PROFILI
DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è
dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a
Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri
domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di
Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del
Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a
suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche
indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto
che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300.
Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e
l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli
odierni araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione
delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese
Antonio I del Carretto che nei primi del Trecento lascia Finale Ligure per
approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte,
semplicemente non esiste, a nostro giudizio.
ANTONIO
I DEL CARRETTO
Questo non
significa che un avventuriero ligure non si sia potuto accasare con la giovane
figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è proprio così che è
andata: dopo il Vespro la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri.
Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza
Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei del Carretto,
marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no.
Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri
lontani. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si
dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un
altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da
questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora
violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra
subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si
trattasse di diritti genuinamente feudali: erano forse solo possessi appena
“burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre,
paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro,
specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II
DEL CARRETTO
Antonio II
del Carretto non lascia traccia di sé: di lui si parla solo negli atti notarili
di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi
figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel
documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che Antonio II del
Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare
che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone
Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella
terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo
gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul
fatto che il preteso titolo era precario, forse del tutto inconsistente.
A Genova
Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo
rendiconta su partecipazioni in compagnie navali, oltre che su beni immobili e
mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al
lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non
sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’
certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento
del 12 marzo 1399.
Antonio II
- pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de
comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia
Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum».
In altri
termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di
San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane
(una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni
in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla
madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto
piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla
transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura
et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in
Siguliana, ....»
Antonio II
del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo arrampante
cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto
piuttosto giovane.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del
Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi
abbia mai messo piede a Racalmuto. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha
famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo
feudale della baronia di Racalmuto solo per consentire al fratello minore
Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia
dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto
transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che
nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà
ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in
discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato
da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammessa secondo
il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni
allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri
antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi
dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello
che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il
Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima
il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli,
Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente
cervellotica congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo
meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto.
Gerardo del
Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di
Salvagia primogenita (e portante il nome della nonna paterna), Antonio, Nicolò,
Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del
1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir
dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del
Carretto designato come “magnificus et
egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto
dell’anno prima ([1]) era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL
CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di
Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del
Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e
debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo
secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà
elevata a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo
decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del
Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio:
Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di
Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del
1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del
Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le
rampogne del duca di Montblanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma
di Palermo ([2]) ne fornisce indubbia
testimonianza.
Il trambusto
storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e si è cercato prima
di tentare in qualche modo una sintesi esplicativa delle faccende di casa
nostra: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima
è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli
aragonesi che bussano alla porta non sono graditi. Orde di militari famelici e
predoni scorrazzavano per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo
del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di
Montblanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un
conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del
Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima
blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla
ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene
fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once,
solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi)
”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è
mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una
condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il
predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine
del duca di Montblanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che
questi finisse proprio male. La storia di Andrea Chiaramonte l’abbiamo già prima
abbozzata. La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([3]) del 1395
(die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione
anche del grande storico siciliano Gregorio ([4]): «Matheus
de Carreto miles baro
terre et castrorum Rahalmuti -
vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la
nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia
“lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto.
Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato Gibillini passa
nelle mani di Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398);
non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino
figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo
Muscia. ([5])
Le note
storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i
seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su
istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro
i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo, almeno, ha voglia di
credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la
minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a
prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro
ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata.
Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro
consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto
costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a
domanda ed a risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu
sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de
tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e
su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali per lu dictu
serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di
Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit
ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo del
Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro
razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma
l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si
accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma
prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti
li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.
Notiamo il
fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a
Malta.
Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu
chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi
fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda
supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.
E’ uno
squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e
assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini
e vigne del barone erano stati pesantemente danneggiati (“guastati”, alla
siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu
chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi
constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di
Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù
della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva
trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva
andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche
del lavoro dei campi coatto.
La formula,
dunque, fu assolutoria, ampia, faconda, onnicomprensiva, rassicurante. Ancora
una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione
sulle esauste finanze racalmutesi?
