PARTE
TERZA
PROFILI
DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è
dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a
Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri
domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di
Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del
Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a
suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche
indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto
che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300.
Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e
l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli
odierni araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione
delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese
Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare
ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte,
semplicemente non esiste.
ANTONIO I
DEL CARRETTO
Questo non
significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane
figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è proprio così che è
andata: dopo il Vespro la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri.
Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza
Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei del Carretto,
marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no.
Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri
lontani. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si
dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un
altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da
questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora
violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto
sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che
si trattasse di diritti genuinamente feudali: erano forse solo possessi appena
“burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre,
paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro,
specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO
II DEL CARRETTO
Antonio II
del Carretto non lascia traccia di sé: di lui si parla solo negli atti notarili
di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi
figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel
documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che Antonio II del
Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare
che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone
Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella
terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo
gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul
fatto che il preteso titolo era precario, forse del tutto inconsistente.
A Genova
Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo
rendiconta su partecipazioni in compagnie navali, oltre che su beni immobili e
mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al
lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non
sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’
certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento
del 12 marzo 1399.
Antonio II
- pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii
ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile
pro florenis auri duobus milibus qui
faciunt summa unciarum quatringentarum».
In altri
termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di
San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane
(una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni
in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla
madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto
piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla
transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona
feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in
Siguliana, ....»
Antonio II
del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo arrampante
cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto
giovane.
GERARDO
DEL CARRETTO
Gerardo
del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi
abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha
famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo
feudale della baronia di Racalmuto solo per consentire al fratello minore
Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia
dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo
ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a
che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà
ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in
discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato
da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammessa secondo
il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni
allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri
antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi
dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello
che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il
Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima
il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli,
Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente
cervellotica congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo
meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto.
Gerardo
del Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di
Salvagia primogenita (e portante il nome della nonna paterna), Antonio, Nicolò,
Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del
1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir
dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del
Carretto designato come “magnificus et
egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto
dell’anno prima () era tutto l’opposto:
Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone
familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo
ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL
CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di
Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del
Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e
debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo
secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà
elevata a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio
del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del
Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio:
Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di
Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del
1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del
Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le
rampogne del duca di Montblanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma
di Palermo () ne fornisce indubbia testimonianza.
Il trambusto
storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la
sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le
salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte
di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto
sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne:
le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si
difende come si può. Ma il Duca di Montblanc è già un duro: esige riparazioni,
restituzioni; opera dunque come un conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del
Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima
blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappicifica, torna alla
ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene
fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once,
solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi)
”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è
mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una
condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il
predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine
del duca di Montblanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che
questi finisse proprio male.
La storia
di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui vogliamo farne un accenno
per meglio comprendere il ruolo di Matteo del Carretto.
Alla morte
di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità.
Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte comprese le cariche
di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno;
rifiuta obbedienza a Martino duca di Montblanc e organizza la resistenza di
Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove
la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel 1391. Cerca di impegnarli
alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad
onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno.
Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per
Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente
fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio
naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana
per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino dopo la morte di
Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di Caccamo, che
successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra
abbia finito i suoi giorni.
La nobile
prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è
quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione
baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del Carretto ad avere peso
sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i
Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte,
il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni tassaiole; quello delle
cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle anime: preti,
religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri
delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco
rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso
rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.
La
turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma () del 1395 (die
XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche
del grande storico siciliano Gregorio (): «
Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente
si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale
starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano
appannaggio di Matteo del Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un
diverso feudo denominato Gibillini passa nelle mani di Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa
della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo
di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia. ()
Le note
storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i
seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su
istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro
i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che
non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli
avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi
dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato
nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora
accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo,
familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo
barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a
risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia
fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto
lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de
sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio
de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et
concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere
de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri
rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”
Matteo del
Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro
razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma
l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si
accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma
prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li
beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.
Notiamo il
fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a
Malta.
Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi,
perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi fussero
guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda supra chilli
chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.
E’ uno
squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e
assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini
e vigne del barone erano stati pesantemente danneggiati (“guastati”, alla
siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu
so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi constringiri a
farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo
di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù
della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva
trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva
andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche
del lavoro dei campi coatto.
La
formula, dunque, fu assolutoria, ampia, faconda, onnicomprensiva, rassicurante.
Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale
ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?
La chiosa
finale fu ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende
inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia
che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena
“descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione
passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione
per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo
testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto
più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento
dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto
è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di
letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire
un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma
la fonte è Giuseppe Beccaria () che ha modo di narrare:
«Costoro
[armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con
cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di
Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel
1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo
del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...
