Secondo
processo d’investitura di Giovanni III del Carretto
Ma non è
finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è costretto a rifare il
giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta un diploma rilasciato a
Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il 2
gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente
in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia
lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita media di quel tempo.
Ebbe a
sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo
ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel
testamento.
Nulla ha a
che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni III:
quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà
fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di
“paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Nel 1375
la terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui si possono attribuire non
più di n.° 500 abitanti, elevabili a
600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du Mazel,
inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in cambio
della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due chiese,
fragili e malandate.
In piena
signoria di Giovanni III del Carretto, le cose erano notevolmente cambiate a
Racalmuto: la popolazione si era enormemente accresciuta.
Abbiamo
pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento racalmutese dati e note sul
censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era barone già da 31 anni - che
sintetizziamo con questa tavola:
Censimento
del 1548
|
Ceti paganti
|
ceti esenti
|
evasori
|
totali
|
N.° Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti (fuochi * 3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3.479
|
Dai 1600
del 1505 ai quasi 3500 abitanti del 1548 il salto era stato rimarchevole: non
poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di
Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da
preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche
mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano
stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi
e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio,
Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra
la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere
del Monte o montis comprendente
l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto
suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si
andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto)
scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti
(Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il
tributo raddoppiava: terraggio
(quello intrafeudo) e terraggiolo
(quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare
balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il
particolare al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte
angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello
ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di
Vita.
Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni
III del Carretto
Un vescovo
agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la
comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori;
tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi
apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene
neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si
conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali
atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione
dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un
fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto
bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di
Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come
dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre
presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di
disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta
economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali
banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure
relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro
guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare,
e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono
essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente
religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto
racalmutese: monaci e parrini, vidici la
missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite
ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno
deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta
indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica,
tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni
anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma
con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del
1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi
sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti
all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale,
risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento).
Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a
ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo
Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle
soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu
vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel
1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta
in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei
beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù,
Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. Tre anni dopo, il paese subì, come si è
accennato, una più seria indagine da parte del
vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio
del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della
vita religiosa locale di grande interesse.
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don
Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco,
diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus
agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà
delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il
sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano
i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam
omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor
capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica
Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo
arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio
della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco
(famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un
altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di
frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus
archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam
solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei,
exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto
percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22
di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui
48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi
a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per
quell’epoca. Nel rivelo del 1548,
sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti.
Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e
degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere
duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti
ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si
perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno
in primizie, tolti li miserabili e
fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme
sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e
tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una
popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata
dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le
analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in
entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza
dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i
proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i
proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi
(“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata
dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della
Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per
prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia
di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle
primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25
frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius
misse quotidie» Ma tre anni dopo, il
vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e
quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum
pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa
sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene
ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia
[maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta,
ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.»
Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561
la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre
notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non
abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua
figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore
di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo
sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete
Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del
Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra
di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da
rappresentante del vescovo sul luogo. A
lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia
agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato,
forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del
beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella
parrocchia di cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete
Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del
canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita.
Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi
racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva accanto a quella
di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era
incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel
1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il
merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de
Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo
null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che
fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se
è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur
sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere
care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita,
era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia
Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che
al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano
corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non
risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di
giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi
diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di
Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi
edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e
completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il
vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione della
Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione.
Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i
confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che
vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto
vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino
della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale
tradizione.
Resta
assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra,
però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali
agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle
seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S.
Antonio;
2) “Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis
Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una Confraternita e dove era stato
trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, già
fatiscente;
3) Chiesa di Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di Santa Margherita;
6) Chiesa di San Giuliano;
Nella
precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della “NUNTIATA”
2) Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di Santa Margherita;
4) Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S. Giuliano.
(Cfr. le pagine
196v-198v della Visita)
|
Passando
al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non
proprio recenti erano le chiese quali:
•
la Nunziata,
visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato
cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
•
Santa
Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
•
Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche
fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano
non v’era nulla di vecchio.
Il testamento di don Giovanni III del Carretto
Di
Giovanni del Carretto è consultabile il testamento () steso sul letto di morte:
a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del
Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in qualche modo
abbozzato.
In
epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D. Giovanni
de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino della felice
città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia di
Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano
di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il
testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il
primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito,
“lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica,
secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile
signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete in
dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e dalla condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli
beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e
loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo
integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e
scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di
massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi
di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se si è
avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di
quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e
vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don
Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di
mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre
matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del pari
il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D.
Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al
signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale
quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello
stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle
600 once che stanno nella cassaforte (in
Arca) del medesimo testatore ed
essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi
gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del pari
il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile
signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo
e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D.
Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto
con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il
mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia,
con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri
diritti quali il terraggiolo, le
gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo
del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta
Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro,
frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti,
nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi
d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni
che seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel
castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et
mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro
dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt,
ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri
pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò
e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio
primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia affinché
voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo
vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da
chicchessia, e ciò per amore di nostro
Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del
testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo
peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e
Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità
liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla
corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di Girolamo
di far dire tante messe nel convento di
San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una Cappella bene
adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito
annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere:
crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per
spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto.
Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato
artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I
del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e
farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di
Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina purtroppo tragica nella sua acre realtà
storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella
compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro
Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la
costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa
di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
1.
donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de
Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da
prelevare dalle casse del castello);
2.
donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare Barresi
(altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in
contanti da erogare;
3.
Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima,
monaca del convento di Santa Caterina
della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre
20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello
venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi
certamente alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei
potenti ed ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse
spectabilis Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione
praesentis, et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij
uncias quinque, nec non relaxavit et
relaxit mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et
gravorum omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae
inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et
mandavit.» Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero
dal terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo
Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure:
Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si
celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la
redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma
non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma
nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto
[in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo
recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et
necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui,
o il ‘luterano’ notaio inventava?):
•
5 once al venerabile convento di San Domenico della città di
Agrigento;
•
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
•
10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
•
5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di
Racalmuto;
•
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre
poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di
calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia
sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
•
5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in
auge);
•
5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si
venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i
tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico.
Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae
Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi,
et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis
spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis,
granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum,
et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali
come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una
sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà
feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere
seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco
(dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era
intensa).
Il
processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in
gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì
in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.
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