Tempo fa mi si disse: sì, lei ha scritto tanto sulla storia
di Racalmuto ma a noi del Comune serve un testo snello, leggibile, piacevole,
succoso.
Mi son presa la critica e mi dissi: avranno ragione,
oltretutto il giudizio promana da un giornalista che è anche assessore.
Intuii dopo che l'operetta se la stavano confezionando in
famiglia, sfruttando certe senili tendenze dell'aedo di casa.
Ma ne venne fuori un coserella tanto insignificante da
finire tra le brume dell'ormai estinto circolo un tempo dei galantuomini del
paese.
Mi vado domandando: ma davvero questa mia cosa qui ed altre
del genere sono impubblicabili, se non a spese mie? Voi che ne dite?
Il contesto storico di RACALMUTO
Note orientative. Un
quadro storico di estrema sintesi.
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano
non è - l’uomo ha lasciato, da quasi dieci millenni, tracce del suo dimorarvi
ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo
preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel
secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina
Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili
tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto
pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana sarebbe del tutto
scomparsa (a meno che non abbia lasciato – come più logico - testimonianze atte
a superare l’onta del tempo).
In Sicilia, a partire
dall’VIII secolo a. C., inizia il periodo delle immigrazioni greche. Racalmuto,
questo nostro paese dell’entroterra agrigentino, appare completamente estraneo
– nelle fasi di esordio – a codesto processo di colonizzazione: solo, quando si
consolida l’egemonia ellenica di Agrigento, qualche colono ebbe l’ardire di
addentrarsi nelle parti più interne del nostro altipiano. Di documentato, però,
non abbiamo nulla e dobbiamo accontentarci delle acritiche descrizioni di
ritrovamenti archeologici che ci fornisce Nicolò Tinebra Martorana nella sua
«Racalmuto, memorie e tradizioni». Non solo le contrade di Cometi e Culmitella
ma anche quelle del Ferraro sarebbero state frequentate da Sicilioti.
Nel terzo secolo
a.C., con la conquista romana, non cambia molto ed è solo sporadico l’interesse
di coloni, che solitari ebbero voglia di coltivare qua e là alcune delle plaghe
più fertili di Racalmuto; si può forse congetturare che più frequente fosse,
specie nell’interno, la pastorizia.
Contadini grecofoni
non mancarono comunque ai tempi della repubblica romana ed essi furono tassati
specie per le loro produzioni vinarie, come attesta un’epigrafe rinvenuta nel
territorio di Racalmuto nel XVIII secolo, di cui ebbe a fornire preziosi
ragguagli il Torremuzza. Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese, anche se
non può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località siciliana
“diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena epoca
repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.
Ma quel che di
rimarchevole ci forniscono i reperti archeologici del luogo sono certe “
tabulae” o “tegulae” ‘sulfuris’ risalenti secondo pur sommi archeologi
all’imperatore Commodo (ma moderni più ponderati studi dissolvono quella
datazione) e che in ogni caso sono collocabili tra il II al IV secolo d. C. e
che stanno a comprovare una intensa attività mineraria solfifera nelle medesime
zone del nord ove sino a qualche decennio fa prosperava tale industria
estrattiva.
Dopo, con la caduta
dell’impero romano e l’avvento dei barbari, il silenzio archeologico - oltreché
documentale - è totale sino al tempo dei bizantini. Di certo, incursioni di
barbari dovettero esservi specie per razziare i pregiati raccolti cerealicoli.
Forse Genserico, se non nel 441 almeno nel 445, portò i suoi Vandali a
devastare anche il territorio racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un
sostegno da parte dei coloni dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo
Racimero che nel 456 riuscì a sconfiggere i Vandali ad Agrigento. Del pari non
sono da escludere presenze vandale a Racalmuto nel periodo del loro ritorno in
Sicilia che si protrae sino alla cessione dell’isola ad Odoacre. Quel che
avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il possesso della Sicilia ci è
del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del ‘buon governo’ di Teodorico.
Probabilmente risale a questo periodo se tanti coloni poterono concentrarsi
nelle contrade di Grotticelli, di Casalvecchio e della decentrata Montagna e
costituirvi un consistente agglomerato che poté prosperare specie sotto i
Bizantini.
Casalvecchio, il
toponimo che ancor oggi persiste, è zona piuttosto ricca di testimonianze
archeologiche: purtroppo riluttanze delle autorità agrigentine impediscono
tuttora di studiarne in loco la portata, le valenze e la significatività.