La chiosa
finale fu ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende
inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia
che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena
“descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione
passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione
per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo
testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto
più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento
di noi tutti racalmutesi da parte dei liguri del Carretto.
Non tutto è
negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di
letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire
un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma
la fonte è Giuseppe Beccaria ([6]) che ha
modo di narrare:
«Costoro
[armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con
cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di
Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel
1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo
del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...
Il 5
giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo
del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia
di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo
scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.» ([7])
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni
della curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un
primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il
fratello Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare
abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa
ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali.
E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in
vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del
Carretto.
RACALMUTO
NEL QUADRO STORICO DELLA SICILIA DEL ‘400
Poco
abbiamo sul feudo racalmutese durante il ‘400: qualche scisti documentale
emerge dalle carte dei del Carretto. Un truce episodio di antisemitismo getta
sinistra luce sull’intolleranza razziale di Racalmuto a ridosso dalla
tristemente nota cacciata degli ebrei dalla evoluta Girgenti di fine secolo. Il
medioevo si chiudeva a Racalmuto con sinistri bagliori di morte, con misfatti e
depredazioni letali che richiamano il biblico Caino, sotto un’intermittente
signoria carrettesca – non si sa bene se diretta ed insediata al Cannone oppure
dimorante nel bel palazzo di proprietà a fronte della opulenta sede dei vescovi
agrigentini.
Pochi
tratti della più generale vicenda storica possono illuminarci del contesto in
cui visse il contado racalmutese in quel torno di tempo.
Sino al
1412 i Martino – con quel tragico succedere del padre al giovane figlio morto
in guerra per un empito di personale orgoglio -
mantengono un sia pur scialbo barlume d’indipendenza della nazione
siciliana. Poi, nel 1413, la successione di Alfonso stronca ogni velleità
indipendentista - per unione personale
del regno di Sicilia con quello aragonese, si scrive. «Il ristagno della vita
morale – catoneggia il De Stefano [8] - congiunto al mancato ricambio della vita
economica e sociale, aveva causato la corruzione politica. Baroni e città non
avevano acquistato la coscienza dello stato; la sovranità di esso si era
frantumata nell’anarchia baronale e nel municipalismo cittadino. La tendenza
anarchica del baronaggio fu aggravata dalla eterogeneità della sua costituzione
e dalle influenze esterne a cui era sensibile. Eccettuati pochi, e questi
stessi in rare occasioni, i feudatari rimasero sordi agli appelli dei sovrani e
passarono chi da una chi dall’altra parte dei pretendenti al trono siciliano.
Il vizio costituzionale del regno, la mancanza di equilibrio tra le forze
sociali e politiche, lo strapotere di un ceto, lo scarso sentimento del
pubblico bene in tutti avevano reso lo stato siciliano incapace di resistere
all’urto esterno. Il regno [..] di Sicilia non durò, e a stento, che centotrent’anni,
perché in esso più presto [rispetto a Napoli] giunse a maturità la crisi
interna e su di esso si fecero presto sentire gli influssi della mutata
situazione internazionale.»
La Sicilia
perde la sua indipendenza senza eroismi, senza azioni epiche, priva di ogni
furore, di ogni empito vuoi di furore vuoi di generosa dedizione. Il
parlamento del 1413 si limita a chiedere
che venisse in Sicilia l’aragonese o almeno un suo figlio. Non fu esaudito.
Venne persino disattesa l’istanza che almeno a siciliano fosse affidato il
governo.
Tralasciamo
qui le brighe del Cabrera. Limitiamoci a segnalare che nel 1415 venne il primo
viceré, l’infante Giovanni, duca di Peñafiel. Nel 1416 lo stesso parlamento
siciliano tentò di acclamare proprio il viceré, ma l’infante Giovanni
rifiutò.
