c) Lo zolfo
Dalle
ricerche su Milena estrapoliamo, poi, queste annotazioni, sempre del Saia,
sulle “mineralizzazioni” che investono appieno la nostra ampia vallata a nord
del Castelluccio: «La serie Gessoso-Solfefera presenta le mineralizzazioni
classiche che la caratterizzano e che sono costituite principalmente dallo
zolfo, da salgemma e da vari tipi di sali a composizione potassica o sodica..»
«Il minerale, di genesi sedimentaria, è associato a gesso, anidride e talora
salgemma, la cui origine non è ancora del tutto certa, ma sembra che si
verifichi per “riduzione dei solfati (ad es. CaCO4), con formazione
intermedia di solfuri e successiva ossidazione di questi ultimi da parte di acque ricche di CO2,
che depositano contemporaneamente CaCO4 secondario. L’azione
riducente dei solfati è svolta essenzialmente da microrganismi di tipo
anaerobico. D’altra parte diversi organismi quali i solfo-batteri, possono
precipitare direttamente lo zolfo da acque contenenti H2S, che può a
sua volta derivare da esalazioni termali o dalla putrefazione di sostanze organiche.” (Carobbi, 1971) [1] La
riduzione di solfati (come il gesso) per opera dei solfo-batteri (Spirillum desulfuricum Bayer e Microspina aestuari v. Deden) con
produzione di H2S, e la consequenziale soluzione in acqua potrebbe
spiegare, altresì, la differenza diffusa di acque solfuree [2],
considerato che il fenomeno non può attribuirsi a fenomeni di origine
vulcanica.»
Qui, si esplica,
in termini altamente scientifici, quello che noi alquanto fantasiosamente
abbiamo cercato di rappresentare a proposito del vibrione “desulfuricante”, reo
di ottocenteschi sfruttamenti di poveri zolfatari e di obbrobri sociali avverso
gli imberbi “carusi”.
d) Il
salgemma.
Ma passiamo
al sale. «La presenza del sale – aggiunge il Saia, op. cit. p. 25 – è stata
dimostrata, nel tempo, dagli affioramenti spontanei dovuti a falde acquifere
sotterranee che, dopo aver disciolto il minerale, sgorgano in superficie ove,
sottoposte a rapida evaporazione per esposizione alle mutate condizioni di
temperatura e pressione, precipita il sale, lasciando intravedere le chiazze
bianche anche a notevole distanza. Le ricerche minerarie hanno dimostrato
l’esistenza di grossi giacimenti salini che si presentano discontinui perché
sottoposti ad intensa attività “tettonica comprensiva con pieghe diapiriche
anche strette per cui lo spessore apparente può, alle volte, raggiungere e
superare i 1000 metri” (Decima & Wezel, 1971) ed esposti a rapide
dissoluzioni. Oltre alle mineralizzazioni di sali sodici se ne riscontrano
anche potassici [oscenamente deturpanti le miniere di Gargilata, a ridosso del Cozzo
Don Filippo]e magnesiaci.»
e) Il gesso.
Ed ora
prendiamo a prestito dal geologo alcune notazioni scientifiche sul gesso. «La
presenza dei gessi – conclude sempre il Saia, op. cit. p. 25 – soprattutto di
quelli nella forma selenitica (cristalli cosiddetti a “ferro di lancia” o “coda
di rondine”) per la facile lavorabilità ha probabilmente favorito gli
insediamenti [sicani], anche al fine di pratiche o di culti come ad esempio
quello dei morti con relative opere tombali inserite nelle pareti di gesso.»
Racalmuto
conferma appieno tale tesi. Necropoli sicane monumentali sono, ictu oculi, quelle di fra Diego; ma
diffuse sono quelle meno appariscenti, talora persino solitarie, che
contrassegnano l’intero territorio. Si pensi che persino a fondo valle, vicino Pian di Botte, si rinvengono in
soggiogante solitudine tombe sicane, scavate nelle pietre gessose. Appena
disponibili massi capienti, gli antenati sicani di Racalmuto andavano a
scavarvi i “forni” tombali, a testimonianza del loro culto dei morti, della
loro irriducibile fede nell’oltretomba.
A
Racalmuto, come a Milena, però «gli insediamenti antropici hanno ancor più
modificato il paesaggio attraverso la denudazione dei suoli per uso agricolo
senza tenere conto che la presanza di argille avrebbe, come di fatto è
avvenuto, portato all’accentuazione dell’erosione rendendo di fatto gli stessi
suoli in parte inutilizzabili e pericolasamente instabili. Le argille, per la
loro impermeabilità, hanno favorito la corrivazione delle acque superficiali
che vengono accumulate nei fondovalle dando origine, il più delle volte, a
piene notevoli e devastanti con l’intensificarsi delle precipitazioni.»
f) Le grotte ed il fenomeno carsico.
Il fenomeno
carsico, adeguatamente indagato in territorio di Milena, è naturalmente
presente anche a Racalmuto: qui, finora è stata ispezionata la sola grotta di
fra Diego con risultati non del tutto soddisfacenti. Mutuiamo quindi dalle
risultanze del club alpino che da tempo indaga sui fenomeni carsici di Milena.
Marcello Panzica La Manna [3] ci
fornisce questi ragguagli, utilizzabili, secondo noi anche per Racalmuto, almeno
sino a quando non vi saranno spedizioni speleologiche adeguate.
«Rilevanti risultano gli affioramenti di
rocce evaporitiche di età messiniana
(Miocene superiore)[e quindi il territorio] è caratterizzato dalla presenza di
estese fenomenologie carsiche sia superficiali che sotterranee. Il fenomeno
carsico sui gessi (più propriamente “paracarsico” secondo l’accezione di Cigna,
1983), a causa dell’elevatissima solubilità di tale roccia ad opera delle acque
meteoriche, si sviluppa con formeestremamente più marcate e ad evoluzione più
rapida rispetto a quelle dell’analogo e più conosciuto fenomeno che si sviluppa
nelle rocce calcaree (carsismo classico). […] Sono riscontrabili due differenti
tipologie di grotte definibili, secondo la classificazione di Cigna (1983, op.
cit.), 1) cavità pseudocarsiche; 2) cavità paracarsiche.»
«Le cavità pseudocarsiche sono quel tipo di
grotte denominate “tettoniche”, legate cioè alle discontinuità meccaniche delle
masse rocciose che costituiscono i vani sotterranei. La genesi di tali grotte è
da imputare in parte alla fratturazione della roccia, prodottasi a causa dei
movimenti tettonici che hanno interessato l’area, in parte a fenomeni di tipo
gravitativo che hanno disarticolato gli affioramenti gessosi in blocchi di varia
dimensione.»
«Le cavità paracarsiche sono quelle che si
originano per l’azione di solubilizzazione della roccia gessosa ad opera delle
acque di precitazione meteorica. Il gesso presenta una solvibilità in acqua
molto elevata (dell’ordine di 2,5 g/l) che se messa in relazione con la
quantità di pioggia ed i tempi di esposizione della roccia agli agenti
atmosferici, giustifica la formazione degli imponenti reticoli di ambienti e
gallerie presenti nel sottosuolo. Le cavità riconducibili a tale tipologia sono
strettamente e funzionalmente legate alle morfologie carsiche di superficie;
esse infatti rappresentano la prosecuzione, nel sottosuolo, del reticolo
idrogeografico epigeo. Nella maggior parte dei casi le acque di pioggia vengono
incanalate all’interno delle depressioni, che dopo percorsi più o meno lunghi
le convogliano verso punti di assorbimento localmente denominati “zubbi” o
“inghiottitoi” nella terminologia idrogeologica. All’interno le grotte mostrano
chiaramente i segni dell’escavazione delle acque incanalate ed è possibile
riconoscere le varie fasi della loro evoluzione, dal momento in cui erano
completamente invase dal flusso idrico fino a quando lo stesso ha iniziato a
decrescere, abbandonando completamente, in certi casi, le cavità medesime. Quasi
sempre agli inghiottitoi sono associate delle cavità (“risorgenze”) che
costituiscono il punto di ritorno a giorno delle acque sotterranee.» (op. cit.
p. 28)
E qui
abbandoniamo le citazioni erudite idrografiche [4], che non
sono certo pane per i nostri denti. In tempo comunque per lamentare l’assoluta
indifferenza delle autorità locali per un siffatto patrimonio ipogeo, di cui
manca persino uno straccio di inventario.
Grotte pseudocarsiche
abbondano in ogni dove a Racalmuto. Anzi, lo stesso paese all’origine fu patria
di coloni cavernicoli (noi pensiamo attorno al 1240, dopo la cacciata dei
saraceni da parte di Federico II): a ridosso del Calvario e del Carmine, sotto via Roma, nei pressi della Madonna
della Rocca, abbondavano gli anfratti gessosi, ove fu agevole trovare dimora,
se non confortevole, almeno riparata. Una selvaggia superfetazione edilizia ha
inglobato e fatto sparire la prisca realtà abitativa racalmutese. Ancora nel
1608, là era sede di rimarchevole opificio la grotta di Pannella. Citiamo da una visita pastorale del vescovo
Bonincontro [5]:
Et parimente la Parocchia della Nunciata incomincia
del medesimo Convento del Carmino e tira a drittura alla grutta di Pannella[sottolineatura
ns.]restando d.a grutta nella d.a
parocchia della Nunziata
In un atto del 1596, quale si rinviene nel Rollo di Santa
Maria di Gesù conservato in Matrice [6],
abbiamo la testimonianza di una più antica utilizzazione di una grotta in pieno
centro, cioè a dire nei pressi del Monte:
Die nono
mensis Januarii x^ ind. 1596.
Item in et super sex corporibus domorum sursum et
deorsum cum eius antro [corsivo, ns,]
simul contiguis et collateralibus confinantibus cum domibus heredum quondam
Vincentij la Mendola alias lo Vecchio et in quarterio Montis seu della
Santicella …..
Le campagne
erano (e sono), peraltro, cosparse di grotte pseudocarsiche, provvidenziali per i palmenti. I vari Rolli della Matrice ne riportano
diversi estremi negli atti notarili a partire dal XVI secolo. Ne citiamo un
esempio [7]:
Die nono mensis Januarii x^
ind. 1596.