Sappiamo solo che fu fiorente la civiltà bizantina, che durò sino
all’incursione araba, allorché appassì e si disperse. Alcune monete -
rinvenute, però, nella periferica contrada della Montagna - portano in effigie
gli imperatori bizantini Héracleonas e Tiberio II. Il primo risale al 641; il
secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso
nel 705 ( ). Le tante e ricorrenti vestigia archeologiche (lucerne, condutture
d’acqua, resti di fondamenta, ingrottamenti artificiali ad arcosolio, strutture
murarie abitative affioranti, etc.) che si rinvengono nella zona che va dallo
Judì al Caliato, dalle Grotticelle a Casalvecchio e da ultimo, secondo
rinvenimenti recentissimi, nella plaga sotto fra Diego, attengono alla cultura
bizantina prosperata dal sesto secolo sino all’avvento degli Arabi.
Con gli Arabi
l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi che
sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi a
Racalmuto è totalmente buio: né rinvenimenti archeologici, né testimonianze
scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo
illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è,
appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che
di arabo il loro paese non abbia nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi
- a partire dal nome del paese - o l’etimologie saracene dei vari lemmi della
parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione
musulmana o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria
normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni arabe. A sfogliare una qualsiasi
delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di storia
racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità, risvolti
sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi di
vaneggiamenti, di fole, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né
consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di
2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né
nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi
racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal
nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge
attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista
normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia
trasparire l’assetto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti
ribellistici dei sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo
credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento di
queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo
ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più
sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento
così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità
dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca
è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva
1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il
governatore di Rahal-Almut, Aabd-Aluhar, per bontà di Dio servo dell’Emir
Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito
dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ( ) Ma l’intera faccenda
nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate Vella.
Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di
cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella che
era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la
«tentazione dell’accensione visionaria, fantastica», non sapendo «resistere al
piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso». Ma ecco che
lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di
riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle
Parrocchie di Regalpetra.» ( ) E di piacere in piacere, il falso affascina
tuttora i racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo (v. Ecco tua Madre,
Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben
vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel
presentare la mostra di Pietro d’Asaro, si lascia andare a questa arditezza
storica: «... siamo nella microstoria di Racalmuto: antico paese che esisteva
già, un pò più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da
una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla
morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende
oggi il nome....». Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o
più attendibile rispetto a quanto va asserendo il solito Tinebra Martorana (v.
pagg. 33 e segg.), sull’onda del famigerato abate Vella. E di fantasia in
fantasia, trova ancora credibilità la favoletta che a metà dell’Ottocento
confezionò il peraltro meritevole Serafino Messana quando racconta di due baldi
eroi saraceni racalmutesi, Apollofar e Apocaps ( ), distintisi nella lotta
contro i Normanni.
Ruggero il Normanno conquistò Agrigento il 25 luglio del
1087 (se seguiamo l’Amari, o l’anno prima secondo il Maurolico ed altri). Racconta
il Malaterra, nelle sue cronache coeve, che Ruggero il Normanno, una volta
conquistata Agrigento e munitala di un castello e di altre fortificazioni, si
accinse a conquistare i castelli dei dintorni che furono undici e cioè Platani,
Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe, Naro, Caltanissetta,
Licata e Ravanusa. Il testo del Malaterra è inquinato e non si è certi della
corretta trascrizione di tutti i toponimi. Sia come sia, Racalmuto non vi
figura - salvo a fantasticare su quell’impreciso ed incompleto Rahal. Un tempo
abbiamo aderito a tale tesi, dando credito al Fazello che a dire il vero
include nell’elenco il nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che
a quell’epoca nessun centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di
tutte le fonti scritte è significativo. Neppure nella celeberrima geografia
dell’Edrisi della prima metà del XII secolo è rintracciabile un qualche
toponimo che assomigli a Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o
al-Minsar che in qualche modo possono essere collocati nei pressi dell’attuale
centro racalmutese. Nel ricco archivio capitolare della Cattedrale di
Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il periodo che va
dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il primo
documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di Agrigento è
del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli Mi si obietterà che
l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto il profilo storico. Certamente,
ma tutto quello che si afferma nel silenzio delle fonti è mera congettura, che
nel caso di Racalmuto trascende pressoché costantemente persino l’area della
verosimiglianza. Il territorio racalmutese non ha sinora restituito neppure una
testimonianza archeologica di una qualche presenza umana per tutto il tempo
degli arabi, dei normanni e degli eventi che seguono sino alle repressioni
saracene di Federico II. Pensare ad un prospero centro abitato, dalla conquista
araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al 1240-1250, è francamente
avventatezza storica.