Sotto
Alfonso il Magnanimo abbiamo un sottile gioco terminologico può abbagliare, ma
la sostanza resta: scatta un sistema impositivo in favore di un dominatore
straniero che non s’incentra più sulla “colletta”, sibbene – più graziosamente
– sul “donativo”, con il che si voleva far credere che si trattasse di
erogazione volontaria per pubbliche finalità. Era comunque un’imposta
straordinaria che si aggiungeva al reticolo impositivo, specie a livello
locale, con l’aggiunta delle tante tasse religiose che curie vescovili e
strutture parrocchiali esigevano puntigliosamente.
Migliora
l’ordinamento giudiziario e di polizia, ma la condizione di pubblica sicurezza
non sempre poté fare l’auspicato salto di qualità. «Un complesso di cause - scrive sempre il De Stefano [9] - l’impedì: la concessione del mero e misto
impero, prima provvisoria e limitata ai grandi feudatari, con la riserva della
necessità, per il suo esercizio, dell’atto sovrano della concessione,
dell’appello dei vassalli alla Magna Curia e del rispetto della procedura; la
difesa vigile e gelosa del privilegio del foro locale da parte delle città
demaniali, non solo per le cause civili ma anche per le penali, e tanto per le
cause riguardanti i singoli cittadini che il comune; […] la dilatazione del
foro militare a spese del civile; i conflitti di giurisdizione, gli abusi di
autorità, l’influsso di parentele che legavano i funzionari ai “gentiluomini” e
ai principali cittadini; e, infine, il privilegio baronale dell’«affidare», per
cui “delinquentes, malfactores, omicidas et debitores et bannitos et alios” si
rifugiavano in “locki de baruni et da loru non si po fari ne haviri justicia”.»
Con
fermezza Alfonso contrastò i casi di eterodossia: resta memorabile la decisione
regia nel conculcare l’eresia che un minorita, nel 1434, andava diffondendo nel
trapanese. Fu arrestato il minorata visto che propalava «multa enormia
concernentia contra catholicam fidem.»
Alfonso
(1416-1458) ebbe il dominio della Sicilia per lungo tempo, per quarantadue anni:
morto il re, il successore, nel 1460, per decisione sovrana annunciata alle
Cortes, volle che l’Isola entrasse formalmente a far parte della monarchia
spagnola. Più per amore di patria che per convinzione, il De Stefano [10] crede che
la Sicilia vi entrò «forte della sua coscienza autonomistica, con un’anima e un
pensiero suoi propri saldamente confermati che i secoli di quella appartenenza
nulla tolsero o poco modificarono del suo patrimonio spirituale. La cultura
giuridica e l’erudizione storica la tennero salda nelle sue istituzioni
particolari; quella umanistica conservò tenaci i suoi spirituali con la grande
nazione italiana.»
Giovanni
d’Aragona (1458-1479) resse una Sicilia ove sommosse popolari causate da
carestie e odi baronali (come il famoso caso di Sciacca del 1459), nonché
l’efferata uccisione della baronessa di Militello, donna Aldonza Santapau,
sgozzata nel 1475 dal marito Antonio Barresi, contrassegnarono quei ventuno
anni di regno aragonese.
Nel 1475 fu
creato un organo speciale, detto deputazione del regno, per l’esecuzione delle
decisioni parlamentari. Solo che il potere del parlamento andò sempre più
decadendo e i rappresentanti dei tre bracci (militare o baronale, ecclesiastico
e demaniale) disertavano le adunanze e si facevano spesso farsi rappresentare
dai loro delegati.
Succede a
Giovanni d’Aragona Ferdinando il Cattolico (1479-1516) che sposa Isabella di
Castiglia e riuscì ad unificare la Spagna. Di notevole personalità furono i
viceré che inviò in Sicilia come Gaspare De Spes (1479-1488), Ferdinando De
Acugna (1489-1494) e Ugo Moncada (1509-1516).
Il
Sant’Uffizio venne introdotto in Sicilia sotto il vicereame di Gaspare De Spes,
nel 1487, per iniziativa del frate Antonio della Pegna. Al tempo del viceré
Ferdinando De Acugna, con l’editto del 31 marzo 1492, si ha l’espulsione degli ebrei dalla Sicilia, con danni gravi
per l’economia e la cultura.
