DA CASINO DI NOBILI A CIRCOLO UNIONE
di Calogero Taverna
* * *
Il circolo Unione l’anno venturo,
nel 1999, compie 160 anni: è il più vecchio circolo di Racalmuto, il più
glorioso, quello maggiormente emblematico di una classe media con aspirazioni
nobiliari. Oggi è di certo meno pretenzioso, più riservato, amante del pettegolezzo
d’alto bordo - tra il politico, il sociale, l’irriverente, il caustico, il
miscredente. A sera pochi soci ormai cercano di perpetuare il cicaleccio
arrogante, impietoso ed ilare dei personaggi passati alla storia (letteraria)
per la penna di Leonardo Sciascia. Ma di don Ferdinando Trupia, di Martinez, di
Lascuda, di don Carmelo Mormino, del dott. La Ferla, di don Antonio Marino
ormai neppure l’ombra. I loro eredi - quasi tutti professionisti affermati in
Continente o a Palermo - hanno ritenuto di potere sbeffeggiare il circolo dei
loro sbeffeggiati (da Sciascia) antenati facendosi espellere per morosità da
una deputazione post-sessantotto, di estrazione non nobile e talora persino
proletaria. La fuoriuscita dei virgulti degli antichi galantuomini vorremmo dire è persino fisiologica.
A sera, ora, tocca alla facondia
suadente e beffarda di Guglielmo S. mantenere viva la conversazione al circolo:
gli fa eco il tranchant assiomatismo di Calogero S.; sorride con intelligente
silenzio Gioacchino F.; fino a qualche anno fa scoppiava l’ira funesta
dell’avv. Salvatore C.; al dott. Gioacchino T. il compito del divertito
spettatore; Ignazio P. ascolta silente, ma si arrabbia se gli toccano la sua
Democrazia; il Presidente non è faceto: se occorre stigmatizza; Salvatore S.
arriva tardi, in tempo per un paio di sorrisi se Guglielmo S. è in vena nelle
sue sforbicianti allusioni. Quando vado a Racalmuto, partecipo anch’io a tali
dibattiti serotini: nessuno ha voglia di prendermi sul serio: provoco, sono
provocato, insolentisco, vengo insolentito: la serata passa piacevole: val la
pena di pagare quel piccolo contributo quale socio con “dimora precaria”.
Di tanto in tanto arrivano poesie in
vernacolo: sono composizioni miserande, cattive, senza gusto: sono intollerabili.
I soci però sembrano divertirsi lo stesso.
Leonardo Sciascia trasse motivi ed
argomenti per il suo iconoclasto deridere i poveri galantuomini di Racalmuto.
Vi era associato; lo eleggevano deputato e persino cassiere. Ma amava stroncare
quei figuri nati effettivamente per lasciare “un’affossatura nelle poltrene del
circolo”. Ebbe il cattivo gusto di morire lasciando in sospeso il pagamento dei
“buoni” associativi: inflessibili i membri della deputazione non mancarono di
verbalizzare nel 1992 la circostanza.
Lo scrittore è disinvolto
nell’accennare alle gloriose origini del circolo: «Il circolo della concordia -
annota quasi con prosa burocratica -
prima denominato dei nobili, poi della concordia poi dopolavoro 3 gennaio, sotto l’AMG sede
della Democrazia Sociale (il primo partito apparso in questa zona della Sicilia
all’arrivo degli americani e dagli americani protetto) e infine ribattezzato della concordia, pare sia stato fondato
prima del 66, se appunto nel 66 la popolazione infuriata contro le sabaude
leve, istintivamente trovando un certo rapporto tra la leva che toglieva i
figli e i nobili che se ne stavano al circolo molto volenterosamente vi appiccò
il fuoco; ma pare ne ricevessero danno soltanto i mobili, le persone si erano
squagliate al primo avviso, le sale restarono superficialmente sconciate.»
