaetani.
Abbiamo prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci
pare opportuno riportare, in calce,
alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice. [6]
LE PERSONALITA’ DI SPICCO DEL SETTECENTO RACALMUTESE
Diciamolo subito: il secolo dei lumi è poco illuminato per
intelligenze locali che in qualche modo possano rasentare il genio: le parole
del Guicciardini care a Sciascia sulla
“ricolta” di ingegni negli stessi anni suonano ora del tutto vane. Né
grandi medici, né veri pittori, e neppure – ci dispiace per Sciascia –
rimarchevoli eretici. Solo il bestemmiare del popolino che è poi atto di fede
intensa.
Per contro abbiamo un prete in fama di santità: ma era tanto
sessuofobo e sgrana tanti rosari che non pensiamo ci si possa troppo gloriarne.
Il collegio di Maria era un reclusorio per ragazze, figlie di sventurate, che
vi venivano coatte perché possibili «occasioni di peccato». Per vaccinare
contro il vaiolo, non c’erano medici adatti. Si mandò a Palermo un “cerusico”,
un barbiere, per imparare una tecnica un tantinello meno rudimentale. E m°
Giuseppe Romano fu forse meglio dei medici, ma sempre barbiere era. Siamo alla
fine del secolo – 16 giugno 1795, dicono le cronache.
I preti lasciavano i loro beni – come nel Seicento del resto
– alle chiese forse terrorizzati per l’incombente accesso agli inferi, per
pratiche usurarie. Ma le volevano ampie e nude come il loro vacuo esistere. Il
sacerdote Pietro Signorino, dopo avere smunto il suo asse ereditario con tanti
legati, «instituisce, fa crea e nomina in sua Erede universale la venerabile
chiesa di S. Maria del Monte». Correva l’anno del Signore 1737 (die decima nona
Septembris, prima indictio, millesimo septingentesimo trigesimo septimo.) Si
doveva vendere tutto – “formenti, orzi, ligumi, superlettili ed arnesi di casa
– ed il ricavato, con il denaro dell’asse, andava speso «nella fabrica della
detta ven. Chiesa di S. Maria del Monte.» Ed il pio e talare testatore
soggiunge: «li frutti annuatim si percepiranno dalli suoi terreni stabili ed
effetti ereditarii, come delle terre, vigne, case, rendite ed altri proventi si
ritroveranno doppo la di lui morte si dovessero pure erogare dall’infrascritti
suoi fidecommissarii nella fabrica di detta Chiesa di S. Maria del Monte, e
questo fintanto che sarrà la medesima chiesa perfezionata tutta solamente di
rustico». Il prete non aveva molta fiducia nelle gerarchie ecclesiastiche, e –
non nuovo a tali tipi di astiosa riserva – vuole che non vi siano intrusioni
della «S. Sede, ovvero della Generale Curia Vescovile di Girginti né d’altra
persona.» Da escludere anche «l’Officiali della Compagnia della detta Ven.
Chiesa di S. Maria del Monte». Il Signorino ha fiducia solo nel «rev.do sac. D.
Baldassare Biondi del quondam don Francesco, del rev.do sac. D. Melchiore
Grillo e del rev. D. Elia Lauricella», sempreché agiscano «coniunctim».
Ancor oggi non si sa se il Santuario sia rifacimento o
ampliamento o – molto più probabilmente – una nuova costruzione che venne
addossata alla vecchia chiesa, divenuta sacrestia. Il padre Morreale è molto
meticoloso ed ovviamente agiografico. [7]
Propende, alla luce del testo delle disposizioni testamentarie, per una «nuova
chiesa» la cui prima pietra sarebbe stata posta il 14 agosto 1736 e solo
attorno al 1746 l’antica chiesa sarebbe venuta «a trovarsi dentro la nuova.»
Molto disinvoltamente Internet ci propina questa imprecisa versione, peraltro
ingenerosa verso il pio testatore Signorino. Per quell’informatico, la chiesa
del Monte: «Sorge sul
poggio più alto dell'antico borgo medievale. La chiesa fu costruita nel 1738.
Già nel 500 esisteva la chiesetta di S. Lucia. All'interno è ubicata la
leggendaria statua in marmo bianco di Maria Vergine di fattura gaginesca. Maria
SS. del Monte è la compatrona e regina di Racalmuto ed ogni anno, nella seconda
settimana di Luglio, si celebra la festa in suo onore. Durante i tre giorni
della festa viene rievocata la vinuta di la madonna con recite, cortei
con cavalieri in abiti del 500 e prumisioni che consistono
nell'offerta del grano alla Madonna da portare a piedi o su cavalli che,
spronati dalla folla, devono salire lungo la scalinata che porta al santuario.
Altro momento esaltante della festa è la pigliata di lu ciliu (una sorta di cero alto alcuni metri) che consiste nella
conquista della bannera da parte di
giovani borgesi scapoli. La lotta per conquistare la bandiera è talvolta
violenta, con pugni e calci da parte degli avversari. Tutto si quieta quando
uno dei borgesi afferra il drappo.»
Sciascia, che ebbe ad infilzare
proprio il mansueto padre Morreale, forse perché gesuita, a proposito della
ricerca storica sulla venuta della statua della Madonna del Monte, ora finge di
non dargli peso per codeste ricerche testamentarie del sacerdote Pietro
Signorino. Al giovane Tinebra Martorana aveva accordato il peso della sua
autorevolezza e in un caso analogo, quello del testamento del sacerdote Santo
d’Agrò, non si era lasciato sfuggire il destro per sardoniche bardote sul prete in “alumbramiento”. Altrettanto
poteva fare anche in questa circostanza della Chiesa del Monte, ma se ne è
astenuto. E dire che piccante poteva risultare la ricerca del gesuita p.
Morreale sulle propensioni a beneficiare una pinzochera da parte del pio
testatore. Pudicamente il gesuita annota: «nel testamento – il padre Signorino
– determinò alcuni legati a favore della Perpetua». Invero, la preoccupazione a
beneficiare Caterina d’Alberto è pressante. «Item il sudetto testatore hà
legato – si legge nel corpo delle disposizioni testamentarie – e per ragione di
legato lega à Caterina d’Alberto sua serva una casa, prezzo e capitale di onze
10 circa, quale vuole che se li dovesse comprare dalli ssopradetti suoi
fidecommissarii» e nel codicillo, in termini ancora più chiari anche se in
latino, «item dictus codicillator ligavit et ligat sorori Mariae de Alberto
bizocchae Ordinis Sancti Dominici in saeculo vocata Catarina eius famulae ultra
illas uncias decem in dicto eius testamento legatas tre infrascripta domus de
membris et pertinentiis eius tenimenti domorum » e passando al volgare «nempe
la prima entrata, la camera ed il catoio sotto detta camera della parte di
occidente, seu della parte di San Gregorio» e tornando al latino «de quibus
quidem tribus corporibus domorum ipsa
soror Maria, habet et habere debet solum usum exercitium». Non solo, ma
«dumtaxat – cioè vita natural durante – [le si devono] tumuli otto di frumento,
un letto fornito, due tacche di tela sottile, il mondello, due sedie di corina,
la criva, la sbriga e maiella, ed alcuni arnesi di cocina.»
Almeno, quello svolazzo del codicillo, una funzione la
esplica: dà materia per un eventuale museo etnografico.
LA SCUOLA PITTORICA DI PIETRO
D’ASARO :
IL PITTORE ANTONIO ANGELO CAPIZZI
Nel rivelo che Pietro d’Asaro fu
costretto a fare, per fini fiscali, nel 1637, viene dichiarato un tale Giuseppe di Beneditto d'anni diecidotto
discepolo. Nostre personali ricerche ci portato a credere che si tratti di
quel Gioseppi Di Benedetto che il 29 ottobre 1648 sposò Costanza Troisi, figlia
del defunto m° Luigi e della defunta sig.a Paola. Nei libri della matrice viene
annotato: «contrassero
matrimonio in casa publice senza essere fatte le solite denunciatione a lettere
del reverendissimo Sig. V.G. date nella
citta di NARO a 22 del presente et presentate in questa terra a 28 dello
predetto mese. Questo fu celebrato con la presentia di don Francesco Sferrazza
ECONOMO presenti per testimoni don Francesco Macaluso, Giovan Battista Lo
Brutto, Petro Pistone et cl. Leonardo di Carlo et fatte le denunciatione doppo
a 28 di novembre foro in questa ma matrice benedetti per don Federico La Matina
cappellano.»