Il 5
giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo
del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia
di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo
scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.» ()
Matteo del
Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva
riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano
avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana
Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e
quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio
Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400
il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già
defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto
GIOVANNI I
DEL CARRETTO
Nato nella
seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita dal padre la baronia
di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi inceppi giuridici che la corte
frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto
fosse feudo dei del Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a
questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e misto imperio. La
questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del
Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella
che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del Settecento e l’avranno
vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.
Nel
processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del Carretto,
abbiamo vaghi dati biografici di questo barone di Racalmuto. Vi si legge tra
l’altro:
magnificus
dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat verus dominus et baro dictorum
casalis et castri Rayalmuti percipiendo fructus reditus et proventus paficice
et quiete et de hoc fuit et est vox
notoria et fama publica et ..
dictus
quondam magnificus dominus Mattheus de
Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus
et uxor ex quibus iugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus
Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius
legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius
mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica et ..
ex dicto
magnifico domino Johanne et magnifica domina Elsa jugalibus natus et procreatus
fuit dominus magnificus dominus Federicus de Garrecto ad presens baro dictae
baronie Rayalmuti et qui tamquam filius legitimus et naturalis subcessit in
baronia predicta percipiendo fructus reditus et proventus et de hoc fuit et est
vox notoria et fama publica etc. ..
Giovanni del
Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del Carretto; da una certa Elsa
procrea quello che sarà il suo erede nella baronia, Federico del Carretto.
Fu un
legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito a dubbi (filius
legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo lungo (dalla presunta morte
di Giovanni I, attorno al 1420, sino alla data del processo d’investitura di
Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) induce a dubitare, specie se si
dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia passata di mano agli Isfar,
sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni da un Giovanni I del
Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore - secondo lo stesso Bresc -
delle proprie fortune.
Dagli
archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del Carretto nella
gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401 giungeva una
lettera da Catania per la sistemazione
delle pendenze fiscali.
Martino
segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed
alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis. Questa la situazione del
giovane barone di Racalmuto: v’era la
successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al contempo si
erano accumulate due annualità scadute, quella relativa alla settima indizione
(1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne
conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una
quietanza attesta che la posizione era stata sistemata come segue: 30 once in contanti e dieci a
compensazione di un mutuo a suo tempo
approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.
Nella
«Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia
pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi medi
dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento sempre più
pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia
all’intervento della monarchia e della classe feudale nell’amministrazione dei
domini fondiari e delle signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422
della sua baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert
Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la fonte, per cui
la notizia va presa con le molle.
Nella
nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi è qualcosa in più: viene
precisata la fonte.
Racalmuto
viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La sua baronia a pag: 417 e
872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag. 880. La parte narrativa
non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In francese, recita: «La baisse du prix de la terre - que l’on
suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige à
un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du
patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et
de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des
seigneuries: Giovanni del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie
de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de
Siculiana.» E qui la nota che non trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait
joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide
catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment rahonable”». ()
Sarebbe da
rintracciare il foglio 54 (in calce citato) al fine di ben ricostruire questa
vicenda della curatela della baronia di Racalmuto affidata a Gispert d’Isfar.
Una
quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto sdrucciolevole:
forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere lasciando
piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente
genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per sottrarre l’eredità
e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde
gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto
che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano
e finisce in preda degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto
o un’usurpazione avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare
quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella genealogia dei
baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del Carretto abbondano però le
cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami cadetti.
Non
possiamo dubitare che sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni I del
Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani dell’investitura del
titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la
sequenza genealogica è inequivocabile (come abbiamo visto dai passi in latino
sopra riferiti).
“Filius
legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto è, invero, dichiarato
ma non si accenna neppure larvatamente al requisito (indispensabile nel diritto
feudale dell’epoca) della primogenitura. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo
Dio solo sa - non ha però dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:
«E
morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito,
legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo
palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto
vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia
curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri predecessori
regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell’anno 1453
nelle carte 565. » ()
Nel 1410
la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per il decesso
senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi dell’interstizio
determinato dalla contrastata reggenza della regina Bianca. Con il 1416 si apre
la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine
del regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini
per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli
accorda quella investitura ma a queste condizioni:
•
presti il cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20
once ogni anno;
•
renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;
•
restino salvi i diritti di legnatico dei cittadini
racalmutesi;
•
e del pari restino riservate
alla Corona le miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;
•
resti salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e
nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.
Per il
resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è
certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella baronia di
Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio
1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo
vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle
annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a
luglio. Il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse
spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di outright in grano. La domiciliazione
sarebbe stata pattuita presso il "caricatore" di Siculiana. ()
Sempre il
Bresc fornisce un'altra interessante notizia: secondo quello che appare nella
tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in
una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte
citata è un libro: «Luigi Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo,
1921».
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