Quanto a storia locale ci reputiamo
più fortunati di Sciascia e siamo in grado di retrodatare di almeno un
trentennio la fondazione dello storico circolo. Se si spulcia l’Archivio di
Stato di Palermo, Segreteria di Stato presso il Luogotenente generale, Polizia
vol. 412, si rinviene il “Notamento dei
Così detti Caffè e luoghi di riunione esistenti nei vari Comuni di questa
Provincia ..., Girgenti, 26 agosto 1839.” Sotto tale data abbiamo dunque la
consacrazione ufficiale del nostro circolo o se si vuole il riconoscimento
giuridico. Scrive Carmelo Vetro «In
provincia i sodalizi si registrano a Licata (due circoli), Palma, Racalmuto, Ravanusa, Bivona,
Villafranca, S. Giovanni, Santa Margherita, Montevago, Sciacca, Naro,
Canicattì, Alessandria, Campobello, Cammarata, Caltabellotta, Menfi, Sambuca,
Burgio ed Aragona: tutti con i loro bravi regolamenti, autorizzati dalle
autorità di polizia, ... E’ da dire che molti di questi circoli erano favoriti
dall’autorità locale che in tal modo poteva registrare gli umori politici e gli
orientamenti prevalenti. Non a caso parecchi sodalizi nascono negli anni Trenta
dell’Ottocento dopo la tempesta politica del 1820-21 ed il tentativo borbonico
di riavvicinarsi agli intellettuali e borghesi.» Siamo pressoché certi che il
circolo sorgesse in piazza su un marciapiede “sopraelevato rispetto al resto
della piazza, ove era vietato, per inveterata consuetudine, passeggiare alla
‘gente comune’ ... Si aveva così un effetto quasi grottesco, che sottolineava
la gerarchia feudale, essendo i notabili una ‘spanna’ più alti degli altri”. Il
Vetro soggiunge: «Un rigido cerimoniale regolava l’ammissione dei nuovi soci ai
vari circoli.... si poteva essere ammessi riportando la maggioranza di “voti
segreti per bussoli”, nell’assemblea dei soci. Ogni due anni venivano eletti
quattro deputati, il più giovane dei quali faceva da segretario. Nelle
assemblee avevano diritto di voto i soli contribuenti. Ai deputati erano
affidati la “polizia interna” e il “buon ordine della conversazione. Nelle sere
di gala la conversazione era illuminata “a cera”. Al circolo erano ammessi solo
“gli associati, le loro mogli, i figli e le figlie nubili e fratelli conviventi
nella stessa casa”. Infine gli ospiti non si
dovevano “permettere di discorrere e discutere di cose” che si
allontanavano “dallo scopo di una onesta conversazione”. Parimenti vietata era
la lettura di fogli, giornali, libri o stampe non autorizzati dalla polizia.
... I contribuenti avevano la facoltà di presentare alla conversazione
“forestieri distinti e di loro conoscenza, chiesta il permesso ai Deputati,
salvo alla deputazione di deliberare in seguito l’esclusione se non li avesse
riconosciuti “meritevoli”. ... Il
circolo era provvisto dei “fogli officiali”
di Palermo e di qualche altro giornale letterario. Un cameriere ed un
“bigliardiere” si occupavano di servire i soci con un vestito decente e a testa
scoperta”. Un puntuale tariffario
stabiliva le quote da versare per i diritti di gioco. Le illuminazioni
“a cera” erano ordinariamente previste nella sera di gala ed in talune
ricorrenze. ... Leonardo Sciascia ci introduce nello spazio dorato, quasi senza
tempo del Circolo della concordia di
Regalpetra, dove vecchi e nuovi notabili vengono a celebrare il rito della
fedeltà al passato ed alimentare inutili sogni di difesa dei propri privilegi.
Il circolo è situato nella parte centrale dei corso: “Consiste di una grande
sala di conversazione, con tappezzeria di color pesco e poltrone di cuoio
scuto, una sala di lettura, tre sale da gioco”. I soci del circolo non sono,
ormai, più i ricchi: “I ricchi si trovano nel circolo del mutuo soccorso, una
società operaia che è venuta trasformandosi ...; il più ricco dei “don” non
possiede più di dieci salme di terra” ma i soci del circolo della Concordia
“continuano ad essere il sale della terra”. Anche qua si discute di politica
“scienza di cui molti soci del circolo si sentono al vertice e fanno previsioni
che, verificandosi poi fatti esattamente opposti, si possono considerare
attendibilissime.” Dopo la politica, le donne. E allora “le mani si muovono a
plasmare nell’aria grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come
mongolfiere. Non è più uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta
le confidenze del giudice di corte d’appello in pensione”. Nella
rappresentazione letteraria la ritualità della “conversazione”, che
autogratifica con la sua immobilità l’Olimpo paesano, dà quasi un senso alla
stessa esistenza: ci si sente, allora, “lievi e giustificati, d’aver vissuto
tutta la giornata soltanto per attendere, come una novità, come una grazia
insolita e particolare, quest’ora che compendia le ragioni ideali del mondo,
che chiarifica e motiva finalmente l’esistenza, rianima l’immoto flusso dei
giorni, riattacca la morta gora dell’abitudine al canale della continuità”. Una
continuità che nell’illusione di molti esercita, ancor oggi, come un fossile
vivente, esercita il fascinoso richiamo di un’elitaria società che più non
esiste.»
