Calogero
Taverna
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“STORIA RELIGIOSA DI RACALMUTO”
Studi e ricerche
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PRIMA DELLA STORIA
Racalmuto
si affaccia sulla ribalta della storia - quella almeno documentata - molto
tardi: bisogna attendere il 1271 per imbattersi in un diploma angioino ove il
casale della diocesi di Agrigento è segnato in termini tali da non lasciare
troppi dubbi sulla esistenza del paese. Prima, affiorano solo cenni o spunti
che soltanto in via congetturale possono portare a questo centro dall’incerto
nome arabo di Racalmuto.
Il
toponimo “Racel ...”, ad evidenza corrotto ed incompleto, che trovasi nelle
cronache del Malaterra, è da riferire secondo alcuni a questo entro dell’agrigentino: di conseguenza esso
sarebbe uno dei dodici borghi arabi soggiogati, violati e ricristianizzati dai
lancieri di Ruggero il Normanno, nell’aggiramento per la conquista della
Ghirgent di Kamuth. E Racalmuto nient’altro sarebbe che “Racal-Kamut”, Borgo o
Fortezza di Kamuth - come del resto lascia trapelare la grafia del toponimo nel
diploma del XIII secolo che si custodiva a Napoli, negli archivi angioini.
Altri
si ostina a collegare una delle località descritte dal geografo Edrisi, Gardutah, con Racalmuto (come se si
trattasse di una corrotta trascrizione del fonema dialettale “Racarmutu”).
Altri come Eugenio Messana, invece, reputa che il toponimo Al Minshar sempre
dell’Edrisi non sia nient’altro che il Castelluccio.
Non manca certo l’erudizione, ma ci troviamo di fronte solo a
vaghe congetture.
Noi, invece, restiamo presi da quanto afferma un archeologo
del valore di Biagio Pace che, forse un po’ troppo avvalorando il nostro
Tinebra Martorana, propende per la tesi secondo la quale le Grotticelle, sotto
la contrada del Giudeo, sarebbero state adattate, nei tempi bizantini prossimi
al papa Gregorio Magno, ad ipogeo cristiano.
E sulle ali dell’entusiasmo archeologico, avremmo voglia di
ritenere che quella crocetta che è marcata in una Tegula Sulphuris, di cui
parla qualche archeologo, stia ad indicare una presenza cristiana a Racalmuto
addirittura sotto l’imperatore Commodo. Quelle Tegule - così
approssimativamente denominate dal Mommsen - venivano fabbricate e vendute nel
quartiere ellenico di Agrigento, ma il loro uso riguardava di sicuro le miniere
di zolfo di Racalmuto - quelle della zona di Quattro Finaiti e dintorni.
Secondo studi attendibili, questo avvenne sotto l’imperatore Commodo. Forse un
liberto cristiano fu inviato nelle officine zolfifere imperiali della nostra
terra e nelle sue Tegulae - le antenate delle moderne ‘gavite’ - fece incidere
il segno della sua fede: la piccola croce che non è sfuggita agli archeologi
della nostra epoca. Se è così, la presenza cristiana a Racalmuto è
antichissima, quasi una predestinazione, un pionierismo i cui meriti si sono
protratti nei millenni. Racalmuto è stata una chiesa salda nella fede: giammai
vi ha attecchito la mala pianta dell’eresia: qualche presenza massone alla fine
dell’Ottocento ha rappresentato semplicemente lo snobismo di qualche ex
seminarista alla ricerca di intime rivincite o di moti liberatori da
psicoanalitici complessi. Diversamente che da Grotte, qui da noi mai si sono
avuti fomiti scismatici e giammai si sono espanse sette eretiche. La vicenda
emblematica di Fra’ Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del
pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie
affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente
rigonfiate. Un Fra’ Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata
e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, che un
chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto
pasquale. Lo attesta la più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi
Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi.
LE PROBABILI
ORIGINI BENEDETTINE DI RACALMUTO
Non
v’è dubbio sull’origine araba dell’attuale Racalmuto: il suo nome lo attesta
inconfutabilmente, anche se non significa sicuramente Paese Morto o Distrutto o
simili assonanze funeree. I modernissimi arabisti (Giovan Battista Pellegrini,
in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici italiani - UTET 1990)
sconfessano la vecchia lugubre etimologia ma si avventurano in una infondata
interpretazione: Racalmuto - dicono - “deriva
dall’arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) ‘sosta,
casale’ del Mudd <latino modium ‘Moggio’ “. “Paisi di lu Munnieddu”,
dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la
configurazione. L’immagine potrebbe valere per il vicino Monte Formaggio di
Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a
Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Nell’antico diploma, quello angioino che
abbiamo citato all’inizio, la grafia - per noi molto eloquente - è quella di rachalchamut.