Il
Di Benedetto fu certo pittore, ma ancora non si sa molto della sua produzione
artistica. Il p. Morreale – che pure è molto circospetto – si sbilancia, a
nostro avviso un po’ troppo, quando scrive [8] «Tra
i lavori fatti dal padre Farrauto c’è la sostituzione dell’altare dei santi
Crispino e Crispiniano; la tela dei due santi, opera di Giuseppe Di Benedetto,
discepolo di Pietro Asaro, fu sostituita da un bassorilievo. …» Non citandoci
la fonte, restiamo ancora nel buio. Comunque, l’attribuzione non è poi tanto
cervellotica.
Resta però singolare che
durante i grandi lavori della Matrice, il Di Benedetto non sia stato mai
chiamato a collaborare, a meno che non ostasse quel matrimonio che sembra un
po’ fuori dal rigore canonico
Il 17 novembre 1660 – e le nostre ricerche d’archivio danno
ancora vivo Giuseppe Di Benedetto – viene chiamato da Agrigento Antonio
Capizzi per “stucchiare e pingere” la
navata centrale della Matrice: il contratto prevede 29 onze di ricompensa. [9]
Ventinove onze sono
molte di più di quelle 12 che, secondo il Tinebra (p. 144) avrebbe lasciato il
rev. Santo Agrò nel 1622 per dipingere il quadro di Maria Maddalena. Sciascia
ci delizia con queste annotazioni di costume: «A vedere un’onza nella vetrina
di un numismatico ed ad immaginarne dodici una sull’altra, anche se non
sappiamo precisamente a quante lire corrispondano nella galoppante inflazione
dei nostri giorni [a circa Lit. 7.200.000 all’inizio del 2000, vorremmo
pedantemente soggiungere noi, n.d.r.]
una pala d’altare di un pittore che non era Guido (Reni per i posteri, ma per i
contemporanei soltanto Guido) non possiamo dirla mal pagata.» [10]
etc. Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse degnato di uno sguardo questo
vecchio libro di contabilità secentesca della Matrice.
Codesto Antonio
Capizzi si trova, comunque, bene a Racalmuto; mette su famiglia e lo troviamo
con una nidiata di figli e con una serva nella numerazione delle anime del 1664
(custodita anche questa in Matrice). [11]
Ma non ha altro
titolo di distinzione che quello di semplice “mastro”: niente “don” dunque; se
“pittore” fu, lo fu nel senso moderno di imbianchino. Dal figlio Giuseppe
nascerà il 5 maggio 1683 il pittore Antonio Angelo Capizzi, che pittore lo fu
davvero, ed anche se non può avere praticato una qualche bottega di pittura
degli eredi di Pietro D’Asaro (Giuseppe di Benedetto era morto da tempo quando
il Capizzi era ancora in fasce) affinità stilistiche attestano una scuola
racalmutese alla Pietro d’Asaro ancora seguita un secolo dopo.
ANTONIO ANGELO CAPIZZI,
PITTORE RACALMUTESE DEL SETTECENTO
Dobbiamo al libro di padre
Adamo [12] la
nostra piacevole scoperta che racalmutesse fosse Antonio Capizzi che operava a
Delia di sicuro dal 1726 al 1731. Francamente non ne sapevamo nulla e reputiamo
che pochissimi lo sappiano. Di certo, nessun accenno nella pubblicistica locale
che ormai appare decisamente sovrabbondante.
Scrive il p. Adamo,
parlando della chiesa dei Carmelitani di Delia: «Aggiungasi che già dal 1712 la
parrocchia si era trasferita proprio in questa chiesa, per la ricostruzione
della Matrice, e vi rimase fino al 1737. Le date rinvenute vengono a confermare
quanto detto. La più antica è il 1731. Si trova fra gli stucchi dell’arco
maggiore, accanto al grande affresco della natività di Maria: «Antonius Capizzi Racalmutensis …Anno
Salutis 1731» Nei lavori di
costruzioni del tetto e restauro del 1970, gli operai per inavvertenza
distrussero l’intonaco con la scritta. Le parole citate costituivano parte
della scritta perduta. Di grande importanza è poi la tela di s. Pasquale Bajlon
che porta data e firma dell’autore: «A.S.
1731 – Antonius Capizzi Racalmutensis pingebat – Decimoquarto Kalendas
Augusti».
A pagg. 164-165 vengono
riprodotti particolari degli stucchi attribuiti al Capizzi, molto simili, ci
pare, a quelli della Matrice che, pertanto, potrebbero essere dell’omonimo
nonno, sempreché la nostra ricostruzione genealogica sia fondata.
L’indubbia origine
racalmutese del pittore di Delia è provata da un atto di battesimo che si
trova in Matrice: nacque un Antonio
Angelo Capizzi in Racalmuto il 5 maggio 1683 e fu battezzato lo stesso giorno.
Il padre si chiamava Giuseppe e la madre Santa. Dopo, non risultano altri dati
anagrafici: almeno noi non siamo ancora riusciti a trovarli. Tutto però fa
pensare che si sia trasferito da Racalmuto. Forse a Delia, ove pare sentisse
profonda nostalgia della terra nativa, tanto da firmarsi come Racalmutensis: a
meno che ciò non rifletta l’orgoglio di essere compaesano di quel Pietro d’Asaro
che nel Settecento godeva di più o meno merita fama, come comprova l’esteso
elogio di p. Fedele da S. Biagio.[13]
Non si può, poi escludere,
che taluno dei tanti quadri settecenteschi delle varie chiese di Racalmuto sia
dovuto al pennello del Capizzi. Ricerche presso l’Archivio di Stato di
Agrigento e consultazioni dei vari rolli notarili ivi conservati potranno fare
uscire dall’anonimato le varie pale di S. Giuliano o di S. Pasquale o del
Carmine stesso oppure rettificare attribuzioni disinvolte a pittori operanti in
quel secolo.
Non ci intendiamo d’arte per sbilanciarci in valutazioni
estetiche: ad ogni buon conto epigoni della scuola racalmutese di Pietro
d’Asaro persistono nel pittore di Delia con gli inceppi dell’appiattimento
prospettico, la frustra tavolozza di mero decoro, il paesaggio intruso ed
alieno – come dire, per vacuo pretesto – e la composizione prolissa che si sfilaccia in riquadri disarmonici. E
se nel caposcuola eravamo, per dirla con Sciascia, «nell’epigonia manieristica,
negli echi baroccisti e caravaggeschi», nel discepolo vi è solo lo stracco
imitare, il pedestre eseguire, senza empiti, senza passioni come l’inespressivo
sguardo che sembra doversi assegnare alla agiografica rappresentazione dei
santi da venerare nei santuari. E per il Capizzi non disponiamo – diversamente che per l’Asaro –
di allegorie profane ove, con Sciascia, potremmo rinvenire «un che di
misterioso … da disvelare.» Forse l’eco del recente interdetto, forse la
spossatezza di una religiosità soltanto canonicistica, può rinvenirsi in
Capizzi; e ciò è pur sempre preziosa testimonianza, attestato del periferico
rurale adeguarsi o attaccarsi alla vita, «come erba alla roccia».
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici
dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni
(1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno
sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta
alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio
austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone
giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il
vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia l’interdetto che investe
Racalmuto apre questo tumultuoso periodo: l’investitura da parte dei Gaetani
della contea di Racalmuto, che cadde il 7 agosto 1735 ed il decesso
dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo chiudono sotto un duplice profilo: quello feudale, ma
in senso involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità vessatoria che la
morte dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto sfilacciata, e
sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti d’estrazione locale,
molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta inizia una serie di
racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come “economo-vicario” ) che
si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura di Antonio Scaglione - sino ai nostri giorni.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i
Sabaudi si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia
composta, tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a
Racalmuto, nonché da due compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550
soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere
finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d.
“donativo”. [14]
Col
passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento della morsa militare e
l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso[15]
del bandito Raimondo Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche
racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30
aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima
dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da
Prizzi arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio Signorino: don Filippo
Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia lasciato
un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro si limitano ad annotarne la
morte sul LIBER, al n° 220, seccamente, senza alcuna sottolineatura. Invero era
stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto energico e sicuramente preciso ed
ordinato. Ci lascia un tariffario che illustra ad abbondanza quanto fiscale
fosse la Chiesa di allora: veramente tassava dalla culla alla tomba come
abbiamo avuto modo di rappresentare una volta in una nostra mal tollerata
conferenza alla Fondazione Sciascia. I balzelli venivano pudicamente denominati
diritti di stola; il maggior peso si
aveva per i matrimoni per i quali vi è una casistica tanto puntigliosa quanto
invereconda.