Item ditta donatrix pro Deo et eius anima titulo
donationis predictae inrevocabilis inter vivos ut supra per eos et
successoreres donavit et donat Antonino et Cataldo Morriale fratribus eius
nepotibus terrae Racalmuti absentibus ..
pro eis et eorum heredibus et
successoribus in perpetuum stipulante et sollemniter recipiente vineam
nuncupatam di lo Piro cum eius domo antro [corsivo, ns.] torculare clausura et aliis in
aea existentibus sitam et positam in pheudo Nucis secus vias publicas per quas
itur versus civitatem Agrigenti ……
Quanto alle
grotte paracarsiche, il fenomeno più
appariscente si verifica in contrada S. Anna, ed in particolare all’apice del
Pizzo di Blasco: sinora latita ogni interesse scientifico e quindi nulla siamo
in grado di annotare. Solo forse è da tener presente che là, in un classico zubbio, si è conformato un profondo
bacino ove - per clima particolare, per sedimentazioni acquitrinose e per
protezione termica - c’è una lussureggiante flora, inaccessibile anche per i
cacciatori, che andrebbe adeguatamente classificata e studiata.
Racalmuto
ha per il momento la fortuna di venire, sotto il profilo floro-faunistico –
indagato e fotografato dall’appassionato e competentissimo dott. Giovanni
Salvo, che sta davvero colmando, almeno qui, lacune secolari. Gli si dovrà
tanta gratitudine per le sue pubblicazioni, corredate da splendide fotografie,
sui lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Racalmuto.
Il nostro
territorio – amcor più di quello di Milena – è «fortemente antropizzato e ricco
in specie annuali, nitrofile, mentre esempi di vegetazione naturale si
rinvengono nelle zone impervie e nei calanchi in quanto non adatte all’impianto
di culture.» [8] Si può
affermare che vi attecchiscano oltre 400 entità floristiche che vivono allo
stato spontaneo. La maggior parte di esse è annuale (terofite), le altre sono
erbe perenni o perennanti (emicriptofite e geofite) o arbusti ed alberi
(camefite e fanerofite). Da segnalare: la biscutella
lyrata (Cruciferae), il lathyrus
odoratus L. (Leguminosae), l’Ononis
oligophilla (Leguminosae); la Pimpinella
anisoides (Umbelliferae); il Tragopogon
porrifolius L. subsp. cupani (Guss.) Pigna; la Crepis vesicaria L. subsp. hyemalis ( Biv.) Babc. (Compositae). Ed
inoltre: l’ Erysimum metlesicsii Polatschek
(Cruciferae), l’ Astragalus huetii
Bunge (Leguminosae), la Lavatera
agrigentina Tineo (Malvacee).
Continuiamo
a citare: «Purtroppo questa successione di ambienti è ormai in gran parte
alterata e ridotta. Solo qua e là ne rimangono frammenti importanti e
significativi, come avviene per le quattro specie di pini presenti in Sicilia
allo stato spontaneo, di cui non sussistono ormai che esigue colonie: dal pino
laricio (Plinus laricio) sul
massiccio etneo, al pino domestico (Pinus
pinea) sui Monti Peloritani; dal pino marittimo (Pinus noster) di Pantelleria, al pino di Aleppo (Pinus halepensis) delle pendici
dell’altipiano meridionale e di varie isolette circumsiciliane.»
Il pino
siciliano è ormai entrato nella più pretenziosa letteratura. Artefice
principale: il pino di Pirandello. E si sa che anche il nostro Sciascia ebbe a
dire la sua; a dire il vero riportando le apprensioni di un grande entemologo
agrario racalmutese Giovanni Liotta, titolare di cattedra all’Università di
Palermo. Sciascia lo ebbe presente nelle sue conversazioni – in articulo mortis – con il defunto
giornalista Domenico Porzio e l’apprezzamento elagiativo, cui certo Sciascia
non indugiava –nel bellissimo libro “Fuoco all’Anima”, purtroppo oggi censurato
dalla famiglia. Lo Scrittore si era rammentato di una notizia sul pino di
Pirandello che stava per morire che gli era stata fornitagli nell’autunno del
1988, quando già il Liotta era dal febbraio “professore di Ia” dell’
Istituto di Entomologia Agraria di Palermo. Il Liotta ci fornisce ora la
versione autentica di quell’episodio [9]
commentando: «Quando riferivo di questa notizia Leonardo Sciascia non annuiva,
non dissentiva, non faceva alcun cenno palese che desse la certezza di un suo
interesse. […] La notizia di mummificare il pino in realtà l’aveva fatto
inorridire. […] Leonardo era fatto così: era un grande, paziente e infaticabile
ascoltatore e quello che ascoltava, lo scremava, lo elaborava e, se necessario,
lo riproponeva sotto una prospettiva di grande interesse.»
Anche
Racalmuto ha il suo pino “letterario”: quello della casina di campagna dei
matrona alla Noce. Lo rievoca Sciascia, lo celebra Bufalino ( … mantello verdissimo, sormontato
all’orizzonte da un antico albero solitario …. [10]), ne
coglie l’ineffabile incanto, in un momento di corrusca tempesta, il fotografo
Pietro Tulumello (e qui davvero Sciascia ha malie evocative: un paesaggio del tutto simile all’Amor sacro e all’Amor profano del
Tiziano: e la sera trascorre in esso come una delle tizianesche donne serene ed
opulente … [11]). Noi
continuiamo a mirare le chiomate piante che ancora avvolgono la casina di
campagna del Barone Tulumello, al Cozzo della Loggia, sotto il Serrone. Ma
quanto resisteranno?
-
un micro
orto botanico per Racalmuto
Auspichiamo
che i denudati cozzi attorno alla Fondazione Sciascia ospitino un micro-orto
botanico ove si rinserrino le piante ed i fiori cari a Sciascia. Come, ad
esempio, le magnolie e non tanto per il loro profumo o perché queste
«splendevano … [come] luminose e
profumate donne, di mai più vista bellezza» [12] E si
ricostituiscano le sciasciane “siepi di fichidindia” [13] e non
manchi un tocco rievocativo «dell’intensa coltivazione di alberi di noce» con
«quei grandi alberi che i contadini chiamano di bellu vidiri, con disprezzo: cioè belli a vedersi ma inutili: il
corbezzolo, il caccamo, qualche varietà di ficus. E ci sono gli orti. E queste
sono le oasi, nella gran calura del giorno; né manca, a darne l’illusione, la
palma. La palma de oro y el azul sereno: e questo verso di Machado, palma d’oro in
campo azzurro, è diventato per me una specie di araldico simbolo del luogo.» [14] E noi
auspichiamo anche che nell’«orto» sciasciano abbiano rimembrante dimora le
piante, i fiori, le erbe e pure le gramigne di autoctona progenie racalmutese.
Vorrà il chiarissimo prof. Liotta collaborare ad un siffatto progetto? Vi è
contrario il competentissimo dott. Salvo?
Confessiamo
di avere avuto un moto di stizza nel leggere alcune notazioni botaniche del
Renda: [15] alcune caratteristiche
piante arboree racalmutesi sono tutt’altro che indigene. «Il limone [già, le Lumie di Sicilia, n.d.r.] – discetta lo
storico – raggiunse la Sicilia e la Spagna nell’alto medioevo, durante il
dominio arabo. L’arancio arrivò più tardi e, a quanto sembra, non ebbe
importanza apprezzabile fino al XV secolo. Gli arabi portarono on Sicilia e in
Spagna anche il mandorlo, la canna da zucchero, la palma e altre specie
esotiche, come il melograno, il melocotogno, il nespolo invernale ecc. Il
processo di riutilizzazione agronomica di queste numerose specie non fu
univoco. Alcune, come l’ulivo e il mandorlo, ebbero incremento notevole. Altre
decaddero e furono abbandonate. Fra queste, sono da ricordare la canna da
zucchero, il riso, il gelso per l’alimentazione del baco da seta, il legno da
bosco, l’allevamento, e poi il lino, la canapa, il cotone, la soda vegetale
ecc. »
Un tempo a
Racalmuto si coltivavano cotone, lino, canapa ed altre piante da vestiario:
oggi, culture del genere, sono del tutto ignote. La coltivazione più estesa è
stata sempre quella del grano, di varie specie ivi compresa quella c.d. tumminìa, alternata alla semina di
avena, orzo e fave nelle annate di riposo. Se già nel XIV secolo Federico del
Carretto operava una sorta di outright
sui futuri raccolti di grano racalmutesi con Mariano Agliata, [16] al tempo
di Filippo II l’approvvigionamento di grano al caricatoio di Girgenti consentì
un proficuo commercio dei baroni del Carretto, che così assurgono al rango di
conti, in quei calamitosi tempi di
guerra mediterranea contro il Turco. E così nel Seicento, quando anche le
Clarisse racalmutesi, amministrate da un prete Traina, possono conferire, a
pagamento, il loro frumento in esubero presso il caricatoio racalmutese.
Oltre alla
composizione delle classi sociali racalmutesi (in vetta, tanti preti), possiamo
cogliere tutto un linguaggio estremamente significativo ai fini della
raffigurazione del mondo contadino dell’epoca:
1)
panizzo del popolo;
2)
frumento per simenze in forte e timilia [o
tumminìa], per il fego dell'Aquilìa;
4)
simenza
per soccorso e per governare le vigne e per mangia
di propria famiglia;
5)
Grillo don Gaetano, come procuratore del
fego delli Gibbillini, territorio di questa, rivela avere nelli magasini di quel fego s. [salme] 306
ffr. [frumento] raccolto nella XIa
In. 1763 [= 1763, undicesima indizione], quali li bisognano per semene, soccorsi e copertura di detto
fego;
6)
per simenze di forte e timilia s. [salme]
40 per soccorso di detto seminerio e
sem. [seminerio] di legumi s. 15 e s. 24 per mangia ed impiego di casa;
7)
simenza fumento forte s. 10, salme 5 per
soccorsi di d. sem. [semina], s. 2 per soccorso sem, [semina] d'orzo, salme 4
per provvedere la vigna, e s. 29 per mangia e commodo di propria casa;
8)
s. [salme] 55 [di frumento]vendute a questa un.
[università] di Racalmuto per il
pubblico panizzo;
9)
Grillo don Antonio come Governadore della
Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere nelli magazini della
Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute a questa unoversità
per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f per simenza e soccorsi dello Stato di Racalmuto;
10) Di
Salvo Filippa vid.a [vedova] del quondam
Giuseppe, rivela s. 12 fr.forte [frumento forte] .. quali li bisognano: s.6 per
mangia e s.6 per commodarlo a divere persone;
11) Saldì
m.° [mastro] Paolino, rivela s. 9 ff.f.