Uscendo
dalle secche della toponomastica, sappiamo di sicuro che per un paio di secoli
a Racalmuto ebbero il sopravvento i musulmani. Questi introdussero sistemi di
coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi
autori riportati dall’Amari descrivono la
coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli
orti sotto l’attuale Fontana. (Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino
1880 - pag. 305-306: dal Kitab ‘al Falah
(Libro dell’Agricoltura di Ibn ‘al Awwam). I secoli dal Nono all’Undicesimo
sono sicuramente secoli arabi per Racalmuto. Ma ebbe davvero a sparire il
cristianesimo radicato nelle ‘massae’ attorno all’asse Casal Vecchio-Montagna
dell’epoca bizantina? Pensiamo di no. Vi fu convivenza tra le due religioni e i
due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono
neppure di segno contrario. Forse le tante lucerne funerarie ed i resti
archeologici rinvenuti nelle zone del Giudeo potrebbero risalire a quei secoli
arabi, e sembrano testimonianze cristiane.
Propendiamo
a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo
della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone
alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono
nelle valli, vicino alle fonti d’acqua della Fontana, del Raffo ed anche di
Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d’ortaggi,
in cui erano maestri e che i Rum (i Cristiani) ignoravano. Dai Rum, l’emiro di
Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il
culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Un
documento greco del 1178, se per avventura si dovesse veramente riferire a
Racalmuto come autorevolmente sostiene il Garufi, proverebbe appieno queste
nostre ipotesi.
In
effetti, in quel documento greco
del 1178 abbiamo il primo attestato storico sul toponimo di
Racalmuto, e già siamo ai tempi di Guglielmo II, il Buono. Ebbe a pubblicarlo nel 1868 il grande paleografo
siciliano Salvatore Cusa (cfr. I diplomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo
1868, pag. 657-658 e pag. 729): vi si parla di una vendita a Berardo, priore di
S. Maria di Gadera, di un fondo sito in rahalhammut, per il prezzo di 50 tarì. A
venderlo, nel settembre di quell’anno, fu tale Pietro di Nicola Gudelo,
insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola.
Il
toponimo Rachal
Chammoùt ( ammu) figura scritto in greco e la vendita del terreno viene fatta
al lontano monastero di S. Maria di Gadera, sito nei pressi di Polizzi
Generosa. Per alcuni studiosi locali, affetti di laico attaccamento alle loro
pretese origini musulmane, vi sarebbero le stigmate della sofferenza post-araba
di Racalmuto. Terra ormai di schiavi, il suo circondario sarebbe stato spartito
tra chiese e conventi e già dal 1093 avrebbe, per di più, subito l’onta
dell’assoggettamento alle decime del Vescovo di Agrigento, di cui per
volontà dell’invasore normanno era stato ridotto a territorio diocesano
subalterno.
Racalmuto
normanna ivi citata, invero, è terra piuttosto frazionata: il fondo in vendita
confina con parecchi proprietari di terreni che non dovevano essere molto
estesi: chorafion è il termine greco
usato proprio per significare un fondo
non vasto. I nominativi sono: a) Basilio Burrello, b) Martino di don Guglielmo;
c) il fu Michele di Rosaneto, sacerdote; d) Niceforo Lipta; e) Rinaldo figlio
del chierico Baldi; f) Nicola figlio del prete Michele; g) il fu Giovanni genero di Filax; h) Basilio
Gudela.
La
preminenza dei ceppi sembra greca, ma i Rinaldo ed i Baldi con i Martino fanno pensare a casati latini e
normanni. Una mistura dunque di gente che sembra essersi ripartito il
territorio saraceno del nostro paese. Vi si possono leggere i segni dei grandi
sommovimenti feudali dei tempi di Margherita e di suo cugino Stefano Le Perche.
Racalmuto che non figura mai nei diplomi della Chiesa Agrigentina, appare ora
pertinenza di quel priore Berardo che ha tutta l’aria di un monaco benedettino.