Dobbiamo alla penna dell’Algozini un preciso
inventario delle ricche suppellettili
che ormai dotavano la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa
dell’assetto organizzativo della locale arcipretura, in uno con la
raffigurazione dell’interno della chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati
di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini
lascia, comunque, in sospeso la questione del quadro della Maddalena che si
continua ad attribuire a Pietro d’Asaro; l’arciprete si limita ad annotare:
“Altare di S. Maria Maddalena: item il quadro con la figura di detta Santa” e
non ne indica l’autore; per lui – come per noi – l’autore è anonimo. Se una
congettura personale è permessa, tendo a credere che il quadro sia stato
commissionato dall’Agrò in prossimità del 1637 (molto dopo dunque dalla
datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo del 1985), in nome e per conto di
qualche confraternita della Matrice o della Fabbrica; consegnato agli eredi,
costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano a sistemarlo nella già operante
Cappella della Maddalena, il cui spazio antistante viene acquisito per la
“carnalia” del sacerdote defunto e dei suoi eredi, previa destinazione alla
“Fabbrica” di un censo annuo di
un’oncia, prescelto tra i legati del sac. Santo Agrò. Singolare è il fatto che
nel 1731 si è perso il ricordo della tomba del sacerdote benefattore e
l’Algozini si limita ad annotare che «non sono sepolture sotto le predelle
dell’altari” e che in tutta la chiesa le gentilizie di specifici “patronati”
sono solo quattro ed appartengono ai « fratelli del SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo
Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654
non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il cennato censo di
un’oncia dell’eredità Agrò[16].
L’elaborato algoziniano che si conserva presso l’archivio
vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato della comunità
racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna
al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev. Dr. Filippo Algozini archipresbitere di
detta terra, alle dimande nelle istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo
Gioeni, vescovo di Girgenti per la visita pastorale.» Quel celebre vescovo
era di recente nomina (con bolla pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata
in Palermo il 5 gennaio 1731) e all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un
controllo ficcante e pignolo. Fornisce un questionario dettagliatissimo cui
l’arciprete deve dare esaustive risposte. Una fatica improba per lui, ma buon
per noi che siamo così in grado di disporre di una stratigrafica ricognizione
della comunità di Racalmuto a quasi un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove
nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In
totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il paese:
1.
la Matrice
chiesa sotto titolo della SS.ma Annunciata ; il Rettore ed
Amministratore il M.to Rdo Archipresbitere Dr D. Filippo
Algozini;
2.
Oratorio
del SS.mo Sacramento sotto titolo di S. Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o
Dr D. Filippo Algozini Archiprete, ed i congionti Mo
Scibetta e Mo Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3.
Chiesa
sotto titolo di S. Maria del Monte, il Rettore clerico coniugato Agostino
Carlino, Rdo Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito congionti, che
l’amministrano;
4.
Chiesa
sotto titolo di S. Rosalia, amministrata dalli Giurati di questa terra come
Padroni;
5.
Chiesa
sotto titolo di S. Anna, il Rettore clerico coniugato D. Calogero Sferrazza
congionto a Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele che l’amministrano;
6.
Chiesa
sotto titolo di S. Micheli Arcangelo, il Rettore e Amministratore il Rev. Sac.
D. Francesco Pistone;
7.
Oratorio
sotto titolo di S. Giuseppe, il Rettore Dr. D. Giuseppe Grillo ,
notaio Nicolò Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
8.
Chiesa
sotto titolo di S. Maria dell’Itria amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro
Signorino Beneficiale;
Chiesa sotto titolo di S. Nicolò di
Bari amministrata dal R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò mansionario della Catredale
di Girgenti, e per esso dal R.do Sac. Dn Isidoro Amella procuratore.
Queste le annotazioni che riguardano le chiese di campagna,
denominate “chiese fora le Mura”:
1.
Chiesa
sotto titolo di S. Maria della Rocca, il Retttore o amministratore Sac. D. Vincenzo
Avarello;
2.
Chiesa
sotto titolo di S. Maria di Monteserrato, in cui si celebra la povera festa
dalli pij devoti;
3.
Chiesa
sotto titolo di S. Maria della Providenza amministrata da D. Paolo Baeri
Patrono;
4.
Chiesa
sotto titolo di S. Marta amministrata da Pietro Mulè Paruzzo procuratore;
5.
Chiesa
sotto titolo di S. Gaetano amministrata dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come
Padrone;
6.
Chiesa
sotto titolo del SS.mo Crocifisso, amministrata dal Rev. Sac. D. Antonio La
Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed oratori domestici”
(queste saranno di moda alla fine del Settecento e si protrarranno sino alla
seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque
conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
1.
Convento di
S. Maria del Carmine;
2.
Convento di
S. Francesco de Padri Minori Conventuali;
3.
Convento di
S. Maria de Padri Minori osservanti;
4.
Convento di
S. Giovanni di Dio de’ PP. Fateben fratelli;
5.
Ospizio di
S. Giuliano de’ PP. di S. Agostino della Congregazione di Sicilia;
6.
Monastero
de Monache dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano conventi soppressi.
A Racalmuto operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei
Padri fatebenefratelli giusta li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di
pegno.
In compenso operavano due confraternite e cinque “compagnie”.
1.
Confraternità
di S. Maria di Giesù, li Rettori sono Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo
Missana e Giovanne Farrauto; si fanno ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
2.
Confraternità
di S. Giuliano, li Rettori sono Giovanne d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe
Savarino e Vito Mantione, il loro governo dura anno uno, incominciando dalla
Prima Domenica di Gennaro;
3.
Compagnia
del SS. Sacramento, Governatore il Mo R.do D. Filippo Algozini,
congionti Mo Giacinto Scibetta e Mo Giuseppe Di Rosa, il
loro governo dura tre mesi, incominciando dalla domenica infra “octavam
Corporis”;
4.
Compagnia
del Thaù fondata nella Chiesa di S. Anna, Governatore D. Calogero Sferrazza,
congionti Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele; dura il loro officio tre
mesi, incominciando dalla Domenica più prossima all’otto che ch’incide del
mese, li presenti furono fatti all’8 Giugno 1731;
5.
Compagnia
dell’Anime del Purgatorio fondata nella Chiesa di S. Micheli Arcangelo,
Governatore Raimondo Borcellino minore, congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto
e Santo La Matina Calello; il loro officio dura quattro mesi incominciando
dalla Prima Domenica di Gennaro;
6.
Compagnia
di S. Maria del Monte, Governatore Clerico Coniugato Agostino Carlino,
congionti R.do Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito; il loro officio
dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Settembre;
7.
Compagnia
di S. Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed
Ignazio Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda
domenica di Gennaro.
Ci viene fornito un dato anagrafico di notevolissima
importanza: sapendo quanto precisi erano gli uomini della Chiesa, possiamo
essere certi che davvero a Racalmuto, nel giugno del 1731, c’erano 1200
famiglie con 5.134 anime o abitanti che dir si voglia (in media 4,28 componenti
per ogni nucleo familiare). Nutritissima la compagine ecclesiastica: 28
sacerdoti: un sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183 abitanti. Ecco
l’elenco:
1.
Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D.
Filippo Algozini;
2.
Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario
Foraneo;
3.
Sac. D. Filippo Cino;
4.
Sac. D. Francesco Pistone;
5.
Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
6.
Sac. D. MichalAngelo Rao;
7.
Sac. D. Ignazio
Laudito;
8.
Sac. D. Paulo Spagnolo;
9.
Sac. D. Gerlando Carlino;
10.
Sac. D.
Antonino Macaluso;
11.
Sac. D.
Francesco Torretta;
12.
Sac. D. Gaspare
Casucci;
13.
Sac. D.
Vincenzo Casucci;
14.
Sac. D.
Leonardo La Matina;
15.
Sac. D.
Calogero Pumo;
16.
Sac. D. Giovan
Battista Pumo;
17.
Sac. D.
Antonino Mantione;
18.
Sac. D.
MichalAngelo Savatteri;
19.
Sac. D. Isidoro
Amella;
20.
Sac. D.
Vincenzo Avararello;
21.
Sac. D.
Francesco De Maria;
22.
Sac. D. Antonio
La Lomia Calcerano;
23.
Sac. D.
Baldassare Biondi;
24.
Sac. D. Pietro
Signorino;
25.
Sac. D. Orazio Bartolotta;
26.
Sac. D.
Antonino d’Amico minore;
27.