.. delli quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3 per soccorso di detto sem.,
sem. d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di propria casa;
12) Tulumello
Calogero rivela s. 110 f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per
mangia della mandra [Traina,
vocabolario: mandra: luogo ov’è rinchiusa la freggia] s. 35 ff., p. simenza s.
20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e colture di vigne s. 12 e
s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia;
13) Tulumello
Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra,
s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s.
9 per mangia di casa e garzoni;
14) Picone
Chiodo Nicolò, rivela s. 42..f .fte [frumento forte] quali li bisognano s. 12
per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per soccorso di sem. di legumi
ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di vigna e s. 19 compl. delle
dette s. 42 per mangia ed agiuto del borgesato;
15) Grillo
e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela s. 132 per raccolto f.f per 1763, quali
f.f. mi bisognano s 35 per simenza, per
soccorso di d.° sem.° s. 40 e seminerio di timilia s. 14 f.f. per sem,° di
legumi ed orzi e s. 43 per mangia e impiego di casa;
16) Scibetta
m.° Stefano, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano
s.150 per averle vendute a questa Un.tà
[università] per il pubblico panizzo ed il resto per mangia di propria
casa;
17) Lo
Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi
bisognano per venderli per sollennizzare la
festività di S. M.a del Monte come Governadore della Confraternità di
detta Chiesa;
18) Grillo
fra' Antonio Maria, procuratore dello ven. convento di S. Francesco dei minori
conventuali, rivela s. 7,8 per raccolto f.f per 1763, quali ff. li bisognano
per mangia dello detto convento;
19) Pirrelli
fra' Giacomo Priore del ven. convento di S. Giovanni di Dio sotto titolo di S.
Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e timilia per raccolto f.f per 1763, quali li
bisognano per mangia di detto convento;
20) Pomo
fra' Giuseppe Prc.re del venerabile convento del Carmine, rivela s. 23 per
raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 10 per simenza, s. 3
soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s. 8 per mangia convento;
21) Carretto
fra Gaspare pr.re del ven. convento di S. Giuliano de Padri Agostiniani della
congregazione di Sicilia, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, delli quali li
bisognano s. 2 per governo di un predio di vigna e s. 6 per mangia.
-
i
preti, il grano, il pane
Ed
ecco i dati del folto clero:
a)
Grillo sac. d. Salvadore Maria, rivela s.
160 per raccolto f.f per 1763, delli quali mi bisognano simenze in ff. s. 24,
simenza in similia s. 30 per colti scarsi le s.te tim. s. 30, per coltura di
vigne s. 20, per serviggio della mia casa e famiglia per mangia s. 16, per due
famoli in campagna esistenti di capo d'anno s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a
coloro che si devono pigliare a società il sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15
ff: restano per quelle occorrenze che potranno insorgere;
b)
Grillo sac. d. Giuseppe, rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763, delli
quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di casa;
c)
Campanella sac. d. Stefano arciprete, rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i
quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per
soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa
università comp. di salme 100 per uso del publico panizzo sotto nome di Stefano
di Salvo;
d)
Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8
ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi
bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci persone;
e)
Pumo cl. Francesco, rivela s. otto ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza, soccorso
s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa;
f)
Borzellino sac. d. Mario, rivela s. 5 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali li bisognano per mangia di casa;
g)
Conti sac. d. Gerolamo, rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali li bisognano s. 8 ff. per simenza,
s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di legumi ed orzi e governare due
possessioni di vigna proprie, s. 11 p. mangia e commodo proprio;
h)
Crinò diacono d. Filippo, rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, quali li servino per mangia di casa;
i)
La
Matina sac. d. Gaspare, rivela s. 7 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s.
4 per mangia di casa;
j)
Farrauto sac. d. Santo, rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s. 80
obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia e simenze di proprie chiuse;
k)
D'Amico sac. d. Antonino, rivela s. 8 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo Sacramento e s. 5.8
per mangia;
l)
Savatteri sac. d. Michel'Angelo, rivela s. 21 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso di detto sem.° e
sem.° di legumi ed orzo, s. 4 dati in
accodo e s. 10 per mangia e commodo di casa;
m)
Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe, rivela
s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4 ff. per simenza,
s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s. 8 per lo
soccors o di un predio di vigne e s. 14
p. mangia e commodo;
n)
Picone sac. d. Ignazio, rivela s. 4 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 1 per
soccorso e s. 2, comp. di d. s. 4 per
mangia di casa;
o)
Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8
per soccorso e s. 1.8 per mangia propria;
p)
Mantione sac. d. Baldassare, rivela s. 2
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia di casa;
q)
Mantione sac. d. Antonino, rivela s. 27.10
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff. per simenza, s.
5 per soccorso di detto seminerio e
socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2. per
mangia di casa;
r)
Pitrozzella sac. d. Baldassare, rivela s.
10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 8 ff. per simenza, s.
4 per coltura di detto seminerio;
s)
Montagna diacono d. Onofrio, rivela s. 6
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, s.
1.8 per soccorso e s. 1.9. per
mangia di casa;
t)
Baeri sac. d. Ignazio, rivela s. 0.8 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano . per mangia di casa;
u)
Baeri sac. d. Casimiro, rivela s.2 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia;
v)
Nalbone sac. d. Benedetto, rivela s. 360
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2
per soccorso, s. 3 soccorso per il seminerio di legumi, s. 20 per mangia, s. 2
per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. un. [questa università] per
pubblico panizzo e s.78 commodate;
w)
Fucà diacono d. Giuliano, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia;
x)
Fucà sac. d. Pasquale, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali mi
bisognano per mangia;
y)
La Matina sac. d. Pietro, rivela s.13 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2 per
soccorso e s. 6 per mangia;
z)
Avarello sac. d. Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI
ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8, soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2
per mangia ed impiego di mia casa;
aa)
Busuito sac. d. Antonino, rivela s. 6 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1.4 ff. per simenza, s. 2
per soccorso sem.° di legumi e s. 1
soccorso di d.° sem.° di forte e per governare le vigne ed il resto. per
mangia;
bb) Scibetta
ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s. 70 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali
40 vendute a questa un. per publ. panizzo, s. 6 per simenza e il restante per
mangia di mia famiglia, soccorso delli metatieri di legumi ed orzo e p.
migliari dieci di vigna e più per fare l'arbitrio di campagna;
cc)
Farrauto sac. d. Saverio, rivela s. 0.8
ff. raccolto XI ind. 1763, quali mi
servono per mangia;
dd) Biondi
sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li
servono per mangia;
ee)
Alfano sac. d. Filippo, rivela s. 30 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 7 per
soccorso di d.° semin.° e sem,° di legumi e governare la vigna.
Nel
mezzo del ‘700, a Racalmuto, dunque, occorrevano 4.346 salme di frumento per la
“mangia” dell’intera popolazione che, secondo “la numerazione delle anime” del
quale si custodisce in quel mirabile scrigno (purtroppo in gran dispitto alle
locali autorità) che è l’archivio della Matrice, ascendeva a circa 5.800 anime
sotto n. 1537 capi-famiglia. [18]
Il panizzo pubblico richiedeva qualcosa come 1.195 salme di frumento, il che
significa che oltre l’78% delle famiglie non aveva grano proprio bastevole per
sostentare il proprio gruppo familiare e doveva far ricorso al pubblico
“panizzo”. Solo 126 possidenti potevano considerarsi autosufficienti, ivi
compresi i quattro conventi ancora aperti, ed i 31 ecclesiastici (preti e
diaconi) che costituivano il 2% dei “fuochi” racalmutesi del ‘700. Non
disponiamo, purtroppo, notizie sul frumento che, finito nei pubblici caricatoi,
emigrava per esportazioni o per le cosiddette “tratte” che per secoli avevano
foraggiato il “biscotto” degli eserciti spagnoli.
-
i
vigneti.
Ma
non tutte le terre erano destinate al frumento. da un rollo della Confraternita
di Santa Maria (dedita alla buona morte, e si sa che il culto dei trapassati è
stato da tempo un buon affare a Racalmuto) abbiamo potuto enucleare qualcosa
come 102 vigneti di varia dimensione, con vette di 18.000 viti che i fratelli
Taibi vantavano in località Montagna, dislocati pressoché dappertutto, e
coltivati in vario modo: “vinea de aratro” (come dire che fra vite e vite si
poteva arare e quindi coltivare frumento o legumi o altro); “vinea cum suis
arboribus” (la vigna alberata era consueta a Racalmuto, almeno fino a quando
non ebbe a prendere piede quella a tettoia, ultimamente coperta con teli di
plastica, in modo anche osceno); “vinea arborata com eius clausura” (una bella
vigna alberata in mezzo a chiuse di terre da pane); “vinea cum eius clausuris, arboribus et domo”
(una spaziosa “robba” con vigneti, frutteti e campi di grano); “clausura cum
domibus, aqua, terris scapulis et arboribus et aliis” (era la “chiusa” che il
potente e ricco Giovanni Amella possedeva nel feudo di Gibillini, a confine con
il vigneto di suo fratello Giovanni, con quello di Pietro Salvo e con il
vigneto di Antonino Gugliata).
I vigniti,
sparsi un po’ ovunque, si palesano però più insensivi a Garamoli, in contrada
Montagna, a Bovo, alla Noce, alla Menta, al Rovetto, a casali Vecchio, a
Culmitella, al Serrone; in varie località che in quel tempo facevano parte del
feudo di Gibillini, come dire i versanti di Monte Castelluccio; in talune contrade
oggi di incerta, e talora ormai dimenticata, ubicazione quali: Bigini,
Gazzelle, Granci, Malvagia, Manchi,
Pidocchio, Sambuchi, Stalluneri, Santa Domenica; e non mancavano vigneti
neppure nella parte Nord, a cavalcioni del vallone oggi così desolato, come ci
testimoniano i dati relativi a Donna Fala o a Quattro Finaiti.