Forse ebbe ad impossessarsi per soli 50 tarì - cifra sicuramente esigua - di vasti
possedimenti cui erano addetti i
saraceni del luogo in condizioni di quasi schiavitù; tutto fa pensare che dopo vi mandò i suoi
monaci per ergervi un convento e
sfruttare le locali culture granarie. Nel
1308, a pagare le decime al Papa per Racalmuto abbiamo due nomi che
nulla hanno a che fare con la nostra località, ma che proprio possono
collegarsi con i monaci benedettini: Martuzio de Sifolono, titolare della
chiesa di S. Maria, chiamato a
corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310), ed il
prete Angelo di Montecaveoso, tassato
per nove tarì in relazione all’ufficio
sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Sono testimonianze postume
che però sembrano condurci all’erezione del convento di S. Maria, divenuto
francescano solo nel secolo XVI.
All’importante
e fondamentale diploma del 1178 ci ha portato, dicevamo, il GARUFI, il grande storico cui fa ricorso Sciascia nella ‘morte dell’inquisitore’. Nel suo studio sui ‘Patti agrari e comuni feudali di nuova fondazione in Sicilia’
(cfr. Carlo Alberto Garufi, parte
II dell’articolo, in Archivio Storico
Siciliano, anno 1947, pag. 34) troviamo, infatti, questa illuminante nota:
«soggiungo che l’unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta
d’indagarne l’origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m
u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata
tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l’atto di
compra-vendita, dell’a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in
Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout,
nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i
testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero
dell’a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».
Purtroppo
l’autorevole storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non raccolse la
tesi su Racalmuto Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici come il
Bresc o arabisti come il Pellegrini (come si è visto prima). Noi abbiamo
tentato di confrontare questo documento con altro di analoga portata, alla luce
di quanto scrive il Di Giovanni (ARCHIVIO STORICO SICILIANO - 1880: Memorie
Originali - Vincenzo di Giovanni: Il Monastero di S. Maria la Gàdera poi Santa Maria de Latina esistente nel
secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e segg.), e francamente siamo rimasti
molto dubbiosi sull’effettivo riferimento alla terra di Racalmuto.
Non
si riferisca pure a Racalmuto, il documento tuttavia illumina sui processi di
colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E benedettino fu
certamente il primo convento che sorse a Racalmuto.
Un
passo della Sicilia Sacra del Pirri testimonia della presenza
benedettina a Racalmuto. Stralciando dalle colonne dedicate alla “Agrigentinae ecclesiae” (foglio 758 e
segg.), veniamo resi edotti dal Netino che
«Coenobium cum Ecclesia S. Benedicti prope viam, qua itur Agrigentum, &
Rahyalmutum, de suffraganeis Ecclesiae Agrigentinae invenio excriptum in libro
Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211; puto id esse hodie Monalium Annuntiatae
Musumellis. Olim enim erat coenobitarum eiusdem Ecclesiae Annuntiatae. Vide
ibidem». [1] A
dire il vero, l’abate Pirri si avvale dei Capibrevi del Barberi che risalivano
ad un secolo prima. La descrizione del convento di monache benedettine sotto
titolo dell’Annunziata interessa poco Racalmuto e resta una mera ipotesi quella
del Netino che vuol far derivare il convento di Mussomeli da quello, già
distrutto nel XVII secolo, che sorgeva nel nostro territorio. Quel che rileva è
invece l’accenno ben preciso all’abbazia benedettina di Racalmuto. «Trovo
scritto - ci par qui di dover tradurre il passo dal latino - nel Libro dei
Capibrevi Ecclesiastici nei Registri della Cancelleria, foglio 211, che si
ergeva un cenobio con una chiesa dedicata a S. Benedetto presso la via di
congiunzione di Agrigento con Racalmuto e rientrava tra quelli suffraganei
della Chiesa Agrigentina. Penso che esso sia lo stesso di quello che è oggi il
convento di monache dell’Annunziata di Mussomeli. Una volta apparteneva a cenobiti della Chiesa
dell’Annunziata. Vedi colà.» Eugenio Napoleone Messana colloca, anche sulla scia di alcuni ruderi
archeologici di una cisterna, quell’importante abbazia benedettina al vecchio
Campo Sportivo.