Sac. D. Ignazio
Pumo;
28.
Sac. D. Santo
Farrauto.
Ma le vocazioni non mancavano; erano già diaconi: Melchiore
Grillo ed il nostro Servo di Dio padre Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva
ricevuto l’ordine minore del suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco
Grillo; Vito Gagliano; Vincenzo Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi;
Ludovico Amico; Diego Martorana; semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino
Tirone; giovani lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro;
Calogero Vinci; Leonardo Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio
Picone; i chierici tonsurati erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e
Nicolò Milano. Tutti gli ottimati racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano
ad esserlo nel secolo dei lumi ma anche dell'irrompere di una nuova classe,
quella borghese, vi sono rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di
riguardo. Tra queste i Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché
ancora non scesi a Racalmuto.
Alcuni signori amano essere chierici “coniugati”, forse per i
benefici del Santo Offizio: D. Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D. Paulo
Baeri. Ad un livello inferiore troviamo i chierici “coniugati” Agostino
Carlino, Francesco Farrauto e Giuseppe Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però
eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno
disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da
potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre
all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci:
Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La
Matina.
E
passiamo ora ai conventi. Iniziamo dai Carmelitani.
Il
priore era un racalmutese DOC: il sacerdote padre Carlo Maria Casucci,
assistito dal sac. D. Pietro Paolo Roccella. Il padre lettore, il sac. Antonio
Monticcioli era in trasferta a Trapani. Stavano al Carmine, a beneficiare delle
laute rendite i fratelli – i “fratacchiuna” – fra Elia Salemi, Fra Angelo La
Rosa e fra Gerlando Montagna.
I
francescani conventuali erano quelli del convento di S. Francesco; dovevano
essere in quel momento in crisi: un solo sacerdote, padre Giuseppe Cimino – che
giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo Surci (semplice “fratello”).
Non
così invece a S. Maria di Gesù: quattro sacerdoti, venuti tutti da lontana via
a godersi le tante rendite (P. Michelangelo da Lentini, P. Ludovico da Licata,
P. Giovan Battista da Mussomeli e P. Bonaventura da Canicattì) e quattro
“fratacchiuna” (fra Pasquale da Racalmuto, fra Gaetano da Cammarata, fra
Giiovanni Battista da Racalmuto e fra Geronimo da Racalmuto). Stavano al
convento attiguo alla chiesa; appartenevano all’ordine francescano dei Minori
Osservanti; coltivavano le feraci terre ove ora c’è il cimitero e sino al 1866
riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure con alterna fortuna.
A
S. Giovanni di Dio, adibito soprattutto ad ospedale, non c’erano sacerdoti ma
solo due “fratelli”: fra Bernardo Sassi e fra Vincenzo Mercante, decisamente
forestieri. Le lamentele fatte al Papa da parte del vescovo Ramirez non erano
poi infondate.
Il
convento di S. Giuliano doveva essere chiuso da almeno mezzo secolo ed invece
eccolo vivo e vitale – sia pure ora inquadrato nell’ordine di S. Agostino della Congregazione di Sicilia. Quanto sia ricco lo
si vede da una dichiarazione dei redditi, con annesso stato patrimoniale, del
1754. Qui dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto, P. Ignazio da
Geraci e P. Anselmo da Adriano) e tre “fratelli” (fra Giuseppe da Racalmuto,
fra Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I fratelli laici
dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la “ricerca” delle elemosine in
natura, ad onta delle cospicue rendite.
Ed
ora è il turno del convento delle monache di S. Chiara. Vi pullulano ben 22
recluse, in uno spazio che per quanto ampio costituiva una specie di carcere
per donne di diversa estrazione, di diversa età e persino di diversa cultura.
Venivano sepolte nella graziosa chiesa della Batia. Ora, il pavimento della
vecchia chiesa è ridotto a sala di conferenza. I loro resti umani vengono
calpestati senza rispetto alcuno, senza un ricorso, senza un fiore. Almeno
quelle derelitte del 1731 ricordiamole qui, con come e cognome.
L’abbadessa
era suor Domenica Rizzo ed è dubbio che fosse di Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor Rosa Renda. Provenivano da
famiglie di spicco: suor Gesua Maria Lo Brutto, suor Maria Stella Sferrazza,
suor Maria Lanciata Di Benedetto, suor Maria Grazia Casucci, suor Maria
Crocifissa Signorino, suor Claradia Amella, suor Maria Gioacchina Brutto, suor
Angelica Maria Signorino, suor Francesca Maria Biondi, suor Maria Scolastica
Signorino; da forestieri o da famiglie non altolocate che riuscivano a
sistemare le figlie superflue tra le cosiddette clarisse, ove il pane
quotidiano era almeno assicurato: Suor Giuseppa Maria Caramella, suor Pietra
Margherita Zambito, suor Maria Serafica Zambito, suor Carla Maria Provenzano,
suor Antonia Maria Raspini.
E
con loro, le novizie Vita Vinci e Orsola Guadagnino. Tre “converse” –
all’ultimo gradino di quella opprimente gerarchica monastica – erano tutte del
luogo: soro Geronima Martorana, soro Elisabetta La Licata e soro Angela Rizzo.
Un tratto di penna dell’Algozini e poi più nulla per queste vite umane, per
queste vittime di una condizione femminile settecentesca, echeggiata appena
dalla Maraini quando ebbe a raccontare la lunga vita di Marianna Ucria. Ma qui
non c’è neppure il benessere del dominio aristocratico.
I
benefizi ecclesiastici sono appena quattro: uno è in possesso dell’arciprete e
gli altri sono semplici: quello di S. Antonio viene goduto da d. Gaspare
Casucci; l’altro di S. Maria dell’Itria da don Pietro Signorino, quello che
lascerà tanto alla chiesa del Monte; ed infine quello di S. Nicolò di Bari
assegnato a don Gaspare d’Agrò.
I
mansionari, i preti salmodianti a pagamento in Matrice, sono ancora dodici,
come aveva voluto il fondatore, l’arciprete Lo Brutto e, a scorrere la lista,
ci si sorprende che autorizzati a ricevere le confessioni sono solo d.
Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e d. Francesco Torretta; gli altri (don
Filippo Cino, don Francesco Pistone, don Vincenzo Casucci, don Giambattista
Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino, don santo Farrauto, don
Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e Morreale) sono bravi a
cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti all’altezza delle confessioni,
specie delle donne. Per converso don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina
vengono ritenuti idonei ad impartire l’assoluzione dai peccati, ma sono per il
momento tenuti lontano dai benefici economici che il cantare Vespro e Compieta
fa conseguire. Don Nardu Matina non sarà mai beneficiale venendo a decedere nel
1733 (LIBER, n° 216); Baldassare Biondi (+ 29 ottobre 1771) farà carriera,
diverrà vicario foraneo e raggiungerà la ragguardevole età di 82 anni (LIBER,
n° 284).
Racalmuto
non ospita eretici o scomunicati; è tutto sommato morigerato e rispettoso della
religione e dei precetti della chiesa. L’Algozini può così rispondere
all’apposito paragrafo del questionario:
1.
Non vi sono
scomunicati, , né sospesi, interdetti o che non abbiano adempito la communione
paschale, o non osservato le feste, né publici usurarij, concubinarij,
adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso da sua moglie che ostinatamente
abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua moglie che pure ostinatamente
non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di Gaetana d’Anna sua moglie; né pure
vi sono giocatori scandalosi né inimici;
2.
Vi sono due
maestri di scuola, rev.do sac. D. Calogero Pumo ed il Diacono D. Melchiorre
Grillo;
3.
Quattro
medici fisici dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D. Giuseppe Amelli, rev. Sac. D.
Ignazio Pumo, ed il clerico coniugato D. Calogero Sferrazza;
4.
Chirurghi
dui il clerico coniugato D. Giuseppe Sferrazza e D. Antonino Amelle;
5.
Due
levatrici, Angela Rini e Maria Schillaci, ambi di buoni costumi e sanno la
forma del Battesimo.
IL CLERO
RACALMUTESE NEL SETTECENTO.
Parlare
delle cose di chiesa non è poi cosa diversa dal palare del vivere civile in
tempi – come ancora è il Settecento – ove il sacro ed il profano non ha linee
di demarcazione ben distinte. Il cosiddetto spirito laico è prodotto di colture
recentissime. Certo in Francia fu storia diversa. Facile citare il Voltaire. Ma
noi siamo a Racalmuto e quello che di laico vi poteva essere non andava al di
là di qualche espressione blasfema, cui il popolino pare indulgesse, nonostante
le pene che la curia vescovile s’industriava di infliggere. Ancora, alla fine
del secolo, il noto canonico Mantione, quando ancora era arciprete, segnalava
al Caracciolo coloro che si astenevano dal precetto pasquale. Ed il laicissimo
Viceré, che ancora rappresentava il re quale titolare dell’Apostolica Legazia
sanciva richiami, più o meno convinti.