In tale contesto, Racalmuto fa raramente capolino, come si
è detto. La sua vicenda storica, in questa congiuntura, si fonde e finisce per
coincidere con quella tutta baronale dei Del Carretto. Almeno per la prima metà
del secolo, occorre mutuare le ricerche di Henri Bresc[11]
per capire che cosa ha significato il regime aragonese e come questo si sia
riflesso sul baronaggio (e di conseguenza su Racalmuto).
Con lo storico francese dobbiamo convenire che gli anni 1390-1416 introdussero nella storia del
feudalesimo una rottura evidente: le grandi signorie sono domate e solo due
conti, Ventimiglia e Centelle di Collesano e Cabrera di Modica tennero testa
alla monarchia. Il sogno feudale finisce: non si ha notizia, dopo il 1400, che
di rare donazioni che i signori della terra fanno ai loro fedeli. [12]
Il sistema feudale si semplifica; una sorveglianza efficace e puntigliosa
sanziona ormai ogni infrazione della legge sul feudo, affidata ad una
burocrazia largamente in mano agli spagnoli. La medesima disciplina regola i
rapporti fra l’aristocrazia feudale, città demaniali e chiesa; la Monarchia
controlla l’espansione dei patrimoni nobiliari; essa permette o proibisce a
seconda dei sui interessi strategici e, in ogni caso, fa pagare cara ogni sua
elargizione. Essa vigila sulle combinazioni dei matrimoni eccellenti. [13]
La nobiltà feudale, largamente rinnovata, e fortemente contrassegnata
dall’elemento catalano ad opera dei Martino, deve fronteggiare l’avversa
congiuntura che caratterizzò la fine del XIV secolo: una rendita decrescente
che non compensa più le usurpazioni facili delle rendite del Patrimonio
reale, ora difese da un’amministrazione
castigliana strettamente legata alla casa d’Oltremare ed un indebitamento
cronico in crescita insopportabile a causa degli sperperi per doti insufflate.
Nel servizio reale la concorrenza dei giuristi e dei tecnici
dell’amministrazione limita i profitti ed i posti prestigiosi riservati
all’aristocrazia regnicola. Essa difenderà duramente i suoi privilegi e lotterà
qualche volta ad armi eguali, fornendo a sua volta chierici e letterati –
conforme al modello ispanico. [14]
Questi
ostacoli, la rivalità di una giovane nobiltà burocratica, l’impoverimento dei
baroni, l’emergere di una classe di notabili della piccola borghesia comunale,
determinano un ripiegamento sui valori sicuri, sulla terra e sul potere
signorile.
Una buona
gestione patrimoniale, il consenso generale della pubblica opinione e della
monarchia che vedono nella classe feudale l’asse insostituibile della società e
dello Stato, la ripresa economica dopo una pausa di più di 50 anni,[15] permettono
alla feudalesimo siciliano di superare senza troppo danno il punto di svolta
dell’avversa congiuntura. Il prestigio è salvo – e questo è l’essenziale; la
ripresa delle rendite, cui seguono subito la crescita demografica ed il grande
movimento commerciale. All’inizio in modo incerto e dopo con regolarità si
risolve, a ridosso del 1450, la precaria situazione economica della nobiltà
fondiaria e del clero. I primi indici di questo raddrizzamento si percepiscono
nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento delle rendite dell’erbaggio è
sensibile dal 1420. Poi s’estende ai feudi dell’interno. [16] Nel 1513,
Giovan Luca Barberi farà una descrizione dettagliata d’una Sicilia feudale che
ha ritrovato e superato largamente le rendite descritte nel Rollo del 1336: in
media, per 36 feudi non abitati nelle due fonti che riportano la rendita – sulla quale poggia l’imposta
feudale -, l’aumento sarà del 113% : esso si alzerà al 190% nel Val Demone e al
193,8% in Val di Noto; infine esso sarà minore in Val di Mazara, dove il
campione comprende senza dubbio dei feudi minori e smembrati nel corso di questi
due secoli. Una cosa è sicura: le modifiche della geografia feudale sono, in
effetti, numerose.