FONDAZIONE DEL SODALIZIO
Il circolo Unione sorge dunque poco
prima del 1839 con un nome ben diverso: Casino
di Compagnia. Leonardo Sciascia è sapido e sfottente sul termine “casino”:
deliziosa la sua verve ironica in
Occhio di Capra. «CASINU. Casino. Casino di compagnia. - annota a pag. 43 - Ma
non tutti i circoli erano così denominati. Il casino per (non per modo di dire)
eccellenza era quello dei ‘galantuomini’ cui il fascismo, impadronendosene,
diede nome di “dopolavoro delle forze civili”. Raccoglieva proprietari
terrieri, professionisti, funzionari dello Stato, maestri delle scuole
elementari; e vi si entrava se approvati, per votazione a palle nere e bianche,
dai due terzi dei soci. La non approvazione - piuttosto frequente - era un
fatto mortificante e non privo di conseguenze morali, sociali. Una macchia.
Paradossalmente, fu il fascismo a democratizzare l’ammissione al casino:
bastava appartenere alle “forze civili” (e cioè alla categoria popolarmente
detta dei “sucanchiostru”, dei succhia-inchiostro, della burocrazia anche
infima) per essere, dietro domanda, ammessi. Ma caduto il fascismo, si tornò al
vecchio statuto. [...] In tutti [i circoli] prevalente attività era il gioco di
carte: a passatempo durante l’anno, d’azzardo durante il periodo natalizio. Nel
frattempo (negli anni Cinquanta) scompariva nell’accezione di circolo la parola
casino, ormai d’uso generale nel significato - derivante da casino = casa di
prostituzione - di confusione, tumultuazione, chiasso.
«Il casino = casa di prostituzione
non esisteva nel paese; e le case di prostituzione dei grossi paesi vicini
erano semplicemente bordelli. Qualcosa di simile alla casa di prostituzione
pare fosse esistita, non in regola con la legge, alla fine dell’Ottocento in un
quartiere chiamato Santa Croce: e ne rimase memoria nel dire “santacruci” come
sinonimo di licenziosità, di puttanesimo. Curiosamente, è con l’abolizione
delle case di prostituzione che cade l’interdetto sulla parola casino, e per il
fatto che ormai tutti sapevano che cosa fosse stato un casino. Per cui casino,
incasinare, incasinato, far casino, sono espressioni che soltanto i giovani,
fra di loro, usano. La pruderie dei
racalmutesi si può senz’altro dire di tipo vittoriano. Ancora oggi c’è chi
chiama “biancu” (bianco) il petto di pollo; chi evita di dare precisa
denominazione a quella pera cerea e succosa detta “coscia” o - peggio - “coscia
di monaca”; chi, azzardandosi a parlare di prostitute, ricorre all’eufemismo di
“donne che fanno qualche favore” ...»
Il 1839 seguiva di poco a Racalmuto
il temendo cataclisma che era stata la peste del 1837. Un fraticello del
Convento di S. Francesco ci ha lasciato questa tremenda testimonianza :
«Nell’anno 1837: mese di agosto vi fù il colera e in questa di Racalmuto
morirono circa mille persone e furono sepolte nella sepoltura di Santo Alberto
al Carmine, all’Anima Santa del Caliato, in Santa Maria di Gesù e porzione in
San Francesco; Monte San Giuseppe e in altre chiese, cioè persone perticolari;
poi nella nostra sepoltura grande vi è sepolto il paroco don Antonino Grillo,
che morì a 25 agosto 1827 ed altre persone riguardevoli.»