Il Garufi annotò -
commentando un diploma pubblicato nell’Ottocento dal Cusa - che « .... l'unica
e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di
fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si
ha nella pergamena greca originale conservata tut¬tavia nel Tabulario di S.
Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m.
6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle
sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che
per due volte ricorre fra i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale,
greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ». ( ) Ma
la tesi del Garufi appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di
Giovanni che colloca tale località in quel di Polizzi ( ). Il Rachal Chammoùt
(*******ύ* del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a che vedere con il
casale agrigentino che corrisponde all’odierno Racalmuto. E ciò destituisce di
ogni fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata
nel 1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente
all’attuale S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui
artefici sono stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare
l’accaparramento di rendite racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo. Su
interessate segnalazioni dei canonici dell’epoca, il Pirri ebbe invero a
scrivere, attorno al 1641: “antiquissimum est templum olim majus S. Margaritae
V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc. Agrig. à
Roberto Malconvenant domino illius agri extructum...” ( ) «A tre lanci di
pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un tempo era quella
maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di Agrigento, da Roberto
Malconvenant, signore di quel territorio » attesta dunque l’abate netino. Solo
che la notizia si basa su documenti dell’Archivio Capitolare di Agrigento, che,
stando a studi del 1961, si riferiscono ad altra località, molto probabilmente
sita nei pressi di S. Margherita Belice.
Svanisce così la
credenza di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni possesso
baronale dei Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe attribuire
agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla, si appoggiò
agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile; sennonché il settecentesco
principe aveva in un caso interpretato liberamente una notizia del Fazello e
nell’altro concessa una qualche credibilità - sia pure con espressa riserva -
al Minutolo.
Un diploma angioino -
autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e,
sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei
Del Carretto, ci informa che il primo feudatario di Racalmuto (o per lo meno il
primo di cui si abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse
appartenente alla grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica.
Sennonché Federico Musca tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva,
nel 1271, del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per
conferirlo a Pietro Nigrello di Belmonte ( ). Il Vespro ci mostra un comune
divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è
costretto a nominare dei sindaci fra le persone più cospicue, chiamati il 22
settembre 1282 a prestare il debito giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che
equivale a sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro
incarica i suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di
persona le tasse gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once (
). Il Bresc ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti (
). Il 26 gennaio 1283 ind. XI «scriptum est bajulo judicibus et universis
hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor» ( )
cioè Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale
con un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si
trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti
probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a
coltivare verdure con perizia di antica tradizione. Non erano più villani dato
che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni
dell’agrigentino furono tumultuosi sotto Federico II. Nel 1235 essi furono in
grado di prendere prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello
di Guastanella fino a quando non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro.( )
Federico II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il
risultato fu una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto
di manodopera contadina. ( ) Nel 1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte
di Federico II verso la chiesa agrigentina che era stata spogliata dei villani
saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa
agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami imposti da
Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il vescovo e la
sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di sostentamento. Per
risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli ebrei e quelli
della tintoria di Agrigento.
Fu a seguito
dell’assestamento che Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare
Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel
1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello - come già detto -
avendo tradito l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. ( )
Nel 1282 il Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in
possesso di Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che
prenderà possesso di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV
secolo, il castello con due torri cilindriche che ancor oggi si erge maestoso
ed imponente entro la cinta del paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum
et feudatariorum» dello pseudo Muscia (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca,
II, pp. 464-70), laddove si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di
Aurea Brancaleone (l’elenco recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato
nel 1692 da Bartolomeo Musca: «Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano e
Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per
dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria
sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al terzo
decennio del XIV secolo, e solo dopo tale data poté avere qualche pretesa su
Racalmuto. Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi
i figli del fratellastro Antonio, Gerardo e Matteo del Carretto. ( ).
La narrazione sinora
soltanto abbozzata tende ad additare un punto per noi basilare della storia di
Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il salto tra
preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino, sorto come
casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di Modica), lascia
dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a divenire un’umana,
fervida, sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella”«dimora
vitale», come la definirebbe Américo Castro.