Integrando
i dati con quelli che appaiono da un altro “rollo” – sempre custodito in
Matrice – abbiamo, infatti, vigneti – oltre alle località citate – in contrade
quali: Carcarazzo, Pernice, Muscamenti, Cannatone, per non parlare del Ferraro,
dei Malati, del Saracino, Sant’Anna, San Giuliano, Rocca Russa, Canalotto,
Muccio, Giardinello (feudo di Gibillini), Corbo, Petravella, Cozzo della
Pergola, Santa Maria di Gesù, Marcianti (feudo di Gibillini), Vella del Corbo,
Arena, Muccio (feudo di Gibillini), Lago (feudo di Gibillini), Scifitello,
Castilluzzo (feudo di Gibillini), Carmelo.
- il
sommacco.
Una
piantagione, che se pur tarda è comunque attestata da documenti del XVII
secolo, è quella del sommacco: serviva per la concia delle pelli e quindi,
allignando nei costoni rocciosi, ebbe a propagarsi in quelle zone impervie con
intensità tale che ancor oggi – seppure ormai quasi inutilizzata – non si
riesce ad estirpare. La solita Matrice ci fornisce dati d’archivio: è del 1685
questo documento che attiene ad una ipoteca :
Item in et
super salma una et tumulis octo terrarum cum eius vinea et summacio intus et
torculare sitis et positis in dicto pheudo et in contrata Bovi secus vineam
Francisci de Poma Agostini et secus contrata dello Corbo et alios confines.
Apparteneva
ad una famiglia ancor oggi in auge: al sacerdote don Pietro Casuccio ed al
fratello Nicolò. E certo, di sommacco ebbe bisogno il padre del “nonno del
nonno” di Leonardo Sciascia – che, diversamente da quanto asserisce in Occhio di Capra lo Scrittore, era
racalmutese puro sangue. Mastro Leonardo Sciascia s’induceva il 22 aprile del
1768 a fare società con mastro Carmelo Bellavia e con mastro Giuseppe Alfano, a
suo volta associato con mastro Pietro Picone.
-
gli alberi
da frutta
Gli alberi da frutta, che un tempo dovevano essere molto
diffusi, furono drasticamente ridimensionati quando i sabaudi, gli austriaci ed
i Borboni ebbero l’infelice idea di tassari in modo capitario.
La rarefazione degli alberi da frutta si coglie benissimo
nel rivelo che il convento degli agostiniani fa agli atti del notaio
Michelangelo Savatteri, il 10 maggio 1754. [19]
Il convento – ove da giovane divenne
diacono fra Diego La Matina - è ancora aperto, ad onta dei divieti papali, ed è
davvero prospero. Eppure, si guardi come sono esigue e ristrette le specie di
alberi da frutta:
«Beni stabili
rusticani
Possiede questo venerabile convento salma 1 e tumoli
8 di terre, atte a giardino secco, in questo stato, contrata S. Giuliano,
confinante con il detto venerabile convento e via pubblica di tutti i lati, che
secondo l'estimo dell'esperto di questa terra ragionati ad onze 120 per salma,
sono di valore cento ottanta onze, o. 180;
Item in dette terre vi esisteno alberi di diverse
sorti, cioè mandorle n.° 70 a tt. 6
per uno sono di valore onze 12 che secondo l'estimo dell'esperto d.o, fanno o.
12
Alberi di olive
n. 12 a tt. 6 per uno sono di valore onze quattro secondo l'estimo dell'
esperto ;
Alberi di pruni [albero che fa le susine = Prunus domestica
culta L., v. Traina] di tutta sorte n.° 200 a tt. 8 per ogn'uno secondo
l'estimo dell'esperto;
Alberi di peri n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto
ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze;
Alberi di fastuche [ pistacchio = Pistacium L.) n. 8 che secondo l'estimo dell'esperto a tt.
15 per uno sono di valore onze 4;
Alberi di noci
n. 2 secondo l'estimo dell'esperto unza una per uno sono onze due;
Alberi di pomi
[pyrus malus L., probabilmente compresi gli alberi di “cutugna”, cotogno, Pyrus
cydonia L.] n.° 6 ragionati secondo l'estimo dell'esperto a tt. tre per uno
sono di valore tt. deciotto;
Alberi di granati
[melograno, Punica granatum L. Denominato dalla città spagnola, a memoria
dell’importazione araba] n.° venti secondo l'estimo dell'esperto a tt. 3 per
uno sono di valore onze due;
Alberi di fichi
n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto a tt. 4 per uno sono di valore onze due.»
Mancano
aranci e mandarini ed anche limoni. Mancano: gelsi, sorbi, peschi, nespoli,
ciliegi ed altre specie oggi piuttosto ricorrenti nelle campagne di Racalmuto.
Notisi la prevalenza dei frutti invernali. Quanto al valore, questa la
gerarchia: noce (un’onza ad albero); pistacchio (15 tarì ad albero); pruni
(tarì 8 ad albero), nonché mandorli, ulivi e peri (tutti sollo stesso standard
di 6 tarì ad albero) e, quindi, gli alberi di fico (4 tarì ad albero), i
melograni con i pomi a soli 3 tarì ad albero. Si tace sui fichidindia che
dovevano pur esserci.
- le risorse agricole degli agostiniani di S. Giuliano.
Il documento ci pare perspicuo anche per quest’altri
rilievi agrari:
«Possiede pure detto venerabile convento, in detto stato
contrada Barona, salma una e mondelli due di terre scapoli per uso di
seminerio, confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo
dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque
onze ...... -/ 135.
Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di
terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata
Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via
publica, che secondo l'estimo
Possiede pure detto venerabile convento in detto stato
mcontrada Barona salma una, e mondelli due di terre scapoli per uso di
seminerio confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo
dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque
onze ...... -/ 135
Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di
terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata
Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via
publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionate ad onze 12 per migliaro
sono di valore onze novantasei e tarì 10 ....................-/ 125.10.
In dette vigne esiste il Palmento per commodo della vendemmia e con
altre due case di abitazione terrane e cioè una entrata, e l'altra paglialora,
e due camere di sopra, che secondo l'estimo dell'esperto di questa sono di
valore onze trenta ...................................................................
-/ 30
In dette vigne vi sono n.° trenta quattro alberi di mandorle, peri,
fiche, ed olive, che secondo l'estimo dell'esperto di questa ragionati a tt. 6
per uno sono di valore onze se, e tarì venti quattro
.........................................................................................................................
-/ 6.24.
Possiede di più detto venerabile convento tumoli 8 di terre atte a
seminerio confinanti coll'istesse vigne di sopra ad onze 64. salma secondo
l'estimo dell'esperto importa trentadue onze .. -/ 32
In dette terre
vi esiste fiumara con sua acqua sorgente in n.° 100 alberi di Pioppo che
prezzati
secondo l'estimo dell'esperto a tt. 8, grana uno, sono di valore onze
quattordici e tarì 20 ..-/14.20»
Lo spaccato contadino del
mondo racalmutese settecentesco si tinge anche di questo tratto non proprio
edificante. I ricchissimi frati di San Giuliano si danno alla questua lungo le
campagne ed ottengono dai devoti villici questi tutt’altro che trascurabili
“introiti spirituali”:
«Introito Spirituale
In primis salme 10 formenti provenuti per questua ragionati a tt. 40
salma importa ...............-/ 3
E più salmi 6 orzi a tt. 24 salma provenuti per questua importa .............................................
-/ 4
E più salmi 4 fave provenute per questua ragionati a tt. 24 salma
importa .............................. -/ 3
E più salme due lenti[cchie] provenuti per questua a tt. 42 salma
importa ....……................... -/ 2
E più salma 1 ceci provenuti per questua ragionati ad -/1.26 salma
importa .................. -/1.26
E più botte sei musto ragionate a onze 1.7 botte
.................................................................-/ 6»
I frati
questuanti portano nelle stive del convento «formenti, orze, fave, lenticchie e
ceci». Il Borbone, da Napoli, insensibile a cosiffatte devozioni, tassa.
Il convento di S. Giuliano ha pure il problema della
gesione delle vigne site al Ferraro: ecco come denuncia il «Prodotto delle vigne di Gibillini»: sono
vigne «date a società, franche d'ogni spesa, un anno per l'altro, [per un
valore di] botte 4 di vino-mosto, ragionate per onze 3,3 per botte.»
Restiamo colpiti da quel pioppeto di 100 albero lungo la
“fiumara” del Ferraro. Oggi, nessuna traccia è più lì rinvenibile, né di
pioppi, né di acque fluenti. Il pioppo,
come i tanti canneti di cui parlano le fonti, erano indispensabili nelle
costruzioni edili. Due grossi volumi contabili denominati “libri della fabrica”
sono consultabili in Matrice ai fini dell’inveramento della costruzione della
nostra chiesa madre, sempre che si abbia voglia di discostarsi delle letterarie
attribuzioni di Sciascia ad un prete in alumbramiento. Nel Seicento si faceva ricorso al pioppetto
di Garamoli. Era difficoltoso ed il trasporto costava. Lo sfruttamento di
facchini era comunque possibile: bastava dar loro “salsicce e vino”. A
comprova, citiamo: «il 22 dicembre del 1658 si pagavano mastro di Napoli e suo
figlio «per havere andato in Garomoli per sbarrare li travetti et n° 3 burduna
che mancano al complimento della nave [della Matrice] ed in più per havere
fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli.» Occorrono 20 tarì «per havere fatto venire dui burduna da
Garamoli e più per pani, salzizza e vino a vinti homini che uscirono detti
burduna dentro la fiumana e ni portaro uno a 2 dicembre alli detti Gueli et
Napoli e suo figlio per intravettare e pulire la travetta.» Le tre attuali
navate della Matrice furono dunque intravettate con legname di Garamoli nel dicembre
del 1658, quando don Santo d’Agrò – il prete alumbriato da Sciascia - era
morto da 21 anni (risulta, appunto tumulato, nella parte allora esistente della
Matrice, sotto l’altare della Maddalena il 22 luglio 1637).
I pioppi degli agostiniani del Ferraro non dovevano essere
dissimili da quelli di Garamoli, e del tutto uguali a quelli – radi – che
ancora resistono nello zubbio sotto Fra Diego. Questa è almeno la tesi dei
grandi naturalisti racalmutesi che abbiamo interpellato.
Rintracciato via E-Mail il mio compagno di liceo prof.