Parlare dunque
di preti a Racalmuto nel settecento è in definitiva parlare della componente
più vistosa e più intricante della classe dirigente locale. E a ben vedere
anche di quella economica.
Ecco perché
ci avvaliamo di una rubrica stretta ed alta che l’arciprete Puma conserva
ancora gelosamente in Matrice per seguire l’elenco degli ecclesiastici che
finirono i loro giorni nel Settecento. «LIBER in quo adnotata reperiuntur
nomina plurimorum Sacerdotum, nec non Diaconorum et Subdiaconorum et Clericorum
huius terrae Racalmuti, jam ex hac vita discessorum a pluribus ab hinc annis
fere immerorabilibus, opere R.di Sac. D. Paulini Falletta hon anno 1636 pro
quarum animarum suffragio semel in mense in feria secundae hebdomadae ad
cantandam missam omnes Sac.es, Diaconi, Subdiaconi et Clerici se obbligaverunt
convenire, ut in actis Notari Panfilis
Sferrazza Racalmuti sub die 26 Martii 1638» reca come intestazione il registro,
che non si ferma al 1636 ma prosegue sino al sac. Don Gaetano Chiarelli, di cui
ha steso convinte note biografiche l’attuale arciprete, p. Puma.
Nel
Settecento furono 161 gli ecclesiastici racalmutesi che qui cessarono di
vivere. Per la maggior parte, solo data di nascita e di morte, per qualcuno
solo la data di morte e l’indicazione degli anni; per taluni – i privilegiati –
note biografiche più dense. Il secco annotare si stempera un po’ con D. Pietro
Signorino (n° 139), con il chierico Giuseppe Nalbone ( n° 279), con D. Antonino
Picone Chiodo per essere esplicito – ma non troppo – con p. D. Giuseppe Elia
Lauricella e divenire persino prolisso con D. Nicolò Figliola e D. Stefano
Campanella: le ragioni economiche fanno aggio su quelle della santità.
Altrove forniamo una
lunga sfilza di sacerdoti, ecclesiastici e suore di Racalmuto nel Settecento.
Sono ricavabili n° 118 famiglie che vantano un religioso nel proprio casato;
per ordine alfabetico abbiamo:
ALAIMO
|
ALESSI
|
ALFANO
|
ALFIERI
|
ALGOZINI
|
AMATO
|
AMELLA
|
AMICO
|
AMICO E MATINA
|
AMICO
E MORREALE
|
ARNONE
|
ARRIGO
|
AVARELLO
|
BAERI
|
BARONE
|
BARTOLOTTA
|
BELLAVIA
|
BIONDI
|
BIUNDO
|
BORZELLINO
|
BRUTTO
|
BUSUITO
|
CACCIATORE
|
CAMPANELLA
|
CARAMELLA
|
CARINI
|
CARLINO
|
CARRETTI
|
CASTROGIOVANNI
|
CASUCCI
|
CAVALLARO
|
CHIODO
|
CIMINO
|
CINO
|
CONTI
|
CRINO'
|
CURRETTI
|
CURTO
|
DE MARIA
|
DI BENEDETTO
|
DI CARO
|
DI MARIA
|
DI NARO
|
FARRAUTO
|
FIGLIOLA
|
FRANCO
|
FUCA'
|
GAGLIANO
|
GAMBUTO
|
GATTUSO
|
GIUDICE
|
GRILLO
|
GRILLO E BRUTTO
|
GUADAGNINO
|
LA LICATA
|
LA
LOMIA CALCERANO
|
LA LUMIA
|
LA MATINA
|
LA MENDOLA
|
LA ROSA
|
LAUDICO
|
LAURICELLA
|
LO BRUTTO
|
MACALUSO
|
MAIDA
|
MANTIA
|
MANTIONE
|
MARRANCA
|
MARTORANA
|
MATRONA
|
MATTINA E MARIA
|
MATTINA ED AGRO'
|
MERCANTE
|
MILANO
|
MONTAGNA
|
MONTICCIOLI
|
MORREALE
|
MULE'
|
NALBONE
|
PANTALONE
|
PERRIERA
|
PETRUZZELLA
|
PICATAGGI
|
PICONE
|
PIRRERA
|
PISTONE
|
POMO
|
PROVENZANO
|
PUMA PAGLIARELLO
|
PUMO
|
RAO
|
RASPINI
|
RENDA
|
RESTIVO PANTALONE
|
RIZZO
|
ROCCELLA
|
SALEMI
|
SALVO
|
SALVO SINTINELLA
|
SASSI
|
SAVATTERI
|
SAVATTERI E BRUTTO
|
SCIBETTA
|
SCIBETTA ALFANO
|
SCIBETTA E FRANCO
|
SCIBETTA E MENDOLA
|
SCIME'
|
SFERRAZZA
|
SIGNORINO
|
SPAGNOLO
|
SPINOLA
|
SURCI
|
TIRONE
|
TORRETTA
|
TROISI
|
TULUMELLO
|
VINCI
|
L’elenco
del LIBER (come d’ora in poi chiameremo quel registro con la lunga intestazione
in latino sopra riportata) esordisce con d. Vincenzo Casucci (n° 154)
Collegiale. Obiit 4 Augusti 1701 di anni
41. Il 18 dicembre è la volta di d. Calogero Pumo di 90 anni. L’autore del
LIBER muore il 21 agosto 1705 all’età di 75 anni. Don Vincenzo Castrogiovanni
(+ 28 agosto 1706) era “predicatore e Collegiale). Collegiale era pure Davide
Corso (+ 3 luglio 1707): anzi, insieme con don Vincenzo Castrogiovanni, era
stato tra i primi mansionari all’atto della costituzione della communia il 13
gennaio 1690. Don Michelangelo Romano (24 ottobre 1711) fu beneficiale di S.
Nicolò. Altro collegiale fu d. Gaetano Cirami (+ 2 febbraio 1712). Don Giambattista
Baera (+ 15 ottobre 1714) e d. Francesco Savatteri (8 settembre 1712) risultano
entrambi “collegiali”.
Don Pietro
Casucci (+ 7 dicembre 1713), collegiale della prima ora, trova sepoltura in
Matrice “ex obbligazione” ad onta dell’interdetto. Aveva solo 55 anni. D. Santo
d’Acquista (+ 15 ottobre 1714), il primo dei 12 mansionari del 1690, viene
tumulato come il Casucci, in Matrice “ex obligatione” facendosi eccezione
all’interdetto del Ramirez. D. Francesco La Mattina era stato canonico della cattedrale. D.
Giuseppe Provinzano (+ 21 settembre 1729) abbate predicatore, Vicario e
collegiale. Don Lorenzo Farrauto (+ 7 novembre 1729) cappellano, collegiale.
Il dr. Don
Fabrizio Signorino (+ 15 settembre 1729) era stato arciprete e collegiale. A
quanto pare non si era molto curato dell’interdetto. Suo Vicario: dr. Don
Giuseppe Lo Brutto (+ 10 dicembre 1728) che ovviamente era stato anche
collegiale, insieme con d. Calogero Cavallaro (+12 gennaio 1730) e con d.
Antonino d’Amico (+ 5 giugno 1732). Non solo collegiale ma anche
fidecommissario della chiesa di S. Michele era stato d. Francesco Pistone (+ 26
dicembre 1733).
L’arciprete
dr. Don Filippo Algozini di Prizzi muore a Racalmuto il 20 ottobre 1735 all’età
di 50 anni. Suo un rapporto dettagliatissimo sulla Matrice, datato 1731.
L’economo vicario d. Francesco Torretta decede il 7 settembre 1744. Per don
Pietro Signorino (+ 11 aprile 1747) il LIBER annota: “Beneficiale dell’Itria –
Fondatore della chiesa del Monte”. Aveva 70 anni .
Veniamo a
sapere che d. Girolamo Grillo (+ 23 febbraio 1745) era “commissario del S.