Francamente non
riusciamo a concordare con Leonardo Sciascia secondo il quale Racalmuto «ebbe
per secoli ... vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi di feudatari che,
come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non
meno predace ‘avara povertà di Catalogna’; col carico delle speranze deluse e
delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria
apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e rigogliosa, si abbarbicava al
dolore ed alla fame come erba alle rocce.» ( ) Quell’abbarbicarsi al dolore ed
alla fame produsse storia narrabile e non solo descrivibile ben al di là delle
figure care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro
Curto; il medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace
concetto” - martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per
Denis Mack Smith ( ) - Diego La Matina, il monaco agostiniano di “Morte
dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente dell’Inquisizione, Pietro
d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo scrittore racalmutese, e per
taluni versi falsati o disinvoltamente aureolati nelle sue icastiche pagine.
Da oltre sette
secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle
opere storiche e si palesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi
peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili,
contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria
o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il
vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni
collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna
carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma
mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei
tempi).
Le vicende di
Racalmuto possono venire ricostruite con amore, con passione, con interesse ma
criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della
ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura degli autori
paesani.
E’ una Racalmuto che
va vista con occhi critici e razionali. Non può certo avvalorarsi la saga della
venuta della Madonna del Monte del 1503, così come, in buona fede, non può
affermarsi che vi siano state tasse per uzzolo dei Del Carretto con buona pace
del “terraggio e terraggiolo” secondo la parabola del pur sommo Leonardo
Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la presenza del Del Carretto a
Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero locale, organizzazione
parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di
chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.
Questo non è un libro
di lettura: è solo sostanzialmente materiale di consultazione cui rivendico
però una grande dignità, un modo inconsueto di far storia, un soffermarsi sul
particolare per una visione non eroica - e deformante - di quel lieve stormire
di foglie che in definitiva è la microstoria locale. A tanti non interesserà -
ma ad alcuni racalmutesi sì - sapere chi erano nei passati secoli i “mastri” ed
i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se vi erano “facchini” (e ce n’erano);
come erano pagati; chi si poteva permettere di mangiare “salsizzi” e chi doveva
accontentarsi dei residui del porco; se le donnette (come ai miei tempi del
resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e “gaddruzzi” ed apprendere che vi
era l’imposizione del conte di una “tassa in natura” su quest’uso (l’offerta di
una gallina e di un galletto al castello a prezzo calmierato), e via di
seguito.
Lo studio cui ci
accingiamo ha l’ambizione di costituire una base per successivi approfondimenti
e ricerche sulla storia locale. Esso è problematico come lo è ogni ricerca. Più
che esaurire - pretesa che sarebbe risibile - traccia alcuni percorsi di
auspicabili ulteriori investigazioni.
L’Archivio di Stato
di Agrigento custodisce ben n° 69 Rolli di atti notarili che minuziosamente
scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561 al 1608; n.° 71 per il
periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.° 56 per il tratto
1801-1860.
Quel materiale
archivistico è praticamente ignoto. Tolta qualche curiosità di padre Alessi che
ebbe a cercarvi con l’ausilio di un paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro,
la cronaca diuturna di Racalmuto vi si sta polverizzando.
La vendita di un
mulo, la cessione di una “jnizza”, la soggiogazione di una casa, il “pitazzu”
di un “inguaggiu”, vita, morte, sposalizio, tasse, risse, organizzazioni
sociali, ruolo di preti monaci e chierici, rettori e governatori di
confraternite, il pulsare della vita economica, sociale e religiosa di ogni
giorno della Racalmuto del tempo, il suo espandersi demografico ed il suo
drammatico falcidiarsi per l’esplodere di pesti, tutto ciò è il vivido quadro
che i polverosi registri notarili non rivelano per la neghittosità degli
storici racalmutesi. Ed i politici potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di
giovani, a sovvenzioni pubbliche comunali volte a finanziare ricerche
d’archivio, a scuole di paleografia - giacché leggere quei documenti non è da
tutti - , ad incentivi economici; a borse di studio etc.
Sciascia redarguisce
compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse in una smaccata falsità a
proposito della Racalmuto araba; egli spreca una delle sue splendide metafore
elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione dell’accensione visionaria,
fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di
una sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento
degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura
romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo,
e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo
piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo
in cui sono nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è così sprovveduto da aver
bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo
passato storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più
pulsante?
Francamente credo di
no e questo libro - bando alle ipocrisie - ha un suo codice genetico, una sua
cifra culturale ed una sua vocazione storica di segno opposto non solo rispetto
a Sciascia ma anche a Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio
Napoleone Messana, al poeta Pedalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper
sacerdotes secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese
volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza
nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.