Siamo
franchi, il Pirri nei passi
citati non è né perspicuo né convincente. Se un convento benedettino vi fu a
Racalmuto, esso dovette essere ben
più antico del 1466, diversamente da quanto sembra ritenere lo storico di Noto. Ai suoi tempi - e siamo
attorno al 1630 - non vi erano più memorie documentabili. Nella visita
pastorale del vescovo Tagliavia del 1542-1543 non è dato di rintracciare alcun
riferimento all’abbazia.
Nella
prima decade del 1300 rinveniamo, invece, un sacerdote officiante a Racalmuto che ha tutta l’aria di un benedettino, oriundo
di Montescaglioso in provincia di Matera. Trattasi delle decime
pagate per gli anni 1308 e 1310 ai Papi di Avignone. I tassati di Racalmuto
sono due, come abbiamo avuto modo di dire, ed uno di essi è palesemente
designato con il suo nome di religioso: Angelo di Montecaveoso
Costui
appare come il primo arciprete di Racalmuto, stando almeno ai documenti
disponibili.
L’ipotesi,
dunque, che Racalmuto si avvii all’attuale conformazione ad opera
dei benedettini non è poi del tutto cervellotica. Dovette avvenire la
colonizzazione benedettina attorno al Dodicesimo-Tredicesimo secolo, alla
stregua di quanto desumibile dal documento greco di S. Maria di Gadera che abbiamo prima revocato. L’opera contadina
e civilizzatrice dei frati per tanti versi ebbe a sopperire alla grave crisi
determinata dalla repressione dei saraceni da parte di Federico II.
GLI ESORDI STORICI
Su
interessate segnalazioni dei canonici agrigentini, il Pirri non aveva, attorno al 1630, dubbi che la più
antica chiesa di Racalmuto fosse S. Margherita Vergine - che secondo
postumi documenti appare contigua e collegata con la chiesa di S. Maria di Gesù - e che essa fosse stata fondata nel 1108 da
Roberto Malconvenant. Purtroppo, la notizia si
basa su un documento dell’Archivio Capitolare agrigentino, che, come ebbe a
dimostrare Mons. Paolo Collura, si riferisce a ben altra
località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice. Sappiamo di certo che S.
Maria di Gesù non è chiesa del XII secolo: dobbiamo risalire alla prima metà
del XVI secolo per averne indubbi dati documentali.
I
primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e
1310 che abbiamo già richiamate. Nell’abitato racalmutese vi erano almeno due
chiese: quella parrocchiale retta dal cennato p. Angelo di Montecaveoso, e quella forse conventuale dedicata alla
Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone
(divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra
pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi
avignonesi dell’Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell’arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità
contributiva e raccoglierne l’imposta per togliere l’interdetto che si
originava dalla rivolta dei Vespri Siciliani. Era l’anno 1375.
Nel
1375 Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con
non più di 900 abitanti. Nell’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO è reperibile il
resoconto delle collette redatto in quell’anno dall’arcidiacono du MAZEL (cfr. Reg. Av. 192). Questi era stato mandato
in Sicilia per raccogliere il sussidio che
doveva servire alla rimozione dell’interdetto per i Vespri Siciliani. Il
sussidio andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle
condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le ‘mediocri’,
3 per le agiate e cioè ‘qualsiasi fuoco
di ricchi abbondanti in facoltà’ (cfr. Peri I.: la sicilia dopo il vespro -
Laterza, 1982, pag. 235). Il 29 marzo del 1375, il pio collettore (o suoi emissari) giungeva a
Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il
‘sussidio’ e scioglieva l’interdetto
(cfr. AVS - Reg. Av. 162 f.419v). Dato che per ogni fuoco è calcolabile
un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa
610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti
resisi irreperibili. In un secolo e tre
quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre
congetture e i dati del Tinebra-Martorana hanno una qualche attendibilità - si
sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale lasso di tempo, la crescita si è invece
limitata solo al 48,32%, che in ogni
caso è tasso di sviluppo normale.
Che
cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi
Chiaramonte, e la metà del XVI secolo
non è chiaro. Il salto nell’intensità abitativa testimonia comunque un
massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo
motivo di congetturare che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti
per la paura dei pirati. L’improvviso sviluppo della coltura granaria ha
esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I
molti cognomi di paesi e terre del
circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei
feudi racalmutesi che talora sostituiscono e talora si aggiungono ai
patronimici.