Giovanni Liotta, lo apostrofai nel dicembre del 1999 in questi termini:
A Garamoli, dunque, v’era nel 1658 una “fiumana” ove
impenetrabilmente prosperava un bosco di alberi ad alto fusto che
all’occorrenza venivano utilizzati per fare dei “burdana” per il tetto delle
chiese. Qui si tratta della nostra matrice (ovvio che quella di cui parla
Sciascia fatta a spese di un prete, l’Agrò, in vena di alumbriamento, non
esiste). Di che tipo erano quegli alberi? Ha ragione il dott. Salvo che li
vuole della famiglia populus alba? Si
potrebbe pensare ad una colonia di pioppi
neri (p. nigra)? O ad
altre specie di alberi ad alto fusto?
Perché sono spariti?
E prontamente – e tanto simpaticamente, quanto gentilmente
– il grande entomologo mi precisava:
Quanto alle piante che vivevano e ancora vivono ai bordi del
canale per lo smaltimento dell'acqua della sorgente, credo, come Salvo, che
debbano essere attribuite alla specie Populus
alba, (il pioppo più comune della zona).
Ma noi
continuiamo a sperare che i citati esperti racalmutesi ci forniscano risultati
di appositi studi: Racalmuto li merita.
h) La fauna
Così come a
Milena, anche a Racalmuto, la fauna che circolava dal Neolitico al periodo
tardo romano era sostanzialmente costituita dagli ovicaprini (si calcola sul
46,75%), dai bovini (sul 20,19%) e sui maiali (intorno al 19,57%) [20] Anche a
Racalmuto ebbe a pascolare il cervo e seppure rade non mancarono la volpe, la
lepre ed il cinghiale.
Ci pare
pertinente pure ai nostri siti questo passaggio del lavoro della Wilkens:
«Oltre ai resti di mammiferi sono stati identificati anche alcuni molluschi
marini (Murex trunculus, Glycymeris
sp., Glycymeris violacescens), marini
fossili (Dentalium sp.) e terrestri (Rumina decollata, Helix aspersa, Eobania
vermiculata, Leucochroa candidissima).
Mentre è probabile che le conchiglie marine, compreso il Dentalium fossile, venissero utilizzate a scopo ornamentale, la
presenza di molluschi terrestri può essere causale, dato che non sono stati
trovati in numero tale da far supporre un loro uso alimentare.»
Nell’Eneolitico,
in zona Rocca Aquilia così prossima alla contrada Marchesa di Racalmuto, «la
percentuale degli ovicaprini è molto alta, raggiungendo il 71,55%. [..…]La
caccia ha un interesse molto limitato con il 3,44% e due sole specie: il cervo
e la volpe. […]Tra gli ovicaprini
prevale nettamente la pecora, essendo la capra rappresentata solo da un
frontale femminile con cavicchie.»
Risale al
Bronzo antico l’utilizzo certo di bovini come animali da lavoro. Non mancava il
cane. Nel Bronzo medio, i maiali tra uno e due anni venivano utilizzati per la
macellazione. Per le pecore «le macellazioni avvenivano alla nascita, a 3/5
mesi e a 8/9 mesi nei giovani, si hanno resti di subadulti di 18/24 mesi e di
adulti di età media ed avanzata. Si aveva quindi uno sfruttamento di tutte le
possibilità del gregge: latte, carne e lana.» «I resti di cane sono scarsi e
comprendono la mandibola di un giovane compresa tra uno e quattro mesi. Gli
altri frammenti appartengono ad adulti di piccola taglia. Tra le specie
selvatiche sono stati identificati la volpe, il cinghiale, il cervo e la
tartaruga.»
Verso la
fine dell’età del Bronzo, la commestione del cane risulta con certezza: «una
mandibola di cane con denti regolari denota la presenza di un individuo a muso
lungo, mentre un frammento di femore con graffi di scarnificazione sul lato
ventrale in prossimità dell’epifisi distale, indica che anche i cani venivano
utilizzati nell’alimentazione.»
Estendiamo
a Racalmuto queste importanti “interpretazioni e confronti” della Wilkens:
«Nell’economia di questa area la caccia ha sempre avuto un’importanza
secondaria e solo nel Neolitico di Mandria i resti di animali selvatici
raggiungono una percentuale significativa (11,72%). La tendenza verso un
allevamento misto con forte importanza della pastorizia affiancata da buone
percentuali di bovini e maiali è evidente dall’esame del materiale neolitico. I
bovini sembrano in questa fase destinati essenzialmente alla produzione di
carne e latte, mentre negli ovicaprini, che in tutti i periodi sono costituiti
in massima parte da ovini, sembra prevalere l’interesse per la lana e il latte
rispetto a quello per la carne. […] Nell’Eneolitico si accentua la tendenza
verso la pastorizia a danno principalmente dell’allevamento dei maiali. […]
Negli strati più recenti di Serra del Palco … è presente il cavallo.»
Il cavallo
pare che sia giunto tardi in queste zone: «Il cavallo, identificato solo in
livelli di età storica, raggiunge a Rocca Amorella un’altezza di mm. 1316. Si
tratta quindi di un individuo di taglia media. I resti di asino sembrano invece
da attribuire ad animali di piccola taglia.»
In
definitiva, «tra gli animali selvatici si nota una certa varietà di specie nel
Neolitico (volpe, lepre, cinghiale e cervo). […] Solo il cervo si trova con
regolarità in quasi tutte le fasi. E’ da notare il tasso nel Bronzo tardo di
Serra del Palco. […] Il daino è presente solo a Rocca Amorella.» Non mancava il
gatto.
In millenni
di attività venatoria e di braccognaggio, la facies faunistica di Racalmuto è radicalmente cambiata.
Naturalmente vi ha contribuito l’antropica modificazione della locale
vegetazione. Il degrado degli ambienti per il dissennato utilizzo di
fitofarmaci è stato spesso esiziale. Vi si aggiunga la vulnerazione che le
tante strade hanno determinato nell’ecosistema del territorio..
Resiste,
comunque, nella zona la Volpe (Vulpes
vulpes crucigera Bech.), avente pelliccia rossastra sul capo e sul tronco e
grigia sulle parti inferiori. Vive in genere tra le sterpaglie dei campi o
trale balze rocciose (come nella cava di Fulvio Russo, al Serrone). Pare che non sia del tutto scomparso il Gatto
selvatico (Felis silvestris Schreb.).
Tra i roditori sopravvive l’Istrice (Hystrix
cristata cristata L.). Pure ancora presente il Riccio (Erinaceus europaeus consolei Barr. – Ham.), un insettivoro dal capo
largo e con il muso appuntito. Tutte le parti superiori del corpo sono
ricoperte, dalla fronte alla coda, da aculei di due o tre centimetri di
lunghezza. Lepri e conigli non mancano, anche se ormai non più indigeni, ma
provenienti dai paesi slavi ed immessi nel territorio per ripopolamento,
purtroppo senza avvedutezza veterinaria, e quindi, non di rado, infetti e
contagiosi. Lepre comune (Lepus europaeus
corsicanus De Wint) e coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus huxleyi Haeck.) sono per ora preda - al Castelluccio, al
Serrone, alla Pernice, persino sotto le varie “robbe” di campagna – di quella
fosca genia dei cacciatori locali, per fortuna in via di estinzione.
Sembrano
tornare a volteggiare sulle lande racalmutesi gli antichi rapaci. Consueti i
rapaci notturni quali: il Barbaggianni (Tyto
alba Scopp.), dal piumaggio biancastro nella parte inferiore del corpo e
rossastro nella parte superiore, con disco facciale a forma di cuore in cui
sono inseriti occhi relativamente piccoli di colore oscuro, la Civetta (Athene noctua Scop.) – e pensiamo al
Giorno della Civetta di Sciascia – piumaggio grigio marrone, attiva nel
crepuscolo e nelle prime ore dell’alba, divoratrice di insetti e predatrice di
topi e uccelli di piccole dimensioni. E, poi, il Gufo comune (Asio otus L.) e l’Allocco (Strix aluco L.). A noi fa ancora effetto
l’ansimante gridio dello Jacobbu (strix bubo L.), quando, dopo l’estivo
imbrunire al Serrone, sfreccia invisibile tra i vigneti. E quasi umano è il
richiamo dei piccoli che, sempre al Serrone, la volpe reitera divagando ora qui
ora là nella notturna pastura.
Corvi,
cornacchie, gazze, storni, cardellini, fringuelli, allodole, capinere, tordi,
merli, rondini, pettirossi, sono uccelli passeriformi o ancora non estinti o in
fase di piacevole ritorno. L’upupa, ma anche il piccione selvatico, la tortora,
la quaglia, la coturnice di Sicilia allietano ancora i nostri campi. Rettili,
di solito innocui (i familiari scursuna)
continuano, in primavera, a spogliarsi delle loro lunghe squame sui campi,
sempreché non uccisi prima dalla superstizioso e biblico ribrezzo dei contadini
nostrani. Lucertole a iosa: dalla Podarcis
wagleriana (Gist.) alla comunissima Podacis
sicula sicula (Raf.). Sui muri delle case e sulle rocce due specie di
gechi, grandi divoratori di insetti: la Tarentola
mauritanica (L.) e l’Hemidactylus turcicus (L.)
E che dire
delle lumache: a Racarmutu aviemmu li
babbaluciara, diceva un’ingenua canzone popolare. Babbalucieddi, babbaluci, iudisca e muntuna, termini familiari a
tutti i racalmutesi. Proverbi:
-
Sparaci,
babbaluci e fungi/spienni dinari assà e nenti mangi;
-
Quannu la
sorti nun ti dici,/jettati nterra e cuogli babbaluci;
-
Cu va a sparaci
mangia ligna,/ cu va a babbaluci mangia
corna;
Sciascia, nel suo Occhio di Capra, sapidamente catoneggia
sui detti popolari racalmutesi sulle lumache, a proposito dello sfortunato cui
non resta altro che buttarsi a terra a raccogliere “babbaluci” (v. pag. 113). E
la zoologia sciasciana di Occhio di capra,
oltre allo stesso titolo si estende a questi proverbi:
-
a cuda di surci,
per gli amori finiti, a coda di sorcio, nella noia; (p. 22);
-
a li piedi di lu
cavaddru, ( … «nel mondo contadino che io conobbi non era animale amato:
più delicata del mulo e di minor rendimento, bizzoso, imprevedibile, capace di
fughe da una campagna all’altra» …) e cioè quando si è «senza rimedio: ad
aspettare il colpo dello zoccolo» (p. 26);
-
a piedi
d’agnieddru, «si dice del naso alla francese» (p.29);
-
culuri di cani ca
curri, «colore indefinibile» (p. 58);
-
e iddu pirchì
sceccu si fici? «quasi che l’asino avesse scelto di fare l’asino così come
un uomo sceglie un mestiere, una professione.» (p.67);
-
e lu cuccu ci
dissi a li cuccuotti/ a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti, «chiarchiaru ..
pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di serpi; e vi si caccia
col furetto, che spesso nelle tane resta ‘mpintu,
impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che l’aggroviglia. …
Come dire agli inferi, a un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo. E
senza dubbio vi agisce la memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline
rocciose, come intorno al paese se ne trovano.» (pp-67-68);
-
lu cani di don
Miliu – lu cani di Pinu lu crastu di Pasqua – lu curnutu a lu so paisi, lu
sceccu unni va va – lu pisci di lu mari/ è distinatu cu si l’havi a mangiari –
lu puorcu all’organu – lu sceccu di
Silivestru – lu sceccu zuoppu si godi la via/ la megliu giuvintù a la
Vicaria (pp. 83-88);
-
‘mmucca a un cani,
modo scherzoso per non dare risposta a chi vuol sapere ove travasi qualcuno (
94).