Il Cinquecento
racalmutese che troverete descritto in questa silloge irride alle tante
credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi, il flettersi ed il
riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo dell’era moderna, alle
prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto - invero in poche marginali
questioni - ma principalmente con le varie curie agrigentine e parrocchiali,
viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali; con il governatore del
Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo genero di nome Russo,
uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la figlia spuria dell’omicida
ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli arcipreti - quelli buoni come
l’indigeno arciprete Romano al cui spoglio aspira l’ingordo vescovo Horoczo
Covarruvias e quelli latitanti come il napoletano Capoccio; con il chierico
Vella, un religioso assassino che vescovo e conte si contendono per fargli
espiare nelle proprie carceri il fio della sua colpa.
I falsi del Tinebra
Martorana - che nel 1886 tornarono a gravare sulle casse del Comune e tornarono
davvero visto che per l’amicizia con i famigerati Tulumello quell’autore
studiava a spese del Comune come attesta un anonimo conservato nell’Archivio
Centrale dello Stato a Roma - sono talmente tanti e perniciosi da rendere
irritante la lettura di quel volumetto. Altro che spingere alla “carità del natìo
loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati. Per colpa di essi abbiamo uno
sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra, invero, lo voleva pudico “con un
uomo non nudo, bensì con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico
guerriero romano”. Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo. In ogni
caso l’uomo invita al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire
e starsene zitti. Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e
visionarietà della borghesia postunitaria racalmutese. Il prof. Nalbone ha
fotografato interessanti documenti dei primi anni del ’Settecento ove figura il
timbro a secco del Comune di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto
questo. Trattasi di uno stemma a bande e chiomato, totalmente austero,
dignitoso, nobile. Non vorrò di certo io, con il mio laico scetticismo,
riaccendere una guerra di religione su una bazzecola come è uno stemma. Ma
francamente, a me racalmutese da almeno dieci generazioni - sia pure per tre
quarti, visto che l’altro quarto è narese - dà fastidio lo sguaiato stemma
comunale che sembra ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche vezzo
omosessuale.
* * *
L’intreccio del
volume che presentiamo poggia fra l’altro su una fonte, sinora sostanzialmente
ignota, la “numerazione delle anime” che si è svolta a Racalmuto nel 1593. Essa
offre spunti per descrivere usi, costumi, vicende, disavventure e,
principalmente, sviluppo ed assestamento demografico racalmutese. Il segmento
del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è avvenuto prima e con quanto
si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del Vespro, alle grassazioni
ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti fiscali dell’intero corso di
quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto viene inquadrato nel suo essere un
consorzio civile collegato con la realtà agrigentina, palermitana, romana e
persino avignonese. Altro che essere un’isola nell’isola, nel cui ambito la
famiglia era un’isola nell’isola nell’isola. Racalmuto non è certo l’ombelico
del mondo ma un cordone ombelicale con il mondo ce l’ha avuto di sicuro.
Fa alta letterura di
certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:
«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è
Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di
isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un
discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate
del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di
incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere
nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella
che si dipana dal 1271 sin ad oggi - è solo uno scisto della storia ma tutta
quanta vi si riverbera. Se leggo il magistrale libro di Fernando Braudel su
“Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo
carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese,
scatta un’assonanza sorprendente: le linee e le scansioni della storia
mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un completamento o una
specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate note delle sue
vicende.
E la documentazione
da me esaminata è solo una minima parte di quanto è disponibile presso gli
archivi: da quelli parrocchiali a quelli agrigentini, per non parlare di quelli
di Palermo o di Roma o di Torno o di quanto trovasi su Racalmuto in Spagna, a
Barcellona o a Simancas o a Madrid e persino a Vienna.
Racalmuto, la patria
di Sciascia, potrebbe essere davvero un laboratorio di ricerca storica;
potrebbero attuarsi iniziative culturali per approcci originali e mirati verso
nuove forme di microstoria. Con positivi riflessi sull’occupazione giovanile
locale.