Tanti
immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni
pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o
funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l’antica carica di maestri di
xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d’Angiò i soprintendenti alla sicurezza notturna. Se
ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283
sotto Pietro d’Aragona.
Non
è racalmutese il ‘segreto’ addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l’incarico
- lo denunciano straniero. Il ‘segreto’ era l’esattore dei dazi e delle gabelle
ed era denominazione che risaliva al 1296.
Per
avere un nome arabo (anche se per noi, il funereo senso di paese di morti andrebbe
più gloriosamente cambiato in fortezza di Hammud vuoi in riferimento al mitico condottiero
saraceno della caduta di Girgenti vuoi agli omonimi che si riscontrano tra i
personaggi arabi del tempo dei normanni), Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con
nome di derivazione araba.
Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo, forse Burruano e simili, possiamo calcolare in
meno di 150 gli abitanti di origine forse araba (su 2215 desunti dai
registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti
saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si
sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso
dovette verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata
della regina Isabella nel 1492 (cfr. G. Picone - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.) o sparirono del tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di
archivio, a partire da 50 anni dopo,
troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio
dell’8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da
Grotte.
Racalmuto non è quel centro che nel 1108, secondo il
Pirri, sarebbe
stato sotto la giurisdizione di Roberto di Malconvenant, al quale risalirebbe la
dotazione della chiesa di S. Margherita Vergine. Gli studi del 1960 del Collura, prima citato, dissolvono
quella tradizione, così gradita al Tinebra-Martorana o a Eugenio Napoleone
Messana. Il documento che ha dato
adito alla credenza che vuole la chiesa di S. Maria risalente appunto al 1108 è
quello che si trova nell’archivio capitolare di Agrigento e che in un primo momento aveva indotto in errore lo stesso P.
Collura.
L’analisi attenta fa luce sul fatto che
trattasi di una ‘ecclesia Sante Marie virginis, que est in casali Rahalbiath’ la quale è gravata verso la curia vescovile
di ‘incensi libra I’. Il Collura precisa che non si tratta di ‘Racalmuto, ma di un casale non lungi
da Castronovo’ (cfr. Paolo Collura, Le più antiche carte dell’archivio capitolare di Agrigento (1092 -
1282) - Palermo 1961, pag. 65). La confusione, protrattasi nei secoli, si spiega forse con l’interesse
della curia ad avvalorare certi censi in quel di Racalmuto. Né ancor meno può
riferirsi a Racalmuto un altro privilegio che cita i Malconvenant ed è del 1108 (cfr. ib. pag. 25). Vi si premette che Roberto di Malconvenant aveva
ordinato di fabbricare in un suo fondo una chiesa in onore di S. Margherita.
Viene quindi precisato che Gilberto, un suo consanguineo, ne
aveva curato l’erezione, previo assenso del vescovo Guarino e dei canonici. Ordinato poi chierico, gli
viene concessa l’amministrazione dei beni della chiesa, ma è tenuto a versare
tre libbre d’incenso alla curia agrigentina.
Annota il Collura: ‘’Non abbiamo nel
testo del diploma elementi sufficienti per localizzare questa chiesa di S.
Margherita, che probabilmente va
identificata con quella ricordata nel doc. n. 27 «ecclesia sancte Margherite
virginis, incensi libras III = c/o S. Margherita Belice» e che nella seconda metà del sec. XII pagava come censo
tre libbre d’incenso. Tenuto conto che i Malconvenant erano signori del Feudo di Calatrasi (cf.
Garufi: I documenti
inediti etc. pp. 85-86) e di Bisacquino (cf. l.c. pp. 190-192) si
sarebbe indotti a pensare che essa possa essere localizzata in quella zona;
tuttavia la nota dorsale ci indica con chiarezza che si tratta di quella chiesa
attorno alla quale nel sec. XVI fu edificato il paese di S. Margherita Belice (cf. Scaturro, I, p. 246)”.
Svanita la prova di un luogo sacro
risalente al 1108, quel documento ci chiarisce almeno come in quel tempo
potesse sorgere un centro agricolo, per
esempio, in un castello saraceno che si vantava di risalire al buon Hammud quale è da pensare fosse Racalmuto.