L’animale
domestico, in una società perennemente contadina come è stata sinora quella
racalmutese, ha avuto ovviamente ruoli primari nella nutrizione, nell’ausilio
nei lavori agricoli, nella caccia, nei trasporti, nello scambio e persino nei
passatempi. Gli atti notarili del Cinquecento, del Seicento, del Settecento
pullulano di contratti di compravendita di muli e giumente, di ginizze e buoi, di asine e pecore e
capre. Un carro trainato dai buoi è quello che portò a Racalmuto la Bedda Matri di lu Munti, secondo
l’ingenua iconografia settecentesca che dell’ex voto affisso nella parete destra del Santuario del Monte. E a
fine Maggio, in prossimità dei grandi lavori
estivi nelle campagne, c’era la rinomata fiera del bestiame di
Racalmuto. Ancora in Matrice – ormai piuttosto defilato – si onora S.Antonio,
cui s’intestava nell’antichità la chiesa arcipretale che era particolarmente
venerato per la protezione che accordava agli animali. Ancor oggi, il 13
giugno, una messa a S. Antonio, propiziatrice di favori celesti per la
salvaguardia del locale bestiame, viene recitata, con devozione e
partecipazione del residuale mondo agricolo. Cavalli e muli bardati, salgono
tuttora la scalinata del Monte, a portare “prommisioni” in frumento. Prima
entravano in chiesa: poi, p. Farrauto ed il vescovo Peruzzo interdissero quella
devota tradizione.
Una
terminologia sempre più in disuso entrava persino nei rogiti: “un mulu di pilu
baiu”; una jnizza; in primis, due
muli uno maschio di pilo baio castano et l’altra femina di pilo bajo; dui
muli maschi, di cojo di pilo morello, marcati allo collo e spalla destr; un
cavallo di pilo sauro, con merco [contrassegno] tundo alla coscia sinistra con
la coruna; un cavallo maurello forzato di bianco con una stilla in fronte
bianca; cavallo stornello con l’armi della razza alla coscia sinistra; cavallo
stornello, muzzo senza grigni [criniera], e senza merco; cavallo argentino mercato
alla coscia sinistra della razza; cavallo bajo,
rotato, facciolo, con tutti li
quattro piedi bianchi mercato alla coscia sinistra della razza; Un maccio
[mulo] grande morello mercato allo collo della razza del Re; una fuschetta
falba che dona al scuro; un cavallo bajo chiaro causolo di tutti li piedi
faciolo con un cerro di capilli bianchi sopra la gregna; dui giumenti di
cocchio affrisciunati baj, una delli quali ha lu pedi darreri malato.
Certo, nel gran parte, codesti sono termini usati nell’inventario del conte
Giovanni del Carretto, trucidato in una giornata di maggio a Palermo nel 1608:
erano tempi in cui un cavallo valeva più di uno schiavo. E dopo viene, infatti,
la scuderia umana che il conte deteneva per il suo servizio nel suo palazzo
palermitano. Il burocratico stile del notaio suona tristo alle nostre orecchie:
Item uno scavo masculo chiamato
Mustafà di Scandaria, moro di figlio di Abitelle, di comune statura, brunetto,
mustazzi nigri, di età di anni 27 in circa; item un altro scavo nomine Angelo
di Zagaro figlio di Fideli turco, al presente battizzato di età di anni 18,
sbarbato, pocho mustazzi; un altro scavo
nomine Alì, moro, figlio di Solomina, bono, d’età d’anni quaranta, commune
statura, olivastro, barba castagna con alcuni
pili bianchi; item un altro scavo nome Alì, turco figlio di Acudì. di
paese di Romania, di età d’anni 35, buona statura, barba e mustazzi castagnoli;
uno scavo d’età d’anni . . .
in circa nome Odeo Fazz.l di Bona, figlio di Fuit, mor; item una scava nome
Aramundi di Zaffi di anni quaranta in circa, bona statura, capilli nigri con
alcuni signi al barbarozzo; un’altra
scavotta d’età d’anni dieci nome Naclara figlia di Alburascar di Bona, moro;
item un’altra scava nome Fileze di detta Bona, matre di detto Nazar d’età
d’anni quaranta in circa, figlia d’Alì capilli nigri, mercata a la frunti e
barbarozzo con alcuni stizzi azoli.
Presso la
Chiesa Madre abbiamo rinvenuto quest’accenno ad una compera di buoi, da servire
per il trasposto dal favarese feudo di S. Benedetto di colonne per l’edificanda
Matrice nel 1655:
6.1.1655
|
A Giulio Pisano onze vinti e tt.rì undici,
quali si ci hanno pagato per havere andato alla città della Licata con
Stefano Garlisi et alli feghi attorno per cumprare altri boi di
carrozza per portare le colonne della d.a fabrica…
|
Da un rivelo del 1658 è possibile trarre un quadro dei
possessori di bestie da soma in quel di Racalmuto. Molto attendibile per motivi
fiscali:
·
il numero dei fuochi era di 1239 per 5.165 ;
·
in paese vi erano 52 cavalli;
·
le giumente, invece, in minor numero, appena 38;
·
i buoi, 218 a testimonianza del fervore dei
lavori agricoli;
·
le “vacche di aratro”, n.° 191.
Pecore e capre non vennero conteggiate; e crediamo anche
gli asini.
Asini e muli s’intensificarono nell’Ottocento con
l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il tempo dei “vurdunara”. Scrive
Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo citato (p. 118): «Il solo
trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia dell’unità richiese l’impiego di
3.000 uomini e di 10.000 muli, una vera e propria armata in permanente stato di
mobilitazione.» Fino all’entrata degli americani, nel 1943, la teoria di asini
con il loro carico di “balate” di zolfo era consueto per le trazzere che da
Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si portavano alla stazione ferroviaria.
Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E l’afrore delle urine che stagnavano
nelle solite pozzanghere è rimasto memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi
sempre al solito posto per le sue evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso
del carretto, appena le carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando i dissestati Moss degli americani, la
meccanizzazione, il trasporto su camion.
La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una
passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel
feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare
tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a
tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il
bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don
Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia
campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo
famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di
quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un
fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della
Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del
processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi
si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via
Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta,
passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu
da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci
seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso
vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone;
l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta.
Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero
totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a
Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone
Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale - rimase “un reduce dalle patrie galere”,
come può leggersi in missive anonime che
si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va
letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [21]
«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli
nobiliari, ndr] sta che al mio paese,
dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi,
l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e
di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più
vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un
cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era
invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era
sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e
forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il
barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello
abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile
condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il
barone, mi si faceva un racconto minuzioso:
ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue
spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità
piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di
lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire
popolare la canna, forse perché data all’ecce
homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè
inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra
del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio
dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia
campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i
Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata –
ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale
Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si
scriveva anonimamente al Cadronghi:
«Eccellenza. -
Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole.
Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con
cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano
reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita
di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio
destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di
abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono
inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati.
Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di
circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera
manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la
villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e
Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il
maestro didattico della malavita. Et similia.»
L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà
del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso
non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si
pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette
dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o
meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore
del gesuita padre Scimé (Garibardi),
cui fu sequestrata la scecca mentre
zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per
l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
i)
Archeologia
e preistoria
In sintonia
con Milena, Racalmuto fa risalire le sue ascendenze umane comprovate al
Neolitico. La fase neolitica dei dintorni racalmutesi è variamente comprovata.
«Frammenti di ceramica impressa [provenienti dalla] contrada Fontanazza presso
Milena» [22] comproverebbero
insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C. La citata
contrada non confina con il nostro territorio ma non sta molto discosta e se
insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica colà, non è poi
azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero essere a
Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo comproveranno. A
Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in Milena, scavi
eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un insediamento del
neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età del rame.» [23] Fu epoca
questa – antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le capanne
abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del recinto”» e
ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione della fascia sud-occidentale dell’Isola,
determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli gruppi transmarini,
rapidamente assimilati.» [24] E
continuando con l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma
nell’ambito del neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio
a.C. dunque, ndr] , e certamente in
un momento anteriore alla introduzione della tessitura (nessun elemento di
fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo). […] La documentazione di
questa “cultura del recinto”, la sua brevità, l’assenza finora di materiali più
tardi di quelli stentinelliani associati a ceramica tricromica, sono dunque i
dati di maggior rilevo per uno specifico approccio al fenomeno della
neolitizzazione nella media valle del Platani.»
Lo
sprofondo di Gargilata - con le sue
acque (ora purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi per
la difesa), con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già indagate
– fa affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate, non
potranno che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra
racalmutese: e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del
Griffo ma risulterà di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C.,
anche se, a quanto pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di
molto.
Sulla falsa riga di quanto tracciato da Carla
Guzzone sul neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa al territorio nostrano
di Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del tutto analoghe a
quelle evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della successiva età del rame
(due momenti). Per abbozzare un quadro di ampia massima, siamo costretti per il
momento, in mancanza degli indispensabili e non più rinviabili scavi
stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [25]:
a)
il primo momento è quello dei fori sul banco roccioso,
destinati all’alloggiamento di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno
della copertura di capanne;
b)
il secondo momento è quello delle capanne con battuti
pavimentali;
c)
segue poi la fase monumentale; impianti realizzati con
tecnica accurata (grossi blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili
alcove e con probabili contenitori di derrate;
d)
il quarto momentoè quello dei rifacimenti;
e)
un quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe
rappresentato (se davvero può riferirsi al neolitico) da un bel focolare
impostato su di uno strato di giallastro.