L’interesse dell’aristocrazia feudale e delle famiglie
della nobiltà urbana alle rendite terriere non spiega solo la corsa ai “latifondi” che riesplode, dopo la fase di
stanca avutasi tra il 1350 ed il 1390, quando solo dozzina di donazioni di feudi ai monasteri
aveva avuto corso, e ritorna l’antico costume della rifeudalizzazione dei beni
ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari e nobili di estrazione
modesta e con titolo recente rivaleggiano per ottenere una investitura di beni
ecclesiastici o l’assegnazione di un baglio. Essi spogliano puntualmente
vescovadi e monasteri delle relative rendite e si adoperano per la risoluzioni
di antichi contratti.[17] Ora hanno maggior fiducia in loro stessi ed
estendono la loro supremazia incrementando il possesso delle terre, rafforzando
a proprio beneficio i vincoli fondiari ed accrescendo il peso dello stato
feudale terriero.
Del pari,
dopo una dura battaglia contro i loro vassalli, i baroni titolari di “terre”
abitate assicurano una amministrazione efficace dei loro diritti sugli uomini.
Usciti generalmente vittoriosi da questi conflitti, la classe baronale estende
il potere feudale su numerose “università” demaniali: gabelle, diritti di
giustizia, bannalità, tutto un patrimonio strappato alla corte reale, in cambio
di finanziamenti della lunga e costosa impresa napoletana. Un obiettivo viene
sempre più perseguito: quello di ripopolare le “terre”. Ora, i baroni, dopo la
parentesi della catastrofe demografica, ritornano alla loro tradizione volta
alla difesa dell’abitato rurale; ottengono, così, un migliore sfruttamento
della terra, un incremento della rendita di quanto dato in gabella, una più
redditizia gestione della giustizia; e l’aumentato peso politico vale bene il
sacrificio di qualche salma di terra, per giardini o per le infrastrutture
sociali occorrenti ai nuovi abitanti.
Questa nobiltà che accetta la pace col re, non rinuncia né
al prestigio della cavalleria né al dominio violento. Se, nella mischia
feudale, le grandi famiglie cozzano fra loro, la nobiltà terriera tiene
comunque al suo stile di vita, alla sua autorità, ai propri vassalli, altera
del suo rango. Ma non si lascia andare alle “serrate”: questa aristocrazia
resta aperta all’ascesa dei nobili municipali e dei mercanti-banchieri.
Piuttosto: autorità, distinzione, prestigio attirano, affascinano. E il
rinnovamento delle famiglie permette la mobilità del capitale feudale e,
spesso, disinnesca gli scontri frontali tra le oligarchie municipali e
l’aristocrazia fondiaria.
Le suesposte considerazioni del Bresc trovano, invero,
riscontro nelle vicende racalmutesi per quanto ha tratto con il consolidarsi,
esplicitarsi ed evolversi della signoria baronale quattrocentesca dei del
Carretto. Riprendiamo la genealogia carrettesca da dove l’abbiamo lasciata.
Morto Matteo del Carretto, mentre era alle prese con la curia palermitana nel
tentativo di farsi riconoscere l’improbabile titolo nobiliare su racalmuto,
ecco succedergli il figlio Giovanni del Carretto.
[1] )
Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die
primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio
Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[2] ) ARCHIVIO DI STATO DI
PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[3] ) Noi
utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[4] ) Rosario Gregorio fu
storico e paleologo di grandi meriti: non si riesce a capire perché Sciascia ce
l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute nel “Consiglio d’Egitto”:
«Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale a parte,
fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da uomo grasso, il labbro
inferiore tumido, un bitorzolo sulla guancia sinistra, i capelli radi che gli
scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una freddezza,
una quiete, da cui raramente usciva con un gesto reciso delle mani spesse e corte. Trasudava
sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano tutti soggezione.»
(Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[5] ) MUSCIA, Sicilia Nobile,
pag. 72
[6] )
Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia -
Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[7] ) [Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5
giugno 1397.]
Dirigitur
matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi notaro furtugno.
(Registro -
Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)
[8] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo,
UL Bari, 1977, p. 68.
[9] ) ibidem, p. 73.
[10] ) ibidem, p. 83.
[11] ) Henri Bresc, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicile – 1300-1450.
– Palermo 1986 p. 865 e ss.
[12] )
Nel 1455 quella del feudo Paterna da Gilberto La Grua Talamanca a suo fratello
Guglielmo (ASP Cancelleria 104, f.179; 21.6.1455) che è stata approvata dal re,
e, verso il 1459, quella del feudo Taya
ad Angelo Imbriagua fatta dal conte di Caltabellotta (Barberi, 3,407).
[13] )
Oltre le autorizzazioni richieste dal diritto feudale (per i matrimoni
dell’erede unico del feudo), Alfonso, dal 1419 al 1454, accorda a pagamento
permessi nuziali: 100 onze promette al re Giovanni Torrella per la mano della
figlia di Giovanni De Caro, di Trapani, il 10.5.1443; ACA, Canc. 2843, f. 131 vo).
Quanto ai matrimoni sollecitati, su 50 candidati, 32 sono catalani, 5
napoletani, e solamente 12 siciliani (più un rabbino siciliano); quasi tutti
sono nobili, o per lo meno in carriera militare o sono addetti alla corte. Le
giovani date in isposa sono 28 (di cui 15 nobili), ma le vedove sono 16 (di cui
9 nobili, e 6 ricche vedove di patrizi). Lettere contraddittorie sono inviate,
qualche volta successivamente, qualche volta lo stesso giorno, in favore di
diversi concorrenti: il 13.9.1451, il re approva contemporaneamente il
matrimonio di Disiata, vedova del marchese Giovanni Scorna, con Roberto
Abbatellis, Placido Gaetano, Galeazzo Caracciolo e Giovanni Peris di Amantea!;
ACA Canc. 2868, f. 55 vo - 56 vo.
[14] ) I
dottori in legge provengono già di sovente, nel XIV secolo, da cavalieri
urbanizzati (Senatore di Mayda, Orlando di Graffeo, Manfredo di Milite); il
movimento continua nel XV secolo, a Messina (Matteo di Bonifacio, Antonio
Abrignali, Gregorio e Paolo di Bufalo), a Catania (Antonio del Castello,
Gualterio e Benedetto Paternò, Goffredo e Giovanni Rizari, Francesco Aricio), a
Sciacca (Iacopo Perollo) e a Palermo (Nicola e Simone Bologna, Enrico Crispo).
La nobiltà baronale rimane estranea agli studi universitari.
[15] )
Molte famiglie aristocratiche sicule-aragonesi tentano una sistemazione in
Terraferma: i Centelles-Ventimiglia a Crotone, per un’alleanza matrimoniale con
il marchese Russo, I Cardona di Collesano a Reggio, i Siscar ad Aiello. La
conquista del regno napoletano ha così permesso di ridurre in Sicilia la concorrenza,
all’inizio molto forte, tra l’aristocrazia immigrata e le vecchie famiglie; cf.
E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo, re di Napoli (1435-1458). Napoli, 1975, p.
87.
[16] ) Nel 1446 la locazione
del feudo Giracello, a Piazza, passa da 22 onze a 27; ASP ND N. Aprea 826,
17.12.1446, Notiamo che, nel 1431, l’affitto non era che di 17 once: 58%
d’aumento in 5 anni.
[17] )
Così per ottenere dall’arcivescovo di Palermo l’enfiteusi perpetua di Brucato,
i fratelli Rigio banchieri ed imprenditori, offrono, nel 1465, un po’ di più
del canone abituale (70 once e 140 salme di grano, in luogo di 40 once e di 150
salme): incassarono così la differenza tra la rendita in aumento ed il canone
bloccato. ASP, Archivio Notarbartolo 227, f. 40 sq.
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