Il Malconvenant dona ad un suo consanguineo delle terre con
degli schiavi saraceni. Un parente, un militare in
disarmo, vi costruisce una chiesa (una
chiesa di S. Maria vi è pur sempre a Racalmuto: non risale al 1108, ma nel
1310 è operante ed il suo presule, martuzio
de silofono, versa un’oncia al papa per
le decime <cfr. ASV - Collect. 161 f96r>). Viene dal vescovo fatto
chierico per amministrarla. Le terre di pertinenza sono vaste. Ad accudirle
penseranno i saraceni. Così recita il documento agrigentino: ‘hec sunt nomina
rusticorum, quos predictus Robertus Sancte Margarite donavit: alibithumen, hben el chassar, sellem eblis,
mirriarapip abdelcai, maimon bin cuiduen, hii quinque’. Scomunica per
chi vi attenta; benedizioni per chi ne accresce la ricchezza: ‘ Si quis -
aggiunge il vescovo - vero ecclesiam Sancte Margarite Agrigentine Ecclesie omnino subiectam circa
possessiones eius in aliquo defraudaverit, anathema sit; qui vero eam aut de
rebus mobilibus aut immobilibus augmentaverit, gaudia eterne vite cum sanctis
peremniter percipiat’.
Con siffatta benedizione, anche Racalmuto ebbe a prosperare.
Nel 1308 e 1310 anche un altro religioso pagava le decime a
Roma. Era meno ricco, ma pur sempre tassato come risulta dalle Rationes Collectorie Regni Neapolitani -
1308/1310 (ASV-Collect. 161 f97v). «Presbiter Angilus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali quod impendit in
Casali rachalamuti solvit pro
utraque (decima)......tt. (tarì) IX».
Si rammenti che 30 tarì formavano un’oncia. I frutti di S.
Maria valevano oltre tre volte e un terzo quelli per la cura delle anime dell’intero villaggio o ‘casale’
secondo la precisazione del collettore papale. I religiosi di Racalmuto pagano, dunque, 39 tarì per due decime dei primi anni dieci del XIV secolo. Nel 1375, l’intero paese
pagherà per liberarsi dall’interdetto 228 tarì, ripartiti tra 136 fuochi.
Dei
saraceni, fatti schiavi e condannati alla servitù della gleba,
si era frattanto persa la traccia. I pochi nomi che troviamo negli archivi del cinquecento,
seppure eredi di quei primi contadini indigeni, hanno ora tutta l’aria di
essere i benestanti del paese. Hanno cariche pubbliche. Dominano la scena e sono l’alta borghesia del paese.
Tra
la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie
che hanno dominato nell’ottocento. Né baroni Tulumello, né gentiluomini come i
Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di
allora quali i d’amella, i la lomia, gli ugo, i piamontisi ed altri si sono dopo volatilizzati da quel di
Racalmuto. Alcuni loro eredi prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì.
Verso
la fine del 500, giungono a Racalmuto ‘mastri’ che vi attecchiranno ed oggi i loro
discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. savatteri, buscemi, schillaci, rizzo, bongiorno, chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi. Lo
comprova un atto matrimoniale che riportiamo a mero titolo
esemplificativo:
SAVATTERI (provenienza: Mussomeli 7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio di
Vito et Angila Carlino cum
Margaritella figlia di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di
Mussumeli, servatis servandis et facti li tri denunciatione inter missarum
solenia et observato l’ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando
inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie et foro
beneditti nella missa celebrata per me presti Francesco Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo
Montiliuni et notaro
Jo:Vito D’Amella et di multa
quantità di personj».
[1] ) Il passo cui Pirri rinvia, recita: «Monalium Benedictonarum monasterium S. Annuntiatae est antiquissimum.
Id olim erat Monachorum eiusdem ordinis: lego enim in lib. Cancell. Prioratum,
sive Monasterium S. Mariae Annuntiatae ordinis S. Benedicti prope Misimerium
Agrig. dioec. esse de jurepatr. laicorum, et fuisse datum à PP. Paulo II post
obitum Augustini, Philippo Cappa cl. Panorm. ex litt. apost. 12. Aug. 1466.
pont. an. 2 in lib. sec. Macri 4 Feb. 1467. 15 ind. Fol. 42. Capib. fol. 233.
Hospitium habebat monachorum sub titulo S. Benedicti, hodie dirutum, juris
Monalium harum ad p. 6. m. ab oppido Rahyalmuto. Moniales 22, cum unc. 236.»
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