Per un
quadro d’assieme, con particolare riferimento all’età eneolitica, riportiamo
queste note di sintesi di Laura Maniscalco: [26]
«L’età del
rame … è rappresentata da un gran numero di stazioni. […] I siti individuati,
sia attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul terreno, sono tutti di
carattere domestico, manca una altrettanto ampia documentazione relativa
all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti nella zona e
presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate da tempo.»
Discorso
questo valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche in riferimento alle
affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra spettacolare necropoli
di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del rame, a circa l’inizio del
secondo millennio a.C. Vi si attagliano le risultanze archeologiche della
vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui propinquità con Gargilata sono
incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la Maniscalco, «i saggi eseguiti a
Rocca Aquilia hanno restituito sequenze stratigrafiche complete dal tardo neolitico
alla fine dell’età del rame.» Come dire sino alle soglie dell’età del bronzo,
cioè ad immediato ridosso del secolo XVII. Ovvio che le date sono di mero
riferimento, atteso il continuo ripensamento delle datazioni preistoriche.
Scavi
recenti a Milena ragguagliano sulle presenze insediative risalenti alle fasi
finali del bronzo antico; [27] quelle del
bronzo medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel 1988 dal
prof. Vincenzo La Rosa [28]. Il continuum del vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui
ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi
castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato
nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per
le nostre ancor più ubertose plaghe.
A mo’ di
nota conclusiva, per avere una chiave di lettura, della vicenda preistorica
della civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da uno studio di
Fabrizio Nicoletti [29]:
«Non sappiamo se la nostra regione sia stata
popolata in un periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta
dell’Acqua Fitusa, a monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già
da ora la nostra attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti
inquadrabili tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei discoidi è .. incerta, per quanto la loro
presenza nel territorio risulti [piuttosto] capillare. Un bifacciale da
contrada Cimicia, di forma ovale, sembra potersi confrontare con esemplari
analoghi diffusi nella Sicilia centrale. Nella maggior parte dei casi si può
pensare ad una datazione compresa tra il neolitico medio e le prime fasi
dell’età del bronzo. […] Il neolitico, sin dai livelli più antichi di Serra del
Palco-Mandria, vede la comparsa di quel singolare e ricercato vetro vulcanico
che è l’ossidiana. La sua origine allogena non lascia dubbi circa la nascita di
una rete di scambi che in questo periodo interessò la valle del Platani.[…]
L’ossidiana grigia segue l’andamento generale: in ascesa durante la fase delle
capanne, in declino durante quella dei recinti, in rapida ascesa alle soglie
dell’eneolitico, quando diviene quasi l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le
consistenti importazioni di ossidiana, la materia prima maggiormente usata in
tutti i periodi, almeno a partire dal neolitico medio, è una varietà di selce a
grana fine dai colori variabili dal giallo-verde, al rosso, al marrone, spesso
mescolati su un unico pezzo a testimonianza della medesima origine. […]
L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è la più tarda tra
quelle conosciute nella media valle del Platani. Il progressivo sviluppo
culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è in questo sito
accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da chiedersi quale possa essere stato il ruolo delle
importazioni micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti,
sembra coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»
Succede
così il periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos e gli evoluti manufatti
metallici [30]. Racalmuto
non ha, però fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di quella
civiltà. Per rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo che ha
fatto sparire le testimonianze, almeno quelle più evidenti?
Ma se tombe
a tholos dell’età del bronzo il
Tomasello [31] ha
individuato in località Furnieddu
(c/o Sorgente), così prossima ai
confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle
circonvicine terre racalmutesi?
«La tomba
di Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto le due camere thoidali
costituiscono per le loro caratteristiche una presenza archeologica
significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda età del
bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio geografico
nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano culturale,
significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con il mondo
miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di matrice egea
in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale panorama dei
rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i territori costieri
dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali. Inoltre, il materiale
funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e assegnabile quanto
meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la penetrazione di questa
tipologia architettonica nella Sicilia centro-meridionale e di tentarne una
periodizzazione. Infatti la tradizionale
datazione delle tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro, fissata da
Paolo Orsi all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora
sostenibile.»
Risalirebbero
addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi rapporti di questi luoghi con i
micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di contatti – si interroga
l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi tra il XV ed il XIV
secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di Milena, portano a
chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da Pugliese Carratelli
per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un quadro storico reale,
articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di questi contatti nel
lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la quale «nella zona
agrigentino-nissena possano essersi verificati, in concomitanza con l’arrivo
dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri stanziamenti di nuclei
transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con identità culturale
progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del patrimonio
originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito direttamente alla
formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di tipi come la tomba a
tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante nostro entroterra.
Una tomba a
tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce, proprio nel podere vezzeggiato
da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che fosse subcircolare, volta a
calotta, banchina interna a ferro di cavallo e persino dotata del simbolico
incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico alle anime di trasmigrare da
lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia fatta inglobare quando
fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio
di capra che il vedersi al
Chiarchiaro era per Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi, in
un luogo di morte ove tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse il
popolare abbrividire al ricordo «delle
antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne
trovano». Nel dubbio, quella sua grotta della morte antica venne ascosa in
interno ipogeo, risuscitato alla conservazione delle cose della vita.
Confessiamo
che quanto a datazione siamo stati spesso frastornati dall’ondivaga
periodizzazione dell’antica e nuova scienza archeologica. Meritevolissimo
quello che hanno fatto a Milena: hanno rimesso ai vari dipartimenti di fisica e
di fisica nucleare dell’università di Catania i reperti ceramici ed hanno così,
potuto stabilire età, sì, presunte ma
con approssimazioni di mezzo millennio che per le cose preistoriche sono
davvero una bazzecola. Si afferma che sui «campioni ceramici … è stato
possibile operare la datazione tramite termoluminescenza (versione coars grain)» [32] che sono
termini per noi davvero ostrogoti. Ne vien fuori questa serie di età presunte
in BP e cioè a dire before present
(prima del presente):
sito strato
|
età presunta
|
Serra del Palco
recinti
|
|
Recinto maggiore
|
NEOLITICO MEDIO
|
|
7000-6500 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6893
|
864
|
864
|
4893
|
5757
|
4029
|
7445
|
1068
|
1068
|
5445
|
6513
|
4377
|
6852
|
871
|
871
|
4852
|
5723
|
3981
|
7770
|
981
|
981
|
5770
|
6751
|
4789
|
7055
|
739
|
739
|
5055
|
5794
|
4316
|
10148
|
2292
|
2292
|
8148
|
10440
|
5856
|
6773
|
398
|
398
|
4773
|
5171
|
4375
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
5361
|
6278
|
4443
|
RECINTO MINORE
|
NEOLITICO MEDIO
|
|
|
7000-6500 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6387
|
447
|
447
|
4387
|
4834
|
3940
|
6923
|
600
|
600
|
4923
|
5523
|
4323
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
4655
|
5179
|
4032
|
FONTANAZZA IV
|
|
CAVE
|
RAME
|
|
5500-600O BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
|||||||
4759
|
427
|
427
|
2759
|
3186
|
2332
|
|||||||
4773
|
615
|
615
|
2773
|
3388
|
2158
|
|||||||
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
2766
|
3287
|
2245
|
SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
|
||||
SEQUENZA STRATIGRAFICA
|
BRONZO MEDIO
|
|||
|
3400-3200 BP
|
|||
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
3248
|
590
|
590
|
1248
|
1838
|
658
|
3690
|
820
|
820
|
1690
|
2510
|
870
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
1469
|
2174
|
764
|
SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
|
|||||||
SEQUENZA STRATIGRAFICA
|
BRONZO ANTICO
|
||||||
|
3800-3600 BP
|
||||||
Età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
||
3420
|
367
|
367
|
1420
|
1787
|
1053
|
||
4205
|
461
|
461
|
2205
|
2666
|
1744
|
||
4303
|
619
|
619
|
2303
|
2922
|
1684
|
||
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
1976
|
2458
|
1494
|
Ne desumiamo che anche per Racalmuto la più antica
presenza umana comprovabile risale al Neolitico medio e cioè attorno a 5361
anni prima di Cristo (al massimo a 8278 anni fa, al minimo 6443 anni addietro).
Il neolitico medio racalmutese risale dunque in BP (before present, prima del presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.).
Le datazioni del Griffo relative a materiale conservato nel museo regionale di
Agrigento sarebbero quindi confermate.
Non dovrebbero
significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del
recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno
spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del
Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto
Denominazione
|
Età media
|
Età massima
|
Età minima
|
Recinto maggiore Serra del Palco
|
5361
|
6278
|
4443
|
Recinto minore Serra del Palco
|
4655
|
5179
|
4132
|
differenza
|
706
|
1100
|
311
|
Forse possiamo congetturare che sino al 4100 a.C. nei
dintorni di Milena, e quindi anche a Racalmuto, persisteva il Neolitico medio.
Congetture analoghe per l’età del rame: dal quarto
millennio a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i reperti archeologici
oscillano attorno al 2700 a.C. in un arco di tempo ipotizzabile tra un
massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245 a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi
dell’età del bronzo: bronzo antico con ceramica che può pur risalire al 2.303
a.C.; bronzo medio, iniziato probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo
che si aggancia all’età del ferro per sfociare nel c.d. miceneo.
Certo, in avvenire, quando scavi stratigrafici verranno
praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi i ritrovati (immancabili) di
una tecnologia sempre più sofisticata, le datazioni suesposte risulteranno
senza dubbio imprecise, ma allo stato delle nostre conoscenze (o meglio nel
buio assoluto oggi lamentabile per la preistoria racalmutese) queste
cifre-simbolo una qualche luce, un certo orientamento paiono fornirlo.
Sui Sicani racalmutesi abbiamo solo i ritrovamenti del
Mauceri del 1879 di cui parliamo in vari
punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del
reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di
Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada
ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa
essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del
chilometraggio, si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a
ridosso del cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la
galleria in territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle
note del Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e
ceramiche risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del
bronzo antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non
faranno emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere
ferroviario, andate purtroppo irrimediabilmente perdute.