Non sappiamo se siamo
riusciti a superare le secche dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque,
tentato di abbozzare un contesto storico in cui Racalmuto è studiato per quelli
che ci sembrano i suoi connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della
sua popolazione, con le sue “tande” da ripartire, con le traversie della
famiglia del Carretto che si riverberavano sui paesani, con le pretese della
curia vescovile che sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto
civile, con il sorgere e l’affermarsi di confraternite laiche, con l’invadente
ruolo conventuale di francescani e carmelitani, con i rapporti tra il feudo
maggiore e quelli minori contermini di Gibillini, Bigini, Gructi e Cometi, con
l’assetto della proprietà terriera, con gli oneri domenicali del conte sulle
case e sulle terre, con il terraggio ed il terraggiolo, con la tematica della
finanza locale.
Quattro quartieri:
Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte, con al centro la gloriosa
chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano l’abitato comitale, come moderne
circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i loro cognomi ancor oggi presenti
a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano. I preti - allora - collaboravano,
anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era
allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda
fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti
“dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e,
poi, tasse - e tante - di natura religiosa.
Queste ultime,
secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta l’incidenza
tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti
di quarta” della Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del
1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che
nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari
saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il
funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla
alla tomba.
* * *
Il lavoro di ricerca si appoggia e presume la pluriennale
indagine che è stata svolta sui libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri,
ripetesi, che annotano nascita e morte, battesimo e matrimonio, precetto
pasquale di ogni racalmutese, senza distinzione di classe sociale o di
propensioni religiose, dal 1554 sino ad oggi. Dapprima lo stato moderno non si
preoccupò di questi aspetti anagrafici; quando poi cominciò a farlo incontrò
spesso - come avvenne per Racalmuto nei primi anni dopo l’Unità - l’astio vandalico
delle popolazioni inferocite e in gran parte quelle note burocratiche finirono
irrimediabilmente distrutte.
Ma alla Matrice di
Racalmuto, no. Solo una mano sacrilega strappò qualche foglio, magari per
provare l’indubitabile origine racalmutese di Marco Antonio Alaimo, nato
sicuramente a Racalmuto nei pressi di via Baronessa Tulumello il 16 gennaio
1591, diversamente da quello che attestano le pretenziose lapidi comunali e
come invece afferma l’Abate d. Salvatore Acquista nel suo saggio sul medico racalmutese
del 1832, pag. 25.
Ed a ben guardare
quel libretto, sembra proprio lui - l’autore - il vandalico che ha sottratto il
foglio di battesimo di M. A. Alaimo. Mi riprometto di rintracciare quel foglio
tra quei cinque sacchi di scritti che l’esecutore testamentario Giuseppe
Tulumello depositò nella Biblioteca Lucchesiana il 24 aprile 1879. ( )
* * *
Le carte della matrice di Racalmuto sono un po' stregate:
appaiono vendicatrici. Basta che uno storico locale si sbilanci in
ricostruzioni storiche che prescindano dalla loro consultazione per scattare la
vendetta: esse stanno lì per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono
rispetto, deferenza, assidua frequentazione e meticolosa attenzione.
Quando il giovane
studente in medicina - il Tinebra Martorana - si mise a scrivere
improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali,
questi lo hanno ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle
fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio
di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla
uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra).
Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato
storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale
attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era
un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede, ciò avvenne poche volte
e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo ad edificanti
incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio
Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto - che
secondo Sciascia fu fatto trucidare dal monaco - era poco più che tredicenne.
Non fu, poi, questo
Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno ed
assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui (ma i suoi tutori) ad
accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in
cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del
“terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono
l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte
dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di
venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era
liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello
giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre,
aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di
cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei, una Ventimiglia.
(E tanto grazie alle
recenti scoperte d’archivio del prof. Giuseppe Nalbone. Siffatte carte ci
forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci
che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia
Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae
Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il
1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del
Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel Cenobio di S.
Lorenzo il 28 ottobre 1654).
Anche il pur meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in
disavventure storiche per avere disatteso le carte della Matrice. Si credeva
incontrollabile e storicizzò una frottola di famiglia facendo sposare nel ‘500
tal Scipione [o Sypioni o Sapioni] Savatteri ad una inesistente figlia dei Del
Carretto per legittimare una inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente
- anche qui - i libri di matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto
danno i dati anagrafici di detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da
Mussomeli, di rispettabile stato piccolo borghese, andato sposo ad
un’altrettanta plebea Petrina Saguna:
12/10/1586 - SAVATERI
SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA sposa SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA.
Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI: Montiliuni Gasparo notaro e cl.
Cimbardo Angilo
Superfluo aggiungere che quella “Marchisa” - madre di
Petrina - è solo un singolare nome e nulla ha a che fare con storie di nobiltà
locale.
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