Officio”. Muore a soli 27 anni. D. Francesco Sferrazza (+ 10 ottobre 1753) fu
arciprete di Castrofilippo. In risalto d. Francesco Di Maria (+ 9 marzo 1754),
in quanto “fondatore della chiesa di S. Pasquale”. A 66 anni muore d. Orazio
Bartolotta (+ 13 luglio 1745) Il dr. Diego di Franco (+ 30 ottobre 1755) aveva
avuto un canonicato nella Cattedrale di Agrigento. Don Gaspare Casucci (+ 26
gennaio 1757) era stato collegiale, beneficiale di S. Antonio. Muore il 27
gennaio 1757 l’arciprete dr. D. Antonio Scaglione. Beneficiale era stato anche
d. Vincenzo Casucci (+ novembre 1757). Anche don Melchiorre Grillo (+ 30
dicembre 1759) era stato commissario del S. Officio; in più “economo
fidecommisso della chiesa del Monte e collegiale”. Altro commissario del S.
Officio: d. Orazio Bartolotta (+ 11 luglio 1761): “era di Montedoro”. Muore il
vicario foraneo dr. D. Giuseppe Grillo (+ 17 dicembre 1764). Il chierico
Giuseppe Narbone (+ 30 marzo 1766) viene “ritrovato morto in un palmento dello
Zaccanello” Aveva 19 anni. Beneficiale di S. Nicolò era stato d. Giuseppe
d’Agrò (+ 29 agosto 1768). D. Antonino Picone Chiodo (+ 19 maggio 1771) “morì
ammazzato con un colpo di fucile”; aveva 42 anni.P. d. Angelo Maria Baera, morì
d’apoplessia il 28 novembre del 1778. Ed è ora la volta di Padre Elia.
N° 283. P. D. Giuseppe Elia Lauricella - «Collegiale, Maestro di Spirito nel Seminario
di Girgenti, Missionario, Predicatore e confessore di diversi monasteri e
Collegi di Maria, promotore zelante per la recita del SS. Rosario in ogni 21
ora nelle piazze e nelle strade, a tutti caro, e stimato per lo spirito di Dio,
e pochi mesi pria di morire, curò la fondazione di questo Collegio di Maria, fu
Curato di Comitini, ed altri paesi della Diocesi, morì in fama di santità in
Canicattì con pianto universale, e nella Chiesa degli Agonizzanti sta sepolto
il di lui cadavere e fu nel giorno 8 Novembre 1780 – d’anni 73» P.S. Traslato
al santuario di racalmuto il 16.1.1966. A.Puma.
All’età di
85 anni muore il detentore dei libri della matrice D. Antonino Mantione (+ 21
novembre 1781), aveva 85 anni. All’età di 74 anni muore d. Benedetto Nalbone (+
16 marzo 1783). Quanto a d. Nicolò Figliola, ne scriviamo altrove, come per
l’arciprete D. Stefano Campanella. Risulta vicario foraneo e “uomo di governo”
D. Alberto Avarello (+ 28 ottobre 1787). Il collegiale d. Pasquale Fucà muore a
73 anni il 24 agosto 1797. E’ l’ultimo della lista, per quanto riguarda il
secolo XVIII.
Considerazioni conclusive sul Settecento Racalmutese.
Il
Settecento si chiude con quattro protagonisti, tutti sacerdoti, dotati di una
personalità spiccata; costoro furono sicuramente fra loro confliggenti e
lasciarono solchi indelebili nel corso della locale vita paesana. Essi sono :
don Nicolò Tulumello, don Francesco
Busuito, don Giuseppe Savatteri e Brutto, nonché l’arciprete – non ancora
canonico - don Gaetano Mantione.
Su
don Nicolò Tulumello, con le sue poco pie voglie di acquisire indebiti titoli
nobiliari, abbiamo già detto. Su don Giuseppe Savatteri, altrettanto e non
vanno neppure obliate le stilettate inferte da Leonardo Sciascia. Don Francesco
Busuito – veniamo a sapere dal LIBER – fu “consultore del Sant’Ufficio”, fino a
quando non venne soppresso. C’era materia per dileggi sciasciani, ma il
sacerdote la passò liscia, per non conoscenza dei fatti, pensiamo.
Era
imparentato con don Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono
un ramo di quella famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel
LIBER, mentre al Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al
Busuito l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza
dell’arciprete Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco
Busuito – vi si legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista,
Consultore del Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto
Monsignor Gioeni alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente.
– Maestro di Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore,
Rettore del Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS.
Crocefisso, Economo – obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se
tutti questi elogi siano dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o
non era una scelta di campo dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito
e tutto avverso al Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco
di quegli intrighi si hanno persino nel 1870 in una memoria difensiva del
sacerdote don Calogero Matrona. Anche in quella sede è detto che nel 1767 il
vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti alcuni beni dell’Arciconfraternita
del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D.
Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don Calogero Matrona,
divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo
dell’8 luglio 1767 - scrive fra l’altro il Matrona - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella
Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la
Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio
semplice in adjutorium Parochi di
libera collazione da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le
obbligazioni di coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di
celebrare in diverse solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta
Messe, costituendosi in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella
Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso
Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la
prima volta il beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso
in persona di un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del
10 luglio 1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale
il Sac. Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario
di Girgenti dispensandolo
dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a
sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le
obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione,
come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don
Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la
fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva
lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra
in dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal
Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la
suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone
enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto
contrada Menta dotate alla moglie
del suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di
un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di
pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati
fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di
giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi
e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati
a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco
solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il
pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria
autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di
possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto
sotto il 3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei
fondi, conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i
pesi efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione,
pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio
anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi
questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi
nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici
persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma
Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame
dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui
con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di
altra persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore
nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione
dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di
definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798,
quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori
trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il
cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi
biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto
il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri
agendo con più di moderazione pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor
Granata, e desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si
contentava soltanto che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia
e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità
delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il
beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore,
a vista della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non
ecclesiasticità del beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei
fondi, pensò accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto.
Quindi perché conobbe la verità delle cose per coscienzioso temperamento pensò
conferire anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che
è l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno
1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa Sede, perché al detto
chierico avesse potuto conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo
dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del
Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio
e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii [...]»
Al
beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don
Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo
1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe
Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi,
appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue
memorie su Racalmuto, risente ancora di quel
clima infuocato che in proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio
del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902
pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di
padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
IL CANONICO MANTIONE
Il canonico
Mantione è personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo
coltissimo ma sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del
Gattopardo. Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di
Santa Rosalia. V’è tutta una documentazione all’archivio vescovile di Agrigento
ove si parla della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene
l’autorizzazione a venderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti
Grillo; a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare –
quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una imperdonabile colpa del
canonico Mantione. Per mera grettezza economica ha lasciato che una
gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa
Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa
in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del
Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed
una sacralità superiori allo stesso
interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva
permettere quello scempio. Era da
quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue.
I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano disponibilissimi.
E’ un comportamento – quello dell’arciprete del tempo – che mi appare
incomprensibile. Un pozzo di scienza,
viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella
gli riverbera una poco esaltante ombra.
A
voler sintetizzare, quella era un’antichissima chiesetta risalente, a seconda
delle varie versioni, al 1200 (Vetrano,
Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente
quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali
agrigentine). Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio
venne riadatatta, o edificata (o riedificata); resistette sino al 3 giugno 1793 quando fu ceduta, appunto, al
sac. Salvadore Grillo; e ciò per un baratto: un altare con statua alla Matrice per una
chiesa da ridurre a stalla.
Santa
Rosalia non ha più casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento.
Nell’epoca del romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del
Monte di cui credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga
era stata inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don
Francesco Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone
nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità
ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso
dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente
eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli
recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla
testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed
ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’
«aura romantica ed un tantino melodrammatica».
L’INTERDETTO
L’eredità
arcipretale del Lo Brutto tocca a Fabrizio Signorino: su di lui cade la
tegola dell’interdetto. Senza ricorrere al Mongitore, sappiamo dai libri della
matrice che:
eodem die 2 settembre
1713 VII ind. die 3 settembre 1713 VII Ind.Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima
fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti.
Si dovette affiggere la bolla episcopale di interdetto generale il
3 settembre 1713, nel giorno di Santa Rosalia: forse fu anche per questo che
dopo meno di un secolo decadde a Racalmuto il culto di Santa Rosalia, prima egemone ed a
carico della universitas. L’ordine è
quello di approfittare della notte (hora vigesima), per aggirare e raggirare le
autorità civili.
Le sepolture, dal giorno dopo, non possono farsi in chiesa, ma in
un luogo a ciò “deputato” dal signor arciprete. Il primo a
farne le spese è un chierico coniugato a nome Santo Bordonaro:
4/9/1713 - Sancto f. cl. coniug. Stefani et Ninfa Bordonaro e mesi in loco deputato a rev.do arch.