Le tombe a forno della parete del costone roccioso, sparse
tutte attorno alla grotta di fra Diego, sono tanto vistose e suggestive, quanto
del tutto inesplorate (ad eccezione dei tombaroli che possono violare a loro
piacimento in assenza di ogni tutela pubblica). Sicuramente sicane, di certo
antiche di svariati millenni, attendono di raccontarci la loro storia
archeologica.
Una tomba singolare abbiamo scoperto nell’estate del 1999
in contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello ne abbiamo fatto un servizio
fotografico, almeno in tempo non potendosi escludere che vandaliche
manomissioni ne stravolgano l’assetto geoantropico. Attorno si è ormai
consolidato l’assestamento steppico che abbiamo sopra segnalato: deturpato da
un osceno traliccio, abbraccia il notevole masso tombale un prato erboso in
inverno-primavera, in giallo per le stoppie in estate-autunno. In fondo, il
caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la più caratteristica zona
archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina della Culma, a Nord-Ovest:
un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli accumuli dei rosticci di
una dismessa miniera di zolfo. Prima uno
dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto.
E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu
rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta
al Salinas, da far congetturare essere là attorno la località solfifera
sfruttata al tempo dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben
tre interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime
epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la
bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di
distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu
utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo,
alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un
manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di
fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte
Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza
alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro
specialistici ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere
l’epigeo funereo databile attorno all’anno mille a.C. Lungo tutto il pendio di quella vallata
sporgono qua e là massi similari. Lungo la stessa direttrice, più in alto,
sotto un’ansa della rotabile del Ferraro, un altro analogo masso gessoso,
reclinatosi di recente ad opera dell’uomo, mostra due antiche tombe, ma per
fattura e caratteristiche ci paiono bizantine. Dovremmo, quindi, essere tra il
sesto e l’ottavo secolo d.C., ai tempi cioè del tesoretto di monete bizantine
trovate negli anni Quaranta in località Montagna. [33]
Anche qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle
piantagioni della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei,
desolati e desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti:
sopra, il lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano
dall’opera settecentesca degli agostiniani.
E’ la zona dei calanchi, della nudità arborea per il
dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero stanziarsi e gli antichi
sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni bizantine, resta per il
momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi fossero boschi e l’humus
perdurasse ancora ferace? Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia per
tumulare i propri estinti, lo farebbe arguire. Diciamo pure che l’irradiazione
dal centro di Gargilata fu nei secoli una costante: ferace il territorio
circostante, fervida l’opera dell’uomo nel coltivare dove fosse possibile,
anche lungi dalla capanna sicana o dalla frugale dimora coperta di tegole, di
canali d’argilla cotta.
In queste desolate contrade, in cima al Castelluccio,
tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla Montagna, alla Noce, al
Saraceno, ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo, ed altrove, affiorano ancora le sciasciane necropoli, non
vistose come quella di Gargilata. Invece di sperperare fondi pubblici in
insulsi “musei in piazza”, è da sperare che le future autorità locali
recuperino codeste nostre radici dell’ancestrale memoria sicana.
In questa estate, quando abbiamo fatto vedere il manufatto
sicano di Piano della Botte al noto G. Palumbo di Milena, costui era piuttosto
propenso a valutare il rudere come un tentativo di tholos, lasciato cadere
forse per abbandono coatto della località. E’ tesi suggestiva. Resta, allora,
da spiegare perché, in una certa fase della loro vicenda racalmutese, i sicani
del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi tante:
aggressioni belliche; sopraggiunta insalubrità della zona; alluvioni; dissesti geologici. Chissà se
potrà darsi in avvenire una valida risposta. Frattanto, si faccia qualcosa,
come nelle zone del vecchio (e per noi, migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena docet!
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non
riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali
congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se
qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la
grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e
per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si
attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche
sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca
d'Oro' con le caratteristiche «tombe del
tipo a forno» ([34]).
Da quell'era i nostri
progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti
epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto
pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il
crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma
soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche
sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi
per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per
difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di
Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose
di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle
agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto
fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si
accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non
si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di
un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono
la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli,
quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con
nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice -
che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca,
né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi
dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro
imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in
patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela
fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro
Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi
della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino non attestano
solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle
varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi
padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in
alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda
gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La
gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di
servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro
sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori
randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed
incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le
prische connotazioni di uomini fieri e
ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale
racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con
sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i
dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un
ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri
giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
[1] ) Per
approfondimenti, cfr. Carobbi G.,
1971 – Trattato di mineralogia. Vol.
II – Firenze.
[2] ) Vedansi a Racalmuto, ad
esempio, le polle solfuree sopra Gibillini, in contrada Perciata.
[3]) Marcello Panzica La Manna, Aspetti del fenomeno carsico sotterraneo nel
territorio di Milena (CL) , in Dalle
Capanne alle “Robbe”, cit. p. 27 e ss.
[4] )
Fruibili sono le seguenti letture: Calvaruso
E., Cusimano G., Favara R., Mascari A., Panzica La Manna M., 1978, Primo contributo alla conoscenza del
fenomeno carsico nei gessi di Sicilia. Inghiottitoi di M. Conca (Campofranco – CL),
Atti XIII Congr. Naz. Di Speleologia, Perugia, (preprints); Cigna A..A., 1983, Sulla classificazione dei fenomeni carsici, Atti Congr. Naz. Di
Speleologia. Le Grotte d’Italia, (4), XI, 1983, pp. 497-505; Madonia P., Panzica La Manna M., 1987, Fenomeni carsici ipogei nelle evaporiti in
Sicilia, Atti Simp. Int. Il Cars. Nelle Evapor. In Sicilia, Le Grotte
d’Italia (4), XIII, 1986, pp. 163-189.
[5] )
ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - REGISTRO VISITE 1608-1609 - MONSIGNOR Dn
VINCENZO BONINCONTRO - VESCOVO DI GIRGENTI - (INDICE A PAG. 13: RACALMUTO PAG.
244 aggiunto: 203)
[7] ) ibidem,
f. 331
[8] )
Cosimo Marcenò – lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Milena
(CL), in Dalle Capanne alle “robbe”, op. cit., pp.37-41.
[9] ) Vds. Malgrado tutto, novembre 1999 – n. 5 p.
17.
[10] ) Leonardo da Regalpetra, Racalmuto 1990, p. 8
[11] ) Gli amici della noce, Fondazione
Leonardo Sciascia – Racalmuto 1997 – p. 11.
[12] ) ibidem, p. 7.
[13] ) ibidem, p. 7.
[14] ) ibidem, p. 11.
[15] ) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. primo – Sellerio
Palermo 1984, p. 96.
[16] ) Ci si permetta di autocitarci: Calogero Taverna, La
signoria racalmutese dei Del Carretto, Infotar Racalmuto 1999: «Una cosa è certa; Federico del Carretto era
saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse
l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso
l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451
con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450
contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio. Il Bresc [op. cit.
pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In
termini moderni si parlerebbe di outright in grano. La domiciliazione sarebbe
stata pattuita presso il "caricatore" di Siculiana..»
[17] ) Renda. F., Storia
della Sicilia .., op. cit. p. 84 «Lo
sfruttamento capitalistico del lavoro contadino riuscì ad elaborare varianti
ancora più gravose del terraggio, quali il paraspolo, o altri analoghi
rapporti, in cui il concessionario fu trasformato in prestatore d’opera senza
salario certo e definito (il compenso sarebbe stato una quota parte del
prodotto conseguito a fine stagione, generalmente grano, nella misura di un
quinto, di un quarto e in casi eccezionali di un terzo).»
[18] ) Per ampi dettagli, v.
il ns. Racalmuto in microsoft, c/o
Biblioteca comunale di Racalmuto.
[19] )
ARCHIVIO SI STATO PALERMO - DEPUTAZIONE DEL REGNO - INVENT. N. 5 - riveli Vol.
n. 4093 anno 1748 – ff. 250-257-
[20] ) Barbara Wilkens, Resti faunistici provenienti da alcuni siti dell’area di Milena, in
“Dalle capanne alle ‘robbe’ …” cit.
p. 127 e ss.
[21] ) Leonardo Sciascia, Nero su nero, ed, Einaudi Torino 1979, pp. 161-162.
[22] ) Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 219; vds. pure Vincenzo La Rosa, L’insediamento
preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43.
[23] ) Vincenzo La Rosa, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena,
in Dalle capanne alle “Robbe”, cit.
p. 43
[24] ) ibidem, p. 52.
[25] ) Carla Guzzone, La ceramica del villaggio di Serra del Palco ed il territorio di Milena
in età neolitica, in Dalle capanne alle
“robbe” … cit. p. 55 e ss.
[26] ) Laura Maniscalco, Le ceramiche dell’età del rame nel territorio di Milena, in Dalle capanne alle “robbe” .., cit., p.
63 e ss.
[27] ) Orazio Palio, La stazione di Serra del Palco e le fasi finali del bronzo antico,
in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 111 e ss.
[28] ) Vincenzo La Rosa – Anna Lucia D’Agata, Uno scarico dell’età del Bronzo sulla Serra
del Palco di Milena, in Dalle capanne
alle “Robbe” … cit, p. 93 e ss.
[29] ) Fabrizio Nicoletti, Industrie litiche, materie prime ed economia nella preistoria della
media valle del Platani: continuità e cambiamento, in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 117 e ss.
[30] )
Resta ancora basilare il vecchio studio del 1968 del De Miro, riportato anche
nel volume “Dalle capanne alle robbe
..” varie volte qui citato. Molto ha aggiunto Vincenzo La Rosa, come si vede
nello studio riportato a p. 141 e ss. Del citato volume.
[31] ) Francesco Tomasello, Le tholoi di monte Campanella a Milena (Cl),
in Dalle capanne alle “robbe” .. cit.
p. 165 e ss.
[32] ) vds. Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p.
241 nota a Tab. 1)
[33]
) v.d.s. André
Guillou, L'Italia bizantina
dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316., per la
datazione e Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento,
Roma 1987, p. 192 per la data del
ritrovamento.
.
[34]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia
Occidentale. - Roma 1983 - pag.
14.
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