In quel torno di tempo si era dunque
nella solita euforia esistenziale che segue ai grandi sconvolgimenti
demografici: voglia di vivere, di procreare, di lavorare, di arricchirsi, di
consociarsi, di amare e di divertirsi. Il Casino nasce per conversare, giocare,
ma soprattutto per scambiarsi idee, per saggiare il terreno delle opportunità
commerciali. Racalmuto era stato invaso dalla febbre dell’oro giallo, dello
zolfo che le viscere delle sterili terre del nord contenevano a profusione. Nel
quadriennio 1834-1837 erano state attivate
a Racalmuto 35 solfare su un totale di 332 in Sicilia: il prodotto medio
annuo era stato di 34.696 cantari su una produzione intera della Sicilia
calcolata in 1.478.254 cantari. Presso
il circolo di conversazione si radunavano quindi i maggiori proprietari di
solfare; s’informavano reciprocamente su quelli che erano gli umori del
mercato; sulle prospettive, sulla faccenda complicata del monopolio solfifero
accordato dai Borboni allaTaix, Aycard e C. (con decreto reale del 5 luglio
1838). La compagnia si obbligava a comprare ogni anno 600 mila cantari di zolfo
prodotto in Sicilia “avendo la sperienza comprovata eccedente e di gravi danni
produttrice ogni maggior produzione” . La produzione doveva quindi
autodisciplinarsi. Non saranno stati grandi ingegni quei nostri proprietari
terrieri, trasformatisi all’improvviso in imprenditori minerari, ma il bisogno
dovette acuirne l’ingegno; al circolo era possibile, magari sotto forma di
feroce dibattito e di reciproche contumelie, avere modo di giungere ad un
qualche chiarimento, ad un orientamento delle proprie scelte produttive. Erano
i problemi della nuova società borghese ed anche i ‘civili’ racalmutesi ne
venivano inghiottiti. Sono aspetti per ora in nessun modo indagati dalla
storiografia, ancora anchilosata da ideologismi e prevenzioni
intellettualistiche oscuranti la ricerca
del vero evolversi sociale di quel tempo.
Il circolo era tutt’altro che il
punto d’incontro di neghittosi nobilotti di paese, alle prese con il problema
del molto tempo libero da occupare in qualche modo. V’era spirito
imprenditoriale: vi accedevano, se non i gabellotti arricchiti, freschi di studi universitari. La
stampa cominciava a farvi capolino. Il circolo è dunque più di un’occasione per
attizzare una certa vivacità culturale. E la cultura cambia in paese: esso non
è più la contea alle prese con i problemi del terraggio e del terraggiolo;
anche il nuovo barone Tulumello - un prete suo antenato aveva acquistato per
due terzi il feudo di Gibillini il cui titolo doveva essere assegnato a persona
da nominare - deve ora accontentarsi solo del vacuo trofeo di un blasone
nobiliare che deve condividere con il barone Girolamo Grillo. In quel torno di
tempo ben 3 personaggi racalmutesi si arrogavano quell’altisonante fregio.
Eccoli secondo le annotazioni di un rivelo coevo:
GRILLO
|
GIROLAMO
|
BARONE
|
TULUMELLO
|
LUIGI
|
BARONE
|
TULUMELLO B.NE
|
GIUSEPPE SAVERIO
|
BARONE DON
|
Furono sicuramente tra i promotori
del circolo quali nobili per eccellenza; dovettero però convivere con gli
emergenti, con i nuovi ricchi e
soprattutto con i nuovi notabili ormai senza più cordoni ombelicali con i settecenteschi
potentati feudali. Sindaco di Racalmuto è don Nicolò Mattina Calello che
“don” lo è di recente: nel seicento la
sua famiglia era notabile solo per qualche prete come don Federico Mattina,
nato un ventennio prima di fra Diego La Matina, che però era di diverso ceppo
ed era un Randazzo per parte di madre. I La Mattina Calello affiorano qua e la
come notabili ma sempre marginalmente sino a tutto il Settecento: poi il salto
di qualità nella gerarchia degli ottimati locali, sino ai nostri giorni. Gli
eredi sono tuttora i più cospicui elementi dell’attuale Circolo Unione.
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