L’esordio è duro e sembra che non si guardi in faccia a nessuno.
Dopo, data la legge, trovato l’inganno: basta una bolla a pagamento di
sovvenzione delle crociate per avere cristiana sepoltura in chiesa.
Certo,
scatta ora il dramma della regolare somministrazione dell’estrema unzione:
quest’atto ne lascia traccia:
5/9/1713 - Agostina f. di m° Stefani et
Catarinae Rizzo di anni 11; sepolta in
una ex foveis deputata a rev. arch. in via s. gregorii - gratis pro deo - roborata ante officium interdecti.
La
fanciulletta, undicenne, figlia di mastro Stefano e Caterina Rizzo, viene tumulata
- con quale strazio, è facile intuire - nelle fosse comuni prescelte (e
benedette) dall’arciprete Signorino, degradanti nella scoscese contrada di S.
Gregorio (S. Grigoli). E’ povera ed il funerale è avvenuto gratis pro Deo; era
stata “roborata” - confortata e temprata alla morte - secondo i sacri canoni,
alcuni giorni prima, quando non era scattato l’ Officium interdecti.
Ma
ora muore un notabile, un Romano: non può certo venire esposto
all’inclemenza del clima e di altro:
7/9/1713 - Salvatore Romano vir Josephae Romano di
anni, 43, sepolto in matrice, per privilegium bullae sanc. cruciate e pure
gratis pro deo.
Le
note dell’atto funerario svelano parecchi aspetti religiosi ma anche sociali ed
economici della Racalmuto del tempo. Il Romano muore a 45 anni, ad un’età che pur supera di
molto l’età media della mortalità del secolo dei lumi in quel di Racalmuto.
Appartiene ad una delle più prestigiose famiglie del luogo, ma è caduto in
miseria e per i suoi funerali non può corrispondere i diritti ecclesiastici dei
c.d. festuarii. Supplisce la carità
dei preti, che il funerale lo fanno lo stesso, gratis pro Deo. Il settecento fu
a Racalmuto, come altrove in Sicilia, misero, in crisi economica profonda, con
punte di grande fame per tutti. A fine secolo, i sacerdoti racalmutesi
ottengono l’autorizzazione dell’Ordinario ad impegnare gli arredi sacri per
approvvigionare l’Universitas di grano per la pubblica fornitura del pane
quotidiano. Lo studio del Valenti (cfr. Calogero Valenti - Ricchezza e povertà in Sicilia nel secondo settecento) può
estendersi anche al primo settecento e le considerazione sulla povertà di
Grotte si attagliano appieno pure a Racalmuto.
Ciò
nonostante il buon Romano ha
sepoltura nella Matrice: aveva la bolla
della santa crociata: un privilegio che scavalca il rigore dell’interdetto del
Ramirez, comminato per
la difesa dei beni materiali del ricco vescovo di Catania.
Desta
pietà la fine di questa neonata racalmutese: muore a soli quindici giorni: una
“gloria”; potrebbe trovarsi un
cantuccio nelle carnaie delle chiese;
ma è povera ed è illegittima: finisce - sia pure gratis pro Deo - nel nuovo
pauroso cimitero all’aperto, che l’arciprete ha degnato dell’acqua benedetta:
11/9/1713 -Antonina f. Juliae Virtulino Inzione
patre ignoto 15 giorni - in fovea non benedicta deputata a rev.do arch. in via
s. Gregorii ob interdictum - gratis pro deo.
Frattanto
la miseria genera violenza: mastro Stefano Savatteri viene folgorato dalla
lupara all’età di 44 anni. E’ povero ed i funerali avvengono gratis pro Deo. Ma
è anche mastro: appartiene alla confraternita del Tau. La sua sepoltura deve
avvenire nell’oratorio della confraternita - interdetto o non interdetto:
16/9/1713 - STEFANUS MAG. VIR PAULAE SAVATTERI - 44
- IN ORATORIO TAU ET SOLUM FUIT ROBBORATUS SACRO OLIO UNCTIONIS OB MORTEM VIOLENTAM
GRATIS PRO DEO.
Quando
a morire è un “galantuomo”, l’imbarazzo del cappellano detentore dei libri della Matrice è evidente; il suo latino si ingarbuglia,
comunque la sepoltura avviene in chiesa, nonostante l’interdetto:
5/10/1713 -
FRANCISCUS DON VIR MARIAE PUMO - 45 IN
ECCLESIA S. JOSEPH PER PRIVILEGIUM BULLAE SS.ME CRUCIATAE OB INTERDICTUM
Le
annotazioni sparse qua e là nel libro dei morti contengono queste altre
notizie:
a 28 agosto 1713 -
l'interdetto imposto dell'ill.mo e rev.mo signor fra d. Francesco Ramirez
arcivescovo e vescovo di Girgenti - con il consenso della s. sede nella chiesa
cattedrale di Girgenti, et in tutta la sua diocese _fu' rimosso; e prosciolto
domenica - 27 agosto 1719 ad horam 22 - dal rev.mo signor dr. don Giuseppe
Pancucci ca. tes., e vic. generale apostolico con l'actorita' della s. sede per
via della sac: congregatione dell'immunita'
Li bro dei morti 1714-1724
a 28
agosto 1713 - l'interditto fu imposto dell'ill.mo e rev.mo signor d. Francesco
Ramirenz arcivescovo e vescovo di Girgenti con il consenso della s. sede nella
chiesa cattedrale di Girgenti, et in tutta la sua diocese
L’interdetto durò poco meno di sei anni e - forse anzi tempo - fu
revocato il 27 agosto 1719, stando alle precisazioni dei libri parrocchiali.
CONCLUSIONI
Ad
ispirare le precedenti dissertazioni sui punti topici della storia religiosa di
Racalmuto è stato l’attuale arciprete sac. Alfonso Puma. Origini e
familiari di costui hanno avuto dispiegamento in un apposito capitoletto.
Qualche dato biografico va qui comunque aggiunto, ai fini di una migliore
comprensione dello spirito che ha animato gli studi e la ricerca storica del
lavoro che qui si licenzia.
Cenni
biografici: Arciprete Alfonso Puma
Nato
a Racalmuto il 21
novembre 1926, ha avuto l’ordinazione sacerdotale il 29 giugno 1950, anno
santo; parroco del Carmine dal 1961 al 1966, è divenuto parroco-arciprete della Matrice di Racalmuto dal passato 1° dicembre 1966 sino ad oggi. Sin dalla tenera età
aspirava al sacerdozio, e così, finite
le elementari, è entrato in Seminario nell’ottobre del 1939. I suoi studi colà
sono avvenuti durante il tremendo periodo della guerra. Sono stati vissuti
senza eccessiva paura ma senza iattanza,
nutrendo sempre la speranza di farcela.
Sua
madre fu la prima direttrice spirituale; suo padre, un uomo sodo, calibrato,
molto parco nel parlare ma saggio, diceva sempre: voi pensate a studiare, al resto penso io. Se faccio sacrifici o non ne
faccio, voi non ve ne dovete preoccupare; dovete pensare solo a studiare. I
suoi genitori sono stati i suoi primi ed impareggiabili amici.
In
Seminario ha avuto padri spirituali di grande santità come il padre Isidoro
Fiorini per il quale ha fatto da testimone nella causa
della sua beatificazione, come il padre Stefano Conte, anima
bella che lo ha sostenuto durante la guerra, o come mons. Jacolino, poi fatto vescovo, uomo di
stampo tedesco ma molto temprato al sacrificio: questi, durante la guerra,
riuscì a mantenere aperto il Seminario, unico caso: seppe provvedere al cibo
quotidiano e per quei tempi era problema pressoché insolubile.
L’
apostolato di padre Puma si è svolto in un centro minerario, con problemi
sociali e politici tutti particolari, diversi da quelli del circondario,
eminentemente agricolo. La sua famiglia è stata colpita dal primo sequestro di
persona dell’Italia del dopoguerra. Un suo cognato ha subito l’onta del
sequestro nell’estate del 1946. Un sequestro fatto più per fame che per
vera cattiveria; un atto criminoso che
fruttò agli artefici ben magra ricompensa. Ciò lo ha sensibilizzato nel
versante dei poveri, che astretti dalla necessità si spingono verso il crimine,
ed in quello della giustizia sociale. Ciò ha ingenerato in lui una repulsione
profonda, sincera nei confronti della mafia. Questa, ha combattuto con vigore,
anche con le armi che promanano dal suo carattere sacerdotale e dal suo ruolo
di guida del paese, come arciprete. Oggi, - può affermarsi -
la mafia, quella tradizionale, discendente dalla notoria Fratellanza della Favara ottocentesca, che aveva le sue propaggini in
tante famiglie racalmutesi, può dirsi finita e non certo per l’opera
dell’Antimafia - Dio solo sa quanto veritiere e schiette sono
state talune pagine di Leonardo Sciascia! - ma per
cruentissima ed efferata autoeliminazione. Purtroppo, è subentrata una
microcriminalità che non viene adeguatamente fronteggiata. Melanconicamente può
affermarsi che Racalmuto si consegna al terzo millennio in deteriorate
condizioni morali ed in un invivibile disordine sociale.
Lungi
da lui l’insidiosa tentazione di autocommemorarsi. Non può giudicarsi per il
noto aforisma: nemo judex in causa propria. Né, a dire il vero, ne ha voglia.
La microstoria locale dovrà di certo occuparsi della sua persona: potrà
raffigurarlo nei più disparati modi, ma non potrà in alcun modo etichettarlo
come ... arciprete accidioso.
Come
uomo, suo motto preferito, suol essere “fare cose utili, dire cose coraggiose,
contemplare cose belle”.
Come
prete ha dovuto attraversare un deserto, è stato “comu l’ovu, ca chiù si coci,
chiù duru si fa”; non si è mai adagiato,
anche se solo e solo in un deserto; ha ambito ad una fusione dello spirito
pragmatico di S. Pietro e di quello speculativo, innovatore e
missionario di S. Paolo. Ha difeso ad oltranza la casa del Signore. Non può
vantare orpelli e questo testimonia la sua scarsa arrendevolezza verso i
potenti, anche se ecclesiasticamente paludati.
Se Sciascia amava dire di sé “contraddisse e si
contraddisse”; come suo compaesano e suo
contemporaneo, padre Puma ha amato la fede in Cristo e ha riposto fiducia nella
Madonna (specie in quella nostra del Monte); ha avuto carità ed
attaccamento a questo popolo di Dio racalmutese. Un suo antico parente volle ad
epitaffio: “feci quod potui, faciant meliora potentes”. Lo vorrebbe adattato a
se stesso.
Le svolte epocali della chiesa di Racalmuto.
L’avvento
del terzo millennio recepisce una Racalmuto non più povera, non più mineraria, non più
derelitta, men che meno “meschinella”, eppure piena di turbe sociali, in mano
ad una microcriminalità radicata e diffusa, con una religiosità appariscente ma
alquanto formalistica e satura di miasmi consumistici, di vacuità
perbenistiche, di inquinamenti ritualistici.
Non
è più la vecchia paura dell’oltretomba ad inquinare il credo religioso dei
racalmutesi, che pur di avere un avello in chiesa erano disposti a soggiogare
il cadente “dammuso” o la minuscola
“chiusa”. I rolli delle confraternite pieni di tali lasciti giacciono ormai
polverosi negli scaffali della Matrice, per la delizia dei radi studiosi
locali.
Oggi,
l’opulenta “gentilizia” - acquistata da eredi smemorati e sacrileghi delle
vetuste famiglie nobiliari del luogo - raccoglie i resti talora martoriati
dalla lupara mafiosa.
Il
rosario non lo canta più la voce ineffabile di un vecchio che devoto ed
implacabile imponeva la risposta salmodiante alle tante vecchiette rinsecchite,
mentre intirizzivano di freddo sulle panche di San Giuseppe o della Matrice.
Non
sono più pensabili le processioni propiziatorie, con il loro carico di superstiziosa
sensualità repressa. Non è più pensabile
che i racalmutesi - per dirla con Sciascia - vivano del ricordo e della tradizione del
miracolo della venuta di “la bedda Matri
di lu Munti” e restano “compensati
del terraggio e del terraggiolo, dei contributi unificati, della ingiusta
mercede riscossa per estirpare sale e zolfo”. Mondo definitivamente
scomparso, ammesso poi che sia mai veramente esistito. Il dissacrante Sciascia vuole il miracolo del Monte come un arcano “succo gastrico” “ per don
Girolamo del Carretto, per don Calogero Virzì che
persino i velieri possedeva per vendere lo zolfo che i racalmutesi cavavano per
lui, per Salvatore Accursio che ammucchia ricchezze col sale, un succo gastrico
che aiuta a digerire la ricchezza, uomini lavorano come talpe e quelli fanno
siesta a digerire ricchezza”. L’apologo nel 1960 veniva all’istante afferrato
da colti ed incolti di Racalmuto. Ora, solo qualche
attempato erudito riesce a cavarne una qualche rimembranza paesana. Sempre
Sciascia accenna alla strumentalizzazione della Madonna
nelle elezioni del 1948. A Racalmuto avvenne una zuffa che potrebbe assurgere
ad emblema, fantasmagoria e che sicuramente rispecchia lo spirito dei tempi.
Lasciamo la parola allo scrittore: «I regalpetresi [alias racalmutesi]
pretesero che la consegna [dell’effige della Madonna] avvenisse alle porte del
paese, ne nacque una burrasca, si invelenì di vecchi rancori, dispregiosi
apprezzamenti furono gridati dall’una e dall’altra parte. La zuffa si accese,
girandole di bestemmie rutilarono intorno alla celeste effige, i padri levarono
alte le mani a placare la tempesta. Mai la Madonna come in quel giorno è stata
bestemmiata dai cittadini di Castro e di Regalpetra. I comunisti furono primi
nella mischia; si fosse votato nei giorni che la Madonna di Fatima restò a Regalpetra, un solo voto al Pc non
sarebbe toccato; si votò un mese dopo, e il Pc ne ebbe un migliaio.» Il terzo
millennio non annovererà racalmutesi di tal fatta. La Chiesa locale sarà ben
altra. Come e con quali problemi, con quali angosce, con quali empiti, sono
quesiti che saranno gli storici a venire a dipanare. Mutato il paese, mutata la
società locale, mutata l’economia della zona, mutato il costume, mutata persino
la struttura mafiosa e delinquenziale - la “stidda” d’oggidì non può più dirsi
certo ‘omertosa’ - è anche profondamente mutata la religiosità locale e tanto
in termini e con connotati che non è dato per il momento afferrare.
I
mutamenti di pelle la comunità ecclesiale di Racalmuto li ha conosciuti varie volte nello scorrere
dei secoli. A volo d’uccello, possiamo affermare che ciò avvenne attorno al
quinto secolo, quando da chiesa latina sembra essere divenuta chiesa greca
sotto l’egida del vescovo (se santo o depravato, neppure Mons. De Gregorio riesce per il momento a stabilirlo). Sotto i
berberi, da cattolici pare che i racalmutesi preferissero passare all’Islam per non sottostare a tassazione d’indole
religiosa (gizia o altro che sia). Insediatosi il vescovo Gerlando, a Racalmuto non seppe
risorgere una comunità cristiana memorabile. I Saraceni rimasero saraceni e divennero “villani”. I
loro padroni - cattolici e latini - abitavano altrove. Sotto Federico II, le orde ribelli che
osarono addirittura imprigionare un vescovo (senza dubbio esoso e vessatorio)
furono dirottate verso Lucera e nell’altipiano racalmutese giunse tal Federico
Musca - dopo autoproclamatosi conte di Modica - con taluni coloni e sfruttando le terre
lasciate incolte dai saraceni pose le basi per un casale - nel luogo un tempo
fortificato dal gaito di Naro Chamut - che ebbe a chiamarsi Rachal Chamuth prima di stabilizzarsi nell’attuale toponimo
di Racalmuto. Ora la fede ed il culto sono quelli di stretto rito latino.
Monaci arrivano sul posto a confermare nella fede dei padri, cioè in quella una,
vera, cattolica, romana. Angelo di Montecaveoso fu di certo uno di tali monaci. Unitamente
all’altro sacerdote Martuzio de Sifolone può avere ‘primizie’ ed altre rendite dai
fedeli racalmutesi, ma a sua volta e nel 1308 e nel 1310 viene chiamato, sempre
assieme al Sifolone, a versare decime cospicue
alla lontana corte papale. Alcuni studiosi locali - il p. Girolamo M. Morreale,
S. J. - accennano all’episodio. Noi, in questo lavoro, non abbiamo mancato di
dilungarci trattandosi dell’esordio o del battesimo della comunità ecclesiale
racalmutese che si conclude con questo secolo o questo millennio.
Nessun commento:
Posta un commento